4. Hind swaraj (1914-1930)

Dimenticare Kallenbach

Il 18 luglio Gandhi, Kasturba, i due figli più piccoli e Kallenbach salpano per Londra. Tagliati fuori dal mondo per tutta la durata del viaggio, vengono a sapere solo da voci, durante gli scali, che le sorti dell’Europa stanno precipitando. Dopo l’assassinio dell’arciduca d’Austria Francesco Ferdinando a Sarajevo, il 28 giugno, l’ingranaggio si è messo in moto; il 28 luglio l’Austria-Ungheria dichiara guerra alla Serbia; il 1° agosto la Germania alla Russia; il 2, la Gran Bretagna alla Turchia; il 3, la Germania alla Francia; il 4, l’Inghilterra alla Germania; il 5, l’Austria alla Russia. Il 6, a Calcutta, Lord Hardinge annuncia l’entrata in guerra del Raj. I principi e i leader del Congresso, da Gokhale a Tilak, non ci vedono alcun problema, ma i musulmani, Azad e i fratelli Ali, legati al sultano e califfo ottomano alleato dei tedeschi, preferirebbero, come afferma uno di loro, che «il governo del nostro califfo [l’imperatore] facesse la guerra al fianco del governo del nostro re-imperatore»109.

Tutte le vaghe riforme promesse senza convinzione dalle potenze europee restano così congelate; le colonie sono semplicemente chiamate a fornire truppe; il progetto di autonomia dell’Irlanda è sospeso per tutta la durata della guerra e un leader irlandese, John Redmond, esorta anzi i membri del suo gruppo indipendentista, l’Irish Volunteers Forces (IVF), ad arruolarsi nell’esercito britannico.

Quel giorno, quando sbarca a Southampton, Gandhi scopre che l’India è in guerra, quindi lui stesso è avversario di Kallenbach, l’amico che ha conservato la nazionalità tedesca! Non è accolto male, al contrario: il sostegno concesso dal viceré alla sua causa, dopo il massacro di Durban, ha legittimato il suo movimento agli occhi degli inglesi. E poi tutti a Londra hanno ben altro da fare che occuparsi di un oscuro militante coloniale: all’inizio di agosto, le truppe tedesche conquistano Liegi, poi Bruxelles, mentre Tokyo dichiara guerra a Berlino per invadere gli avamposti tedeschi in Cina.

Gandhi vuole agire e spingere gli indiani dell’India e del Sudafrica a contribuire. Per quanto lo riguarda, non se ne parla di partire per il fronte: ha quarantasei anni. Propone però di costituire un corpo ausiliario di barellieri, il terzo dopo quello della guerra dei boeri e quello del massacro degli zulu. Quando lo viene a sapere, Henry Polak, rimasto in Sudafrica, protesta con un telegramma: «Come può un nonviolento partecipare indirettamente alla guerra?»155.

A Berlino, il cancelliere Bethmann Hollweg, mantenendo la promessa fatta a Jatin Mukherjee a Calcutta nel 1911, dal figlio del Kaiser, fornisce alla rete di rivoluzionari i mezzi per noleggiare delle navi sulla costa californiana e spedire armamenti verso quella orientale dell’India, destando i sospetti dei servizi segreti inglesi e americani. Jatin Mukherjee ha uomini a Londra, Parigi, Berlino, New York, San Francisco, Seattle. E ha un piano: preparare un’insurrezione generale (di cui fissa la data al 21 febbraio 1915), poi, una volta ricevute le armi dall’Europa, impadronirsi del quartier generale dell’esercito imperiale a Fort William, vicino Calcutta, tagliare tutti i mezzi di comunicazione e di trasporto ferroviario della capitale e assumere il potere95. Il 26 agosto, approfittando del disordine dovuto agli inizi della mobilitazione, Jatin Mukherjee e i suoi uomini rubano alcune casse di pistole Mauser nel deposito di un importatore inglese e si lanciano in una serie di attentati terroristici.

Intanto, 18 giovani venuti dall’asram di Phoenix, condotti da Maganlal Gandhi, arrivano a casa di Tagore, nei pressi di Calcutta, per studiare con lui quello che potrebbe essere un loro asram.

A metà di settembre, l’offensiva tedesca, che si avvicina a Parigi a gran velocità, si blocca sulla Marna, in parte grazie ai taxi requisiti dal generale Gallieni [i rinforzi francesi inviati per partecipare alla controffensiva sulla Marna, una volta arrivati a Parigi, erano così esausti che il generale Gallieni requisì i taxi della città per trasportarli al fronte, N.d.T.]. Il 23, a Londra, Gandhi riunisce all’hotel Cecil alcuni giovani indiani lì presenti per esortarli «a seguire il cammino del dovere, da concepire dal punto di vista imperiale». Di fatto, truppe indiane cominciano a partire per il fronte in Medio Oriente, Francia e Belgio, in particolare per combattere sulla Somme, poi a Ypres; molti vi troveranno la morte tra l’estate e l’autunno del 1914. In totale, saranno inviati al fronte più di un milione di soldati indiani, animati dalla speranza che quel contributo sarebbe stato ricompensato alla fine della guerra con l’indipendenza del loro paese. Vent’anni dopo, un parlamentare britannico, Lord Lansbury, dipingerà l’impressione prodotta nel 1914 dalla straziante tragedia del corpo d’armata indiano:

che, a costo di pesanti perdite, ha fermato il grande assalto tedesco dell’autunno del 1914 e ha così salvato l’Impero britannico [...]. Queste truppe erano state inviate dalla loro soleggiata patria in Francia, quella Francia che avevano raggiunto solo dopo una lunga traversata. Molti di loro non sapevano chi fosse il nemico che andavano a combattere, certi credevano addirittura che fossero i russi! Del tutto ignare della tattica moderna, queste truppe erano state gettate direttamente nella spaventosa carneficina di Ypres.

