V. La schizofrenia
Succede a moltissimi tra noi di ricadere spontaneamente, a un certo punto della vita, in qualcosa che si approssima all'autentica mente bicamerale. Per alcuni si tratta solo di episodi sporadici di privazione del pensiero o di percezione di voci. Ma per altri, dotati di sistemi con dopammina iperattiva, o privi di un enzima per scomporre facilmente in forma eliminabile i prodotti biochimici di uno stress continuo, è un'esperienza molto più tormentosa – se di esperienza si può parlare. Udiamo voci autoritarie, alle quali non possiamo ribellarci, che ci criticano e ci dicono che cosa fare. Al tempo stesso ci sembra di perdere i confini di noi stessi.
Il tempo si frantuma. Ci comportiamo in modi di cui non abbiamo coscienza. Il nostro spazio mentale comincia a svanire. Siamo presi dal panico, eppure il panico non sta accadendo a noi. Non c'è un noi. Non è che non sappiamo dove volgerci: non abbiamo un dove. E in questa assenza di uno spazio mentale siamo come automi, non sappiamo che cosa facciamo, veniamo manipolati da altri o dalle nostre voci in modi strani e spaventosi, in un posto che perveniamo a riconoscere come un ospedale, con una diagnosi che, ci viene detto, è schizofrenia. In realtà, siamo ricaduti nella mente bicamerale.
Questo è almeno un modo stimolante, anche se iper-semplificato ed esagerato, di introdurre un'ipotesi già evidente in altre parti di questo libro. Perché è ormai chiaro che le opinioni presentate qui propongono una nuova concezione per quella che è la più comune e resistente fra le malattie mentali, la schizofrenia. Si sostiene cioè che, come i fenomeni discussi nei capitoli precedenti, la schizofrenia sia, almeno in parte, un vestigio della bicameralità, una parziale ricaduta nella mente bicamerale. Il presente capitolo è una discussione di questa possibilità.
La documentazione storica
Cominciamo con uno sguardo, un semplice sguardo di sfuggita, alla storia più antica di questa malattia. Se la nostra ipotesi è corretta, non dovrebbe esserci alcuna testimonianza di individui distinti dagli altri come pazzi prima del crollo della mente bicamerale. E così è, anche se il carattere indiretto delle testimonianze rende assai debole tale argomentazione. Ma nelle sculture, nella letteratura, negli affreschi e negli altri prodotti delle grandi civiltà bicamerali, non c'è mai alcuna raffigurazione o menzione di un tipo di comportamento che caratterizzi un individuo come diverso dagli altri, così come fa la pazzia. Idiozia sì, pazzia no. 359 Non c'è, per esempio, alcuna idea di pazzia nell'Iliade.360 Insisto sul concetto di individui distinti dagli altri in quanto malati, perché, secondo la nostra teoria, potremmo dire che, prima del II millennio a.C., tutti erano schizofrenici.
In secondo luogo, sulla base dell'ipotesi prospettata sopra dovremmo attenderci che, quando si parla per la prima volta di pazzia nel periodo cosciente, il riferimento sia in termini decisamente bicamerali. L'argomentazione, in questo caso, è molto più convincente. Nel Fedro Platone definisce la follia «un dono divino, e la fonte dei benefici più grandi concessi agli uomini». 361 E questo brano prelude a uno dei passi più belli e più elevati di tutti i dialoghi platonici, nel quale si distinguono quattro tipi di pazzia: la follia profetica dovuta ad Apollo, la follia rituale dovuta a Dioniso, la follia poetica «di coloro che sono posseduti dalle Muse, la quale impossessandosi dell'anima vergine e delicata, e ispirandovi frenesia, desta la poesia lirica e ogni altra forma poetica», e infine la follia erotica dovuta a Eros e ad Afrodite. Persino la parola per designare l'attività profetica, mantike, e quella per designare la follia, manike, erano per il giovane Platone una stessa parola; egli considerava infatti l'inserimento della t «solo un'inserzione moderna e priva di gusto». 362 Ciò che sto cercando di dimostrare qui è che non c'è alcun dubbio sull'antica associazione tra le forme di quella che noi chiamiamo schizofrenia e i fenomeni che siamo pervenuti a chiamare bicamerali.
Questa corrispondenza si manifesta anche in un'altra parola greca antica per «follia», paranoia, la quale, derivando da para + nous, significa letteralmente «avere un'altra mente accanto alla propria», espressione che descrive tanto lo stato allucinatorio della schizofrenia quanto quella che abbiamo descritto come mente bicamerale. Il vocabolo greco non ha ovviamente nulla a che fare con l'uso moderno ed etimologicamente scorretto che ne viene fatto, col suo significato del tutto diverso di delirio di persecuzione, che è di origine ottocentesca. Il termine «paranoia», nel significato antico generale di pazzia, continuò a esistere assieme alle altre vestigia della bicameralità descritte nel capitolo precedente, estinguendosi linguisticamente con esse attorno al II secolo d. C.
Ma anche al tempo di Platone, un tempo di guerra, di carestia e di pestilenze, le quattro divine follie stavano gradualmente scivolando verso il regno della poesia del saggio e della superstizione dell'uomo comune. Comincia a farsi evidente l'aspetto patologico della schizofrenia. Nei dialoghi più tardi, il vecchio Platone è più scettico, e si riferisce a quella che chiamiamo schizofrenia come a un perpetuo sognare in cui alcuni «credono di essere dèi, altri di poter volare»,363 nel qual caso i familiari di coloro che sono affetti da tale infermità dovrebbero tenerli chiusi in casa, pena una multa.364
I pazzi devono ora essere evitati. Anche nelle stravaganti farse di Aristofane essi sono tenuti lontani a sassate.
Quella che noi chiamiamo oggi schizofrenia comincia dunque nella storia umana come rapporto col divino, e solo attorno al 400 a.C. viene a essere considerata la terribile malattia che conosciamo oggi. Questo sviluppo è difficile da capire se non si accetta la teoria di un mutamento nella forma mentale cui questo saggio è dedicato.
Le difficoltà del problema
Prima di considerare dallo stesso punto di vista i sintomi contemporanei della schizofrenia, vorrei fare alcune osservazioni preliminari di tipo molto generale. Come sa chiunque si sia occupato di quanto è stato scritto sull'argomento, esiste oggi un panorama piuttosto confuso di controversie circa la natura della schizofrenia: se essa sia una malattia o molte o la comune traiettoria finale di varie eziologie, se esistano due configurazioni fondamentali variamente chiamate schizofrenia di processo e schizofrenia reattiva, o acuta e cronica, o a inizio rapido e a inizio lento. La ragione di questo disaccordo e del suo carattere vago e confuso risiede nel fatto che le ricerche in quest'area sono complicate da un groviglio di difficoltà di controllo inestricabile quant'altri mai. Come possiamo studiare la schizofrenia e al tempo stesso eliminare gli effetti dell'ospedalizzazione, dei farmaci, della terapia precedente, delle attese culturali, di varie reazioni apprese a esperienze bizzarre, o delle differenze nella registrazione di dati accurati sulle crisi di pazienti che, a causa del trauma dell'ospedalizzazione, trovano spaventoso comunicare le loro esperienze?
