CAPITOLO 6
Lunedì 2 maggio-Martedì 3 maggio 2005
La valigia era piena fino all’orlo di banconote da cinquecento corone. Julius fece un rapido conteggio: dieci file in larghezza, cinque in profondità, quindici mazzi per ogni pila, sicuramente cinquantamila corone ogni mazzo…
“Trentasette milioni e mezzo, se non ho calcolato male,” disse Julius.
“Sono soldi, non c’è che dire,” commentò Allan.
“Fatemi uscire, brutti bastardi,” sbraitò il giovane dalla cella frigorifera.
Faceva sempre più baccano: urlava, scalciava, urlava di nuovo. Allan e Julius avevano bisogno di riprendersi dopo gli ultimi sorprendenti sviluppi, ma con tutto quel rumore non era possibile. Ad Allan parve giunto il momento di raffreddare un po’ i bollenti spiriti del giovane, così accese la ventola del congelatore.
Nel giro di pochi secondi il giovane se ne rese conto. Rimase in silenzio nel tentativo di riordinare i pensieri. Cosa non facile già in condizioni normali, e adesso aveva anche quello spaventoso mal di testa.
Dopo essersi fermato qualche minuto a rimuginare, capì che né minacce né calci l’avrebbero salvato. Doveva chiamare rinforzi dall’esterno. Doveva chiamare il Capo. La sola idea lo atterriva, ma la vicenda sembrava prendere una piega sempre peggiore.
Esitò qualche altro minuto mentre il freddo aumentava. Alla fine estrasse il cellulare.
Non c’era campo.
La sera si fece notte e la notte mattino. Aperti gli occhi, Allan non riusciva a capire dove fosse. Era finalmente morto durante il sonno?
Una baldanzosa voce maschile prima gli augurò il buongiorno, poi lo informò che aveva due notizie da comunicargli, una buona e una cattiva. Quale desiderava sentire per cominciare?
Innanzitutto Allan voleva capire dove si trovasse, e perché. Gli facevano male le ginocchia, quindi nonostante tutto era ancora vivo. Ma non aveva… e poi non aveva preso… e… non si chiamava Julius?
I tasselli tornarono al loro posto: Allan era sveglio. Era sdraiato a terra su un materasso, nella camera da letto di Julius, che ora gli stava ripetendo la domanda. Voleva sapere prima la notizia buona o quella cattiva?
“Quella buona,” rispose Allan. “La cattiva puoi tralasciarla.”
Ok, assentì Julius, e lo informò che la buona notizia era che la colazione era pronta. Caffè, tartine con arrosto d’alce e uova del vicino.
Assaporare ancora una volta una colazione che non fosse zuppa d’avena prima di morire: questa sì che era una buona notizia! Seduto al tavolo della cucina, Allan si dichiarò pronto ad ascoltare quella cattiva.
“La cattiva notizia…” disse Julius abbassando leggermente il tono. “La cattiva notizia è che con la sbornia ci siamo dimenticati di spegnere la ventola della cella frigorifera.”
“E?”
“E… il tipo là dentro è morto stecchito.”
Allan si grattò preoccupato la nuca prima di decidere che in nessun modo quella penosa notizia gli avrebbe rovinato la giornata.
“Brutta storia,” commentò. “Però devo dire che l’uovo è cotto in modo perfetto, né troppo né troppo poco.”
Il commissario Aronsson si svegliò verso le otto di cattivo umore. Sia che il vecchio fosse scomparso di sua volontà sia che fosse stato rapito, ritrovarlo non era un compito degno di un poliziotto del suo calibro.
Dopo essersi fatto una doccia e vestito, Aronsson scese al pianterreno dell’Albergo Plevnagården per fare colazione. Lungo il tragitto incontrò un impiegato che gli porse un fax arrivato in albergo la sera precedente.
Un’ora dopo il commissario Aronsson aveva una nuova visione del caso. Il fax proveniente dalla centrale di Eskilstuna gli era sembrato all’inizio di dubbio valore, ma quando Aronsson incontrò un pallido Ronny Hulth allo sportello della stazione dei pullman, non ci volle molto prima che quest’ultimo cedesse e si mettesse a raccontare quanto era successo.
Subito dopo chiamarono da Eskilstuna per riferire che la Sörmlandstrafiken di Flen aveva appena scoperto che dalla sera prima mancava un pullman, e che Aronsson doveva telefonare a una certa Jessica Björkman, compagna del conducente del pullman che evidentemente era stato prima rapito e poi rilasciato.
Il commissario Aronsson tornò al Plevnagården per bere una tazza di caffè e metabolizzare le informazioni appena acquisite. Meditando, si mise ad annotare le proprie osservazioni:
Un anziano, Allan Karlsson, fugge da una casa di riposo prima che nella sala comune comincino i festeggiamenti per il suo centesimo compleanno. Karlsson è, o era, incredibilmente in forma per la sua età, quantomeno a livello fisico – di questo abbiamo le prove –, tanto da riuscire a scavalcare una finestra presumibilmente senza aiuti. Ulteriori accertamenti fanno pensare che agisca da solo. L’infermiera, nonché direttrice dell’istituto, Alice Englund afferma che “Allan è senza dubbio vecchio, ma è anche un maledetto farabutto che sa esattamente quello che fa”.
Stando alle tracce seguite dal cane poliziotto, Karlsson, dopo essere rimasto per un po’ fermo in un’aiuola, ha attraversato a piedi parte dell’abitato di Malmköping prima di dirigersi verso la sala d’attesa della stazione dei pullman dove, secondo il testimone Ronny Hulth, è andato, o meglio si è trascinato, fino allo sportello dello stesso Hulth, che ha notato l’incedere lento e affaticato di Karlsson, il quale indossava pantofole al posto delle scarpe.
La testimonianza di Hulth sta inoltre a indicare che Karlsson era in fuga e non aveva una meta. Voleva allontanarsi il più velocemente possibile da Malmköping, la direzione e la destinazione erano di secondaria importanza.
