IV. Una nuova mente in mesopotamia
Attorno al 1230 a.C. il tiranno assiro Tukulti-Ninurta I fece costruire un altare in pietra che è vistosamente diverso da tutti i monumenti precedenti nella storia del mondo. Nel rilievo scolpito sul lato anteriore, Tukulti è raffigurato due volte, la prima volta mentre si avvicina al trono del suo dio e la seconda mentre si inginocchia dinanzi ad esso. La stessa doppia immagine sottolinea clamorosamente questo atteggiamento di umiltà ignoto in qualsiasi altro re precedente. Mentre il nostro sguardo discende dal re in piedi al re inginocchiato, la scena acquista movimento come in un film: una scoperta artistica notevolissima. Ancora più notevole è però il fatto che il trono dinanzi a cui si prostra questo primo crudele conquistatore assiro è vuoto.
Nessun re era mai stato raffigurato prima in ginocchio. Né mai in tutta la storia alcuna scena scolpita o dipinta aveva indicato prima un dio assente. La mente bicamerale era crollata.
Hammurabi, come abbiamo visto (p. 245), viene sempre raffigurato in piedi in atto di ascoltare con attenzione un dio ben presente. E innumerevoli sigilli cilindrici dello stesso periodo presentano altri personaggi che ascoltano, gli occhi negli occhi, figure non meno reali di dèi in forma umana, o che vengono loro presentati. L'altare di Tukulti rinvenuto ad Assur forma uno sconvolgente contrasto con tutte le raffigurazioni precedenti dei rapporti fra dèi e uomini. Né si tratta semplicemente di una qualche forma di espressione artistica personale. Altre scene su altari raffiguranti Tukulti-Ninurta sono similmente prive di dèi. E anche i sigilli cilindrici del periodo di Tukulti mostrano il re che si avvicina ad altre divinità non presenti, rappresentate talvolta da un simbolo. Tali confronti fanno decisamente pensare che il crollo della mente bicamerale in Mesopotamia si collochi in un qualche periodo fra Hammurabi e Tukulti.
Quest'ipotesi è confermata nei documenti in caratteri cuneiformi di Tukulti e del suo periodo che si sono conservati. Quello che è noto come l'Epos di Tukulti-Ninurta203 è il primo documento cuneiforme degno di nota chiaramente datato e ben conservato dopo il periodo di Hammurabi. Ai tempi di quest'ultimo non sussiste alcun dubbio circa la costante presenza degli dèi fra gli uomini, la guida divina delle attività umane. Ma all'inizio del poema epico, in qualche misura propagandistico, su Tukulti, gli dèi delle città babilonesi sono adirati col re di Babilonia per la negligenza cui sono fatti segno. Essi perciò abbandonano le loro città, lasciando gli abitanti senza una guida divina, cosicché la vittoria degli eserciti assiri di Tukulti è assicurata. Questa concezione di dèi che abbandonano i loro schiavi umani sarebbe stata impossibile in qualsiasi circostanza nella Babilonia di Hammurabi. Essa rappresenta qualcosa di nuovo nel mondo.
![immagini13](/epubstore/J/J-Jaynes/Il-Crollo-Della-Mente-Bicamerale-E-Lorigine-Della-Coscienza/OEBPS/images/immagini13.jpg)
Rilievo sul lato anteriore dell'Altare di Tukulti-Ninurta I, oggi conservato al Museo di Berlino. Tukulti è raffigurato prima in piedi e poi inginocchiato davanti al trono vuoto del suo dio. Si noti l'enfasi dell'indice puntato.
La ritroviamo, inoltre, in quanto rimane dei testi degli ultimi tre secoli del II millennio a.C.
Chi non ha un dio, quando cammina per la strada, il mal di capo lo avvolge come un mantello,
dice una tavoletta più o meno contemporanea a Tukulti.
Se il crollo della mente bicamerale comportò l'involontaria inibizione di talune aree del lobo temporale dell'emisfero destro, come abbiamo congetturato in precedenza, quest'affermazione è ancora più interessante.
Pressappoco allo stesso periodo risalgono le famose tre tavolette, più una quarta tavoletta dubbia, chiamate, dalle prime parole, Ludlul bel nemeqi, solitamente tradotto come «Elogerò il signore della sapienza». Qui «sapienza» è un'imposizione moderna ingiustificata. La traduzione dovrebbe essere qualcosa di più vicino a «capacità» o «abilità di controllare la sfortuna», e qui il signore è Marduk, il dio supremo di Babilonia. I primi versi completamente leggibili della prima tavoletta, che è danneggiata, sono:
Il mio dio mi ha abbandonato ed è scomparso,
la mia dea mi è venuta meno e si tiene lontana.
Il buon angelo che camminava al mio fianco se ne è andato.
Questo è di fatto il crollo della mente bicamerale. Chi parla è Shubshi-Meshre-Shakkan (come ci dice la terza tavoletta), un signore feudale forse durante il regno di Tukulti. Egli passa poi a descrivere come, con la partenza dei suoi dèi, il suo re si sia adirato irreconciliabilmente con lui, come la sua posizione feudale di signore di una città gli sia stata tolta e come egli sia diventato un reietto sociale. La seconda tavoletta descrive come, nel suo stato di senza dio, egli sia il bersaglio di ogni infermità e di ogni sfortuna. Perché gli dèi lo hanno abbandonato? Ed egli cataloga le prostrazioni, le preghiere e i sacrifici che non sono riusciti a farli ritornare. Ha consultato sacerdoti e auguri, ma ancora
Il mio dio non è venuto in mio aiuto prendendomi per mano, né la mia dea mi ha mostrato pietà camminando al mio fianco.
Nella terza tavoletta egli si rende conto che dietro tutto ciò che gli sta accadendo c'è l'onnipotente Marduk. Nei sogni, gli angeli di Marduk gli appaiono in modo bicamerale, e gli recano messaggi di consolazione e promesse di prosperità da parte dello stesso Marduk. Avuta questa assicurazione, Shubshi è libero dalle sue difficoltà e infermità e si reca al tempio di Marduk a ringraziare il grande dio che «fece spazzar via dal vento le mie offese».
Risuonano qui per la prima volta i grandi temi delle religioni del mondo. Perché gli dèi ci hanno lasciato? Come amici che si allontanano da noi, devono essere stati offesi. Le nostre avversità sono le punizioni inflitteci per tali offese. Ci inginocchiamo per chiedere perdono e troviamo la redenzione nel ritorno, sotto qualche forma, della parola di un dio. Questi aspetti della religione del nostro tempo trovano una spiegazione nella teoria della mente bicamerale e nel suo crollo durante questo periodo.
Il mondo conosce da moltissimo tempo regole e doveri di origine divina, a cui l'uomo deve obbedire. Ma l'idea di giusto e di sbagliato, l'idea di un uomo buono, della redenzione dal peccato e del perdono divino ha inizio solo in questa domanda cui non è facile rispondere sul perché non si possano più udire le parole di guida allucinatorie.
Lo stesso tema dominante della perdita degli dèi si fa sentire a gran voce nelle tavolette note come Teodicea babilonese.204 Questo dialogo fra un sofferente e l'amico che gli dà consigli è chiaramente di data più tarda, forse attorno al 900 a.C., ma riecheggia gli stessi lamenti. Perché gli dèi ci hanno lasciato? E, dal momento che controllano tutto, perché ci hanno mandato tante sventure? Il poema lascia trasparire anche un senso nuovo dell'individuo o di quello che chiameremo un sé analogale denotante una nuova coscienza. Esso termina col grido che è riecheggiato in tutta la storia successiva:
Possano gli dèi che mi hanno ripudiato darmi aiuto,
possa la dea che mi ha abbandonato mostrare clemenza.
Di qui ai salmi dell'Antico Testamento il passo non è lungo. In nessuna letteratura precedente a questi testi vi è la benché minima traccia di tali preoccupazioni.
