CAPITOLO 7

1929-1939

La fattoria di Yxhult non era un bello spettacolo. Negli anni passati da Allan sotto le cure del professor Lundborg era andata in rovina. Le tegole, divelte dalle intemperie, giacevano sparse sul terreno, per qualche ragione il WC era stato sradicato e una finestra della cucina rimasta aperta continuava a sbattere.

Allan fece pipì davanti all’ingresso, non disponendo più di un cesso funzionante. Poi entrò in casa e si sedette nella cucina polverosa. Lasciò la finestra com’era. Aveva fame, ma si trattenne dall’impulso di guardare cosa ci fosse in dispensa. Era certo che la vista sarebbe stata desolante.

Era nato e cresciuto in quel posto, e mai aveva sentito la casa tanto estranea. Era forse arrivato il momento di darci un taglio e mettersi in marcia nella direzione opposta? As­so­lu­ta­men­te sì.

Rintracciò i vecchi candelotti di dinamite, ed eseguite le manovre necessarie riempì il carrello della bicicletta con le poche cose di valore che possedeva. All’imbrunire del 3 giugno 1929 Allan se ne andò via da Yxhult, via da Flen. La carica di dinamite detonò come previsto esattamente trenta minuti dopo. La fattoria di Yxhult saltò in aria e la mucca del vicino abortì per l’ennesima volta.

Un’ora dopo Allan si trovava alla stazione di polizia di Flen in stato d’arresto. Mentre consumava la sua cena venne aggredito verbalmente dal capo della polizia Krook. La polizia di Flen era appena stata dotata di un’auto di servizio, pertanto non c’era voluto molto a catturare l’uomo che aveva appena ridotto in briciole la sua casa.

Questa volta il capo d’imputazione era chiaro.

“Atti di vandalismo ai danni della salute pubblica,” sentenziò il capo della polizia Krook con voce autoritaria.

“Potrei avere del pane?” chiese Allan.

No, non poteva. Il capo della polizia Krook se la prese con il suo povero assistente, reo di aver assecondato le richieste di quel delinquente affamato. Intanto Allan finì di cenare prima di essere condotto in cella.

“Non avete per caso il giornale di oggi?” domandò. “Per una lettura serale, ecco.”

Il capo della polizia Krook rispose spegnendo la luce e sbattendo la porta. Il mattino dopo la prima cosa che fece fu chiamare “quel manicomio” a Uppsala per dire loro di venirsi a prendere Allan Karlsson.

Gli assistenti del professor Lundborg fecero orecchie da mercante: Karlsson aveva concluso la sua terapia e adesso ce n’erano di nuovi da analizzare. Se solo il capo della polizia avesse saputo quante erano le persone da rinchiudere: ebrei e zingari, negri e mezzi negri, malati di mente e altri ancora. Il fatto che il signor Karlsson avesse fatto saltare in aria la propria abitazione non implicava necessariamente un nuovo soggiorno a Uppsala. Ognuno può fare quello che vuole in casa propria. O no? Non viviamo forse in un paese libero?

Alla fine il capo della polizia Krook riagganciò. Non se ne cavava un ragno dal buco con quella gente. Si pentì di non aver permesso a Karlsson di allontanarsi la sera prima abbandonando la zona, com’era sua intenzione fare.

In conclusione, dopo numerose trattative intavolate nel corso della mattinata, Allan Karlsson montò nuovamente in sella alla sua bicicletta con tanto di carrello al traino. Questa volta con scorte di cibo per tre giorni e doppia coperta in cui avvolgersi in caso di freddo. Fece un cenno d’addio al capo della polizia Krook, che non ricambiò, e si mise a pedalare verso nord, tanto una direzione valeva l’altra.

Ormai era pomeriggio inoltrato e la strada prescelta lo aveva condotto a Hälleforsnäs: per quel giorno poteva bastare. Allan si fermò su un prato, e dopo aver steso la coperta aprì il pacchetto con il cibo. Mentre masticava una fetta di pane di segale con salsiccia affumicata, prese a studiare il capannone industriale che si stagliava davanti ai suoi occhi. All’esterno della fabbrica c’erano un mucchio di cannoni appena fusi. Allan pensò che chi produceva cannoni poteva magari aver bisogno di qualcuno che al momento opportuno ne assicurasse il corretto funzionamento. Meditò anche sul fatto che il suo obiettivo non doveva per forza consistere nell’allontanarsi il più possibile da Yxhult. Hälleforsnäs poteva bastare. Sempre che ci fosse stato lavoro.