Io non sono in grado di aprirmi la strada in questo groviglio per arrivare a una posizione definitiva. Preferisco invece aggirarlo elencando alcune nozioni semplici sulle quali c'è ampio accordo. Esse sono: che esiste effettivamente una sindrome che può essere chiamata schizofrenia, che almeno nello stato conclamato essa viene riconosciuta nella clinica e che si trova in tutte le società civili del mondo. 365 Inoltre, ai fini della validità di questo capitolo, non importa in realtà se io stia parlando di tutti i pazienti con questa diagnosi, 366 né della malattia quale si manifesta in principio o quale si sviluppa in seguito al ricovero ospedaliero. La mia tesi è qualcosa di meno, ossia che alcuni fra i sintomi fondamentali, più tipici e più comunemente osservati della schizofrenia conclamata non sottoposta a trattamento medico presentano un accordo perfetto con la descrizione che ho dato nelle pagine precedenti della mente bicamerale.
Questi sintomi sono primariamente la presenza di allucinazioni uditive, come quelle descritte nel capitolo iv del libro I e il deterioramento della coscienza così come è stata definita alle pp. 83 sgg., ossia la perdita dell'analogo «io», l'erosione dello spazio mentale e un'incapacità a narratizzare. Consideriamo successivamente questi vari sintomi.
Le allucinazioni
Eccoci di nuovo a parlare di allucinazioni, e quanto dirò qui in proposito è da intendersi semplicemente come un'aggiunta a quanto ho già detto in precedenza.
Se ci limitiamo a schizofrenici conclamati non sottoposti a trattamento medico, possiamo affermare che le allucinazioni sono assenti solo in casi eccezionali. Di solito esse sono molto frequenti, persistenti e profonde, facendo apparire confuso il paziente, specie quando mutano con grande rapidità. In casi molto acuti alle voci si accompagnano allucinazioni visive. Più comunemente, però, il paziente ode una voce o molte voci, un santo o un diavolo, una banda di uomini sotto la sua finestra che vogliono catturarlo, bruciarlo, decapitarlo: sono appiattati in attesa, minacciano di entrare attraverso i muri, si arrampicano su e si nascondono sotto il suo letto o sopra di lui nei ventilatori. Ci sono anche altre voci, che vogliono aiutarlo. A volte Dio è un protettore, altre volte è fra i persecutori. Quando ode le voci che lo tormentano, il paziente può fuggire, difendersi o attaccare. Nel caso delle allucinazioni consolatrici, che vogliono aiutarlo, il paziente può ascoltare con grande attenzione, rallegrarsi di esse come di una festa, e addirittura piangere di conforto ascoltando le voci celesti. Alcuni pazienti possono attraversare esperienze allucinatorie di ogni genere standosene a letto sotto le coperte, mentre altri vanno qua e là con agitazione, parlano forte o sommessamente con le loro voci, facendo ogni sorta di gesti e movimenti incomprensibili. Anche durante una conversazione o la lettura, i pazienti possono rispondere di continuo alle loro voci sussurrando o bisbigliando loro ogni pochi secondi.
Ora, uno fra gli aspetti più interessanti e importanti per quanto concerne il parallelo con la mente bicamerale è il fatto che le allucinazioni uditive in generale si sottraggono totalmente al controllo dell'individuo stesso, ma possono facilmente essere evocate anche dalla suggestione più innocua esercitata dal complesso di circostanze sociali di cui l'individuo è parte. In altri termini, tali sintomi schizofrenici sono influenzati da un imperativo cognitivo collettivo esattamente come nel caso dell'ipnosi.
Uno studio recente lo dimostra in modo molto chiaro. 367 Quarantacinque pazienti maschi sofferenti di allucinazioni furono divisi in tre gruppi. Un gruppo portava alla cintura una scatoletta con una leva che, quando veniva abbassata, somministrava una scossa. Essi ricevettero l'ordine di procurarsi in tal modo una scossa ogni volta che cominciavano a udire voci. Un secondo gruppo portava alla cintura una scatoletta simile, ricevette istruzioni simili, ma questi pazienti premendo la leva non ricevevano una scossa. Un terzo gruppo fu sottoposto a interviste e a una valutazione simili, ma non ricevette le scatolette. Queste, per inciso, contenevano contatori che registravano il numero di volte in cui la leva era stata abbassata: la frequenza variò fra 19 e 2362 volte nel corso delle due settimane in cui durò l'esperimento. Ma la cosa importante è che tutt'e tre i gruppi furono indotti ad attendersi che la frequenza delle allucinazioni sarebbe forse diminuita.
Sulla base della teoria dell'apprendimento fu ovviamente predetto che solo il gruppo che subiva le scosse avrebbe presentato miglioramenti. Si riscontrò invece che tutt'e tre i gruppi sentirono le voci con una frequenza significativamente minore. In alcuni casi le voci scomparvero completamente, e nessun gruppo si rivelò superiore agli altri sotto questo aspetto, dimostrando chiaramente la grande importanza delle attese e del convincimento in questo aspetto dell'organizzazione mentale.
Con quanto abbiamo detto finora è connessa un'altra osservazione, ossia che le allucinazioni dipendono dagli insegnamenti e dalle attese dell'infanzia, così come abbiamo postulato accadeva nelle età bicamerali. In culture contemporanee nelle quali un rapporto personale ortodosso eccessivo con Dio fa parte dell'educazione dei bambini, gli individui che diventano schizofrenici tendono a udire allucinazioni religiose severe più spesso di altri.
Nell'isola britannica di Tortola, nelle Antille, per esempio, si insegna ai bambini che Dio controlla letteralmente ogni particolare della loro vita. Il nome di Dio è invocato in minacce e punizioni. Assistere alle funzioni religiose è l'attività sociale principale. Quando i nativi di quest'isola hanno bisogno di un qualsiasi trattamento psichiatrico, dicono invariabilmente di avere udito comandi da Dio e da Gesù, di avere avuto la sensazione di bruciare nell'inferno o di avere avuto allucinazioni di voci che pregavano o cantavano inni ad alta voce, o a volte una combinazione di preghiere e di oscenità.368
Quando le allucinazioni uditive della schizofrenia non hanno alcuna base religiosa particolare, svolgono comunque essenzialmente lo stesso ruolo che ho già indicato per la mente bicamerale, ossia quello di iniziare e guidare il comportamento del paziente. Di tanto in tanto le voci sono riconosciute come autorità all'interno dell'ospedale stesso. Una donna udiva voci principalmente benefiche che essa credeva fossero state create dal Servizio sanitario pubblico a scopi psicoterapeutici. Sarebbe bello se la psicoterapia potesse sempre essere gestita così facilmente! Le voci davano alla donna consigli incessanti (compreso quello di non dire allo psichiatra che udiva voci). Le davano consigli su casi di pronuncia difficile, o suggerimenti su lavori di cucito o di cucina. Così essa descriveva la situazione: «Quando faccio una torta, “lei” si arrabbia con me. Io cerco di arrangiarmi da me. Provo a farmi un grembiule e “lei” è subito lì che cerca di dirmi che cosa devo fare». 369 Alcuni ricercatori psichiatrici, specialmente di formazione psicoanalitica, vorrebbero inferire, attraverso le associazioni usate dal paziente, che le voci possono «in tutti i casi… essere ricondotte a persone che in precedenza furono significative nella vita dei pazienti, specialmente ai loro genitori». 370 Si suppone che, poiché tali figure, se riconosciute, produrrebbero angoscia, esse vengano inconsciamente deformate e camuffate dai pazienti. Ma perché dovrebbe essere così? È più economico pensare che siano le esperienze del paziente con i suoi genitori (o con altre autorità amate) a diventare il nucleo attorno a cui la voce allucinatoria viene strutturata, come ritengo avvenisse nel caso degli dèi all'epoca bicamerale.