Le conseguenze della scomparsa delle allucinazioni uditive dalla mente umana sono profonde e diffuse, e si presentano a vari livelli. Tanto per cominciare, c'è la confusione dell'autorità stessa. Che cos'è l'autorità? I sovrani senza dèi che li guidino sono incostanti e insicuri. Fanno ricorso ai presagi e alla divinazione, cose di cui ci occuperemo fra poco. E, come ho menzionato in precedenza, la crudeltà e l'oppressione diventano i modi in cui un sovrano impone ai sudditi il suo governo in assenza di allucinazioni uditive. L'autorità stessa del re, in assenza di dèi, può essere contestata, rendendo possibile la ribellione in senso moderno.
Proprio questo nuovo tipo di ribellione fu ciò cui si trovò di fronte lo stesso Tukulti. Egli aveva fondato una nuova capitale per l'Assiria al di là del Tigri, di fronte ad Assur, e, incurante degli dèi, le aveva dato il proprio nome, Kar-Tukulti-Ninurta. Ma i nobili più conservatori, guidati dal suo figlio ed erede, lo imprigionarono nella sua nuova città e poi la incendiarono, facendo entrare con tale morte fiammeggiante il suo regno nella leggenda. (Tukulti-Ninurta balena nella cupa storia dell'Antico Testamento come Nimrod [Genesi, 10, 8-10]205 e nei miti greci come re Nino206). Disordini e caos sociale si erano ovviamente verificati anche in precedenza, ma è impossibile immaginare un tale premeditato ammutinamento e parricidio regale nelle gerarchie obbedienti agli dèi dell'epoca bicamerale.
Ma importanza molto maggiore hanno gli inizi di alcuni nuovi temi culturali che sono reazioni a questo crollo della mente bicamerale e della sua divina autorità. La storia non procede per balzi da uno stato di cose a un altro completamente nuovo: essa muove invece ponendo un accento selettivo su aspetti del suo passato immediato. E questi nuovi aspetti della storia umana in risposta alla perdita dell'autorità divina sono tutti selezioni e sviluppi di tratti dell'epoca bicamerale.
La preghiera
Nella mente bicamerale classica, ossia prima del suo indebolimento per opera della scrittura attorno al 2500 a.C., non c'era, secondo me, alcuna incertezza nelle voci allucinatorie e nessuna occasione quindi per la preghiera. Dinanzi a una situazione nuova ovvero a uno stato di stress una voce diceva che cosa si doveva fare. Certamente è così nei pazienti schizofrenici attuali che soffrono di allucinazioni: essi non pregano per udire le loro voci, non ne hanno bisogno. I pochi che lo fanno, lo fanno durante la guarigione, quando le voci non vengono più sentite con la stessa frequenza. Ma quando le civiltà e le loro relazioni diventano più complesse, verso la fine del ILI millennio a.C., di tanto in tanto viene chiesto agli dèi di rispondere a varie domande. Di solito, però, queste richieste sono diverse da ciò che noi intendiamo per preghiera. Esse consistono in una serie di imprecazioni stilizzate, come la comune clausola delle iscrizioni sulle statue: «Chiunque deturpi quest'immagine, possa Enlil distruggere il suo nome e spezzare la sua arma!», 207 o il genere di elogi che Gudea elargisce ai suoi dèi nelle iscrizioni sui grandi cilindri provenienti da Lagash. Un'eccezione notevole è costituita però dalle vere e proprie preghiere di Gudea, nel Cilindro A, alla madre divina, cui chiede di spiegargli il significato di un sogno. Questo fatto però, come molte altre cose nell'enigmatico Gudea, è eccezionale. Le preghiere come atto centrale importante del culto divino acquistano prominenza solo dal momento in cui gli dèi cessano di parlare all'uomo «faccia a faccia» (come si dice in Deuteronomio, 34, 10). Ciò che era nuovo al tempo di Tukulti-Ninurta diventa realtà quotidiana durante il I millennio a.C., il tutto in conseguenza, secondo me, del crollo della mente bicamerale. Una preghiera tipica comincia così: «Signore possente, famoso, che sa tutto, splendido, che si rinnova, perfetto, primogenito di Marduk… [e così via per altre righe di titoli e di attributi] che tiene saldi i luoghi di culto, che raccoglie a sé tutti i culti… [forse indicando in tal modo il caos della gerarchia di dèi, ora che non si riusciva più a udirne le voci] tu che sorvegli tutte le genti, tu che accogli le loro suppliche…». L'orante presenta poi se stesso e la sua richiesta: «Io, Baiasi, figlio del suo dio, il cui dio è Nabu, la cui dea è Tashmetu… io sono uno che è spossato, turbato, il cui corpo è molto malato, io mi inchino davanti a te… O signore, Saggio degli dèi, con la tua bocca ordina il bene per me. O Nabu, Saggio degli dèi, grazie alla tua bocca possa io andarmene vivo». 208 La forma generale della preghiera, che comincia con l'elogio enfatico del dio e si conclude con una richiesta personale, non è mutata sostanzialmente dai tempi dell'antica Mesopotamia a oggi. L'esaltazione del dio, l'idea stessa, anzi, di adorazione divina, è in contrasto col rapporto più concreto e quotidiano fra dio e uomo di un migliaio di anni prima.
Un'origine degli angeli
Nel cosiddetto periodo neosumerico, alla fine del III millennio a.C., le raffigurazioni, in particolare quelle sui sigilli cilindrici, abbondano di scene di «presentazione»: un dio minore, spesso di sesso femminile, presenta un individuo, presumibilmente il proprietario del sigillo, a un dio più importante. Questa situazione è del tutto in accordo con quella da noi ritenuta come probabile in un regno bicamerale, cioè che ogni individuo doveva avere il suo dio personale, che sembrava intercedere in suo favore presso dèi situati più in alto nella gerarchia. E questo tipo di scena di presentazione o di intercessione si protrae per una gran parte del II millennio a.C.
A un certo punto però si verifica un mutamento vistoso. Dapprima gli dèi principali scompaiono da tali scene, così come accade nell'altare di Tukulti-Ninurta. Poi subentra un periodo in cui il dio personale dell'individuo viene raffigurato in atto di presentare quest'ultimo solo al simbolo del dio. Quindi, alla fine del II millennio a.C., cominciano a mostrarsi, come intermediari e messaggeri fra gli dèi scomparsi e i loro seguaci afflitti, esseri ibridi che manifestano una fusione di caratteri di uomo e di uccello, a volte simili a un uomo barbuto dotato di due serie di ali, incoronato come un dio e spesso recante una sorta di borsa che contiene forse gli ingredienti per una cerimonia di purificazione. Questi presunti membri delle corti celesti si trovano con crescente frequenza sui sigilli cilindrici e sui rilievi assiri. Nei casi più antichi, tali angeli o genii, come li chiamano per lo più gli assiriologi, sono raffigurati in atto di presentare un individuo al simbolo di un dio, come nelle antiche scene di presentazione. Ma ben presto anche questo motivo viene abbandonato. E all'inizio del I millennio a.C. troviamo tali angeli in scene di ogni genere, a volte in compagnia di esseri umani, altre volte impegnati in varie lotte con altri esseri ibridi. A volte hanno testa di uccello; oppure sono tori alati o leoni alati con testa umana che vigilano su palazzi come quello di Nimrud nel IX secolo o sorvegliano le porte di Khorsabad nell'VIII secolo a.C. Oppure ancora sono raffigurati con la testa di falco e grandi ali distese, mentre seguono un re, con una pigna che è stata immersa in un secchiello, come in un rilievo del IX secolo a.C. raffigurante Assurnasirpal, una scena che fa pensare a un battesimo. In nessuna di queste raffigurazioni gli angeli sembrano parlare o gli esseri umani ascoltare. È una scena silenziosa in cui la realtà uditiva dell'atto bicamerale sta diventando una supposta e presunta relazione muta. Diventa, diremmo noi, mitologica.