Mettere in relazione i fusti dei cannoni con le sue competenze specifiche era forse un po’ ingenuo da parte di Allan, eppure il ragionamento filava. Dopo un breve colloquio con il padrone della fonderia, nel quale tralasciò di raccontare alcuni episodi della sua vita, Allan venne assunto come esperto di esplosivi.

Si sarebbe trovato bene, pensò.

Alla fonderia di Hälleforsnäs la produzione di cannoni era ridotta all’osso e non pareva che le ordinazioni avessero intenzione di crescere di lì a poco, anzi. Dopo la guerra il ministro della Difesa Per Albin Hansson aveva tagliato i finanziamenti a scopi militari, mentre Gustavo V se ne stava nel suo palazzo a rognare. Per Albin, da uomo analitico qual era, ragionava così: in effetti la Svezia avrebbe dovuto presentarsi meglio equipaggiata alla guerra, indipendentemente dall’esito finale, ma adesso, dieci anni dopo, armarsi non serviva più a niente. Oltre al fatto che era nata la Società delle Nazioni.

La conseguenza, per la fonderia del Sörmland, fu che parte della produzione venne convertita a uso pacifico e parecchi operai persero il lavoro.

Ma non Allan, essendo gli esperti di esplosivi una rarità. Il padrone della fabbrica non poteva credere ai suoi occhi e alle sue orecchie il giorno in cui Allan apparve mostrandogli la propria perizia in materia di esplosivi di ogni genere. Finora il padrone della fabbrica aveva dovuto affidarsi al pirotecnico assunto, ma a dire il vero non si era trattato di un buon investimento, dato che il tecnico era straniero, sapeva due parole di svedese e aveva i capelli e tutti i peli del corpo neri. Il padrone non era sicuro di potersi fidare di lui, ma vista la situazione era stato costretto a farlo.

Allan non giudicava mai le persone in base ai colori e aveva sempre pensato che le affermazioni del professor Lundborg fossero piuttosto bizzarre. Inoltre, era curioso di incontrare il primo uomo o la prima donna di colore della sua vita. Leggeva con avidità gli articoli in cui si parlava dello spettacolo che Josephine Baker avrebbe tenuto a Stoccolma. Per ora, tuttavia, doveva accontentarsi di Estéban, il suo collega spagnolo, di razza bianca ma molto scuro.

Allan ed Estéban andavano d’accordo. Condividevano una camera ammobiliata in una delle casette plurifamiliari per gli operai accanto alla fonderia. Estéban gli raccontò la sua terribile storia. A Madrid, durante una festa, aveva conosciuto una ragazza e in segreto ne era nata una relazione relativamente innocente. Estéban non sapeva però che la ragazza era figlia del primo ministro Miguel Primo de Rivera, uno con cui non si scherzava: Primo de Rivera governava il paese a suo piacimento e il re che non ci metteva becco. Secondo Estéban “primo ministro” era una simpatica perifrasi per dire dittatore. Ma sua figlia era incredibilmente bella.

I trascorsi di Estéban come operaio non piacevano affatto al potenziale suocero. Nel suo primo e unico incontro con lui, Estéban seppe di avere due alternative: allontanarsi il più lontano possibile dal suolo spagnolo, o prendersi una pallottola nella nuca in quel preciso istante.

Mentre Primo de Rivera toglieva la sicura alla pistola Estéban rispose che aveva appena scelto l’alternativa numero uno, e camminando a ritroso abbandonò in tutta fretta la stanza, facendo attenzione a non offrire le spalle all’uomo con la pistola e senza lanciare mezza occhiata alla giovane che si struggeva in un angolo.