Ciò viene peraltro confermato da una tale Jessica Björkman, compagna del conducente Lennart Ramnér. Non è stato ancora possibile interrogarlo direttamente, in quanto ha ingerito troppi sonniferi. Ma la testimonianza della Björkman pare attendibile. Karlsson ha comprato da Ramnér un biglietto in base alla sua disponibilità di denaro. Casualmente, la meta è risultata la fermata della stazione di Byringe. Casualmente. Non ci sono motivi per credere che qualcosa o qualcuno stesse aspettando Karlsson proprio lì.
Un altro particolare: a quanto pare Hulth non ha notato il modo in cui Karlsson si è procurato la valigia prima di salire sul pullman in direzione di Byringe, ma la questione è risultata subito chiara in seguito alle azioni violente di un presunto membro dell’organizzazione criminale Never Again.
Jessica Björkman non è riuscita a ottenere alcuna notizia riguardante la valigia dal suo convivente intontito dai sonniferi, ma il fax inviato dalla centrale conferma come con tutta probabilità Karlsson – per quanto incredibile – abbia rubato la valigia a un membro della Never Again.
Il racconto della Björkman, unito al contenuto del fax proveniente da Eskilstuna, porta a credere che prima Karlsson, verso le 15,20 minuto più minuto meno, poi il membro della Never Again, circa quattro ore dopo, siano scesi alla stazione di Byringe per poi proseguire verso destinazione ignota. Il primo, centenario, si trascinava dietro una valigia, mentre il secondo era molto più giovane.
Il commissario Aronsson, chiuso il taccuino, bevve l’ultimo goccio di caffè. Erano le 10,25.
“Prossima meta, la stazione di Byringe.”
Facendo colazione, Julius passò in rassegna insieme ad Allan tutto quello che aveva fatto e pensato nelle prime ore del mattino mentre lui stava ancora dormendo.
Per prima cosa, l’incidente della cella frigorifera. Quando Julius si era reso conto che la temperatura era rimasta sotto lo zero per almeno dieci ore di fila, aveva afferrato il piede di porco come eventuale arma di difesa, quindi aveva aperto la porta della cella. Se il giovane fosse stato in vita, non sarebbe certo stato abbastanza lucido da avere la meglio su Julius e il suo piede di porco.
Tuttavia la precauzione si era rivelata inutile. Il giovane era accasciato sulla cassa, il corpo ricoperto di cristalli di ghiaccio e gli occhi persi nel vuoto. In breve, morto come un alce tagliato a pezzi.
A detta di Julius la cosa era spiacevole, ma anche molto vantaggiosa: infatti, non sarebbe stato possibile liberare impunemente quel pazzo scatenato. Dopo aver spento la ventola del congelatore Julius aveva lasciato la porta aperta. Il giovane era morto, ma non per questo meritava di restare surgelato.
Dopo avere acceso la stufa a legna della cucina per mantenere calda la stanza, Julius aveva ricontato i soldi. Non erano trentasette milioni e mezzo come gli era sembrato la sera prima, ma cinquanta.
Allan ascoltò con interesse la relazione di Julius mentre faceva colazione con un appetito che non ricordava da tempo. Rimase in silenzio fino a quando Julius non giunse ad affrontare il lato economico della storia.
“Sì, è più facile dividere in due cinquanta milioni. Semplice e chiaro. Scusa, ti spiacerebbe passarmi il sale?”
Julius fece quello che Allan gli aveva chiesto, spiegandogli che sarebbe stato in grado di dividere in due anche trentasette milioni e mezzo, se necessario, ma conveniva con lui che con cinquanta era più facile. Poi si fece serio. Sedendosi a tavola di fronte ad Allan, disse che era venuto il momento di lasciare per sempre la stazione abbandonata. Sì, il giovane nella cella frigorifera non avrebbe più creato problemi, ma chi poteva dire cosa aveva combinato prima di arrivare lì? Da un minuto all’altro sarebbero potuti piombare in cucina dieci nuovi giovani arrabbiati e urlanti, benché lui avesse smesso di farlo.
Allan era d’accordo, ma ricordò a Julius che lui era parecchio avanti con gli anni, non più agile come un tempo. Julius promise che avrebbe ridotto i tratti a piedi al minimo indispensabile. Comunque sia, dovevano andarsene. La cosa migliore era portarsi via il cadavere. Non sarebbe stato bello per nessuno dei due se qualcuno sulle loro tracce avesse trovato un morto.
La colazione era finita, era tempo di darsi da fare. Julius e Allan si disposero a trasportare il cadavere dalla cella frigorifera in cucina, piazzarono il corpo su una sedia e raccolsero le forze in vista della prossima mossa.
Squadrando il giovane dall’alto in basso, Allan disse:
“Per essere così grosso ha piedi incredibilmente piccoli. Delle scarpe non ha più bisogno, no?”
Julius rispose che molto probabilmente fuori faceva freddo, essendo mattino presto, e il rischio che Allan si congelasse le dita dei piedi era ben maggiore di quello che correva il giovane. Se secondo Allan le sue scarpe potevano andargli bene, non doveva fare altro che infilarsele. Chi tace acconsente.
Ad Allan andavano un po’ grandi, ma erano di buona qualità e di certo sembravano più adatte alla fuga di un paio di pantofole consunte.
La mossa successiva consisté nello spostare il giovane in salotto e nel farlo rotolare giù per le scale. Si ritrovarono tutti e tre sul marciapiede, due in piedi e uno a terra, e Allan si chiese quale sarebbe stata la prossima azione di Julius.
“Non muoverti,” disse questi ad Allan. “E neanche tu,” aggiunse rivolto al giovane prima di scendere dal marciapiede ed entrare in una rimessa accanto ai binari.
Poco dopo ricomparve a bordo di un carrello ferroviario.
“Modello 1954,” commentò. “Benvenuti a bordo.”