I demoni
Ma gli angeli non bastavano per colmare il vuoto di iniziativa lasciato dagli dèi che stavano ritirandosi. Inoltre, essendo messaggeri dei grandi dèi, gli angeli erano associati di solito al re e ai suoi nobili. Per la gente comune, che non poteva più contare sull'aiuto degli dèi personali, un tipo molto diverso di esseri semidivini venne ora a proiettare un'ombra terribile sulla vita quotidiana.
Perché i demoni malevoli entrarono nella storia umana proprio in questo periodo? La parola, anche se incomprensibile, è il modo principale usato dall'uomo per salutare gli altri. E se non riceve risposta al suo accenno di saluto, l'uomo si prepara immediatamente a fronteggiare l'ostilità altrui. Se gli dèi personali mantengono il silenzio, devono essere irritati e ostili. Questa logica è all'origine dell'idea del male, che appare per la prima volta nella storia dell'umanità durante il crollo della mente bicamerale. Non potendo sussistere alcun dubbio sul fatto che gli dèi governano su di noi a loro arbitrio, che cosa possiamo fare per placare il loro desiderio di farci del male e per renderli nuovamente ben disposti verso di noi? Di qui la preghiera e il sacrificio, di cui ci siamo già occupati in questo capitolo, e di qui la virtù dell'umiltà dinanzi a un dio.
Man mano che gli dèi si allontanano diventando individui speciali detti profeti o oracoli, o comunicano oscuramente con gli uomini attraverso angeli e presagi, in questo vuoto di potere si insinua prontamente la credenza nei demoni. L'aria stessa della Mesopotamia ne fu oscurata. I fenomeni naturali assunsero caratteri ostili nei confronti degli uomini: un demone infuriato che spazzava il deserto nelle tempeste di sabbia, un demone del fuoco, uomini-scorpione che vigilavano sul sorgere del sole al di là delle montagne, Pazuzu il demone mostruoso del vento, il malvagio demone accovacciato, i demoni delle malattie e gli orribili demoni Asapper, che potevano essere tenuti lontani dai cani. I demoni erano pronti a ghermire un uomo o una donna in posti solitari, mentre dormivano o mangiavano o bevevano, o particolarmente alla nascita. Essi aggredivano gli uomini sotto forma di tutte le malattie dell'umanità. Persino gli dèi potevano essere attaccati dai demoni, e ciò spiegava talvolta la loro assenza dal controllo degli affari umani.
La protezione contro queste divinità malevole – qualcosa di inconcepibile nell'epoca bicamerale – assumeva molte forme. A cominciare dall'inizio del I millennio a.C. conosciamo molte migliaia di amuleti apotropaici, da portare al collo o al polso. Di solito essi raffigurano il demone particolare di cui si deve inibire il potere, sormontato forse da sacerdoti gesticolanti che pronunciano scongiuri; spesso recano anche, in basso, un testo di scongiuro che invoca i grandi dèi contro il paventato pericolo. Per esempio: «Incantesimo. Quello che si è avvicinato alla casa mi fa fuggire dal letto per lo spavento, mi strazia, mi fa vedere incubi. Al dio Bine, portinaio del mondo degli inferi, possano essi designarlo, per decreto di Ninurta principe del mondo degli inferi. Per decreto di Marduk, che risiede nell'Esagila a Babilonia. Porta e catenaccio sappiano che io sono sotto la protezione dei due Signori. Incantesimo».209 Innumerevoli rituali furono devotamente mormorati e mimati nell'intera Mesopotamia per tutto il I millennio a.C. per contrastare queste forze malevole. Gli dèi superiori venivano supplicati perché intervenissero a favore di chi li scongiurava. Tutte le malattie, i dolori e le sofferenze venivano attribuiti a demoni malevoli cosicché la medicina finì col trasformarsi in esorcismo. La maggior parte di quanto sappiamo su queste pratiche contro i demoni e sulla loro estensione deriva dall'enorme collezione raccolta da Assurbanipal a Ninive attorno al 630 a.C. Migliaia di tavolette superstiti già appartenenti a questa biblioteca descrivono tali esorcismi, altre migliaia elencano auspici su auspici, dandoci il quadro di una civiltà decadente, brulicante di demoni come un pezzo di carne in putrefazione brulica di mosche.
Un nuovo cielo
Come abbiamo visto in altri capitoli, gli dèi abitavano normalmente in luoghi precisi, anche se i loro servitori potevano udirne la voce in qualsiasi luogo. La loro dimora era di solito nelle ziqqurat o nelle cappelle domestiche. E benché alcuni dèi potessero essere associati a corpi celesti come il sole, la luna o le stelle, e i più grandi, come Anu, vivessero in cielo, la maggioranza degli dèi viveva sulla terra assieme agli uomini.
Questa situazione muta completamente all'inizio del I millennio a.C., quando, come io sostengo, le voci degli dèi smisero di farsi udire. Così come la terra era stata lasciata agli angeli e ai demoni, sembra cosa accettata che la dimora degli dèi, ormai assenti, fosse assieme ad Anu in cielo. Ecco perché gli angeli sono sempre raffigurati con ali: sono messaggeri che vengono dal cielo, dove vivono gli dèi. 210 L'uso della parola che significa cielo in congiunzione con gli dèi diviene sempre più comune nella letteratura assira. E quando, nel VII secolo a.C., viene incluso nelle storie di Gilgamesh il racconto del grande diluvio (l'origine del diluvio biblico), esso viene usato per spiegare la partenza degli dèi dalla terra:
Persino gli dèi furono terrorizzati dal diluvio.
Essi fuggirono e ascesero al cielo di Anu.211
Questa celestializzazione degli dèi, un tempo terreni, è confermata da un importante mutamento nella struttura delle ziqqurat. Come abbiamo visto (p. 222), le ziqqurat originarie della storia mesopotamica erano costruite attorno a una grande sala centrale detta gigunu, dove la statua del dio «viveva» nei rituali dei suoi schiavi umani. Ma alla fine del II millennio a.C. l'intero concetto della ziqqurat sembra essere mutato. Essa non presenta più ora una stanza centrale, e le statue degli dèi principali sono sempre meno circondate da complessi rituali. La torre sacra della ziqqurat è adesso infatti una base di atterraggio per facilitare la discesa in terra degli dèi da quel cielo verso cui erano svaniti. Lo sappiamo con precisione da testi del I millennio a.C., i quali contengono persino riferimenti alla «barca del cielo». La data esatta nella quale questo mutamento si verificò è difficile da determinare giacché le ziqqurat che si sono conservate hanno subito gravi danni e, peggio ancora, sono state talvolta «restaurate». Ritengo però che tutte le molte ziqqurat costruite dagli assiri a cominciare dal regno di Tukulti-Ninurta fossero di questo tipo: enormi piattaforme per il ritorno degli dèi dal cielo e non case per dèi terreni, com'era stato in precedenza.
La ziqqurat costruita nell'VIII secolo a.C. da Sargon per la sua grande nuova capitale sul sito dell'attuale Khorsabad doveva essere a sette livelli e doveva raggiungere un'altezza di 40 metri al di sopra della città circostante, come è stato calcolato sulla base di scavi recenti; sulla sua sommità doveva esserci un tempio ad Assur, che era ancora il dio padrone dell'Assiria, anche se la sua voce non veniva più udita. A Khorsabad non esistono altri templi dedicati al dio Assur. Dalla piattaforma non si discendeva, come nelle precedenti ziqqurat., per la solita scalinata, ma per una lunga rampa a spirale che si avvolgeva attorno al centro della torre, rampa lungo la quale avrebbe potuto scendere Assur se e quando fosse mai calato dal cielo per far ritorno alla città.