Prima delusione: Gandhi spera di rivedere Gokhale, che dovrebbe aspettarlo, ma questi non c’è, poiché è rimasto bloccato in Francia. Che fare? Nel frattempo, riceve una lettera di Tagore in cui il poeta gli comunica l’arrivo della gente di Phoenix e lo ringrazia di «permettere ai suoi discepoli di essere anche i nostri e intessere un vivo legame nella sadhana delle nostre due vite»109. Lo aspetta al più presto.

A ottobre, il corpo di barellieri di Gandhi è operativo; tra loro, una giovane e ricca bengalese, Sarojini Naidu, venuta a Londra a studiare poesia, che lo soprannominerà più tardi “Mickey Mouse”. Non lo lascerà più per quarant’anni. Come in Sudafrica, vuole decidere tutto lui; quando l’esercito gli spiega la gerarchia e la disciplina, e che il suo corpo ausiliario deve essere sottoposto agli ordini di un ufficiale britannico, lui minaccia, dall’alto del suo grado di sergente di riserva, di lanciare un satyagraha, ovvero un’azione di resistenza passiva... punibile col plotone d’esecuzione! Ma tutti quanti hanno altro di cui preoccuparsi che di quei 200 infermieri indiani e li lasciano fare. Gandhi è vittima di una grave pleurite quando finalmente dalla Francia arriva Gokhale, dopo aver traversato la Manica nonostante la guerra, anche lui molto malato. Questi gli spiega che il Congresso è dominato dai moderati, cioè lui e Sir Pherozeshah Mehta; il leader degli estremisti, Tilak, recentemente uscito di prigione, se ne sta tranquillo; il suo braccio destro, Lala Lajpat Rai, dirigente del Punjab, è in esilio; l’altro radicale, Sri Aurobindo, si è ritirato a Pondicherry. Gokhale gli ripete ciò che gli ha detto in Sudafrica:

I musulmani indiani vivono male l’entrata in guerra contro i turchi e questo rischia di scatenare una guerra civile, e quindi la divisione del paese: dopo tutto, l’India è un’invenzione inglese. Voi avete fatto molto bene con i musulmani in Sudafrica; loro vi apprezzano [...]. Ci aiutate ad andare più velocemente verso l’indipendenza. Ma avete bisogno di capire l’India, che non conoscete. Torniamo insieme, andate alla scoperta dell’India, studiatela, viaggiate. Poi venite a lavorare con me. Io vi chiedo di scrutare l’India con l’occhio di uno sparviero affamato.169

Gandhi è d’accordo. È impaziente di tornare. Del resto, il clima londinese, freddo e umido, è sconsigliato per la sua pleurite. Cerca dunque di ottenere un visto indiano per Hermann Kallenbach, ma il viceré, Lord Hardinge, ha vietato l’ingresso in India a tutti i cittadini tedeschi. Gandhi bussa a ogni porta. Ciò non fa che attirare l’attenzione sul caso di Kallenbach, che viene arrestato e internato. Gandhi lascia partire Gokhale e promette di raggiungerlo a Bombay, non appena avrà tirato fuori l’amico da quel ginepraio. Ma non ci riesce e qualche settimana dopo, il 19 dicembre 1914, su richiesta dello stesso Kallenbach, si rassegna a lasciarlo lì e partire. Va a salutare i suoi barellieri diretti alle trincee e si imbarca, desolato, per Bombay, con la moglie e i due figli, abbandonando l’amico in un campo di internamento. «Fu straziante per me separarmi da Kallenbach e vidi che la sua pena era grande»170.

Molto tempo dopo, Kallenbach sarà autorizzato a tornare in Sudafrica. Per anni i due amici si scriveranno ogni quindici giorni, poi le lettere si faranno più rade. Si rivedranno solo dopo un quarto di secolo, in circostanze particolarmente tragiche di cui parleremo.

Uno sparviero affamato

Abbandonando Kallenbach, Gandhi volta pagina e si lascia alle spalle per sempre il Sudafrica. Sulla nave che lo porta verso Bombay, decide di agire in India come ha fatto in Sudafrica, per insegnare al popolo a ritrovare la propria dignità, a prendere le distanze dall’Occidente, con le sue tecniche e la sua violenza. L’India, pensa Gandhi, non potrà aspirare all’autonomia finché ogni suo più umile abitante non sarà divenuto «l’artefice del proprio destino»169; il paese, spiega, deve riformarsi dal punto di vista religioso e sociale. Bisogna, come hanno già voluto Ram Mohan Roy e i suoi successori, abolire davvero il sacrificio delle vedove (sati) e il divieto per loro di risposarsi (daha), aumentare l’età legale per il matrimonio (di cui Gandhi aveva personalmente sofferto), sopprimere il fardello della dote, abolire l’intoccabilità, sostenere le popolazioni ai margini. In seguito, l’autonomia sarebbe venuta da sé, senza lotte né violenza. Ritiene che riuscirà a farlo capire agli inglesi in India, come ha convinto il generale Smuts in Sudafrica, e che la strategia della nonviolenza utilizzata a Durban porterà i suoi frutti anche a Delhi e Calcutta.

Al suo arrivo a Bombay, il 9 gennaio 1915, Gokhale, tornato poco prima di lui, stremato, lo attende al porto con alcuni amici. Quelli che non conoscono Gandhi scoprono un uomo magro, il capo rasato, vestito come un contadino, con delle grandi orecchie: «Il suo grosso naso punta verso il basso mentre il labbro inferiore punta verso l’alto, andandogli incontro; somiglia a una noce levigata, lucida e brillante, senza grasso superfluo»56.