Il più lontano possibile, pensava Estéban, quindi si diresse a nord, e poi ancora più a nord, e alla fine talmente a nord che i mari diventarono di ghiaccio. A quel punto gli sembrò che potesse bastare. E lì era rimasto. Aveva trovato lavoro alla fonderia tre anni prima con l’aiuto di un prete cattolico che gli aveva fatto da interprete e, che Dio ci perdoni, grazie alla storia inventata che lo vedeva esperto di esplosivi, quando invece in Spagna aveva perlopiù raccolto pomodori.

Poco alla volta aveva imparato a esprimersi in uno svedese comprensibile ed era diventato un pirotecnico abbastanza bravo. Adesso, con Allan al suo fianco, stava diventando un vero professionista.

Allan si trovava bene nella casetta plurifamiliare accanto alla fonderia. Dopo un anno masticava lo spagnolo. Dopo due lo parlava quasi fluentemente. Ce ne vollero tre, però, prima che Estéban rinunciasse all’idea di inculcargli il concetto di socialismo internazionale nella sua variante spagnola. Le aveva provate tutte, ma niente da fare. Estéban non riusciva a capire quel lato del carattere del suo migliore amico. Non che Allan proponesse un altro ordine delle cose: semplicemente non se ne interessava. O forse gli andava bene così. Alla fine a Estéban non era rimasto che accettare la realtà. Allan aveva a che fare con lo stesso problema, anche se al contrario: Estéban era un buon amico, benché avvelenato da quella dannata politica. E non era l’unico.

Le stagioni si alternarono senza sosta, fino al giorno in cui la vita di Allan non subì una svolta. Tutto cominciò quando Estéban ricevette la notizia che Primo de Rivera si era dimesso e aveva lasciato il paese. Finalmente la democrazia, se non addirittura il socialismo, era arrivata davvero, ed Estéban non si sarebbe perso lo spettacolo per nulla al mondo.

Meditava quindi di tornare al più presto in Spagna. La fonderia andava sempre peggio, dal momento che il senõr Per Albin aveva deciso che non ci sarebbero più state guerre. Estéban era convinto che anche i tecnici sarebbero stati licenziati senza preavviso. Cosa pensava di fare l’amico Allan? Gli piaceva l’idea di andarsene via con lui?

Allan rifletté: da un lato non era attratto da nessuna rivoluzione, spagnola o di altro genere, tanto tutto sarebbe sempre rimasto uguale a prima. Dall’altro la Spagna era all’estero, come tutti i paesi tranne la Svezia, ed essendosi sempre interessato ai paesi stranieri non era poi così strano che Allan decidesse di andarci a vivere. Magari si sarebbe imbattuto in un uomo di colore, o anche in due.

Quando Estéban gli promise che ne avrebbero incontrato almeno uno durante il viaggio verso la Spagna, Allan non poté fare altro che dire di sì. I due amici passarono quindi ai dettagli pratici. Giunsero alla conclusione che il padrone della fabbrica era “un gran bastardo” (si espressero proprio così) e non meritava alcun riguardo. Decisero allora di ritirare la paga settimanale e andarsene senza una parola.

Fu così che, alle cinque del mattino della domenica successiva, Allan ed Estéban si alzarono per puntare verso sud, direzione Spagna, a bordo della bicicletta col carrello. Prima di partire Estéban avrebbe voluto fermarsi davanti all’abitazione del padrone, per depositare un campione di bisogni mattutini nella brocca del latte lasciata tutte le mattine accanto al cancello. La questione gli stava molto a cuore, dato che in tutti quegli anni era stato definito “scimmia” non solo dal padrone della fabbrica ma anche dai suoi figli adolescenti.

“La vendetta non è una bella cosa,” predicò Allan. “La vendetta è come la politica: si accanisce fino a quando il brutto diventa peggio e il peggio diventa ancora peggio.”

Ma Estéban insistette. Soltanto perché uno aveva le braccia un po’ pelose e non parlava la lingua del padrone diventava una scimmia?

Allan acconsentì e i due amici raggiunsero un compromesso: Estéban poteva fare la pipì nella brocca del latte, ma non la cacca.