Similmente la ziqqurat di Nuova Babilonia, la biblica Torre di Babele, non era la casa di un dio come nell'epoca genuinamente bicamerale, ma un luogo di approdo per gli dèi ora trasferiti in cielo. Costruita nei secoli VII e VI a.C., era alta 90 metri, aveva anch'essa sette piani, e recava alla sua sommità un tempio rivestito di un brillante smalto azzurro e dedicato a Marduk. Il suo uso era indicato dal suo nome stesso, E-temen-an-ki: tempio (E) della piattaforma ricevente (temen) fra il cielo (an) e la terra (ki).212 II passo altrimenti privo di senso del Genesi (11, 2-9) è certamente una rielaborazione di una qualche leggenda neobabilonese di una tale discesa di Yahwèh, che, in compagnia di altri dèi, «discese per vedere la città e la torre» e poi confuse «il loro linguaggio, sicché l'uno non capisca il parlare dell'altro». Quest'ultima espressione potrebbe essere una narratizzazione della confusione tra le voci allucinatorie nel loro declino.
Nel V secolo a.C. Erodoto, sospinto da una curiosità instancabile, s'inerpicò su per le ripide scale e le rampe dell'Etemenanki per vedere se in cima ci fosse un dio o un idolo: come sul lato anteriore dell'altare di Tukulti-Ninurta non c'era altro che un trono vuoto.213
LA DIVINAZIONE
Finora ci siamo limitati a considerare le testimonianze del crollo della mente bicamerale. Io penso che esse siano abbastanza considerevoli. L'assenza di dèi nei bassorilievi e nei sigilli cilindrici, i lamenti sugli dèi perduti che si levano dai muti testi cuneiformi, l'insistenza sulla preghiera, l'introduzione di nuovi tipi di divinità silenziose, di angeli e di demoni, la nuova idea di cielo, tutto questo indica fortemente che le voci allucinatorie chiamate dèi non sono più le guide costanti degli uomini.
Che cosa allora ne ha raccolto la funzione? In che modo si dà ora inizio a un'azione? Se le voci allucinatorie non sono più all'altezza delle crescenti complessità di comportamento, come si possono prendere decisioni?
Il grande risultato su scala mondiale di questo dilemma fu ovviamente la coscienza soggettiva, ossia lo sviluppo sulla base di metafore linguistiche di uno spazio d'operazione in cui un «io» potesse narratizzare azioni alternative fino alle loro conseguenze. Ma una soluzione più primitiva, anteriore alla coscienza anche se nella storia si trova spesso in parallelo con essa, è quel complesso di comportamenti noto come divinazione.
Questi tentativi di indovinare la parola degli dèi ora muti si configurano in una sorprendente varietà e complessità di pratiche. Io ritengo però che questa varietà possa essere intesa nel modo migliore suddividendola in quattro tipi principali, che possono essere ordinati in funzione delle loro origini storiche e interpretati come approssimazioni successive alla coscienza. Questi quattro tipi sono l'interpretazione di presagi, il lancio delle sorti, la divinazione augurale e la divinazione spontanea.
I presagi e la loro interpretazione
Il metodo più primitivo e rozzo, ma persistente, per scoprire la volontà degli dèi silenziosi è la semplice registrazione di sequenze di eventi insoliti o importanti. A differenza di tutti gli altri tipi di divinazione, questo metodo è interamente passivo. È una semplice estensione di qualcosa che è comune al sistema nervoso di tutti i mammiferi, ossia del fatto che se un organismo sperimenta prima A e poi J5, avrà la tendenza ad attendersi ancora B la prossima volta che gli si presenterà A. Poiché l'interpretazione dei presagi è in realtà una verbalizzazione di questo fatto, possiamo dire che la sua origine è semplicemente nella natura animale, e non nella cultura civilizzata in quanto tale.
L'interpretazione di presagi o di sequenze di eventi presumibilmente ricorrenti esistette, com'è probabile, in forma banale in tutto il periodo bicamerale, ma ebbe scarsa importanza. Né c'era alcuna necessità di studiare tali sequenze, dal momento che le voci allucinatorie degli dèi prendevano tutte le decisioni che si richiedevano in situazioni nuove. Non esiste, per esempio, alcun testo sumerico di interpretazione di presagi. Benché le prime tracce di testi simili si riscontrino fra le popolazioni semitiche degli accadi, è solo dopo la perdita della mente bicamerale verso la fine del II millennio a.C. che essi proliferano ovunque. Nel I millennio se ne fecero numerose raccolte. Nella biblioteca del re Assurbanipal a Ninive, attorno al 650 a.C., almeno il 30 per cento delle venti o trentamila tavolette rientrano nella categoria della letteratura di presagi. Ogni voce, in queste collezioni tediose e irrazionali, consiste in una premessa ipotetica o protasi seguita da una conseguenza o apodosi. E c'erano molte classi di presagi. Presagi terrestri, che si occupavano della vita quotidiana: «Se una città è posta su una collina, non sarà bene per chi abita in quella città». «Se si vedono formiche nere sulle fondamenta che sono state gettate, quella casa sarà costruita e il suo proprietario vivrà fino alla vecchiaia». «Se un cavallo entra nella casa di un uomo, e morde un asino o un uomo, il proprietario della casa morirà e la sua famiglia sarà dispersa». «Se una volpe corre nella pubblica piazza, quella città sarà devastata». «Se un uomo calpesta involontariamente una lucertola e la uccide, prevarrà sul suo nemico». 214 E così via all'infinito, toccando tutti quegli aspetti della vita che in epoca anteriore sarebbero stati sotto la guida degli dèi. Queste predizioni possono essere intese come una sorta di prima approssimazione alla narratizzazione, che esegue mediante formule verbali ciò che la coscienza fa in modo più complesso. Solo di rado riusciamo a scorgere una qualsiasi dipendenza logica della predizione dall'evento: spesso la connessione non è altro che una semplice associazione o nesso verbale.
C'erano anche interpretazioni di eventi teratologici, che incominciavano con le parole: «Se un feto…» e si occupavano di parti anormali, tanto umani quanto animali. 215 La scienza della medicina ha in realtà alle sue origini divinazioni di questo genere, in una serie di testi che cominciano con la frase: «Quando il sacerdote addetto agli esorcismi arriva alla casa di un uomo malato» e proseguono con prognosi più o meno ragionevoli correlate con vari sintomi. 216 Ci sono inoltre predizioni fondate sull'aspetto di certi caratteri facciali e corporei nel cliente o in persone che egli incontra, predizioni che, per inciso, ci forniscono la descrizione migliore di cui disponiamo dell'aspetto fisico di questi popoli.217 E predizioni riguardanti il tempo: menologie che indicavano quali mesi fossero favorevoli o sfavorevoli per certe imprese, ed emerologie che si occupavano dei giorni propizi e non propizi di ciascun mese. E predizioni che sono all'origine della meteorologia e dell'astronomia, intere serie di tavolette dedicate ai fenomeni del sole, dei pianeti, delle stelle e della luna, ai loro tempi e circostanze di sparizione, di eclissi, predizioni legate agli aloni, alle formazioni strane delle nuvole, al significato divino del tuono e della pioggia, della grandine e dei terremoti come annunciatori di pace o di guerra, di raccolti o inondazioni, o al movimento dei pianeti, particolarmente Venere, fra le stelle fisse. Nel V secolo a.C. questo uso delle stelle per ricavarne le intenzioni degli dèi silenziosi che ora si erano ritirati a vivere fra di loro nel cielo aveva dato origine agli oroscopi a noi familiari, nei quali la posizione degli astri alla nascita consente predizioni sul futuro e la personalità del bambino. Anche la storia comincia, benché in modo vago, nei testi divinatori, e le apodosi o conseguenze di alcuni fra i testi più antichi conservano forse alcune informazioni storiche per quanto vaghe di un genere storiografico unico e tipicamente mesopotamico. 218 L'umanità, privata dei suoi dèi, come un bambino separato dalla madre, deve imparare a conoscere il suo mondo con timore e tremore.