Julius, in testa, guidava, Allan, dietro, accompagnava il moto del carrello con le gambe, mentre il morto, sul sedile alla destra del conducente, aveva la testa appoggiata al manico di una scopa e gli occhi vitrei nascosti da un paio di occhiali da sole.
Erano le 11,05 quando il gruppo si mise in viaggio. Tre minuti dopo una Volvo blu scuro giunse alla stazione abbandonata di Byringe. Dall’auto scese il commissario Göran Aronsson.
L’edificio sembrava disabitato, ma un’occhiata più scrupolosa non avrebbe guastato, prima di proseguire per Byringe e andare a bussare a tutte le porte.
Con cautela Aronsson salì sul marciapiede pericolante. Aprendo la porta d’ingresso esclamò: “C’è qualcuno?” Non avendo ricevuto risposta, imboccò le scale. Nonostante tutto, la stazione pareva abitata. Nella stufa a legna della cucina c’erano ancora dei tizzoni accesi, e sul tavolo i resti di una colazione per due.
Sul pavimento, un paio di pantofole consunte.
La Never Again si definiva ufficialmente un club di motociclisti, ma non era altro che uno sparuto drappello di giovani delinquenti capitanati da un uomo di mezza età dai trascorsi ancora peggiori; tutti erano comunque assai decisi a proseguire sulla via del crimine.
Il responsabile della banda si chiamava Per-Gunnar Gerdin, ma nessuno osava chiamarlo altro che “Capo”, dal momento che lo aveva deciso lui in persona: era alto quasi due metri, pesava circa centotrenta chili e soleva estrarre il coltello se qualcosa o qualcuno non gli andava a genio o provava a contraddirlo.
Inizialmente il Capo aveva intrapreso la sua carriera criminale con una certa prudenza. Insieme a un amico della sua età importava in Svezia frutta e verdura, barando sul paese di provenienza della merce per fregare lo Stato sulle tasse ed estorcere un prezzo più alto ai consumatori.
Non c’era niente che non andasse nell’amico del Capo, a parte il fatto che non era di vedute sufficientemente ampie. Il Capo avrebbe voluto apportare delle innovazioni, per esempio usando la formalina. Aveva sentito dire che in Asia lo facevano e la sua idea era di importare polpettine di carne svedesi dalle Filippine, a buon mercato e via nave, che con un adeguato quantitativo di formalina si sarebbero conservate per tre mesi, se necessario, persino a una temperatura di trenta gradi.
Il costo sarebbe risultato così basso da non rendere neanche necessario chiamare svedesi quelle polpettine per venderle. Bastava chiamarle danesi, a detta del Capo, ma il suo amico non ne voleva sapere. Secondo lui la formalina serviva a conservare i cadaveri, non a dare alle polpettine la vita eterna.
Così le loro strade si divisero, e da quel momento per il Capo le polpettine alla formalina rimasero un sogno. Invece, gli venne in mente che bastava calarsi un berretto sulla testa per rapinare la ditta concorrente, decisamente troppo corretta, e cioè la Stockholms Fruktimport AB, portandosi via il ricavato della giornata.
Con l’aiuto di un machete e un ruggito feroce, sbraitando “Fuori il malloppo, se no…”, in un colpo solo e con sua grande sorpresa il Capo era diventato più ricco di quarantunomila corone. Perché correre delle grane con le importazioni quando si potevano guadagnare dei bei soldi senza quasi lavorare?
E così il Capo procedette su quella strada. Per la maggior parte le cose gli andarono bene, a eccezione di un paio di brevi ferie involontarie nell’arco dei quasi vent’anni trascorsi da libero professionista nel settore rapine.
Ma dopo un paio di decenni al Capo parve giunto il momento di cominciare a pensare in grande. Si procurò un paio di scagnozzi molto più giovani di lui a cui diede degli stupidi soprannomi (uno fu ribattezzato Bullone, l’altro Secchio), con i quali condusse a buon fine due rapine a dei furgoni portavalori.
Una terza rapina analoga si concluse per tutti e tre con un soggiorno di sei mesi nel penitenziario di Hall. Fu allora che al Capo venne in mente di fondare la Never Again. I suoi piani erano ambiziosi: inizialmente la banda sarebbe stata composta da cinquanta membri suddivisi in tre rami, “rapina”, “droga” ed “estorsione”. Il nome Never Again nacque dall’intenzione del Capo di creare una struttura così micidiale e a prova di bomba da non finire mai più, never again, a Hall o in qualsiasi altro penitenziario. La Never Again sarebbe diventata il Real Madrid del crimine (al Capo piaceva il calcio).
Sulle prime la fase di reclutamento andò molto bene, ma una lettera indirizzata al Capo da parte della mamma finì nelle mani sbagliate. Nella missiva la madre scriveva tra l’altro che in carcere il suo piccolo Per-Gunnar doveva stare attento a non frequentare brutte compagnie, che doveva fare attenzione alle sue tonsille delicate e che non vedeva l’ora di giocare nuovamente con lui a caccia al tesoro quando fosse tornato a casa.
Dopodiché non servì a nulla che il Capo quasi squartasse con il coltello due iugoslavi in coda alla mensa e si comportasse in pubblico in modo ancora più violento. La sua autorità aveva subito un colpo mortale. Dei trenta che erano stati reclutati fino a quel momento, ventisette se ne andarono. Oltre a Bullone e a Secchio rimase un venezuelano, José María Rodríguez, segretamente innamorato del Capo, cosa che non ebbe mai il coraggio di rivelare a nessuno tranne a se stesso.
Al venezuelano fu affibbiato il nome di Caracas. Per quanto il Capo minacciasse e tuonasse, in prigione non riuscì ad arruolare nessun altro membro per la sua banda. E un bel giorno lui e i suoi tre sottoposti vennero scarcerati.