Così andarono le cose, e la fonderia di Hälleforsnäs si trovò di colpo senza esperti di esplosivi. In men che non si dica, alcuni testimoni spifferarono al padrone della fabbrica che Allan ed Estéban si stavano recando verso Katrineholm o forse ancora più a sud a bordo della bicicletta col carrello, quindi l’interessato apprese dell’improvvisa mancanza di personale per le settimane a venire mentre, seduto in terrazza, sorseggiava il latte che Sigrid gli aveva servito come sempre insieme a un biscotto alle mandorle. S’incupì ulteriormente perché gli parve che ci fosse qualcosa di strano. Il dolcetto sapeva di ammoniaca.

Decise di aspettare la fine della funzione religiosa per dare una tirata d’orecchie a Sigrid. Per il momento si sarebbe accontentato di bere un altro bicchiere di latte allo scopo di togliersi, se possibile, quel saporaccio dalla bocca.

Fu così che Allan Karlsson arrivò in Spagna. Passò tre mesi in giro per l’Europa, e lungo il viaggio ebbe modo di conoscere molti più uomini di colore di quanto si fosse mai immaginato. Dopo la prima volta, però, perse subito interesse, perché a quanto pareva non esisteva alcuna differenza fra loro e i bianchi a parte il colore della pelle; e parlavano tutti una lingua strana, come del resto i bianchi dello Småland. Da bambino quel Lundborg doveva aver preso uno spavento a causa di un negro, di questo Allan era convinto.

I due amici trovarono il paese nel caos. Il re si era rifugiato a Roma ed era stato rimpiazzato dalla repubblica. Da sinistra si acclamava la revolución, mentre la destra era terrorizzata all’idea di quanto stava succedendo nella Russia di Stalin. Sarebbe accaduto lo stesso anche in Spagna?

Dimenticando per un attimo che l’amico era un inguaribile apolitico, Estéban cercò di infondere in Allan lo spirito rivoluzionario, ma questi, come d’abitudine, si mostrò refrattario. Riconosceva gli stessi toni sentiti in Svezia e non riusciva a capire perché ci si dovesse arrabattare tanto per cambiare le cose.

Seguì un tentativo di golpe militare da parte della destra, a cui tenne dietro uno sciopero generale proclamato dalla sinistra. Dopodiché furono indette le elezioni. Vinse la sinistra e la destra se la prese a male. O forse il contrario. Allan non poteva dirlo con precisione. Fatto sta che scoppiò la guerra.

Allan si trovava in un paese straniero e l’idea migliore che gli venne fu di tenersi a un mezzo passo dall’amico, che nel frattempo si era arruolato ed era stato promosso sergente quando il comandante del plotone aveva capito che era in grado di far esplodere in aria le cose.

L’amico Estéban portava l’uniforme con orgoglio e non vedeva l’ora di compiere la sua prima missione di guerra. Il plotone ricevette l’incarico di far saltare un paio di ponti in una valle dell’Aragona. Alla squadra di Estéban fu assegnato il primo ponte. Era così eccitato dalla fiducia concessagli che si issò su una roccia e, afferrato il fucile, lo alzò al cielo urlando:

“Morte al fascismo, morte a tutti i fascist…”

Estéban non riuscì a concludere la frase, perché la testa e la spalla vennero dilaniate da quella che probabilmente fu la prima granata scagliata dal nemico. Quando ciò accadde Allan si trovava a una ventina di metri da lui, e fu per questo che non venne investito dai resti dell’amico che si sparsero intorno alla roccia su cui Estéban era salito da totale incosciente. Uno dei soldati della squadra di Estéban scoppiò a piangere. Dopo aver esaminato da vicino quel che rimaneva dell’amico, Allan decise che non valeva la pena reclamarne la salma.

“Era meglio restare a Hälleforsnäs,” mormorò Allan, preso da un attacco di nostalgia e dal desiderio di mettersi a tagliare la legna davanti a casa sua.

La granata che aveva ucciso Estéban fu probabilmente la prima di tutta la guerra, e di certo non l’ultima. Allan valutò l’ipotesi di tornarsene a casa, ma di colpo la guerra era ovunque. Inoltre si trattava di un viaggio molto, molto lungo, e in Svezia non c’era nessuno ad aspettarlo.