Le predizioni tratte dai sogni divennero (e sono ancora) una fra le fonti principali di divinazione. 219 Particolarmente nel periodo tardo-assiro, durante il I millennio a.C., le interpretazioni dei sogni vennero raccolte in libri come lo Ziqiqu, dove è evidente un qualche principio associativo fra l'evento del sogno e la sua apodosi: per esempio, il sogno della perdita del proprio sigillo cilindrico annuncia la morte di un figlio. Ma, quale che sia l'evento interpretato, questo tipo di divinazione ha i suoi limiti. Bisogna aspettare la comparsa del segno. Ma le situazioni nuove non aspettano.
Le sorti
La cleromanzia o lancio delle sorti differisce dall'interpretazione di eventi spontanei in quanto è attiva e intesa a sollecitare le risposte degli dèi a domande specifiche in situazioni nuove. Essa consisteva nel gettare sul terreno bastoncini, pietre, ossi o fagioli, o nel raccoglierne uno da un gruppo messo in una ciotola, o nel gettare in aria tali oggetti scuotendo il lembo della tunica in cui erano stati raccolti, finché uno di essi non cadeva a terra. La risposta cercata era a volte un sì o un no, altre volte era la scelta di un uomo, di un terreno o di un corso d'azione fra molti. Ma questa semplicità – e anche banalità per noi – non dovrebbe farci perdere di vista il profondo problema psicologico che era in gioco, né distoglierci dall'apprezzarne la notevole importanza storica. Noi siamo così abituati all'enorme varietà di giochi d'azzardo, dai dadi alla roulette, ecc., che sono altrettanti residui di quest'antica pratica della divinazione gettando le sorti, che troviamo difficile valutarne storicamente il significato. È però di aiuto osservare che il concetto di caso non emerse sino a tempi molto vicini a noi. Perciò la scoperta (che strano pensarla come una scoperta!) di decidere una questione gettando a terra dei bastoncini o dei fagioli ebbe una grandissima portata per il futuro dell'umanità. Non esistendo infatti il caso, il risultato doveva essere causato dagli dèi di cui si stavano divinando le intenzioni.
Circa la psicologia della cleromanzia, vorrei richiamare l'attenzione del lettóre su due punti interessanti. Innanzitutto questa pratica fu inventata specificamente nella cultura per sostituire la funzione dell'emisfero destro quando tale funzione, in conseguenza del crollo della mente bicamerale, non fu più accessibile come al tempo in cui veniva codificata linguisticamente nelle voci di dèi. Sappiamo da studi di laboratorio che è l'emisfero destro a elaborare in prevalenza informazioni relative allo spazio e alle strutture spaziali. Esso è meglio in grado di comporre parti di cose in un disegno compiuto, come nel Block Test di Kohs, meglio in grado di percepire la posizione e la quantità di punti in un disegno, o un rapporto tra suoni, cioè una melodia. 220 Ora il problema che la cleromanzia cercava di risolvere era qualcosa dello stesso tipo, l'ordinamento delle parti di un disegno complessivo, la scelta di che cosa fare e di chi debba farlo, o di chi debba ricevere un certo appezzamento di terra. In origine, in società più semplici, tali decisioni erano prese facilmente dalle voci allucinatorie chiamate dèi, che erano legate primariamente all'emisfero destro. E quando gli dèi smisero di assolvere questa funzione, forse in conseguenza della crescente complessità di tali decisioni, la lettura delle sorti entrò nella storia come un surrogato per questa funzione dell'emisfero destro.
Il secondo punto di interesse psicologico è che il lancio delle sorti, come la coscienza stessa, si fonda sulla metafora. Nella terminologia da me introdotta (pp. 71 sgg.), i comandi inespressi degli dèi costituiscono il metaferendo che dev'essere ampliato lessicalmente, mentre il metaferente è la coppia o il gruppo di sorti, siano essi bastoncini, fagioli o pietre. I paraferenti sono i segni o le parole distintivi disegnati o scritti sulle sorti, che si riflettono sul metaferendo come comando del particolare dio invocato. Quel che importa qui è comprendere che la divinazione provocata nella forma della cleromanzia implica lo stesso genere di processo generativo che sviluppa la coscienza, ma in un modo esopsichico non soggettivo.
Come nel caso dell'interpretazione dei presagi, le radici della cleromanzia risalgono all'epoca bicamerale. La menzione più antica del lancio delle sorti si trova, a quanto pare, in tavolette legali risalenti alla metà del II millennio a.C., ma solo verso la fine dello stesso millennio la pratica comincia a essere usata diffusamente in decisioni importanti: per assegnare le quote di una proprietà fra i figli (come a Susa), o le quote delle rendite di un tempio a certi funzionari del santuario, per stabilire una qualche sequenza gerarchica fra persone di uguale posizione sociale. L'adozione di questo metodo di scelta non aveva solo fini pratici, come sarebbe per noi, ma era sempre ispirata dal desiderio di conoscere quali fossero i comandi di un dio. Attorno all'833 a.C., in Assiria, il nuovo anno riceveva sempre il nome di qualche alto funzionario. Il funzionario che doveva essere così onorato veniva scelto per mezzo di un dado di argilla sulle cui facce erano iscritti i nomi di vari alti funzionari, insieme a preghiere ad Assur perché favorisse quella faccia particolare. 221 Benché molti testi assiri, da quest'epoca in avanti, si riferiscano a vari tipi di lancio delle sorti, è difficile stimare quanto fosse diffusa questa pratica nel prendere decisioni, e se fosse usata dalla gente comune in decisioni più correnti. Sappiamo che essa divenne comune fra gli ittiti, e in uno dei prossimi capitoli vedremo che essa è nominata anche nell'Antico Testamento.
La divinazione augurale
Un terzo tipo di divinazione, più vicino alla struttura della coscienza, è quello che chiamerò divinazione qualitativa. Il lancio delle sorti è un metodo ordinale, ordina cioè in successione una serie di possibilità date.
I molti metodi di divinazione qualitativa si propongono invece di ottenere una quantità di informazione molto maggiore dagli dèi silenziosi. Fra questi due tipi di divinazione c'è la differenza che intercorre fra un calcolatore numerico e uno analogico. Una prima forma, così come è descritta in tre testi cuneiformi databili a partire dalla metà circa del II millennio a.C., consisteva nel versare olio in una ciotola d'acqua tenuta in grembo: il movimento dell'olio in relazione alla superficie dell'acqua o al bordo della ciotola rivelava le intenzioni degli dèi a proposito della pace o della prosperità, della salute o della malattia. Qui il metaferendo è l'intenzione o anche l'azione di un dio, e non solo le sue parole, come nel lancio delle sorti. Il metaferente è l'olio che si muove sulla superficie dell'acqua e al quale assomigliano i movimenti e gli ordini del dio. I paraferenti sono le specifiche figure e posizioni dell'olio, i cui paraferendi sono i contorni delle decisioni e azioni degli dèi.
In Mesopotamia la divinazione augurale ebbe sempre una dignità di culto. Veniva eseguita da uno speciale sacerdote, detto barn, nel contesto di un rituale, ed era preceduta da una preghiera al dio perché rivelasse le sue intenzioni attraverso l'olio o comunque il mezzo usato. 222 E all'inizio del I millennio a.C. i metodi e le tecniche del barn si complicano in una sorprendente varietà di metaferenti per le intenzioni degli dèi: non solo l'olio ma anche i movimenti del fumo che saliva da un incensiere tenuto in grembo dall'augure, 223 o la forma assunta dalla cera bollente lasciata cadere nell'acqua, o una configurazione di puntini fatti a caso, o figure e disegni nella cenere, e infine gli animali sacrificati.
L'extispicio, o divinazione sulla base dell'esame delle viscere (exta) di animali sacrificati, divenne il tipo più importante di divinazione qualitativa indotta nel I millennio a.C. L'idea del sacrificio ebbe origine, ovviamente, dall'offerta di cibo agli idoli che provocavano le allucinazioni, come abbiamo già visto (pp. 222 sg.). Col crollo della mente bicamerale, gli idoli persero la capacità di indurre allucinazioni e divennero semplici statue, ma le cerimonie dell'offerta di cibo ora rivolte a dèi assenti sopravvissero in vari riti sotto forma di sacrifici. Non sorprende quindi che gli animali si sostituissero all'olio, alla cera, al fumo, ecc. come mezzi di comunicazione più importanti con gli dèi.