A un certo punto il Capo pensò di abbandonare l’idea di costituire la Never Again, ma poi venne a sapere che Caracas aveva un conoscente colombiano di larghissime vedute e amici piuttosto interessanti. Fu così, visto che una cosa tira l’altra, che grazie alla Never Again la Svezia divenne il paese di transito per eccellenza verso l’Europa dell’Est del cartello colombiano di sostanze stupefacenti. Il giro d’affari si fece sempre più intenso e non ci fu più né l’occasione né il personale sufficiente per attivare i rami della “rapina” e dell’“estorsione”.
A Stoccolma il Capo convocò il consiglio di guerra, composto da Secchio e Caracas. Era successo qualcosa a Bullone, l’imbranato che avrebbe dovuto portare a termine il miglior colpo della banda. In mattinata il Capo si era messo in contatto con i russi, che avevano confermato di aver ricevuto la merce – e di aver effettuato il pagamento. Se poi il corriere della Never Again se l’era svignata con la valigia, questo non era un problema loro. Se poi la Never Again voleva dare inizio alle danze per colpa di quella faccenda, i russi non si sarebbero tirati indietro. Se necessario, sapevano ballare. Sia il valzer sia la mazurca.
Il Capo partì dal presupposto che i russi dicessero la verità (tra l’altro, era sicuro che sapessero ballare meglio di lui) ed escluse che Bullone fosse sparito volontariamente con il malloppo, dal momento che era troppo stupido. O troppo intelligente, dipendeva dai punti di vista.
L’alternativa era che qualcuno a conoscenza della transazione avesse aspettato il momento giusto a Malmköping, o mentre Bullone era di ritorno a Stoccolma, e lo avesse liquidato per impossessarsi della valigia.
Ma chi? Il Capo pose la domanda al consiglio di guerra senza ricevere alcuna risposta, cosa che non lo stupì affatto: da tempo era arrivato alla conclusione che i suoi scagnozzi erano tutti e tre dei deficienti.
Ordinò immediatamente a Secchio di andare in esplorazione, dato che pensava che quell’idiota di Secchio fosse meno idiota di quell’idiota di Caracas. Quell’idiota di Secchio partiva da premesse leggermente migliori per trovare quell’idiota di Bullone e forse recuperare la valigia con i soldi.
“Vai a Malmköping a dare un’occhiata, Secchio, ma vestiti in borghese perché lì è pieno di piedipiatti. A quanto pare è scomparso un vecchio bacucco.”
Julius, Allan e il morto procedevano sui binari attraverso i boschi del Sörmland. A Vidkärr ebbero la sfortuna di imbattersi in un contadino di cui Julius non ricordava il nome. Stava esaminando il raccolto quando il trio sopraggiunse a bordo del carrello ferroviario.
“Buongiorno,” esclamò Julius.
“Bella giornata,” aggiunse Allan.
Il morto e il contadino non dissero nulla, ma quest’ultimo li osservò a lungo mentre si allontanavano.
Più si avvicinavano alla fonderia di Åkers Styckebruk, più Julius era preoccupato. Aveva previsto di incrociare un corso d’acqua dove liberarsi del cadavere, ma non ne aveva ancora avvistato nessuno. Inoltre stavano per finire su un binario della zona industriale della fonderia. Tirato il freno, Julius riuscì a fermare in tempo il carrello. Il morto cadde in avanti andando a sbattere la fronte su una sbarra di ferro.
“Chissà che male in altre circostanze,” commentò Allan.
“Qualche volta essere morti presenta dei vantaggi,” commentò Julius.
Sceso dal carrello, Julius si nascose dietro un albero per sbirciare la zona industriale. Le porte della fabbrica erano aperte. Guardò l’orologio: erano le 12,10. Ora di pranzo, concluse, dopodiché gli cadde l’occhio su un grosso container. Informò Allan che si sarebbe allontanato qualche minuto allo scopo di perlustrare il territorio. L’altro gli augurò buona fortuna e lo pregò di non perdersi.
Il rischio non c’era, dal momento che Julius doveva percorrere soltanto la trentina di metri che lo separava dal container. Ci si infilò dentro scomparendo alla vista di Allan. Poi riapparve. Tornato senza problemi al carrello ferroviario, Julius annunciò che aveva capito cosa fare del cadavere.
Il container era quasi pieno di cilindri di un metro di diametro e lunghi almeno tre, tutti confezionati singolarmente in casse di legno dotate di sportello su uno dei lati corti. Allan era sfinito quando il pesante cadavere del giovane risultò finalmente al suo posto dentro uno dei cilindri più interni al container, ma si ringalluzzì quando, chiusa la cassa, gli saltò all’occhio la scritta con l’indirizzo di destinazione.
Addis Abeba.
“Se non avesse gli occhi chiusi potrebbe vedere il mondo,” disse Allan riferendosi al morto.
“Dai, vecchio,” replicò Julius. “Dobbiamo muoverci.”
L’operazione si concluse felicemente e i due scomparvero fra le betulle molto prima che la pausa pranzo degli operai fosse terminata. Sostarono sul carrello ferroviario per riprendere fiato. Poco dopo la zona industriale cominciò ad animarsi. Un operaio caricò altri cilindri nel container, fino a riempirlo completamente, e una volta finito riprese il suo lavoro.
Allan si chiese cosa producessero in quel posto. Julius sapeva che si trattava di un’antica fabbrica, che già nel 1600 fondeva cannoni per coloro che durante la Guerra dei trent’anni aspiravano a uccidere in maniera efficiente.
Ad Allan sembrava assurdo che fin dal 1600 gli uomini si odiassero al punto di ammazzarsi. Se soltanto si fossero calmati un po’ sarebbero morti lo stesso ma senza scannarsi a vicenda. Julius rispose che la cosa riguardava tutte le epoche, poi proseguì dicendo che la sosta era finita ed era venuto il momento di squagliarsela. Secondo i suoi piani i due amici si sarebbero diretti a piedi verso il centro di Åker e lì avrebbero escogitato qualcosa.