Così si presentò al comandante del plotone come il più abile pirotecnico del continente, affermando di essere disposto a far saltare in aria ponti e ogni genere di infrastrutture in cambio di tre pasti al giorno e vino in abbondanza quando le circostanze lo avessero permesso.

Il comandante fu quasi sul punto di far fucilare Allan, quando questi si rifiutò caparbiamente di rendere omaggio al socialismo e alla repubblica pretendendo di lavorare in borghese. O, stando alle parole di Allan:

“Un’altra cosa… se devo far saltare i ponti per te lo faccio con indosso il mio maglione, se no fallo da solo.”

Non era ancora nato un comandante disposto a farsi trattare in quel modo da un civile. Il fatto però, era che i resti del suo migliore esperto di esplosivi giacevano sparsi in cima a un’altura non molto distante da lì.

Mentre il comandante sedeva nella sua poltroncina girevole chiedendosi se il futuro immediato di Allan prevedesse il reclutamento o la fucilazione, uno dei soldati del plotone si permise di sussurrargli all’orecchio che il sergente finito disgraziatamente in pezzi aveva presentato quello strano svedese come un maestro nell’arte delle esplosioni.

Il suggerimento risultò decisivo. Al senõr Karlsson furono assicurati: 1) la permanenza in vita; 2) tre pasti al giorno; 3) il diritto di lavorare in borghese; 4) il diritto – come per gli altri – di assaggiare il vino di tanto in tanto, nei limiti della decenza. In cambio avrebbe fatto esplodere tutto quello che gli veniva indicato. Due soldati furono incaricati di tenere sott’occhio lo svedese, perché per il momento non si poteva escludere che fosse una spia.

Passarono mesi che divennero anni. Allan faceva saltare tutti i ponti che doveva ed eseguiva gli ordini con perizia e precisione. Era un lavoro pericoloso. Spesso ci si portava all’obiettivo strisciando furtivamente, si montava una carica a tempo e si ritornava su terreni più sicuri. Tre mesi dopo il suo reclutamento uno dei due soldati che facevano la guardia ad Allan morì (per errore finì in una postazione nemica). Sei mesi dopo toccò all’altro (si era alzato per stiracchiarsi e fu colpito in pieno petto). Il comandante del plotone non si curò di sostituirli: fino ad allora il senõr Karlsson si era comportato benissimo.

Allan non amava uccidere inutilmente la gente, perciò quando poteva si premurava di appurare che il ponte in questione fosse deserto prima di farlo esplodere. Accadde anche in occasione del suo ultimo incarico, poco prima che la guerra finisse. Ma non andò come pensato: piazzata la carica, stava strisciando per nascondersi tra i cespugli vicino a uno dei piloni di sostegno del ponte, quando apparve una pattuglia nemica capitanata da un signore di bassa statura carico di medaglie. Giungevano dall’altra estremità del ponte e sembravano ignorare che nelle vicinanze ci fossero dei repubblicani, e ancora di più che stavano per andare a fare compagnia eterna a Estéban e ad altre decine di migliaia di spagnoli.

Allan si levò in piedi e si mise ad agitare le braccia.

“Andate via di lì!” urlò rivolto al piccoletto con le medaglie e al suo seguito. “Sparite o salterete in aria!”

Il piccoletto con le medaglie arretrò, ma gli altri gli fecero cerchio intorno spingendolo al di là del ponte. Non si fermarono prima di aver raggiunto Allan. Puntarono contro lo svedese otto fucili e almeno uno di loro avrebbe fatto fuoco se in quel momento il ponte alle loro spalle non fosse esploso. Lo spostamento d’aria spinse il piccoletto con le medaglie nel cespuglio di Allan. Nel tumulto che ne seguì, nessuno osò sparare per paura di sbagliare bersaglio. E poi il tizio sembrava un civile. Quando il fumo si diradò non si parlava più di liquidarlo. Il piccoletto con le medaglie gli strinse la mano, spiegando che un vero generale sapeva mostrare la propria riconoscenza ma adesso era meglio che il gruppo ritornasse sull’altro lato, con o senza ponte. Se il suo salvatore voleva seguirli sarebbe stato il benvenuto: il generale lo avrebbe invitato a cena.