Tre giorni dopo, il 12 gennaio, un sontuoso ricevimento è dato in suo onore al palazzo di Jahangir, quarto imperatore Moghul. Tutta l’élite di Bombay è presente: gli alti funzionari, il mondo degli affari e i giornalisti. Tutti sono al corrente delle sue imprese in Sudafrica: i documenti bruciati, i digiuni, le marce, gli arresti, le sconfitte, le vittorie, il massacro di Durban ecc. L’eroe del giorno arriva, l’aria grave, vestito con un drappo del Kathiawar, sua regione natale, e un turbante, tenuta che stona in quell’ambiente occidentalizzato. Sir Pherozeshah Mehta, l’avvocato e personalità più in vista di Bombay, che lo conosce dal suo primo soggiorno a Londra, lo saluta come «l’eroe della causa dell’indipendenza dell’India» e presenta Kasturba come «l’eroina del Sudafrica». Mohandas risponde che lui non ama molto quel genere di cocktail mondani e che si sentiva più a suo agio con i lavoratori a contratto del Natal. Silenzio imbarazzato... Quando un giovane ed elegante avvocato, del Gujarat come lui, Mohammad Ali Jinnah, gli rivolge un complimento, Gandhi lo interrompe rimproverandogli in gujarati di parlare in inglese. Silenzio glaciale... Quando un giornalista parsi gli si rivolge anche lui nella lingua del colonizzatore, Gandhi gli volta le spalle: «In Africa non ho dimenticato la mia lingua madre!».

Allora gli chiedono perché, se ama così poco gli inglesi, ha reclutato dei barellieri per loro. Lui risponde che bisogna aiutarli a vincere la guerra affinché ne derivi l’indipendenza dell’India109. Gokhale, Jinnah e Tilak protestano: «Gli inglesi non la concederanno mai di loro spontanea volontà! Questa guerra è la grande occasione dell’India. Bisogna approfittarne per prenderci la nostra indipendenza; vedremo poi se è il caso di aiutare gli inglesi». Gandhi ribatte: «Dando man forte agli inglesi e collaborando con loro in queste ore difficili per loro, noi potremo migliorare la nostra condizione»170. Quella sera rivede anche Annie Besant: l’irlandese ormai si sente totalmente indiana. Uno dei suoi amici, Srinivasa Sastri, assistente di Gokhale in seno al suo piccolo gruppo, scrive allora: «Ella era persuasa, in fondo al suo cuore, che la sua anima e il suo spirito appartenessero a quella contrada e che si sarebbe reincarnata in quel paese per apprenderne la cultura, diffonderne la filosofia, insegnarne la religione. La sua grande ambizione era di essere conosciuta come indiana, di essere riconosciuta in ogni focolare come un’indiana»32.

Gokhale è divertito dal comportamento del suo giovane protetto. Ne nota «l’energia nascosta in quel corpo spigoloso [...]. Cammina assai eretto, ride a squarciagola [...]. Quando entra in una stanza, Gandhi vi porta una boccata d’aria fresca»169. Gokhale scrive poi che Gandhi «è senza alcun dubbio della stoffa di cui sono fatti gli eroi e i martiri. Anzi di più: possiede il meraviglioso potere di trasformare gli uomini ordinari che l’accompagnano in eroi e martiri»109. Gli suggerisce di chiedere un’udienza di cortesia al governatore di Bombay, Lord Willingdon, che lo riceve molto cordialmente e lo ringrazia per ciò che ha fatto reclutando il corpo ausiliario di barellieri: «Le chiedo una cosa sola: di venire a trovarmi ogni volta che deciderete di prendere delle misure concernenti il governo»109.

Gokhale, che soffre di una forma di diabete sempre più grave, promette di aiutarlo a trovare un finanziamento per l’asram che vuole creare e gli propone di entrare nel suo gruppo nel Congresso, i Servitori dell’India, anche se gli amici di Gokhale non apprezzano la fraseologia religiosa né la critica della civiltà occidentale di Gandhi. Il 30 gennaio Gokhale gli fa inoltre promettere di sforzarsi di conoscere meglio l’India prima di prendere posizione e di non esprimersi in pubblico per un anno. Gandhi accetta.

Il 1° febbraio 1915 Gokhale, sempre più spossato, torna a casa sua, a Pune. Gandhi invece va a sistemare la propria famiglia a Rajkot, dove è accolto come un eroe, anche se la sua casta ancora non vuole saperne di lui. A Gondal, nel Kathiawar, nel corso di una riunione in cui si sforza di non prendere la parola per mantenere la promessa fatta a Gokhale, un pover’uomo lo chiama “Mahatma”, come qualcuno faceva già in alcune lettere, cioè “colui i cui pensieri, parole e azioni sono in completa armonia” (manasy ekam vacasy ekam karmany ekam).

In prima linea

Gandhi parte il 4 febbraio da Rajkot per andare da Tagore, a Shantiniketan, nel Bengala, per ritrovare gli amici di Phoenix arrivati là da qualche giorno. Il poeta lo saluta chiamandolo “Mahatma”, come ha sentito fare ai giovani di Phoenix (da questo la falsa leggenda che l’appellativo sia stato inventato da Tagore: lui è solo stato il primo a usarlo in pubblico). Andrews, che è presente, riferisce la conversazione tra i due:

Il loro primo argomento di discussione sono gli idoli. Gandhi li difende, dicendo che le masse non sono capaci di sollevarsi dall’oggi al domani per delle idee astratte. Tagore non sopporta di vedere trattare il popolo come un bambino. Gandhi risponde che anche in Europa si utilizzano degli idoli: sono le bandiere, e lui propone il suo: un arcolaio; aggiunge che il nazionalismo può condurre all’internazionalismo proprio come a volte è necessaria la guerra per giungere alla pace. Tagore è in pieno disaccordo. Lui pensa che tutto debba passare per la ragione, la scienza, l’oggettività.3

Gandhi è deluso: l’asram di Shantiniketan non è affatto come se lo aspettava, regnano il disordine e la mancanza di igiene. Spiega a Tagore il pericolo che corre nel friggere il pane nell’olio: «Così diventa un vero e proprio veleno». Tagore replica con ironia: «Allora dev’essere un veleno a effetto molto lento, perché è tutta la vita che lo mangio e non mi sono ancora trovato male»109. Mohandas vuole convincere gli studenti e i professori di Shantiniketan a mettere alla porta la trentina di bramini che lavorano lì come cuochi, così che provvedevano da soli alla cucina, a lavare i piatti e fare le pulizie. Tagore, divertito, li incoraggia a farlo ma, appena Gandhi parla di ricostruire le latrine, tutti se la svignano109.