Non intendo dire con questo che i genitori non figurino nelle allucinazioni, anzi vi figurano spesso, specialmente nei pazienti più giovani. In altri casi, però, i personaggi-voce della schizofrenia non sono genitori camuffati; sono figure autorevoli create dal sistema nervoso sulla base dell'esperienza ammonitoria e delle attese culturali del paziente (e naturalmente i genitori sono una parte importante di quell'esperienza ammonitoria).
Uno fra i problemi più interessanti nelle allucinazioni è costituito dalla loro relazione col pensiero cosciente. Se la schizofrenia è in parte un ritorno alla mente bicamerale, e se questa è antitetica alla coscienza comune (cosa che non è necessariamente in tutti i casi), ci si potrebbe attendere che le allucinazioni siano sostitutive dei «pensieri».
Almeno in alcuni pazienti, questo è appunto il modo in cui si presentano per la prima volta le allucinazioni. Le voci a volte sembrano cominciare come pensieri, che poi si trasformano in bisbigli confusi e quindi diventano sempre più forti e autoritari. In altri casi i pazienti sentono l'inizio delle voci «come se i loro pensieri stessero dividendosi». Nei casi lievi le voci possono essere addirittura soggette al controllo dell'attenzione cosciente come lo sono i «pensieri». Ecco come ha descritto questa situazione un paziente lucido: «Sono in questo reparto da due anni e mezzo e quasi ogni giorno e ogni ora del giorno odo voci intorno a me, voci che a volte vengono dal vento, a volte da rumori di passi, a volte dall'acciottolio dei piatti, dal fruscio degli alberi o dalle ruote di treni e di veicoli che passano. Odo le voci solo se vi presto attenzione, ma le odo. Le voci sono parole che mi raccontano questa o quella storia, proprio come se non fossero pensieri nella mia testa, ma stessero raccontando fatti del passato – ma solo quando ci penso. Per tutta la giornata esse continuano a raccontare veramente la mia storia quotidiana della mente e del cuore».371
Spesso pare che le allucinazioni abbiano accesso a più ricordi e conoscenze di quanti possa averne il paziente stesso, esattamente come gli dèi dell'antichità. Non è insolito udire pazienti che, in certe fasi della loro malattia, si lagnano che le voci esprimano i loro pensieri prima ancora che essi stessi abbiano avuto la possibilità di pensarli. Questo processo del sentire i propri pensieri detti in anticipo ad alta voce è designato nella letteratura clinica con l'espressione tedesca Gedankenlautwerden ed è molto vicino alla mente bicamerale. Alcuni pazienti dicono che non gli viene mai dato modo di pensare da sé; c'è sempre qualcuno che pensa per loro e che dà loro i pensieri. Quando cercano di leggere, le voci leggono prima di loro. Quando cercano di parlare, sentono già pronunciare i loro pensieri. Un altro paziente disse al suo medico: «Pensare lo fa soffrire, perché non può pensare da sé. Ogni volta che comincia a pensare, tutti i suoi pensieri gli vengono dettati. Si sforza di cambiare il corso dei suoi pensieri, ma ancora una volta i suoi pensieri vengono pensati in vece sua… In chiesa non di rado sente cantare una voce che anticipa ciò che canterà il coro… Se cammina per strada e vede, per esempio, un'insegna, la voce legge prima di lui tutto quello che c'è scritto… Se vede un conoscente in distanza, la voce gli grida: “Guarda, c'è il tale” di solito prima che egli cominci a pensare a questa persona. Di tanto in tanto, benché non abbia la minima intenzione di osservare i passanti, la voce lo costringe a notarli con i suoi commenti».372
Quel che qui è importante considerare è il posto centralissimo e unico di queste allucinazioni uditive nella sindrome di molti schizofrenici. Perché sono presenti tali allucinazioni? E come si spiega che «sentire delle voci» è così universale in tutte le culture, se non con l'esistenza di una qualche struttura del cervello normalmente soppressa che viene attivata nello stress di questa malattia?
E perché queste allucinazioni degli schizofrenici hanno così spesso un'autorità fortissima, soprattutto religiosa? Io trovo che l'unica nozione che fornisca anche solo un'ipotesi di lavoro sull'argomento è quella della mente bicamerale, ossia che la struttura neurologica responsabile di queste allucinazioni è legata neurologicamente a sostrati deputati ai sentimenti religiosi, e questo perché la fonte della religione e degli dèi stessi si trova nella mente bicamerale.
Le allucinazioni religiose sono particolarmente comuni nei cosiddetti stati crepuscolari, cioè una sorta di sogno in stato di veglia in molti pazienti, che può durare da alcuni minuti ad alcuni anni (una durata molto comune è sei mesi). Questi stati sono caratterizzati invariabilmente da visioni religiose, atteggiamenti posturali di culto, cerimonia e adorazione: un paziente vive con le sue allucinazioni esattamente come nello stato bicamerale, tranne che per il fatto che il suo ambiente può essere frutto di un'allucinazione, mentre viene cancellato l'ambiente dell'ospedale. Il paziente può essere in contatto con i santi del cielo. Oppure può riconoscere medici e infermiere che lo circondano per quello che sono, convinto però che si riveleranno dèi o angeli travestiti. Tali pazienti possono anche piangere di gioia all'idea di stare parlando direttamente con i beati, e possono farsi di continuo il segno della croce mentre conversano con le voci divine o persino con le stelle, invocandole di notte.
Spesso il paranoico, dopo un lungo periodo di difficoltà nei contatti con la gente, può dare inizio all'aspetto schizofrenico della sua malattia con un'esperienza religiosa allucinatoria nella quale un angelo, Cristo o Dio gli parla bicameralmente, indicandogli qualche nuova via. 373 Egli si convince perciò del suo proprio rapporto speciale con le potenze dell'universo, e il riferimento patologico a se stesso di tutto quanto accade attorno a lui viene poi elaborato in idee deliranti che possono continuare per vari anni senza che il paziente sia in grado di discuterle.
Particolarmente illustrativo della tendenza alle allucinazioni religiose è il famoso caso di Schreber, un brillante giurista tedesco della fine dell'Ottocento. 374 Il suo racconto retrospettivo, estremamente colto, delle allucinazioni che ebbe mentre fu malato di schizofrenia è notevole per la somiglianza di queste con i rapporti che gli uomini antichi avevano con i loro dèi. La sua malattia cominciò con un grave attacco di angoscia, durante il quale egli avvertì in forma allucinatoria uno scricchiolio nei muri della sua casa. Poi,, una notte, gli scricchiolii divennero a un tratto delle voci, nelle quali egli riconobbe immediatamente comunicazioni divine «che da allora mi parlano incessantemente». Per un periodo di «sette anni io – tranne che nel sonno – non ho mai avuto un solo istante in cui non abbia udito voci. Esse mi accompagnano in ogni luogo e in ogni occasione; continuano anche quando sto conversando con altre persone». 375 Egli vedeva raggi di luce come «filamenti lunghissimi che da un punto ampio e lontanissimo sull'orizzonte arrivavano alla mia testa… oppure dal sole o da altre stelle lontane: essi non vengono verso di me in linea retta, bensì compiendo una specie di curva o di parabola». 376 E questi erano i veicoli delle voci divine, e potevano anche trasformarsi nelle entità fisiche di dèi stessi.