Paella andaluza,” disse il generale. “Il mio cuoco viene dal sud della Spagna. ¿Comprende?

Sì, Allan capiva. Comprese anche che aveva salvato la vita al generalisímo in persona, che era stato un bene indossare il suo vecchio maglione piuttosto che la divisa del nemico, che i suoi amici piazzati su un’altura a qualche centinaio di metri di distanza stavano seguendo l’evolversi della situazione con i binocoli, e che per la sua incolumità sarebbe stato meglio cambiare fronte in quella guerra di cui non aveva ancora capito il motivo.

E poi aveva fame.

Sí, por favor, mi general,” rispose Allan. “La paella va benissimo. Magari accompagnata da un bicchiere di vino rosso?”

Quando, dieci anni prima, Allan aveva cercato lavoro come esperto di esplosivi alla fonderia di Hälleforsnäs, aveva scelto di cancellare dal suo curriculum alcuni dettagli, come ad esempio che era stato in una specie di manicomio per quattro anni e aveva fatto saltare in aria la propria casa. Forse grazie a questo il colloquio era andato così bene.

Ci ripensò mentre parlava con il generale Franco. Da un lato non bisognava mentire, dall’altro non poteva certo essere vantaggioso svelare al generale che era stato lui stesso a piazzare la carica e che per tre anni aveva lavorato come civile nell’armata repubblicana. Non che Allan avesse paura di raccontarlo, ma nel caso specifico c’erano in gioco una cena e un’abbondante libagione di vino. Quando si tratta di cibo e di alcol la verità può anche essere taciuta, decise Allan, e mentì senza pudore.

Dunque Allan era finito in quel cespuglio fuggendo dai repubblicani, aveva visto dove era stato piazzato l’esplosivo ed era felice di aver potuto avvisare il generale.

A portarlo in Spagna e in guerra era stato un amico, uno in stretto contatto con lo scomparso Primo de Rivera. Mentre l’amico era stato ucciso da una granata nemica, lui era arrivato fin lì. Era caduto nelle grinfie dei repubblicani, ma alla fine era riuscito a scappare.

A quel punto Allan cambiò rapidamente argomento, raccontando che suo padre era stato uno degli uomini più fidati dello zar Nicola II ed era morto da martire in una diatriba senza speranza con il capo dei bolscevichi Lenin.

La cena fu servita nella tenda del generale. Più Allan ingollava vino rosso, più gli aneddoti sul coraggio del padre diventavano pittoreschi. Il generale Franco non avrebbe potuto essere più stupito: prima gli veniva salvata la vita, poi scopriva che il suo salvatore era quasi imparentato con lo zar Nicola II.

Il cibo era eccellente. Il vino scorreva a fiumi nel flusso di brindisi in onore di Allan, di suo padre, dello zar e della sua famiglia. Alla fine il generale, consegnata ad Allan una grande patacca a suggello del fatto che fra i due non esistevano più titoli, si addormentò.

Quando si risvegliarono la guerra era finita. Il generale Franco prese il controllo della nuova Spagna e offrì ad Allan di assumere il comando delle sue guardie del corpo. Allan ringraziò dicendo che purtroppo era arrivato il momento di tornare a casa, se Francisco lo avesse scusato, cosa che l’interessato fece. Anzi, scrisse una lettera nella quale assicurava ad Allan la protezione totale del generalísimo (“Mostrala quando hai bisogno d’aiuto”), quindi gli destinò una scorta degna di un principe fino a Lisbona, da dove a detta del generale partivano le navi dirette a nord.

Da Lisbona salpavano imbarcazioni per ogni dove. In piedi sul molo, Allan si mise a pensare. Poi, sventolando la lettera del generale davanti agli occhi del capitano di una nave battente bandiera spagnola, ottenne subito il passaggio gratis. Che Allan dovesse lavorare nel corso della traversata non fu neanche messo in discussione.

La nave non era diretta in Svezia, ma sul molo Allan si era chiesto cosa ci sarebbe tornato a fare in patria: non aveva trovato nessuna risposta valida.