Quando, nel frattempo, una flotta franco-inglese attacca la Turchia nei Dardanelli, una parte dei musulmani indiani invoca la guerra santa contro Londra e vuole partire per difendere il califfo contro gli inglesi.

Lo stesso giorno – due settimane dopo il suo arrivo da Tagore – Gandhi riceve un telegramma da Pune: Gokhale, che voleva prenderlo sotto la sua ala, è morto di diabete a quarantanove anni, nel suo paese d’origine. Gandhi è distrutto: «Avevo bisogno di un pilota sicuro per lanciarmi sul mare tempestoso della vita pubblica indiana, e mi sentivo sicuro solo sotto l’ala di Gokhale»170, scriverà. In segno di lutto decide di camminare a piedi nudi per un anno. E conferma l’impegno preso di non parlare in pubblico per un anno. Perde la poca fiducia che ancora riponeva nella medicina occidentale e spiega11 a Tagore che la guarigione dalle malattie dipende dall’autocontrollo, da un ambiente sano, da un’alimentazione frugale e dal rifiuto di qualsiasi medicina, tranne quelle composte dai cinque elementi (terra, acqua, fuoco, aria ed “etere”, che Gandhi chiama l’«immensità blu»). E aggiunge: «Produrre abbastanza legumi, frutta e latte nei villaggi è una parte essenziale di ogni trattamento naturale»11.

La morte di Gokhale rivestirà un ruolo capitale nel suo destino: lui aveva bisogno di un maestro e invece, più in fretta del previsto, si troverà in prima linea.

Primo “asram”

Verso l’inizio di marzo del 1915, dopo aver passato un mese presso Tagore, Gandhi parte con i suoi discepoli in pellegrinaggio al Kumbha Mela [la più grande festa hindu, N.d.T.], sulle rive del Gange, vicino ad Allahabad, a 120 chilometri da Benares, nel punto di confluenza tra Gange, Yamuna e Sarasvati, fiumi sacri e mitici; si tratta di uno dei luoghi più sacri dell’induismo e ogni dodici anni milioni di indiani arrivano al Triveni Ghat per bagnarsi in quelle acque.

Poi torna a Bombay e, in memoria di Gokhale, chiede di essere ammesso nei Servitori dell’India, ma il nuovo dirigente del gruppo, Srinivasa Sastri, tentenna e Gandhi ritira la sua candidatura; diventeranno comunque amici e compagni di lotta. Il 20 maggio apprende con tristezza la morte del suo secondo mentore, Mehta, l’avvocato di Bombay che l’aveva accolto tanto amichevolmente e a casa del quale aveva conosciuto Rajchandra.

Alla fine del mese deve decidere dove alloggiare il piccolo gruppo di diciotto persone tra giovani, donne e bambini (ora sono in venticinque) che hanno legato la loro sorte alla sua. Molte città, tra cui Rajkot, si offrono di accoglierlo. Alcuni industriali di Ahmedabad, capoluogo del più grande centro di produzione tessile del Gujarat, gli offrono ospitalità a Kochrab, un paese vicino; lui accetta: è vicino sia a Bombay che ai luoghi della sua infanzia.

Sistema la piccola truppa in una superba casa, di proprietà di un avvocato, che chiama pomposamente l’”asram del satyagraha”. Come in Sudafrica, tutti fanno voto di sincerità, di castità (comprese le coppie sposate), di ahimsa (nonviolenza), di povertà e di «servire il popolo indiano». Come in Sudafrica, è Gandhi a decidere tutto: impiego del tempo, abbigliamento, alimentazione. Stila una lista di undici doveri: la fede, la verità, la tolleranza, la morale, la rinuncia, la nonviolenza, l’amore, la disciplina, l’istruzione, la giustizia, il servizio149. Per lui il più importante è l’obbligo alla verità, di parola, di pensiero e di azione, perché «la menzogna, la fretta, le false promesse sono forme di violenza»169.

Ancora una volta il suo abbigliamento si evolve e di tanto in tanto indossa una tunica di khadi (una dhoti), che è semplicemente una specie di drappo legato in vita. Dà fuoco lui stesso ai suoi ultimi abiti occidentali e costringe la fidanzata del fratello maggiore a indossare una khadi bianca al suo matrimonio, anche se in India il bianco per le donne è il colore del lutto.

La sua principale preoccupazione è far vivere il suo asram, come ha fatto in Sudafrica. Innanzitutto cercando di rendere sicuro al massimo che si autofinanzi, grazie alle produzioni agricole e tessili, poi trovando delle risorse complementari. Inoltre servirà del denaro per pagare i suoi spostamenti: anche se viaggia in modo modesto, viene invitato dappertutto. Ci saranno sempre uomini e donne particolarmente fortunati ad aiutarlo: dopo Mehta, ci saranno Tata, Bajaj e molti altri, che incontreremo tra poco.

Il 7 maggio 1915 la guerra prende una nuova piega: a sud-est dell’Irlanda un sottomarino tedesco affonda una nave inglese, il Lusitania; ci sono 198 morti, di cui 128 americani. Il mare non è più sicuro.

Il 9 settembre, su una spiaggia vicina al golfo del Bengala, Jatin Mukherjee attende le armi promesse dai tedeschi. Ma invano: è stato tradito da alcune spie austroungariche. Le armi non arriveranno. Jatin viene ucciso insieme a quattro compagni95.

Gandhi cerca allora l’appoggio dell’ispiratore di Jatin Mukherjee, Sri Aurobindo, rifugiato a Pondicherry. Lo scrittore non lo riceve. Lo considera ossequioso, di ambizioni limitate, mediocre. Scriverà in seguito: «La lealtà di Gandhi non è un modello per l’India, che non è il Sudafrica. Un tono abietto e servile non ha niente a che vedere con la diplomazia e non è buona politica; esso non inganna né disarma l’avversario [...]. Non si tratta di ottenere qualche privilegio, ma di creare una nazione di uomini degni dell’indipendenza, capaci di conquistarla e conservarla»103.