Col progredire della sua malattia, è di particolare interesse come le voci divine si organizzassero ben presto in una gerarchia di dèi superiori e inferiori, come si può supporre sia accaduto nelle età bicamerali. E poi, scendendo dagli dèi lungo i loro raggi, le voci sembravano intenzionate a «soffocarmi e privarmi infine della ragione». Esse commettevano un «assassinio dell'anima» e volevano «evirarlo» a poco a poco, ossia togliergli la sua iniziativa o erodere il suo analogo «io». Più avanti nel corso della sua malattia, durante periodi più coscienti, Schreber narratizzò tutto questo nel delirio di essere trasformato fisicamente in una donna. Io penso che Freud abbia sottolineato in misura eccessiva tale narratizzazione nella sua famosa analisi di queste memorie, facendo dell'intera malattia il risultato di un'omosessualità repressa che erompeva dall'inconscio. 377 Ma tale interpretazione, pur potendo essere connessa all'eziologia originale dello stress che dette origine alla malattia, non è molto efficace come spiegazione del caso nella sua totalità.
Avremo ora la temerarietà di tracciare un parallelo fra tali fenomeni della malattia mentale e l'organizzazione degli dèi nell'antichità? Che Schreber avesse anche visioni-voce di «omini» ci ricorda le statuine ritrovate fra i resti di molte civiltà antiche. E il fatto che, man mano che le sue condizioni andavano lentamente migliorando, il ritmo delle parole dei suoi dèi andasse rallentando, fino a degenerare in un sibilo indistinto, 378 ci ricorda il modo in cui gli inca percepivano gli idoli dopo la Conquista.
Un altro parallelo suggestivo consiste nel fatto che in molti pazienti non trattati con farmaci il sole, in quanto sorgente luminosa più splendente del mondo, assume un significato particolare, così come avveniva nelle teocrazie delle civiltà bicamerali. Schreber, per esempio, dopo avere udito per qualche tempo il suo «dio superiore (Ormadz)», alla fine lo vide come «il sole…
circondato da un mare argenteo di raggi». 379 E un paziente in tempi più recenti scrisse: «Il sole venne ad avere un effetto straordinario su di me. Mi sembrava che fosse carico di ogni potere, che non simboleggiasse semplicemente Dio, ma che fosse realmente Dio. Espressioni come “la luce del mondo”, “il sole della giustizia che non tramonta mai”, e simili, mi frullavano senza posa nella testa, e la sola vista del sole era sufficiente a intensificare a dismisura questa eccitazione maniacale dalla quale ero afflitto. Ero spinto a rivolgermi al sole come a un dio personale, e a sviluppare da ciò un'adorazione rituale del sole».380
Io non penso affatto che nel sistema nervoso siano presenti un culto innato del sole o dèi innati che vengono liberati nel corso della riorganizzazione mentale della psicosi. Le ragioni per cui le allucinazioni assumono una forma particolare risiedono in parte nella natura fisica del mondo, ma soprattutto nell'educazione e nella familiarità con gli dèi e con la storia della religione.
Io intendo però sostenere:
1) che nel cervello esistono strutture apriche che consentono l'esistenza di tali allucinazioni;
2) che queste strutture si sviluppano in società civilizzate in forma tale da determinare la qualità religiosa generale e l'autorità di tali voci allucinatorie, e forse da organizzarle in gerarchie;
3) che i paradigmi sottostanti a queste strutture apriche si svilupparono nel cervello per selezione naturale e umana agli inizi del processo civilizzatore dell'umanità;
4) che essi vengono liberati dalla loro normale inibizione per opera della biochimica anormale presente in molti casi di schizofrenia, assumendo forme particolari connesse all'esperienza.
Ci sarebbero moltissime altre cose da dire su questi fenomeni realissimi di allucinazione nella schizofrenia, e non si potrà mai insistere abbastanza sul bisogno di altre ricerche. Ci piacerebbe conoscere la storia delle allucinazioni di un paziente e sapere in che modo essa si connetta con la storia della sua malattia; di. tutto questo non sappiamo quasi nulla. Vorremmo sapere di più sul modo in cui le particolari esperienze allucinatorie sono correlate con l'educazione dell'individuo. Perché alcuni pazienti odono voci benevole, mentre altri odono voci così incessantemente persecutorie che essi fuggono o si difendono o aggrediscono persone o cose nel tentativo di farle tacere? E perché altri ancora odono voci così estaticamente religiose e ispiratrici che ne gioiscono come di una festa? E quali sono le caratteristiche linguistiche delle voci? Usano la stessa sintassi e lo stesso lessico del paziente? Oppure sono più strutturate, come potremmo attenderci dopo quanto abbiamo visto (libro III, cap. ni)? Tutti questi sono problemi che possono essere risolti empiricamente. Una volta che la loro soluzione sia stata conseguita, essa potrà darci in effetti una conoscenza più approfondita sugli inizi bicamerali della civiltà.
L'erosione dell'analogo «io»
Quale trascendente importanza ha quest'analogo che abbiamo di noi stessi nel nostro spazio mentale creato per metafora, lo strumento stesso con cui noi narratizziamo soluzioni a problemi di azione personale, vediamo dove siamo diretti e chi siamo! E quando nella schizofrenia questo analogo comincia a contrarsi, e lo spazio in cui esso esiste comincia a dissolversi, come dev'essere terrificante tale esperienza!
I pazienti schizofrenici conclamati presentano tutti.. in qualche grado questo sintomo:
«Quando sono malato perdo il senso di dove mi trovo. Sento che “io” sono magari seduto sulla sedia, eppure il mio corpo sbatte qua e là e fa capriole a un metro circa dinanzi a me».
«È veramente molto difficile mantenere la conversazione con gli altri perché non sono certo se stanno parlando veramente o no e se io gli rispondo davvero».381
«A poco a poco non sono più in grado di distinguere quanto di me stesso ci sia in me, e quanto sia già in altri. Io sono un conglomerato, una mostruosità, che viene rimodellata di nuovo ogni giorno».382
«La mia capacità di pensare e decidere, la mia volontà di fare si lacera da sola. Infine viene gettata fuori, dove si mescola con ogni altra parte della giornata e giudica quello che si è lasciata dietro. Anziché essere io a desiderare di fare cose, esse sono fatte da qualcosa che sembra meccanico e terrorizzante… La sensazione che dovrebbe risiedere all'interno di una persona è fuori e desidera tornare indietro e nondimeno si è portata via con sé il potere di tornare».383
Questa perdita dell'io è descritta in molti modi dai pazienti che sono in grado di farlo. Un'altra paziente deve star seduta ogni volta per ore «per ritrovare i suoi pensieri». Un altro ha l'impressione «di essere svanito». Schreber, come abbiamo visto, parlava di «assassinio dell'anima». Una paziente molto intelligente ha bisogno di ore di strenui sforzi «per trovare per alcuni brevi momenti il suo io». Oppure il sé sente di essere assorbito da tutto ciò che lo circonda, da potenze cosmiche, forze del male o del bene, o da Dio stesso. In effetti il termine stesso «schizofrenia» fu coniato da Bleuler proprio per indicare in questa esperienza centrale il contrassegno più peculiare della schizofrenia. È la sensazione di «perdere la propria mente», del «distaccarsi» del sé finché esso cessa di esistere o dà l'impressione di non essere più connesso con l'azione o la vita nel modo usuale, dando luogo a molti fra i sintomi descrittivi più chiari, come la «mancanza di affetto» o l'abulia.