L'esame delle viscere differisce da altri metodi in quanto il metaferendo è esplicitamente non la parola o le azioni di dèi, ma la loro scrittura. Il barn si rivolgeva prima agli dèi Shamash e Adad con la richiesta che «scrivessero» il loro messaggio nelle viscere dell'animale, 224 o a volte bisbigliava questa richiesta nelle orecchie della vittima prima che questa fosse uccisa. Poi esaminava secondo un ordine tradizionale gli organi dell'animale – la trachea, i polmoni, il fegato, la cistifellea, il modo in cui erano avvolti gli intestini – alla ricerca di differenze rispetto allo stato, alla forma e alla colorazione normali. Qualsiasi atrofìa, ipertrofia, spostamento, segni speciali o altre anomalie, specialmente del fegato, era un messaggio divino metaforicamente connesso a un'azione divina. I testi riguardanti l'extispicio sono molto più numerosi di tutti gli altri testi divinatori e meritano uno studio molto più attento. Dalla più antica e occasionale menzione nel II millennio alle estese collezioni del periodo seleucide attorno al 250 a.C., la storia e lo sviluppo locale di questa branca della divinazione come mezzo di pensiero esopsichico è un'area che in realtà attende ancora una ricerca adeguata. Di particolare interesse è il fatto che, nel periodo tardo, segni e scolorimenti nelle viscere sono descritti con una terminologia tecnica simile a quella usata dagli alchimisti medievali. 225 Parti delle viscere dell'animale sacrificato vengono designate come «porta del palazzo», «via», «giogo» e «argine» e simboleggiano questi luoghi e questi oggetti, creando un mondo metaforico da cui leggere quel che si deve fare. Alcune fra le tavolette più tarde presentano addirittura diagrammi delle spire degli intestini col loro significato. Modelli in argilla e in bronzo, a volte complessi, altre volte rozzi, del fegato e dei polmoni sono stati riportati alla luce in vari siti; alcuni di essi venivano usati probabilmente a fini didattici. Ma poiché gli organi stessi estratti dall'animale venivano a volte inviati al re come prova di un particolare messaggio divino, tali modelli potrebbero essere serviti anche come un modo meno fetido di comunicare un'osservazione compiuta.226
È opportuno ricordare la natura metaforica di tutte queste attività, giacché qui le funzioni reali sono simili, anche se su un livello diverso, al funzionamento interiore della coscienza. Che le dimensioni e la forma del fegato o di un altro organo siano il metaferente delle dimensioni e della forma delle intenzioni di un dio è, a un livello semplicissimo, qualcosa di simile a ciò che noi facciamo nella nostra coscienza creando spazi metaforici «contenenti» oggetti e azioni metaforici.
La divinazione spontanea
La divinazione spontanea differisce dai tre tipi precedenti solo perché non è sottoposta ad alcuna costrizione e perché è libera da ogni veicolo particolare. Essa è in realtà una generalizzazione di tutti i tipi. Come nei casi precedenti, anche qui i comandi, le intenzioni o gli scopi degli dèi sono il metaferendo, mentre il metaferente è tutto ciò che può essere visto in un dato istante e connesso a ciò che interessa al divinatore. Gli esiti di imprese o le intenzioni di un dio possono quindi essere letti in qualsiasi oggetto capiti al divinatore di vedere o di udire.
Il lettore può sperimentare questo metodo da sé. Si pensi a qualche problema o preoccupazione in modo vago. Poi si guardi d'improvviso fuori della finestra o attorno a sé nel posto dove ci si trova, si consideri la prima cosa che si presenta allo sguardo e si cerchi di «leggere» in essa qualcosa che possa concernere il proprio problema. A volte non accadrà nulla, ma altre volte la soluzione sorgerà spontanea alla nostra mente.
Io ho fatto una prova del genere un momento fa, mentre scrivevo, e dalla finestra verso nord ho visto un'antenna televisiva contro un cielo crepuscolare. Posso interpretare la cosa nel senso che sono troppo speculativo, che raccolgo fuggevoli suggerimenti dall'aria mutevole: il che è purtroppo una verità, visto che devo occuparmi di questi argomenti. Continuo a pensare vagamente agli argomenti che mi assorbono e, mentre cammino avanti e indietro, d'improvviso lo sguardo mi cade sul pavimento di una stanza vicina, dove un assistente ha costruito un'apparecchiatura, e vedo un cavo sfilacciato. Ne traggo l'interpretazione che il mio problema in questo capitolo è quello di connettere assieme i vari fili delle testimonianze concrete. E così si potrebbe continuare.
Non mi sono imbattuto in questo tipo di divinazione in alcun testo mesopotamico. Eppure sono sicuro che esso dev'essere divenuto una pratica abituale, non fos s'altro per il fatto che la divinazione spontanea è molto comune e importante nell'Antico Testamento, come vedremo in un altro capitolo. Essa rimase inoltre un metodo comune fra molti tipi di veggenti ancora per gran parte del Medioevo.227
Questi sono dunque i quattro tipi principali di divinazione: presagi, lancio delle sorti, divinazione qualitativa e divinazione spontanea. Vorrei richiamare l'attenzione del lettore sul fatto che essi possono essere considerati metodi esopsichici di pensiero o di formulazione di una decisione, sempre più prossimi alla struttura della coscienza. Il fatto che essi abbiano tutti radici che affondano nel lontano passato del periodo bicamerale non deve ridurre il valore della generalizzazione che essi divennero i mezzi di decisione importanti solo dopo il crollo della mente bicamerale, quale è stato descritto nella prima parte di questo capitolo.
ALLA SOGLIA DELLA SOGGETTIVITÀ
Finora, in questo capitolo eterogeneo, ci siamo occupati del crollo della mente bicamerale in Mesopotamia e delle reazioni a questo mutamento nella forma mentale umana, degli sforzi compiuti dall'uomo per scoprire che cosa fare quando gli venne a mancare l'aiuto delle voci udite nelle sue allucinazioni. Che un altro metodo per scoprire che cosa fare sia stata la coscienza, e che essa si sia presentata per la prima volta nella storia di questo pianeta qui in Mesopotamia verso la fine del II millennio a.C., è una tesi molto più difficile. Le ragioni di questa difficoltà risiedono principalmente nella nostra incapacità di tradurre la scrittura cuneiforme con la stessa precisione con cui siamo in grado di tradurre il greco o l'ebraico, e di compiere il tipo di analisi che tenterò nel capitolo seguente. Le parole che, nella scrittura cuneiforme, potrebbero essere d'aiuto a determinare lo sviluppo metaforico della coscienza e dello spazio mentale sono precisamente le più difficili da tradurre. Devo dichiarare senza esitazione che uno studio veramente definitivo dei mutamenti avvenuti nella forma mentale mesopotamica nel corso di questo II millennio a.C. dovrà attendere che si raggiunga un nuovo livello di conoscenza della scrittura cuneiforme, attraverso ricerche che determinino i mutamenti di referente e la frequenza delle parole che passarono poi a indicare gli eventi che noi chiamiamo coscienti. Una di queste parole, per esempio, è sha (traslitterata anche come shab o shag), una parola accadica il cui significato basilare sembra essere «in» o «all'interno di». Usata come prefisso al nome di una città, significa «nella città». Premessa al nome di un uomo, significa «nell'uomo», forse un inizio dell'interiorizzazione dell'attribuzione.