Lo scandalo di Benares

A ottobre, prima crisi nell’asram di Gandhi: diversi membri hanno figli che vogliono mandare a scuola. Poiché è fuori questione far frequentare loro una scuola esterna all’asram, Gandhi si mette in cerca di un istitutore. La Società dei Servitori dell’India gliene trova uno, Sadabhai, che insegna a Bombay109. Lui, la moglie Danibhen e la figlia Lakshmi accettano le regole dell’asram. Unico ostacolo, e non da poco: sono degli intoccabili e la maggior parte degli hindu non vuole abitare con loro. Gandhi, per quanto lo riguarda, non ci vede nessun problema, ma Kasturba, i figli e il nipote, tra gli altri, sono contrari. E come ogni volta che i suoi non sono d’accordo con lui, Gandhi dice loro di prendere o lasciare: se non vogliono ammettere quegli intoccabili possono anche andarsene54. Kasturba si rassegna, il nipote Maganlal parte per Madras, per paura della “contaminazione”; alcuni finanziatori smettono di aiutarli, la fattoria rischia il fallimento. Gandhi non cede ed è pronto, dice, ad andare a lavorare con le sue mani nei bassifondi della città insieme agli intoccabili, quando riceve una donazione anonima di 13.000 rupie. In seguito scoprirà che il discreto benefattore è il proprietario di una grande fabbrica tessile della città, Ambalal Sarabhai. Qualche mese più tardi, Maganlal tornerà per dirigere la comunità. In seguito la famiglia Sarabhai giocherà un ruolo importante nel suo destino.

A novembre, in occasione del V anniversario dell’ascesa al trono di Giorgio V e con la firma di Lord Hardinge (lo stesso che si era indignato contro il massacro di Durban), Gandhi riceve una prestigiosa onorificenza britannica, la Kaisar-i-Hind, per i “servizi resi in Sudafrica”! A dicembre, ancora vincolato dalla sua promessa di non esprimersi in pubblico, non si reca alla conferenza annuale del Congresso, che si tiene a Bombay, e dove Annie Besant ha assunto un ruolo importante. Sir Reginald Craddock, responsabile della polizia presso il viceré, che fa sorvegliare il Congresso, descrive quest’ultima come «una vecchia dama futile spinta da un desiderio ardente di dirigere l’azione» e definisce Tilak «uomo morso dal veleno dell’odio antibritannico». Nel frattempo Gandhi visita l’India, come gli ha chiesto di fare Gokhale un anno prima.

Il 6 febbraio 1916 Annie Besant, allora al culmine della notorietà, invita il viceré all’inaugurazione del suo Hindu Central University College a Benares. Tutta l’élite del paese è presente: inglesi, maharajah e studenti del college34. Per giorni è un tripudio di discorsi sotto la presidenza del maharajah di Darbhanga, un hindu ortodosso che sovvenziona le attività di Malaviya e predica il ritorno a una stretta ortodossia braminica109. Annie Besant ha invitato anche Gandhi: ormai è passato quasi un anno da quando ha promesso a Gokhale di non parlare in pubblico. Il suo primo discorso sarà una grande attrazione.

Arrivato a Benares per prima cosa va a visitare uno dei più importanti templi dell’induismo, quello di Vishwanath, dedicato a aiva; resta scioccato nel trovarlo sporco, in stato di abbandono. Accede alla riunione, furioso per le varie perquisizioni che ha dovuto subire (nel 1912 il viceré Hardinge era scampato a un attentato) e per il lusso dei partecipanti109. Annie Besant invitandolo sulla tribuna lo presenta come un «saggio hindu», il che lo fa infuriare ulteriormente. È in preda alla collera. E colui che fu, e sarà ancora, il paladino della nonviolenza si rivela in quel caso capace di un’estrema violenza verbale, che deve dominare prima di controllare quella altrui. Si alza, vestito di un manto kathiawari e un turbante. Inizia scusandosi di doversi esprimere in inglese: «È con un sentimento di profonda umiliazione che mi vedo costretto, sotto il tetto di questo grande college, che si erige nel cuore della città santa, a rivolgermi a dei compatrioti in una lingua per me straniera [...]. Qualcuno di voi pensa che un giorno l’inglese potrebbe diventare la lingua nazionale dell’India?». «No, no!», gridano alcuni studenti, stupiti di udire queste frasi dopo tanti discorsi convenzionali. «Se volete che l’India vi ascolti, non dovete parlarle con le parole, ma con i fatti. Voi rivendicate l’autonomia per la vostra patria ma non siete neanche capaci di aver cura del vostro tempio di Vishwanath, che è in uno stato di sporcizia rivoltante!». Poi si rivolge ai maharajah: «Che specie di autonomia sarebbe, se non desse innanzitutto dei vantaggi ai contadini e agli operai?». Dopodiché si rivolge al viceré: «Se voi rappresentate un impero così potente, perché avete bisogno di tante misure di sicurezza? Perché avete tanta paura?»109. Poi denuncia quelli tutti ingioiellati che parlano di povertà e critica la costruzione di palazzi con i soldi del popolo32. Sbeffeggia avvocati, medici, proprietari terrieri, e ancora esorta gli studenti ad avere il coraggio di un confronto legale, nonviolento. In seguito denuncia gli errori dei rivoluzionari e predica un mondo senza padroni né poliziotti32.

Annie Besant tenta di interromperlo. La sala protesta. Molti si alzano. Gandhi continua, sottolineando l’importanza per l’India di riformare se stessa, prima di sperare qualsiasi cosa dagli altri: «È la slealtà verso noi stessi, indiani, a essere la radice di un’arroganza inglese così poco naturale al genio di questo popolo insulare. Aiutiamo piuttosto gli inglesi a restare inglesi quando amministrano l’India!»32. Annie Besant gli intima di tacere. La seduta è tolta in un brusio indescrivibile.

Quel giorno, nella sala, l’ascolta, sbalordito, un giovane studente che diverrà uno dei suoi principali discepoli e continuatore della sua opera alla sua morte, trent’anni più tardi: Vinoba Bhave.