Un'altra manifestazione di questa erosione dell'analogo «io» è la relativa incapacità degli schizofrenici di disegnare una persona. È ovviamente un assunto un po' esile dire che, quando disegnamo una persona su un foglio di carta, tale disegno dipende da una metafora intatta del sé che abbiamo chiamato analogo «io». Ma questo risultato è stato riscontrato in modo così costante che ne è nato il cosiddetto Draw-A-Person Test (DAP), che oggi viene usato abitualmente come ausilio nella diagnosi di schizofrenia. 384 Non tutti i pazienti schizofrenici trovano peraltro difficoltà in tale test. Nei casi in cui non riescono a disegnare la figura di una persona, le loro difficoltà hanno però un grande valore diagnostico. Essi lasciano fuori parti anatomiche molto evidenti, come le mani o gli occhi; usano linee incerte o non collegate; spesso la sessualità non viene differenziata e tutta la figura è deformata e confusa.
Ma la conclusione generalizzante che quest'incapacità a disegnare una persona rifletta l'erosione dell'analogo «io» dovrebbe essere accettata con prudenza. È stato trovato che persone anziane eseguono talvolta gli stessi disegni frammentari e primitivi di questi schizofrenici, e si dovrebbe osservare che c'è una contraddizione notevole fra questo risultato e l'ipotesi in esame in questo capitolo. In un capitolo precedente abbiamo asserito che l'analogo «io» cominciò a esistere verso la fine del II millennio a.C. Se la capacità di disegnare una persona dipende dal possesso da parte del disegnatore di un analogo «io», non dovremmo attenderci di trovare immagini coerenti di esseri umani prima di quell'epoca, una conclusione sicuramente non confermata dai fatti. È chiaro che ci sono modi per spiegare questa discrepanza, ma io preferisco qui limitarmi semplicemente a registrare questa anomalia.
Non dovremmo concludere questa discussione dell'erosione dell'analogo «io» senza menzionare l'angoscia tremenda che ad essa si accompagna nella nostra cultura e il tentativo, che a volte ha successo e altre volte no, di arrestare questa terrificante dissoluzione della parte più importante del nostro sé interiore, il centro quasi sacramentale della decisione cosciente. E anzi, gran parte dei comportamenti che non hanno nulla a che fare con un ritorno alla mente bicamerale può essere interpretata come uno sforzo per combattere questa perdita dell'analogo «io».
A volte, per esempio, c'è quello che è chiamato il sintomo «io sono». Il paziente, nel tentativo di mantenere un qualche controllo sul suo comportamento, ripete continuamente a se stesso «io sono», o «io sono quello presente in tutto», o «io sono la mente, non il corpo». Un altro paziente, nel tentativo di trovare qualcosa cui aggrapparsi per evitare la dissoluzione della sua coscienza, può forse usare solo parole singole, come «forza» o «vita».385
La dissoluzione dello spazio mentale
Uno schizofrenico non comincia a perdere solo il suo «io» ma anche il suo spazio mentale, il paraferendo puro che abbiamo del mondo e dei suoi Oggetti, il quale nell'introspezione ci appare simile a uno spazio. Il paziente lo sente come una sorta di perdita dei suoi pensieri, o di «privazione del pensiero», un'espressione che trova un consenso immediato nello schizofrenico. L'effetto di questo fenomeno è connesso così strettamente con l'erosione dell'analogo «io» da risultarne inseparabile. I pazienti hanno difficoltà a pensare a se stessi in relazione al luogo ove sono, cosicché sono incapaci di utilizzare informazioni per prepararsi in anticipo a cose che potrebbero accader loro.
Un modo in cui questo fatto può essere osservato sperimentalmente è in studi sui tempi di reazione. Tutti gli schizofrenici di ogni tipo si rivelano molto meno abili delle persone normalmente coscienti quando tentano di rispondere a stimoli presentati loro a intervalli di tempo di varia durata. Lo schizofrenico, essendo privo di un analogo «io» integro e di uno spazio mentale in cui raffigurare se stesso nell'atto di fare qualcosa, non può «prepararsi» a rispondere e, quando risponde, è incapace di variare la risposta secondo le esigenze del compito. 386 Un paziente che ha scelto blocchi da costruzione in base alla forma, quando gli viene chiesto di suddividerli in un altro modo, può rivelarsi incapace di farlo in base al colore.
Similmente, la perdita dell'analogo «io» e dello spazio mentale relativo provoca la perdita dei comportamenti «come-se». Non potendo immaginare nel modo cosciente consueto, lo schizofrenico non può simulare un comportamento o compiere azioni per finta o parlare di eventi immaginari. Egli non può, per esempio, fingere di bere acqua da un bicchiere se nel bicchiere non c'è acqua. Oppure, se gli viene chiesto che cosa farebbe se fosse lui il medico, può rispondere che non è un medico. E un paziente celibe, se gli si chiedesse che cosa farebbe se fosse sposato, potrebbe rispondere di non essere sposato. Di qui la sua difficoltà col comportamento «come-se» dell'ipnosi, come ho accennato alla fine del capitolo precedente.