Il commissario Aronsson ispezionò la vecchia stazione ferroviaria di Byringe senza trovare niente di interessante oltre alle pantofole che forse appartenevano al vecchio scomparso. Le avrebbe raccolte per mostrarle al personale della casa di riposo.
Sul pavimento della cucina c’erano delle macchie d’acqua che terminavano davanti a una cella frigorifera non in funzione e con la porta aperta. Difficile trovare un filo conduttore.
Aronsson proseguì verso Byringe. In tutt’e tre le case a cui bussò gli venne detto che un tale Julius Jonsson abitava al primo piano della stazione, che era un ladro e un truffatore con cui nessuno voleva avere niente da spartire, e che non avevano sentito nulla di strano la sera prima e nemmeno dopo. Ma che Julius Jonsson fosse implicato in qualcosa di poco chiaro era senz’altro possibile.
“Sbattetelo in galera,” pretese il vicino più arrabbiato.
“Per cosa?” chiese stancamente il commissario.
“Perché la notte mi ruba le uova nel pollaio, perché quest’inverno mi ha fregato una slitta appena comprata e dopo averla riverniciata ha sostenuto che era sua, perché ordina i libri a mio nome, ficca il naso nella mia cassetta delle lettere per ritirarli e mi lascia il conto da pagare, perché cerca di vendere acquavite distillata illegalmente a mio figlio di quattordici anni, perché…”
“Sì, sì, va bene. Lo sbatterò in galera,” lo rassicurò il commissario. “Però prima devo trovarlo.”
Aronsson stava rientrando a Malmköping quando, più o meno a metà strada, gli suonò il cellulare. Era la centrale. Un contadino di Vidkärr, tale Tengroth, aveva chiamato per fornire un’informazione interessante. Qualche ora prima un noto mascalzone della zona aveva attraversato i suoi campi a bordo di un carrello ferroviario, lungo i binari abbandonati che congiungevano Byringe alla fonderia di Åker. Sopra c’erano anche un vecchio, una valigia piuttosto grande e un giovane con un paio di occhiali da sole che secondo il contadino Tengroth sembrava avere il comando. Anche se ai piedi portava soltanto i calzini…
“Non ci sto capendo più niente,” sbottò il commissario Aronsson prima di fare inversione a una velocità tale che le pantofole appoggiate sul sedile del passeggero volarono a terra.
Dopo qualche centinaio di metri l’andatura già lenta di Allan rallentò ulteriormente. Non si lamentava, ma Julius vide che le ginocchia iniziavano a cedergli sul serio. Un po’ più avanti, sulla destra, c’era un chiosco. Julius promise ad Allan che se fosse riuscito a raggiungerlo gli avrebbe offerto un panino con la salsiccia, e in qualche modo si sarebbe procurato un mezzo di trasporto migliore. Allan disse che mai nella vita si era lagnato per un po’ di stanchezza e non aveva certo intenzione di cominciare ora, ma d’altro canto un panino con la salsiccia lo avrebbe gradito.
Julius accelerò il passo, Allan arrancava. Quando lo raggiunse, Julius aveva già mangiato metà del suo panino. Oltre ad avere sbrigato alcune faccende.
“Allan,” esordì, “vieni a salutare Benny. È il nostro nuovo autista privato.”
Benny era il proprietario del chiosco, sulla cinquantina, con ancora tutti i capelli che finivano in una coda di cavallo. Nel giro di circa due minuti Julius era riuscito a comprare un panino con la salsiccia, una Fanta e la Mercedes color argento del 1988 di Benny, incluso Benny, per centomila corone.
Allan diede un’occhiata al proprietario del chiosco, che continuava a rimanere dietro il bancone.
“Abbiamo comprato anche te o ti abbiamo soltanto ingaggiato?” chiese alla fine.
“Comprato la macchina, ingaggiato l’autista,” rispose Benny. “Inizialmente per dieci giorni, poi vedremo. A proposito, la salsiccia è inclusa nel prezzo. Vuoi una di queste, più sottili?”
No, e perché mai? Allan ne voleva una normale, se possibile. Poi aggiunse che centomila corone per una macchina così vecchia erano uno sproposito, con o senza autista, quindi gli sembrava giusto includere anche una bibita al cioccolato.
Benny accettò. Tanto stava per lasciare il chiosco, e una bibita al cioccolato più o meno se la poteva ancora permettere. Gli affari andavano male: acquistare un chiosco dalle parti di Åkers Styckebruk si era dimostrato un pessimo affare, proprio come aveva sospettato.
Il fatto era, spiegò Benny, che già prima che i signori comparissero in modo così tempestivo lui aveva cominciato a pensare di trovarsi qualcos’altro da fare nella vita. A diventare un autista privato però non ci aveva pensato.
Sulla base di quello che il proprietario del chiosco aveva appena detto, Allan gli suggerì di infilare nel bagagliaio un cartone di bibite al cioccolato. Da parte sua Julius promise a Benny che gli avrebbero procurato un berretto da autista non appena si fosse tolto quello del chiosco e si fosse dato una mossa, perché era venuto il momento di andare.
Benny aveva la convinzione che il compito di un autista non fosse esattamente quello di mettersi a discutere con il capo, quindi fece come gli dissero. Il berretto finì nella spazzatura e le bibite al cioccolato nel bagagliaio insieme a qualche Fanta. Ma Julius volle che la valigia restasse sul sedile posteriore accanto a lui. Allan prese posto davanti in modo da poter allungare per bene le gambe.
A quel punto, messa fine alla propria attività commerciale, il proprietario del chiosco si sedette al volante di quella che pochi minuti prima era stata la sua Mercedes, acquistata per una bella somma dai due gentiluomini a cui Benny avrebbe prestato i propri servigi.
“Dove vogliono recarsi i signori?” domandò Benny.
“Verso nord, che ne dici?” chiese Julius.