Nel frattempo, in Europa gli irlandesi scelgono la violenza: il 24 aprile 1916, giorno di Pasqua, a Dublino, Patrick Pearse tenta un colpo di Stato e proclama la repubblica. La risposta inglese è immediata: una settimana dopo, Pearse è arrestato e giustiziato insieme a James Connolly, fondatore del Partito Repubblicano Socialista irlandese. È un chiaro segnale dato a tutti quelli che vorrebbero approfittare della guerra per sottrarsi all’Impero.

Nell’estate del 1916, molto più modestamente, Tilak e Annie Besant fondano all’interno del Congresso la Home Rule League con l’obiettivo di ottenere l’autonomia dell’India in seno all’Impero britannico.

Il 18 giugno, Tagore critica ancora l’Occidente davanti all’università di Tokyo, invitando a un risveglio dell’Asia contro l’Europa:

La civiltà che ci arriva dall’Europa è vorace e dominatrice: essa consuma i popoli che asservisce, stermina e annienta le razze che intralciano la sua marcia conquistatrice. È una civiltà tutta politica, dalle tendenze cannibali; essa opprime i deboli e si arricchisce a loro spese. È una macina. Essa semina dappertutto gelosie, dissensi. È una civiltà scientifica e non umana [...]. Noi pronostichiamo senza la minima esitazione che non potrà durare in eterno, perché il mondo è retto da una legge morale sovrana che si applica alle collettività come agli individui.151

Il 7 dicembre, a Londra, il primo ministro, Herbert Asquith, è rimpiazzato da David Lloyd George, mentre la guerra stagna su tutti i fronti, in particolare in Turchia.

Prima battaglia: l’indaco del Champaran

Nel novembre del 1916 Gandhi partecipa alla riunione del Congresso a Lucknow; Annie Besant, che ne ricopre la presidenza, sarà l’ultima europea a farlo. Tilak trova un accordo con la Lega Musulmana di Jinnah per «invocare insieme un’autonomia rapida dell’India». È il Patto di Lucknow tra hindu e musulmani. Gandhi presenta ancora una risoluzione sulla situazione degli indiani del Sudafrica, che dalla sua partenza è peggiorata. Si sforza di esprimersi in hindi, lingua di cui ha scarsa padronanza. Quando l’uditorio lo prega di continuare in inglese, lui risponde: «No! Anzi, visto che è così, per un anno pronuncerò tutti i miei discorsi in hindi!»109. Poco dopo, nei corridoi del Congresso, un bramino di quarantadue anni, Rajkumar Shukla, gli si presenta: possiede delle terre e dei bufali, e dà lavoro ad alcuni braccianti nel Champaran, un distretto del Bihar. È anche un coltivatore di indaco, gli spiega, e la situazione per lui sta diventando disastrosa155. Chiede a Gandhi di proporre una risoluzione che attiri l’attenzione del Congresso sulle sue difficoltà. Gandhi risponde che non ne sa niente ma, vista l’insistenza dell’uomo, promette di recarsi sul posto non appena possibile. Per essere sicuro che manterrà la promessa, l’interlocutore non lo mollerà per tre mesi.

Mentre nel marzo del 1917 a Pietrogrado comincia la Rivoluzione russa (gli Stati Uniti entrano in guerra contro gli imperi centroeuropei un mese dopo), l’agricoltore espone il suo problema: il distretto del Champaran è primo al mondo nella produzione dell’indaco (il colorante blu estratto da una pianta dell’India, l’indigofera, come indica il nome nelle diverse lingue). All’inizio del XIX secolo a Bettiah, capitale del Champaran, il Raj aveva affittato degli appezzamenti a certi europei con l’obbligo di produrvi l’indaco; questi europei, per la maggior parte funzionari, subaffittavano le terre a contadini e si facevano pagare prelevando i tre ventesimi del raccolto155. Questo sistema, chiamato tinkathia, aveva funzionato finché, all’inizio del XX secolo, la messa a punto di un indaco sintetico da parte di alcuni chimici tedeschi aveva rovinato il mercato del colorante naturale. Gli europei, locatari delle terre ma residenti in città, allora costringevano i contadini a pagare, in cambio della loro parte di raccolto, dei diritti di successione immaginari, tasse sull’utilizzo dell’acqua di canali di irrigazione inesistenti, contributi per l’acquisto da parte dell’europeo di un elefante, una casa, una macchina e così via155. Nell’agosto del 1914 la situazione si ribalta ancora: l’indaco chimico non passa più i confini della Germania e i contadini del Champaran sono di nuovo costretti a coltivare l’indaco sotto minaccia di multe e sevizie. Così le rivolte si moltiplicano. Un proprietario bianco è appena stato ucciso. È dovuto intervenire l’esercito131.

Il 14 aprile 1917 Gandhi arriva a Patna, capitale del Bihar, per la sua prima battaglia sociale in India. Va a bussare alla porta di Rajendra Prasad, giovane e brillante professore di diritto che ha conosciuto l’anno prima alla riunione del Congresso a Lucknow131. Vedendo un uomo vestito così poveramente, il domestico gli nega addirittura l’uso del bagno e gli chiede di attendere alla porta. Gandhi lascia il suo nome e dice che andrà ad aspettare da un’altra parte, in città, da un vecchio compagno di Londra. Un’ora dopo Rajendra Prasad lo raggiunge, mortificato, lo ascolta e decide di accompagnarlo a Muzaffarpur e a Motihari, due villaggi del Champaran. Partono il giorno dopo. Non si separeranno più131.

Il 15 aprile a mezzanotte, un professore di una scuola media statale di Muzaffarpur, Kripalani, va ad accoglierli alla stazione con i suoi allievi davanti alla carrozza di prima classe74. Non scende nessuno: i viaggiatori sono scesi da un vagone di terza classe e li aspettano dall’altra parte della banchina. Kripalani diverrà uno dei principali collaboratori di Gandhi e uno dei grandi protagonisti della lotta per la libertà. Sarà presidente del Congresso al momento dell’indipendenza. Prasad sarà il primo presidente dell’Unione Indiana dopo l’indipendenza.