La dissoluzione dello spazio mentale si manifesta anche nel disorientamento rispetto al tempo, così comune negli schizofrenici. Noi possiamo essere coscienti del tempo solo in quanto lo disponiamo in una successione spaziale, ma ciò diventa difficile o impossibile con la diminuzione dello spazio mentale della schizofrenia. Per esempio, taluni pazienti possono lagnarsi che «il tempo si è fermato», o che tutto sembra essere «rallentato» o «sospeso», o più semplicemente si lamentano di avere «difficoltà col tempo». Come ricordò dopo la guarigione un ex paziente: «Per molto tempo nessun giorno mi parve come un giorno e nessuna notte come una notte. Ma ciò in particolare non ha alcuna forma nel mio ricordo. Ero solito calcolare l'ora in relazione ai pasti, ma poiché credevo che in ogni giorno reale venissero serviti numerosi pasti – una mezza dozzina circa di prime colazioni, di pranzi, di merende e di cene ogni dodici ore –, questo sistema di giudicare l'ora non mi era di molto aiuto».387
A tutta prima ciò potrebbe sembrare inconciliabile con l'ipotesi che la schizofrenia sia una ricaduta parziale nella mente bicamerale. L'uomo bicamerale, infatti, conosceva certamente le ore del giorno e le stagioni dell'anno. Questa conoscenza era però, secondo me, molto diversa dalla narratizzazione in un tempo spazialmente sequenziale, che è l'attività mentale costante delle persone coscienti. L'uomo bicamerale aveva una conoscenza di tipo comportamentale: alzarsi la mattina e andare a dormire la sera, seminare e iniziare il raccolto erano fatti in risposta a segnali, i quali erano così importanti da essere venerati, come a Stonehenge, e da essere probabilmente allucinogeni. Per chiunque appartenga a una cultura in cui l'attenzione a tali indizi è stata soppiantata da un senso diverso del tempo, perdere il senso di sequenza spazializzata significa trovarsi in un mondo relativamente atemporale. A questo proposito è interessante il fatto che, quando a soggetti normali sotto ipnosi viene suggerito che il tempo non esiste, si ha una risposta di tipo schizofrenico.388
Il venir meno della narratizzazione
Con l'erosione dell'analogo «io» e del suo spazio mentale, la narratizzazione diventa impossibile. È come se tutto quello che nello stato normale veniva narratizzato si frantumasse in associazioni subordinate forse a qualche cosa di generale, ma non connesse, come nella narratizzazione normale, ad alcun fine o scopo concettuale unificante. Diviene allora impossibile fornire ragioni logiche per determinati comportamenti, e le risposte verbali alle domande non hanno origine in alcuno spazio mentale interiore ma in semplici associazioni o nelle circostanze esterne di una conversazione. Non può più esistere l'intera idea che una persona possa spiegare se stessa, cosa che nell'epoca bicamerale era distintamente la funzione degli dèi.
Con la perdita dell'analogo «io», del suo spazio mentale e della capacità di narratizzare, il comportamento o risponde a ordini ricevuti in forma allucinatoria o continua facendosi guidare dall'abitudine. Il poco sé che rimane ha l'impressione di essere una specie di automa comandato dall'esterno, come se fosse un altro a far muovere il corpo. Anche se non riceve ordini in forma allucinatoria, il paziente può avere la sensazione di essere comandato in modi tali da non poter non obbedire. Egli può stringere normalmente la mano a un visitatore, ma, quando gli vengono fatte domande in proposito, risponde: «Non sono io a farlo, è la mano che si offre da sola». Oppure può avere la sensazione che qualcun altro stia muovendo la sua lingua quando parla, specialmente nel caso della coprolalia, quando parole scatologiche o oscene vengono sostituite ad altre parole. Persino nelle prime fasi della schizofrenia il paziente sente ricordi, musica o emozioni, gradevoli o sgradevoli, che sembrano essergli imposti da una qualche fonte esterna e sui quali 'lui' non ha quindi alcun controllo. Questo sintomo è estremamente comune e ha un grande valore diagnostico. E queste influenze estranee si sviluppano poi spesso nelle allucinazioni conclamate di cui ci siamo già occupati.
Secondo Bleuler, «raramente sentimenti coscienti si accompagnano agli automatismi, che sono manifestazioni psichiche scisse dalla personalità. I pazienti possono danzare e ridere senza sentirsi felici; possono commettere delitti senza odiare; suicidarsi senza essere delusi della vita… I pazienti si rendono conto di non essere i padroni di se stessi».389
Molti pazienti si limitano semplicemente a consentire l'instaurarsi di tali automatismi. Altri, ancora in grado di narratizzare marginalmente, escogitano sistemi protettivi contro un tale controllo estraneo delle loro azioni. In questa categoria rientra secondo me il negativismo, anche in pazienti nevrotici. Uno fra i pazienti di Bleuler, per esempio, che era spinto interiormente a cantare, riuscì a impadronirsi di un cubetto di legno che si cacciava a forza nella bocca per farla tacere. Non sappiamo se tali automatismi e comandi interni siano sempre il risultato di voci allucinatorie che dirigono il paziente nelle sue azioni, come suggerirebbe l'ipotesi di una ricaduta nella mente bicamerale. Del resto potrebbe essere impossibile sapere se sia veramente così, perché il frammento staccato della personalità che risponde ancora al medico potrebbe avere soppresso i comandi bicamerali che vengono «uditi» da altre parti del sistema nervoso.
In molti pazienti questa situazione si rivela attraverso il sintomo detto «automatismo di comando». Il paziente obbedisce a qualsiasi suggerimento e comando proveniente dall'esterno. Egli è incapace di sottrarsi a ordini brevi impartiti con tono autoritario, anche se in altre situazioni si rivela negativistico. Tali ordini devono riguardare attività semplici e non possono applicarsi a compiti lunghi e complessi. La ben nota flessibilità cerea dei catatonici potrebbe rientrare in questa categoria: il paziente obbedisce in realtà al medico rimanendo in qualsiasi posizione venga messo. Benché non tutti questi fenomeni siano ovviamente tipici di quella che abbiamo designato come mente bicamerale, lo è il principio che sta alla loro base. Un'ipotesi interessante potrebbe essere che i pazienti che presentano un tale automatismo di comando siano quelli in cui mancano le allucinazioni uditive, le quali sarebbero sostituite in questo caso dalla voce esterna del medico.
In accordo con tale ipotesi è il sintomo noto come ecolalia. In assenza di allucinazioni, il paziente ripete parole, grida o espressioni di altri. Quando invece sono presenti allucinazioni, queste si trasformano nell'ecolalia allucinatoria, nella quale il paziente deve ripetere a voce alta tutto ciò che gli dicono le sue voci, anziché le voci pronunciate nell'ambiente circostante. L'ecolalia allucinatoria dovrebbe essere essenzialmente, secondo me, la stessa organizzazione mentale che abbiamo visto nei profeti dell'Antico Testamento e negli aedi dei poemi omerici.
Disturbi del confine dell'immagine corporea
L'erosione dell'analogo «io» e del suo spazio mentale può condurre anche a quella che negli studi di Rorschach sulla schizofrenia è chiamata «perdita del confine». Si tratta di un punteggio che viene assegnato alla percentuale di immagini riconosciute nelle macchie d'inchiostro che hanno confini o margini vagamente definiti, confusi o inesistenti. La cosa più interessante per noi qui è che questa percentuale è fortemente correlata con la presenza di vivide esperienze allucinatorie. Un paziente che presenti punteggio alto spesso descrive la perdita del confine come un senso di disintegrazione:
«Quando mi sto dissolvendo non ho mani, mi metto nel vano di una porta per non essere calpestato. Ogni cosa fugge via da me. Sulla soglia della stanza posso raccogliere assieme i pezzi del mio corpo. È come se qualcosa venisse gettato in me, mi facesse esplodere in pezzi. Perché mi divido in pezzi diversi? Sento che sono senza equilibrio, che la mia personalità si sta squagliando e che il mio io scompare e io non esisto più. Tutto mi fa a pezzi… La pelle è l'unico mezzo possibile per mantenere assieme i vari pezzi. Non c'è alcuna connessione fra le diverse parti del mio corpo».390
In uno studio sulla perdita del confine, il test di Rorschach fu assegnato a 80 pazienti schizofrenici. I punteggi sulla precisione del confine furono significativamente più bassi che nel gruppo di persone normali e nevrotiche accoppiate per età e per posizione socioeconomica. I pazienti schizofrenici vedevano di solito nelle macchie d'inchiostro corpi mutilati di animali o di esseri umani. 391 Questo risultato riflette il disgregarsi del sé analogale, o immagine-metafora che noi abbiamo di noi stessi nella coscienza. In un altro studio di 604 pazienti nel Worcester State Hospital, si trovò specificamente che la perdita del confine, comprendente, possiamo presumerlo, la perdita dell'analogo «io», è un fattore nello sviluppo delle allucinazioni. I pazienti che avevano più allucinazioni erano quelli che avevano meno successo nello stabilire dei «confini fra il sé e il mondo».392
Lungo la stessa linea di pensiero, i pazienti schizofrenici cronici sono a volte incapaci di identificare se stessi in una fotografia, o possono identificarsi erroneamente in fotografie individuali o di gruppo.