Spero che il lettore vorrà perdonarmi se mi limito a dire, con una certa ovvietà, che questi problemi, e con essi molti altri, devono attendere i risultati delle ricerche future. Ma la scoperta di nuovi siti e la traduzione di nuovi testi si succedono con tale rapidità che già da qui a dieci anni potremo avere un quadro molto più chiaro, specialmente se i nuovi dati saranno esaminati dal punto di vista di questo capitolo. Il massimo che io mi sento di poter stabilire per ora è una breve serie di confronti di carattere letterario che rappresentano dei buoni indizi dell'effettivo verificarsi di un tale mutamento psicologico. Questi confronti vertono su lettere, su iscrizioni parietali e su varie versioni dell'Epopea di Gilgamesh.
Confronto di lettere assire e paleobabilonesi
Il mio primo confronto, mirante a indicare il passaggio dalla bicameralità alla soggettività, è fra le lettere contenute in tavolette cuneiformi assire del VII secolo a.C. e le lettere dei re paleobabilonesi di un millennio prima. Le lettere di Hammurabi e del suo tempo sono concrete, precise, comportamentali, formalistiche, imperative, e senza alcun saluto. Esse non si rivolgono al destinatario, bensì alla tavoletta stessa, e cominciano sempre con una formula del tipo «di' ad A, così dice B», alla quale segue ciò che B deve dire ad A. Dovremmo ricordare qui ciò che ho detto altrove, ossia che la lettura, essendosi sviluppata da comunicazioni verbali allucinatorie di idoli e poi da pittogrammi, era diventata, verso la fine dell'epoca bicamerale, una comunicazione uditiva originata dalla scrittura; in altri termini, si udiva il messaggio delle tavolette. Di qui la formula di apertura.
Gli argomenti delle lettere paleobabilonesi sono sempre oggettivi. Le lettere di Hammurabi, per esempio (scritte forse tutte dallo stesso Hammurabi, essendo tutte incise dalla stessa mano) sono indirizzate a re vassalli e a funzionari del suo regno, ai quali egli ordina di inviargli una certa persona, o di mandare una certa quantità di legname a Babilonia, specificando in un caso che «si devono abbattere solo tronchi vigorosi», oppure impartisce regole per gli scambi di grano con bestiame, o indica dove debbano essere inviati operai. Raramente vengono addotte ragioni, e mai vengono indicati gli scopi. «A Sin-idinnam di': così dice Hammurabi. Ti scrissi dicendoti di mandarmi Enubi-Marduk. Perché dunque non l'hai mandato? Quando vedi questa tavoletta, manda Enubi-Marduk alla mia presenza. Fa' che egli viaggi notte e giorno, così che possa arrivare rapidamente». 228 E raramente le lettere si spingono oltre questo livello come complessità di «pensiero» o di rapporto.
Una lettera più interessante contiene il comando di portare vari idoli conquistati a Babilonia: «A Sin-idinnam di': così dice Hammurabi. Ora sto inviando il funzionario Zikir-ilisu e l'ufficiale di Dugab Hammarabi-bani per portare qui le dee di Emutbalum. Fa' viaggiare le dee in un battello processionale come in un santuario nel loro viaggio a Babilonia. E le donne del tempio devono andare al loro seguito. Quanto al cibo delle dee, procura delle pecore… Fa' che non tardino ma arrivino rapidamente a Babilonia». 229 Questa lettera è interessante in quanto attesta la natura quotidiana del rapporto fra dio e uomo nell'antica Babilonia, oltre al fatto che in qualche modo ci si attendeva che le dee mangiassero durante il loro viaggio.
Passando dalle lettere di Hammurabi alle lettere di stato assire del VII secolo a.C. si ha la sensazione di lasciare tediosissime direttive a cui non si poteva disobbedire e di entrare in un ricco mondo consapevole, un mondo sensibile, spaventato, avido, recalcitrante, non molto diverso dal nostro. Le lettere sono rivolte alle persone, non alle tavolette, e probabilmente non erano udite, ma dovevano essere lette ad alta voce. In un migliaio di anni gli argomenti trattati sono molto mutati e comprendono un elenco molto più esteso di attività umane. Essi sono però inseriti ora in un tessuto di inganni e di divinazione, parlano di investigazioni di polizia, di lagnanze per l'abbandono di rituali, di timori paranoici, di corruzione, di patetici appelli di funzionari incarcerati, tutte cose ignote, non menzionate e impossibili nel mondo di Hammurabi. Compare addirittura il sarcasmo, come nella lettera di un re assiro, scritta attorno al 670 a.C., ai suoi indocili delegati acculturati nella Babilonia conquistata: «Parola del re agli pseudobabilonesi. Sto bene… Così voi, vi aiuti il cielo, vi siete trasformati in babilonesi! E continuate a sollevare contro i miei servi accuse – accuse false – fabbricate da voi e dal vostro padrone… Il documento (nient'altro che chiacchiere moleste!) che mi avete mandato, ve lo restituisco, dopo averlo rimesso nei suoi sigilli. Ovviamente voi direte: “Che cosa ci rimanda? ”. Dai babilonesi, i miei servi e i miei amici mi scrivono. Quando io apro e leggo, ecco, la bontà dei santuari, uccelli di peccato…». 230 Qui la tavoletta è rotta.
Un'altra differenza interessante è nel ritratto che da esse emerge di un re assiro. I re babilonesi dell'inizio del II millennio erano sicuri di sé e impavidi, e forse non avevano bisogno di essere troppo militaristi. I crudeli re assiri, i cui maschi palazzi sono ricoperti di raffigurazioni vigorose di cacce al leone e lotte con fiere unghiute, sono nelle loro lettere esseri indecisi e timorosi che chiedono ai loro astrologi e àuguri di mettersi in contatto con gli dèi e chieder loro consiglio su che cosa fare e quando. Dagli àuguri i re si sentono dire che sono dei pezzenti, che i loro peccati irritano un dio; ricevono istruzioni su che abiti indossare, o che cosa mangiare o non mangiare fino ad avviso contrario: 231 «Qualcosa sta accadendo in cielo; lo hai notato? Quanto a me, i miei occhi sono fissi. Io dico: “Quale fenomeno ho mancato di osservare, oppure ho mancato di riferire al mio re? Ho forse mancato di osservare qualcosa che non ha a che fare con la sua sorte? ”… Quanto a quell'eclisse di sole di cui parlava il re, l'eclisse non ebbe luogo. Il 27 osserverò di nuovo e invierò un rapporto. Da chi teme vengano sventure il signore mio re? Non ho alcuna informazione in proposito».232
Un confronto tra queste lettere, separate da un migliaio d'anni, dimostra il mutamento di forma mentale di cui ci occupiamo in questo libro? Ovviamente a questa domanda potrebbe seguire una lunga e complessa discussione. E ricerche: analisi di contenuto, confronti sintattici, uso di pronomi, domande, forme verbali future, e inoltre parole specifiche che sembrerebbero indicare aspetti soggettivi nelle lettere assire e che mancano in quelle babilonesi antiche. Ma la nostra conoscenza attuale della scrittura cuneiforme è troppo imperfetta per consentire un'analisi approfondita. Persino le traduzioni che ho usato fanno grandi concessioni a un'esigenza di scorrevolezza e a una sintassi familiare e non sono quindi totalmente fidate. È possibile solo un confronto molto generale, e il risultato penso sia chiaro: le lettere del VII secolo a.C. sono molto più simili alla nostra coscienza di quelle di Hammurabi, scritte un migliaio di anni prima.
La spazializzazione del tempo
Un altro possibile confronto riguarda il senso del tempo che compare nelle iscrizioni su edifici. Come ho già detto (pp. 84 sg.), fra le proprietà essenziali della coscienza c'è la metafora del tempo come di uno spazio che può essere suddiviso in regioni distinte ove collocare eventi e persone e dal quale viene quel senso del passato, del presente e del futuro che rende possibile la narratizzazione.