L’indomani, Gandhi visita alcuni villaggi e fa domande. In realtà sta scoprendo l’India, come gli aveva chiesto di fare Gokhale. La situazione lì è ancora più miserabile di quanto immaginasse: la carestia, l’analfabetismo, la sporcizia, tutto lo sconvolge. La sua fama l’ha preceduto: si formano piccole folle155. Il 17, il capo della polizia locale gli ingiunge di lasciare il Champaran con il primo treno; Gandhi rifiuta. Convocato in tribunale per l’indomani, vi arriva attorniato da migliaia di contadini accorsi dai villaggi vicini. Quando il giudice inizia a interrogarlo, Gandhi lo interrompe: «Mi dichiaro colpevole»; legge una dichiarazione: «Io sono un cittadino rispettoso della legge; se ho rifiutato di obbedire all’ordine che mi è stato dato, non è per mancanza di rispetto verso l’autorità legale, ma in ossequio alla legge superiore che ci governa: la voce della coscienza»109. Sotto una valanga di applausi, il giudice annuncia che emetterà il verdetto tre giorni più tardi e decide di rilasciare Gandhi con una cauzione di 100 rupie, che lui si rifiuta di pagare. Il giudice cede e benevolmente lo libera, senza cauzione, tra i lazzi della folla.

Desideroso, come in Sudafrica, di far conoscere la sua vittoria il più possibile, Gandhi telegrafa al viceré, al Congresso, alla stampa. Il 20 aprile, l’amministratore britannico nel distretto scrive al governatore della provincia, Edward Gait: «Gandhi desidera ricoprire lo stesso ruolo di martire che ha avuto in Sudafrica»109 e si scusa anche di averlo fatto fermare, il che, sostiene, è il risultato di un «grave errore di giudizio», e il poliziotto che ha fermato Gandhi l’ha fatto senza riferire ai suoi superiori, perché, «a questo punto, è evidentemente impossibile impedire a un uomo dell’esperienza di Gandhi di fare la propria inchiesta, e il comportamento del responsabile locale non serve che a eccitare l’opinione pubblica e a far sospettare il governo di voler impedire un’inchiesta»110.

Per placare gli animi, il viceré, su consiglio del suo collaboratore, Sir Reginald Craddock, chiede al governatore del Bihar di nominare una commissione presieduta da Gandhi, per indagare sulla questione. Gandhi accetta e la commissione si riunisce subito; essa raccomanda all’unanimità l’abolizione del sistema e un rimborso del 25 per cento delle somme indebitamente estorte dai proprietari inglesi156. Quando Rajendra Prasad, che l’accompagna, gli chiede perché non abbia richiesto il rimborso totale delle somme, «Gandhi spiegò che i proprietari, in virtù del loro prestigio, potevano guardare i ribelli dall’alto in basso; il semplice fatto di abolire quel sistema e obbligarli a rimborsare una parte dei loro profitti illeciti sarebbe bastato a intaccare o addirittura rovinare il loro prestigio»131. Risposta importante; fin dall’inizio, Gandhi usa in India il metodo che ha applicato in Sudafrica e che applicherà fino alla sua morte: mai umiliare l’avversario, soprattutto quando è indebolito. Nel giro di dieci anni, tutti gli europei lasceranno il Champaran109.

Per migliaia di contadini Gandhi diventa il Mahatma o Bapu (‘padre’). L’amministratore britannico a Bettiah, altro distretto del Bihar, W.H. Lewis, scrive al giudice locale: «Possiamo anche considerare Gandhi un idealista, un fanatico, un rivoluzionario, ma per il popolo indiano è un liberatore a cui attribuisce poteri straordinari»155. Un giornale nazionalista di Calcutta, l’«Amrit Bazar Patrika», dichiara: «Dio benedica Gandhi e la sua opera! Vorremmo avere mezza dozzina di Gandhi in India per insegnare al popolo l’abnegazione e il patriottismo disinteressato»109. In pratica, ormai, ogni volta che compare in una stazione, la folla si accalca, la gente si precipita lì per avere l’onore di tirare al posto dei cavalli la carrozza che lo trasporta.

È allora che Gandhi assume anche Mahadev Desai, un altro giovane avvocato di Ahmedabad, che diventa il suo segretario. Gli dice: «In voi ho trovato l’uomo che mi serviva»37. Questi non lascerà più il Mahatma fino alla morte (avvenuta nel 1942).

Kripalani gli confida che lui stesso ha scoperto solo allora la realtà dell’India: «Prima del Champaran, i nostri contatti con le masse si limitavano ai nostri domestici»74. Venendo a sapere dalla stampa quello che è successo nel Champaran, il giovane Jawaharlal Nehru scriverà invece: «Una nuova immagine dell’India emergeva davanti a me, un’India affamata, miserabile»119.

Anche Gandhi ha avuto la rivelazione della miseria delle campagne indiane e ne è sconvolto. Così intraprende subito quello che chiamerà più tardi un «lavoro costruttivo», cioè un’azione concreta. A giugno fa venire Kasturba e Devdas, Desai, il dottor Dev dei Servitori dell’India e il professor Kripalani con le loro mogli. Apre nei villaggi del Champaran delle scuole elementari in edifici di fortuna prestati dagli abitanti. Questi provvedono ai bisogni dei professori che, in cambio, insegnano, spazzano le strade del villaggio, curano i pozzi neri. Il programma scolastico comprende rudimenti di lingua locale e principi di igiene109.

L’asram si trasferisce: Sabarmati

A ottobre, tornato nel suo asram, Gandhi conosce, nel corso di una conferenza a Godhra, un avvocato, Vallabhbhai Patel, e lo invita a cena all’asram di Kochrab. Il giovane spiega che suo padre ha partecipato alla rivolta dei sepoy, agli ordini della maharani Lakshmi Bai. Dopo aver studiato Legge in Inghilterra, Patel ha aperto uno studio ad Ahmedabad55. Tra i due nasce subito una forte intesa55. Patel diverrà, con Nehru, uno dei principali collaboratori di Gandhi e il primo vice primo ministro dell’India indipendente.