“Sì, va bene,” rispose Allan. “O verso sud.”
“Allora diciamo a sud,” disse Julius.
“A sud,” confermò Benny inserendo la prima.
Dieci minuti dopo il commissario Aronsson arrivò ad Åker. Gli bastò far correre lo sguardo lungo i binari per scoprire la presenza di un vecchio carrello ferroviario abbandonato vicino alla fonderia.
Purtroppo sul carrello non c’erano tracce visibili. Sul retro della fabbrica gli operai erano intenti a caricare dei cilindri nei container. Nessuno di loro aveva notato l’arrivo del carrello, ma avevano visto due vecchi allontanarsi a piedi subito dopo pranzo: uno trascinava una valigia piuttosto grande, l’altro lo seguiva a qualche metro di distanza. Sicuramente erano diretti verso il chiosco della stazione di servizio, ma che strada avessero preso non lo sapeva nessuno.
Aronsson chiese se erano certi che si trattasse di due uomini e non tre, ma gli operai ribadirono di aver visto soltanto i due vecchi, nessuna terza persona.
Mentre guidava verso la stazione di servizio Aronsson meditò sulle informazioni raccolte, delle quali tuttavia gli sfuggiva il nesso.
Per prima cosa si fermò al chiosco. Gli stava venendo fame, quindi cadeva a puntino, ma a quanto pareva era chiuso. Di certo non era un affare gestirne uno in quel posto dimenticato da Dio, pensò Aronsson dirigendosi alla stazione di servizio, dove nessuno aveva visto né sentito niente. Quantomeno furono in grado di fornire ad Aronsson un panino con la salsiccia, malgrado sapesse di benzina.
Dopo il suo rapido pranzo il commissario visitò il supermercato, il fiorista e l’agenzia immobiliare dell’abitato. Si fermò a interrogare anche i pochi operai a spasso con il cane, la carrozzina o la loro dolce metà. Nessuno poteva testimoniare di aver visto due o tre uomini con una valigia. La pista si concluse definitivamente in un punto indefinito tra la fonderia e la stazione di servizio. Il commissario Aronsson decise di rientrare a Malmköping. Aveva con sé un paio di pantofole che dovevano essere identificate.
Il commissario Göran Aronsson telefonò al suo superiore per informarlo dello stato delle indagini. Il capo gliene fu grato, dal momento che alle due del pomeriggio doveva tenere una conferenza stampa al Plevnagården e finora non aveva trovato nulla da dire.
Il capo della polizia della contea aveva una certa propensione per il melodramma, che quando poteva sfruttava appieno. Il commissario Aronsson gli aveva giusto fornito l’occorrente per l’esibizione del giorno.
Durante la conferenza stampa decise di non porsi alcun freno, a meno che Aronsson non fosse rientrato in tempo per bloccarlo (cosa del resto poco probabile), e annunciò che ora come ora la sparizione di Allan Karlsson lasciava pensare a un rapimento, in linea con ciò che la stampa locale aveva paventato il giorno prima. Per il momento la polizia era in possesso di informazioni che facevano supporre che Karlsson fosse ancora vivo, anche se in mano a dei poco di buono.
Le domande dei giornalisti iniziarono a fioccare, ma il capo della polizia della contea seppe destreggiarsi con abilità: poteva soltanto aggiungere che Karlsson e i suoi presunti rapitori erano stati visti quello stesso giorno intorno all’ora di pranzo nel piccolo centro abitato di Åkers Styckebruk, ed esortava i migliori amici della polizia, alias il pubblico, a prendere contatto con la polizia medesima qualora avessero notato qualcosa.
Con suo gran disappunto, però, l’équipe televisiva se n’era già andata. Questo non sarebbe accaduto se quell’imbranato di Aronsson gli avesse fornito prima l’informazione relativa a un possibile rapimento. Comunque, l’“Expressen” e l’“Aftonbladet” erano presenti, così come il giornale e la radio locali. In fondo alla sala da pranzo del Plevnagården c’era anche un uomo che il capo della polizia della contea aveva visto il giorno prima. Era forse dell’agenzia di stampa TT?
Ma Secchio non era della TT, era stato mandato dal Capo da Stoccolma e cominciava a credere che Bullone si fosse volatilizzato con la grana. In tal caso si poteva considerare un uomo morto.
Quando il commissario Aronsson giunse al Plevnagården i rappresentanti della stampa si erano dileguati. Lungo la strada si era fermato alla casa di riposo, dove aveva avuto conferma che le pantofole ritrovate appartenevano ad Allan Karlsson (annusandole, l’infermiera Alice aveva annuito con una smorfia).
Nella hall dell’albergo Aronsson ebbe la sfortuna di imbattersi nel suo capo, il quale gli riferì com’era andata la conferenza stampa e gli diede l’incarico di risolvere il caso, preferibilmente in modo da non creare alcun tipo di conflitto tra la realtà e quello che lui aveva appena affermato.
Poi il capo se ne andò: aveva un mucchio di cose di cui occuparsi. Per esempio, era ora di far intervenire il procuratore.
Aronsson si sedette davanti a una tazza di caffè per riflettere sul risultato dei suoi ultimi spostamenti. Quello che gli dava più da pensare era il legame fra i tre a bordo del carrello ferroviario. Se Tengroth aveva sbagliato affermando che Karlsson e Jonsson non subivano pressioni da parte del terzo passeggero, allora si poteva parlare di ostaggi, che era quanto il capo aveva appena dichiarato in conferenza stampa. Tuttavia molto raramente il capo aveva ragione. Inoltre c’erano testimoni che avevano visto Karlsson e Jonsson camminare per Åker – con la valigia. In questo caso, era possibile che i due vecchi fossero riusciti ad avere la meglio su un membro giovane e forte della Never Again buttandolo in un fosso…
Incredibile ma non impossibile. Aronsson decise di richiedere nuovamente l’intervento del cane poliziotto di Eskilstuna. Per l’animale e il suo addestratore si sarebbe trattato di una passeggiata dai campi di proprietà del contadino Tengroth fino alla fonderia di Åker. In qualche punto lungo quel tracciato il membro della Never Again doveva pur essere scomparso.