I vantaggi della schizofrenia
Questo è un titolo certamente curioso: come possiamo infatti dire che ci siano dei vantaggi in una malattia così terribile? Io intendo però tali vantaggi alla luce dell'intera storia umana. È chiaro che nella biochimica che sta alla radice di questa reazione allo stress radicalmente diversa da quella normale c'è una base genetica ereditaria. E una domanda che ci si deve porre a proposito di una tale disposizione genetica a qualcosa che ha luogo così presto nei nostri anni riproduttivi è: quale vantaggio biologico essa ebbe un tempo? Perché, per usare la terminologia evoluzionistica, fu selezionata? E in quale periodo, molto, molto tempo fa, dal momento che tale disposizione genetica è presente oggi in tutto il mondo?
La risposta, ovviamente, si trova in uno dei temi su cui ho tanto insistito in questo libro. Il vantaggio selettivo di tali geni era la mente bicamerale, sviluppata per selezione naturale e umana nel corso dei millenni della nostra antica civiltà. I geni implicati, siano essi causa di quella che, per gli uomini coscienti, è una carenza di enzimi o di altro, sono i geni alla base del comportamento dei profeti e dei «figli di nabiim», e prima di loro dell'uomo bicamerale.
Un altro vantaggio, forse evolutivo, della schizofrenia è l'instancabilità. Benché alcuni schizofrenici si lamentino di essere sempre stanchi, particolarmente nelle prime fasi della malattia, la maggior parte dei pazienti non si lagnano. Anzi, sembrano affaticarsi meno delle persone normali e sono capaci di grandissime prestazioni di resistenza. Sottoposti a esami che durano molte ore, non danno segno di affaticamento. Possono muoversi giorno e notte, o lavorare senza fine senza mostrare alcun segno di stanchezza. I catatonici possono conservare per giorni una posizione scomoda che noi non potremmo mantenere per più di qualche minuto. Questo fatto fa pensare che la fatica sia in gran parte un prodotto della mente cosciente soggettiva, e che l'uomo bicamerale, costruendo le piramidi d'Egitto, le ziqqurat di Sumer o i templi giganteschi di Teotihuacàn con le sole mani, fosse in grado di compiere lavori del genere molto più facilmente degli uomini coscienti autoriflessivi.
Un'altra cosa in cui gli schizofrenici appaiono «migliori» degli altri – benché senza dubbio essa non rappresenti un vantaggio nelle complessità del nostro mondo fondato sull'astrazione – è la semplice percezione sensoriale. Gli schizofrenici sono molto più pronti a reagire agli stimoli visivi, come del resto ci si potrebbe attendere se si pensa che non devono filtrare tali stimoli attraverso la coscienza. Lo vediamo con l'elettroencefalogramma, nella loro capacità di bloccare le onde alfa dopo uno stimolo improvviso più rapidamente di persone normali, e di riconoscere scene proiettate su uno schermo, durante la loro messa a fuoco, assai meglio delle persone normali. 393 E anzi, gli schizofrenici sono quasi sommersi da una grande quantità di dati sensoriali. Incapaci di narratizzare o di conciliare, vedono ogni albero ma non scorgono mai la foresta. Essi sembrano avere una partecipazione più immediata e assoluta al loro ambiente fisico, un essere-nel-mondo più forte. Una tale interpretazione potrebbe essere data, per lo meno, al fatto che gli schizofrenici muniti di occhiali a prisma che deformano la percezione imparano ad adattarsi più facilmente del resto di noi, dato che non ipercompensano nella stessa misura.394
La neurologia della schizofrenia
Se la schizofrenia è in parte una ricaduta nella mente bicamerale, e se le nostre analisi precedenti hanno qualche merito, dovremmo trovare mutamenti neurologici di qualche tipo in accordo col mio modello neurologico (libro I, cap. v). Ivi sostenni che le voci allucinatorie della mente bicamerale sono un amalgama di esperienze ammonitorie memorizzate, organizzate in qualche modo nel lobo temporale destro e trasmesse nell'emisfero sinistro o dominante attraverso le commissure anteriori e forse attraverso il corpo calloso.
Ho detto inoltre che l'avvento della coscienza necessitava un'inibizione di queste allucinazioni uditive originantisi nella corteccia temporale destra. Che cosa ciò significhi precisamente in senso neuroanatomico è però tutt'altro che chiaro. Noi sappiamo con precisione che ci sono aree specifiche del cervello che ne inibiscono altre, che l'intero cervello si trova sempre, in modo molto generale, in una sorta di complessa tensione (o equilibrio) fra eccitazione e inibizione, e anche che l'inibizione può verificarsi in un certo numero di modi diversi. Uno di essi è l'inibizione di un'area di un emisfero per eccitazione di un'area dell'altro. I campi oculari frontali, per esempio, si inibiscono reciprocamente, così che la stimolazione del campo oculare frontale di un emisfero inibisce l'altro. 395 E possiamo supporre che in qualche misura parte delle fibre del corpo calloso che connette i campi oculari frontali siano esse stesse inibitorie, o altrimenti che eccitino centri inibitori nell'emisfero opposto. Nel comportamento ciò significa che il guardare in una certa direzione è programmato come il vettore risultante dall'eccitazione opposta dei due campi oculari frontali. 396 E si può presumere che questa reciproca inibizione degli emisferi operi in varie altre funzioni bilaterali.
Ma estendere questa inibizione reciproca a funzioni unilaterali simmetriche è cosa molto più arrischiata. Possiamo supporre, per esempio, che un qualche processo mentale nell'emisfero sinistro sia accoppiato in un rapporto di reciproca inibizione con qualche funzione diversa nel destro, cosicché alcuni fra i cosiddetti processi mentali superiori possano essere le risultanti della funzione dei due opposti emisferi?
In ogni modo, il primo passo per dare una qualche credibilità a queste idee sul rapporto della schizofrenia con la mente bicamerale e col suo modello neurologico consiste nel ricercare una qualche differenza di lateralità negli schizofrenici. Tali pazienti hanno un'attività dell'emisfero destro diverga rispetto agli altri? Le ricerche su questa ipotesi sono solo agli inizi, ma i seguenti studi recentissimi sono interessanti se non altro per le indicazioni che danno.
1) Nella maggior parte di noi, l'EEG totale su un periodo di tempo lungo mostra un'attività lievemente maggiore nell'emisfero sinistro dominante che non nell'emisfero destro. Nella schizofrenia tende invece a prodursi l'inverso, ossia un'attività lievemente maggiore nell'emisfero destro.397
2) Quest'accresciuta attività dell'emisfero destro nella schizofrenia è molto più pronunciata dopo vari minuti di privazione sensoriale, la stessa condizione che causa allucinazioni in persone normali.