L'inizio di questa caratteristica della coscienza può essere datato con una certa sicurezza attorno al 1300 a.C. Abbiamo appena visto come sia possibile inferirlo con un qualche grado di verosimiglianza dallo sviluppo delle varie forme di divinazione. Testimonianze più esatte si trovano però nelle iscrizioni su edifici. Nelle iscrizioni tipiche precedenti a questa data, il re enunciava il suo nome e i suoi titoli, profondeva lodi al suo particolare dio o dèi, menzionava brevemente la stagione e le circostanze in cui era stata iniziata la costruzione dell'edificio e poi descriveva qualcosa della funzione dell'edificio stesso. Dopo il 1300 a.C. c'è non solamente una menzione dell'evento che precede immediatamente la costruzione dell'edifìcio, ma anche un riassunto di tutte le imprese militari del re sino alla data dell'iscrizione. E nei secoli successivi tali informazioni vengono organizzandosi sistematicamente secondo le campagne annuali, dando infine origine alla complessa forma annalistica che è quasi universale nei documenti che descrivono le imprese dei sovrani assiri del I millennio a.C. Tali annali si allontanano sempre più dall'elencazione di semplici fatti, formulano motivi, critiche e linee d'azione, giudizi sul carattere, fino a includere mutamenti politici, strategie militari, note storiche su particolari regioni. Tutto ciò, ribadisco, testimonia l'invenzione della coscienza. Nessuno di questi caratteri è riscontrabile nelle iscrizioni precedenti.
Si tratta, naturalmente, dell'invenzione della storia, la quale ha inizio appunto nello sviluppo di queste iscrizioni reali. 233 Come sembra strana l'idea che la storia debba essere stata inventata! Erodoto, noto di solito come «il padre della storia», scrisse la sua opera solo dopo un viaggio in Mesopotamia nel V secolo a.C., e potrebbe avere preso appunto l'idea della storia da queste fonti assire. Quel che mi interessa in questa speculazione è la possibilità che, quando la coscienza si sviluppa, essa lo faccia in modi lievemente diversi, e l'importanza degli scritti di Erodoto per il successivo sviluppo della coscienza greca potrebbe essere un progetto di studio interessante. La mia tesi essenziale qui è però che la storia è impossibile senza la spazializzazione del tempo che è tipica della coscienza.
Gilgamesh
Vediamo infine questo esempio notissimo della letteratura assira. L'Epopea di Gilgamesh è composta da dodici tavolette numerate trovate a Ninive fra le rovine della biblioteca del tempio del dio Nabu e della biblioteca di palazzo del re assiro Assurbanipal. Fu scritta per il re, mettendo assieme storie più antiche, intorno al 650 a.C., e il suo protagonista è un semidio, Gilgamesh, che era stato adorato dal padre di Assurbanipal, Asarhaddon. Certamente il nome di Gilgamesh risale a un'epoca molto più remota nella storia mesopotamica. Sono state ritrovate numerose altre tavolette collegate a questo personaggio e alle sue avventure.
Fra queste tavolette ce ne sono tre, a quanto pare più antiche, che presentano paralleli con alcune delle tavolette assire. Dove queste tavolette siano state trovate e in quale contesto archeologico non è del tutto chiaro. Esse non furono rinvenute da archeologi, ma furono comprate da acquirenti privati presso un mercante di Bagdad. Datazione e provenienza sono perciò dubbie. Sulla base di prove interne io le collocherei pressappoco alla stessa epoca di alcuni frammenti ittiti e khurriti su Gilgamesh, forse attorno al 1200 a.C. La loro datazione più usuale è attorno al 1700 a.C. In ogni caso non c'è però sicuramente alcun motivo per supporre, come hanno fatto alcuni volgarizzatori del poema epico, che la versione del VII secolo della storia di Gilgamesh risalga sino all'èra paleobabilonese.
Quel che ci interessa qui sono i mutamenti intervenuti fra le poche tavolette più antiche e le loro versioni assire del 650 a.C. 234 Il confronto più interessante concerne la tavoletta x. Nella versione più antica (detta Tavoletta di Yale dal luogo in cui è conservata attualmente) il divino Gilgamesh, che piange la morte dell'amico, il mortale Enkidu, ha un dialogo col dio Shamash, e poi con la dea Siduri. Quest'ultima, che è chiamata la divina ostessa, dice a Gilgamesh che la morte è inevitabile per i mortali. Questi dialoghi sono non soggettivi. Ma nella più tarda versione assira il dialogo con Shamash non compare neppure, e l'ostessa è descritta in termini terreni molto umani ed è tanto autocosciente che indossa un velo. Per la nostra mente cosciente, la storia si è umanizzata. A un certo punto, nella tavoletta assira, l'ostessa vede Gilgamesh che si avvicina. La tavoletta dice che essa ha lo sguardo fisso lontano e parla al suo cuore, dicendo a se stessa: «Senza dubbio quest'uomo è un assassino! Dove è diretto?» Questo è pensiero soggettivo. E non si trova affatto nella tavoletta più antica.
La tavoletta assira procede con grande complessità (oltre che con grande bellezza) a esprimere la soggettiva tristezza nel cuore di Gilgamesh per la perdita dell'amico. Uno fra gli espedienti letterari usati qui (almeno nella restituzione fatta dai traduttori di una parte danneggiata) sono le domande ripetute che descrivono retoricamente il comportamento esteriore di Gilgamesh, chiedendo il perché del suo comportamento e del suo aspetto, cosicché il lettore è indotto costantemente a immaginare lo «spazio» interno e l'analogo «io» dell'eroe.
Perché è così triste il tuo cuore e il tuo viso è così sconvolto? Perché c'è afflizione nel tuo cuore?
E perché il tuo volto è simile a quello di chi ha fatto un lungo viaggio?
Nulla di queste preoccupazioni, che ricordano i salmi, si trova nella versione antica contenuta nella tavoletta x. Un altro personaggio del poema è il dio Utnapishtim il Lontano, che nella versione antica della tavoletta x è menzionato solo brevemente. Nella versione del 650 a.C., invece, egli guarda lontano e dice parole al suo cuore, ponendogli domande e giungendo a conclusioni proprie.
Conclusione
Le testimonianze che abbiamo appena esaminato sono forti in alcune aree e deboli in altre. La letteratura sulla perdita degli dèi rappresenta un mutamento incontestabile nella storia della Mesopotamia, qualcosa di nuovo rispetto a ogni forma di letteratura precedente. Essa segna in effetti la nascita degli atteggiamenti religiosi moderni e noi possiamo di fatto riconoscere noi stessi negli aneliti verso una certezza religiosa, così vicini a quelli dei salmi, che sono espressi nella letteratura assira dal tempo di Tukulti-Ninurta sino all'inizio del I millennio a.C.
L'improvvisa fioritura di molti tipi di divinazione e la loro enorme importanza sia nella vita politica sia nella vita privata è un fatto storico altrettanto incontestabile. Sono pratiche che risalgono, è vero, a un'epoca precedente, il che è forse un indizio di come, quando la civiltà divenne più complessa, verso la fine del III millennio a.C., gli dèi bicamerali avessero bisogno di qualche metodo ausiliare per prendere le decisioni, ma esse raggiungono la loro diffusione universale e il loro predominio nella vita civilizzata solo dopo il venir meno degli dèi.
È incontestabile anche che la natura delle divinità subì un'alterazione proprio nella stessa epoca, e che la credenza in un mondo ottenebrato da demoni ostili, ai quali venivano imputate malattie e avversità, può essere intesa solo come espressione dell'incertezza profonda e irreversibile che seguì alla perdita delle decisioni allucinatorie proprie della mente bicamerale.
Quel che c'è di insufficiente in questa rassegna sono le testimonianze dell'esistenza della coscienza stessa. C'è senza dubbio qualcosa di insoddisfacente nei miei confronti frammentari di traduzioni discutibili di tavolette cuneiformi risalenti a epoche diverse. L'ideale sarebbe poter disporre di una letteratura continua nella quale poter osservare con maggior precisione il dispiegarsi di uno spazio mentale soggettivo e la sua azione come iniziatore di decisioni. Questo è appunto ciò che avviene in Grecia alcuni secoli dopo e che analizzeremo nel prossimo capitolo.