Del resto gli stessi Karlsson e Jonsson si erano dissolti fra il retro della fabbrica e la stazione di servizio – un tragitto di duecento metri. Inghiottiti dalla terra senza che anima viva avesse notato nulla. L’unica cosa esistente in quel tratto di strada era un chiosco chiuso.
Ad Aronsson suonò il cellulare. Era la centrale, che aveva ricevuto una nuova soffiata: questa volta il vecchio scomparso era stato visto alla stazione di servizio Mjölby sul sedile anteriore di una Mercedes, probabilmente rapito dall’uomo di mezza età con la coda di cavallo seduto al volante.
“Controlliamo?” chiese il collega.
“No,” sospirò Aronsson.
Una lunga vita da commissario gli aveva insegnato a isolare le informazioni giuste dalla fuffa: un pensiero consolante, visto che quasi tutto era avvolto nella nebbia.
Benny si fermò a Mjölby per fare il pieno. Julius aprì con circospezione la valigia, da cui estrasse una banconota da cinquecento corone per pagare.
Poi disse che sarebbe sceso per sgranchirsi le gambe, ma chiese ad Allan di rimanere in macchina a fare la guardia al bagaglio. Questi, stanco dopo gli strapazzi della giornata, promise che non si sarebbe mosso.
Benny tornò per primo e si accomodò al volante. Subito dopo arrivò Julius, che ordinò di ripartire immediatamente. La Mercedes riprese il suo cammino verso sud.
Dopo un po’ Julius si mise ad armeggiare con qualcosa sul sedile posteriore. Porse un sacchetto di cioccolatini ad Allan e a Benny.
“Guardate che cosa ho sgraffignato,” disse.
Allan inarcò le sopracciglia.
“Hai rubato un sacchetto di cioccolatini quando abbiamo cinquanta milioni nella valigia?”
“Avete cinquanta milioni nella valigia?” chiese Benny.
“Accidenti,” commentò Allan.
“Non esattamente,” intervenne Julius. “Hai avuto centomila corone.”
“Più cinquecento per la benzina,” precisò Allan.
“Allora avete quarantanovemilioniottocentonovantanovemilacinquecento corone nella valigia?”
“Sei veloce a contare,” la lodò Allan.
Per un po’ calò il silenzio. A quel punto Allan decise che era meglio raccontare all’autista tutta la storia. Se poi Benny avesse voluto rompere l’accordo, non ci sarebbero stati problemi.
La parte che Benny ebbe maggiore difficoltà a digerire era che una persona fosse stata uccisa e spedita all’estero. Si era trattato di un incidente, questo sì, anche se c’era di mezzo una sbornia. L’alcol a Benny non interessava.
L’autista neoassunto rifletté ancora prima di arrivare alla conclusione che all’inizio i cinquanta milioni erano finiti nelle mani sbagliate, e forse ora sarebbero stati meglio utilizzati. Inoltre licenziarsi il primo giorno di lavoro non era una bella cosa.
Per questo, promettendo di restare in servizio, chiese ai signori quali fossero i loro piani per il futuro. Finora non aveva osato domandarlo: la curiosità non gli sembrava la dote migliore per un autista, ma adesso era diventato complice anche lui.
Allan e Julius ammisero di non averne affatto, ma che sarebbe stato meglio continuare su quella strada finché non avesse fatto buio, e trovare un posto dove discutere della faccenda. E così fu.
“Cinquanta milioni,” disse Benny ridendo mentre metteva in moto la Mercedes.
“Quarantanovemilioniottocentonovantanovemilacinquecento,” lo corresse Allan.
Julius fu indotto a promettere che avrebbe smesso di rubare solo per il gusto di farlo. Confessò che non sarebbe stato facile perché ce l’aveva nel sangue, tuttavia acconsentì aggiungendo che raramente faceva delle promesse ma quando accadeva manteneva sempre la parola data.
Il viaggio proseguì in silenzio. Allan si addormentò subito. Julius mangiò un altro cioccolatino mentre Benny canticchiava una canzone di cui non ricordava il titolo.
Non è facile fermare un giornalista di un’edizione serale che ha fiutato una storia. Non passarono molte ore prima che i reporter dell’“Expressen” e dell’“Aftonbladet” riuscissero a farsi un’idea dell’accaduto molto più chiara di quella propinata loro dal capo della polizia della contea nella conferenza stampa del pomeriggio. Questa volta fu il giornalista dell’“Expressen” a spuntarla su quello dell’“Aftonbladet”, perché fu il primo a contattare Ronny Hulth, a recarsi a casa sua e, in cambio della promessa di procurargli un maschio per la sua gattina, a riuscire a convincerlo a trascorrere la notte in un albergo di Eskilstuna, fuori dalla portata dell’“Aftonbladet”. Inizialmente Hulth aveva paura di parlare, ricordava bene le minacce del giovane, ma il giornalista gli promise che sarebbe rimasto anonimo, oltre al fatto che non gli sarebbe successo nulla se il club dei motociclisti fosse venuto a sapere che c’era di mezzo la polizia.
Ma l’“Expressen” non si accontentò di Hulth. Persino il conducente del pullman finì nella rete, così come gli abitanti di Byringe, il contadino di Vidkärr e altra gente di Åker. Il che portò alla produzione di numerosi articoli dai toni drammatici. Sicuramente pieni di supposizioni errate, ma date le circostanze si poteva dire che il giornalista avesse svolto un buon lavoro.
La Mercedes color argento proseguiva il suo viaggio. A poco a poco anche Julius si era assopito. Allan russava sul sedile anteriore, Julius su quello posteriore con la valigia a mo’ di scomodo guanciale. Mentre Benny sceglieva la direzione in base al suo intuito.