3) Se regoliamo l'elettroencefalografo in modo che possa dirci quale dei due emisferi è più attivo ogni pochi secondi, troviamo che nella maggior parte di noi questa misura oscilla fra un emisfero e l'altro una volta circa al minuto. Negli schizofrenici esaminati finora, invece, l'oscillazione si verifica solo una volta ogni quattro minuti circa, un intervallo sorprendentemente lungo. Ciò potrebbe essere una parte della spiegazione del fatto, cui ho accennato in precedenza, che gli schizofrenici tendono a «bloccarsi» in un emisfero e quindi non riescono a passare da un modo di elaborazione dell'informazione a un altro con la stessa rapidità del resto di noi. Di qui la loro confusione e il loro linguaggio e comportamento spesso illogici nella loro interazione con noi, che presentiamo un'oscillazione molto più rapida da un emisfero all'altro.398
4) Può darsi che la spiegazione di questo spostamento più lento da un emisfero all'altro nella schizofrenia sia di tipo anatomico. Una serie di autopsie di schizofrenici a lungo termine hanno rivelato, sorprendentemente, che il corpo calloso che connette i due emisferi era di 1 mm più spesso rispetto a quello di persone normali. Questo è un risultato statisticamente attendibile. Una tale differenza potrebbe significare che negli schizofrenici c'è una maggiore inibizione reciproca degli emisferi. 399 In questo studio non furono misurate le commissure anteriori.
5) Se la nostra teoria è esatta, ogni disfunzione estesa della corteccia temporale sinistra dovuta a malattia, mutamenti circolatori, o alterazioni della sua neurochimica indotte da stress, dovrebbe sottrarre la corteccia temporale destra al suo normale controllo inibitorio. Quando un'epilessia da lobo temporale è causata da una lesione al lobo temporale sinistro (o al sinistro e al destro), liberando in tal modo (presumibilmente) il lobo destro dalla sua inibizione normale, un buon 90 per cento dei pazienti sviluppa una schizofrenia paranoide con massicce allucinazioni uditive. Quando la lesione riguarda solo il lobo temporale destro, meno del 10 per cento dei pazienti sviluppa tali sintomi. Anzi, quest'ultimo gruppo tende a sviluppare una psicosi maniaco-depressiva.400
Questi risultati abbisognano di essere confermati e investigati ulteriormente. Nell'insieme essi indicano però, fuori di ogni dubbio e per la prima volta, l'esistenza di significativi effetti di lateralità nella schizofrenia. E la direzione di questi effetti può essere interpretata come una prova parziale del fatto che la schizofrenia potrebbe essere connessa con un'organizzazione più antica del cervello umano, che io ho designato come la mente bicamerale.
In conclusione
La schizofrenia è uno fra i nostri problemi di ricerca moralmente prioritari, tale è l'angoscia che essa diffonde sia in coloro che ne sono affetti sia nei loro cari. Nei decenni recenti si è osservato con gratitudine un miglioramento notevole e sempre più rapido nel modo in cui questa malattia viene trattata. Esso non si è verificato però nella scia di teorie nuove e talvolta vistose come la mia, ma piuttosto negli aspetti pratici e comuni della terapia quotidiana.
In effetti le teorie sulla schizofrenia – e ce ne sono legioni –, essendo state troppo spesso l'argomento favorito di punti di vista contrastanti si sono in gran parte danneggiate da sole. Ogni disciplina interpreta le scoperte delle altre discipline come secondarie rispetto ai fattori della propria area. Il ricercatore socioambientalista vede nello schizofrenico il prodotto di un ambiente stressante. Il biochimico insiste a dire che l'ambiente stressante esercita il suo effetto solo in conseguenza di una biochimica anormale del paziente. Coloro che si esprimono in termini di elaborazione dell'informazione dicono che una carenza in questo ambito conduce direttamente a stress e a difese contro lo stress. Lo psicologo dei meccanismi di difesa considera la diminuita capacità di elaborare l'informazione come un ritiro automotivato dal contatto con la realtà. Il genetista dà interpretazioni ereditarie sulla base di dati concernenti la storia familiare, mentre altri possono sviluppare, a partire dagli stessi dati, interpretazioni sul ruolo di un'influenza parentale schizofrenogena, e così via. Per servirci delle parole di un critico: «Come quando si va sulla giostra, si sceglie il proprio cavallo. Quando la giostra è in moto, si può fingere che il proprio cavallo sia in testa. Poi, quando la giostra si ferma, si deve constatare che il cavallo non è andato in realtà in nessun luogo».401
È perciò con un po' di presunzione che io aggiungo qui un altro carico a questo elenco già pesante. Ma mi sono sentito spinto a farlo, non foss'altro per la responsabilità di completare e chiarire i suggerimenti dati nelle parti precedenti di questo libro. La schizofrenia infatti, sia essa una malattia o molte, nella sua fase conclamata è definita in pratica da certe caratteristiche che abbiamo identificato in precedenza come le caratteristiche salienti della mente bicamerale. La presenza di allucinazioni uditive, la loro qualità spesso religiosa e sempre autoritaria, la dissoluzione dell'io, o analogo «io»^ e dello spazio mentale in cui esso poteva un tempo narratizzare che cosa fare e dove si situava nel tempo e nell'azione, queste sono le grandi somiglianze.
Ma ci sono anche grandi differenze. Se in questa ipotesi c'è qualche verità, la ricaduta nella mente bicamerale è solo parziale. Le nozioni apprese che costituiscono la coscienza soggettiva sono potenti e non vengono mai soppresse del tutto. Di qui il terrore e la furia, la sofferenza e la disperazione. L'angoscia che si accompagna a un mutamento così catastrofico, la dissonanza con la struttura abituale delle relazioni interpersonali e la mancanza di un supporto e di una definizione culturali per le voci, che diventano in tal modo guide inadatte per la vita quotidiana, il bisogno di difendersi contro una valanga di stimolazioni sensoriali ambientali che travolge ogni cosa davanti a sé, producono un ritiro sociale che è qualcosa di molto diverso dal comportamento dell'individuo assolutamente sociale delle società bicamerali. L'uomo cosciente si serve continuamente dell'introspezione per trovare «se stesso» e sapere dove si trova, un'informazione che è pertinente ai suoi obiettivi e alla sua situazione. E non potendo più contare su questa sorgente di sicurezza, privato della narratizzazione, vivendo con allucinazioni che sono inaccettabili e negate come irreali da coloro che lo circondano, lo schizofrenico conclamato si trova a vivere in un mondo opposto a quello degli schiavi di proprietà del dio Marduk o degli idoli di Ur.
Lo schizofrenico moderno è un individuo in cerca di una tale cultura. Egli conserva però di solito una qualche parte della coscienza soggettiva che lotta contro questa organizzazione mentale più primitiva, che cerca di stabilire un qualche controllo entro un'organizzazione mentale che dovrebbe essere controllata dalle allucinazioni. In realtà, egli è una mente che si offre nuda al suo ambiente, in attesa di dèi in un mondo che ne è privo.