A Mjölby aveva deciso di lasciare la E4 per imboccare la statale 32 in direzione di Tranås, dove però non si era fermato, continuando verso sud. Entrato nella contea di Kronoberg cambiò di nuovo strada, ritrovandosi tra i boschi dello Småland. Lì sperava di trovare un posto per la notte.
Allan si destò chiedendo se non fosse arrivato il momento di andare a letto. Julius fu svegliato dalla conversazione che stava avendo luogo nella parte anteriore della macchina. Si guardò intorno: boschi ovunque. Domandò dove fossero.
Benny riferì che si trovavano poche decine di chilometri a nord di Växjö e che mentre i signori dormivano aveva riflettuto un po’.
Era arrivato alla conclusione che per motivi di sicurezza sarebbe stato meglio cercare un posticino defilato dove passare la notte. Non sapevano chi avessero alle calcagna, ma se uno si appropria di una valigia con dentro cinquanta milioni di denaro sporco non può pensare di essere lasciato in pace. Per questo aveva abbandonato la strada che li avrebbe condotti a Växjö, mentre ora si stavano avvicinando all’anonimo centro abitato di Rottne. L’idea di Benny era di pernottare lì.
“Ben detto,” lo elogiò Julius, “ma non del tutto.”
Si spiegò. Nella migliore delle ipotesi a Rottne avrebbero trovato un alberghetto da quattro soldi poco frequentato. Se una sera fossero comparsi tre signori senza preavviso, di sicuro avrebbero attirato l’attenzione. Meglio cercare una fattoria o qualcosa di simile in mezzo ai boschi, dove chiedere un letto e un boccone.
Benny ammise la bontà del ragionamento, quindi imboccò la prima strada sterrata che vide.
Cominciava a fare buio quando, dopo soli quattro tortuosi chilometri, sul ciglio della strada scorsero una cassetta delle lettere su cui era scritto “Fattoria del lago”, con accanto una deviazione che probabilmente li avrebbe condotti lì. Così fu. Dopo cento metri lungo una stradina tutta curve apparve una casa. Era un edificio rosso dai contorni bianchi, di due piani, con un fienile e, in prossimità di un laghetto, qualcosa che un tempo doveva essere stata una rimessa per gli attrezzi.
La casa pareva abitata e Benny parcheggiò la Mercedes proprio là di fronte. Subito ne uscì una donna sotto i quaranta dai capelli rossi e crespi, con indosso una tuta da lavoro ancora più rossa e accompagnata da un pastore tedesco.
I tre scesero dall’auto per andarle incontro. Julius lanciò un’occhiata al cane, ma l’animale non dava segno di voler attaccare. Al contrario, osservava gli ospiti incuriosito.
Julius distolse lo sguardo dalla bestia per rivolgersi alla donna. Dopo averla salutata educatamente, espose la sua richiesta di pernottare lì e magari mangiare un boccone.
La donna osservò la variopinta compagnia che le stava davanti: un vecchio, un vecchio un po’ meno vecchio e… un gran bel tipo, dovette riconoscere. E anche dell’età giusta. E con la coda di cavallo! Rise tra sé e Julius pensò che volesse dare loro il suo assenso, invece esclamò:
“Questo non è un fottuto albergo.”
Accidenti, pensò Allan. Non vedeva l’ora di mangiare qualcosa e mettersi a letto. La vita gli stava succhiando ogni forza proprio adesso che aveva deciso di ricominciare a viverla. Si poteva dire quello che si voleva della casa di riposo, ma finché era rimasto là non aveva mai accusato alcun dolore in tutto il corpo.
Anche Julius sembrava abbacchiato. Disse che lui e i suoi amici si erano persi ed erano piuttosto stanchi, ma soprattutto erano pronti a pagare se fosse stato concesso loro di fermarsi per la notte. Potevano anche saltare la cena.
“Siamo disposti a pagare mille corone a persona per pernottare qui,” incalzò.
“Mille corone?” chiese la donna. “State scappando?”
Julius sviò la domanda perfettamente centrata tornando a spiegarle che avevano alle spalle un lungo viaggio, e che se fosse stato per lui ce l’avrebbe anche fatta, ma Allan era in là con gli anni.
“Ne ho compiuti cento ieri,” disse Allan con voce debole.
“Cent’anni?” esclamò la donna quasi spaventata. “Ma che cazzo dici? Terribile.”
Rimase in silenzio per un attimo, sembrava stesse riflettendo.
“Ma sì, cazzo. Sì che potete fermarvi, ma di qualche migliaio di corone non se ne parla proprio. Come vi ho già detto, io non conduco nessun fottuto albergo.”
Benny la guardò ammirato. Non aveva mai sentito una donna dire così tanto in così breve tempo. Gli sembrava terribilmente affascinante.
“Mia bella,” intervenne, “è possibile accarezzare il cane?”
“Mia bella?” commentò la donna. “Non ci vedi? Ma accarezza pure, cazzo. Buster è buono. Potete occupare ognuno una stanza diversa al primo piano, qui ce n’è di posto. Le lenzuola sono pulite, ma fate attenzione al veleno per topi sul pavimento. La cena sarà pronta fra un’ora.”
La donna superò i tre ospiti per dirigersi verso il fienile, con il fedele Buster al suo fianco. Benny la chiamò per domandarle se avesse un nome. L’interessata rispose senza girarsi che si chiamava Gunilla, ma secondo lei “bella” suonava bene, quindi “continua pure a chiamarmi così, cazzo”. Benny promise di farlo.
“Credo di essere innamorato,” disse Benny.
“Io sono stanco,” disse Allan.
In quel momento si sentì uscire dal fienile un muggito terrificante, che fece spalancare gli occhi anche allo stremato Allan. Doveva provenire da un animale molto grosso e probabilmente sofferente.
“Sta’ zitta, Sonya,” disse Bella. “Sto arrivando, cazzo.”