In Europa, la guerra ristagna. Moltissimi giovani indiani, tra tanti altri, vi perdono la vita. A Pietrogrado, in giugno, la crisi russa precipita; in India, alcuni vedono in essa una speranza. Annie Besant, presidente del Congresso, scrive su «New India»: «L’autocrazia è stata abolita in Russia e vacilla in Germania; ma, sotto la bandiera inglese, essa resta al suo posto»109. A Londra, la Camera dei Comuni concede il diritto di voto alle donne che abbiano compiuto i trent’anni. Il 6 luglio, Lawrence d’Arabia entra ad Aqaba alla testa delle truppe di Fayçal: i turchi stanno per essere cacciati dall’Arabia da questa coalizione anglo-araba. Il 20 agosto, Edwin Montagu, segretario di Stato dell’India, parla di aprire un po’ di più l’amministrazione indiana agli autoctoni. In quello stesso mese, ad Annie Besant è interdetta la residenza in molte province per le sue dichiarazioni, poi viene imprigionata a Coimbatore.

Nel frattempo, ad Ahmedabad si scatena la peste. Gli industriali del settore tessile (in particolare Ambalal Sarabhai, che ha aiutato Gandhi a finanziare il suo asram) devono corrispondere agli operai un’”indennità di peste” pari all’80 per cento del loro salario per dissuaderli dal lasciare la città.

A ottobre, gli Stati Uniti entrano nel conflitto mondiale, il cui esito continua a essere incerto. Mentre all’inizio di novembre un colpo di Stato bolscevico scatena la Rivoluzione d’Ottobre, in Sudafrica la tassa sull’immigrazione, che era stata reintrodotta, è nuovamente abolita. Gandhi manifesta la sua lealtà verso la Gran Bretagna in guerra: «La lealtà non è un merito; è un obbligo per tutti i cittadini, in tutto il mondo»112.

Il 15 dicembre, la Russia bolscevica e la Germania decidono di aprire dei negoziati a Brest-Litovsk in vista di un armistizio. Gandhi ne approfitta per chiedere al Congresso di raccogliere firme in tutta l’India a sostegno di un memorandum indirizzato a Edwin Montagu, il nuovo segretario di Stato dell’India, esigendo al più presto «un governo autonomo», come hanno chiesto a Lucknow il Congresso e la Lega. Suggerisce di redigere il memorandum in tutte le grandi lingue dell’India. A ottobre, in Gujarat vengono raccolte 8.000 firme grazie a Gandhi; nessuno riesce a fare di meglio nel resto del paese. Ciascuno misura la propria popolarità. Nascono discussioni tra Edwin Montagu, Lord Chelmsford e i leader del Congresso su un’eventuale riforma (modesta) dello statuto dell’India all’uscita dalla guerra.

All’inizio dell’inverno del 1917-18, a Pietrogrado, i commissari del popolo (nuovo nome dei responsabili dei ministeri) del Partito Bolscevico che ha preso il potere, chiamano i popoli del Medio Oriente e gli indiani ad «abbattere la tirannide di chi [li] depreda da un secolo». Gandhi intanto è tornato a Kochrab. Nomina Kripalani, l’istitutore del Champaran, acarya (‘preside’) della scuola che vuole creare per i bambini dell’asram74. Intende farne un esempio di quello che comincia a chiamare, come si è visto, «un programma costruttivo».

A dicembre, mentre le truppe di Allenby prendono Gerusalemme, l’epidemia di peste che infuria ad Ahmedabad raggiunge Kochrab. L’asram allora si sposta un po’ più lontano, a Hriday Kanj, sulla riva sinistra del Sabarmati, su un appezzamento di 75 ettari, di proprietà di Ambalal Sarabhai; l’industriale tessile vive sull’altra sponda del fiume, che si può attraversare facilmente, tranne nel periodo dei monsoni. Con l’aiuto del ricco vicino, la giungla viene dissodata per far spazio a casette, tra cui quella di Gandhi – ampia e confortevole, con quattro stanze e un patio, attorno a un refettorio –, una scuola, una biblioteca, laboratori di filatura e tessitura, una latteria; alcune porzioni di terreno vengono coltivate a legumi e cotone. Il luogo è vasto e sereno. Gandhi pianifica tutto e lascia la gestione a Maganlal, che ha diretto Phoenix. Mahadev Desai lo raggiunge dopo aver conseguito la laurea in Legge all’università di Bombay; poiché ha una bella grafia Gandhi ne fa il suo segretario e gli detta la corrispondenza. Ancora una volta, pur dandosi da fare per autofinanziarsi il più possibile grazie alle produzioni dell’asram, Gandhi dovrà trovare delle risorse supplementari andando da grandi industriali privati.

Quell’anno, la morte di Sir Dadabhai Naoroji, l’avvocato di Calcutta diventato parlamentare britannico, fa di Tilak e Jinnah i due principali leader del Congresso.

Di Tilak, il ministro delle Colonie, Edwin Montagu, che rivestirà in seguito un ruolo importante nella creazione dello Stato d’Israele, scrive sul suo diario109: «Tilak è probabilmente oggi la personalità più potente dell’India [...]. È un riformatore sociale che vuole trovare dei compromessi per migliorare le condizioni di vita del popolo. Si veste come un coolie, non cerca alcun vantaggio personale, vive dell’aria che respira; è un puro visionario»93. Su Jinnah, lo stesso Montagu osserva che è un «oltraggio che un uomo come Jinnah non abbia alcuna chance di gestire gli affari del proprio paese»93. Riferisce che il corrispondente in India del «Manchester Guardian» gli avrebbe confidato: «Jinnah pensa che, quando la dottoressa Annie Besant e Tilak saranno scomparsi, lui diventerà il capo».

A dicembre, alla riunione del Congresso a Calcutta, Gandhi invita al boicottaggio dei tessuti di importazione, causa di un danno economico nonché identitario. Quando gli amici della Besant vanno a chiedergli consiglio sul modo migliore per ottenere la sua liberazione dalla prigione, lui suggerisce che un centinaio di volontari intraprendano una marcia, percorrendo i 1.500 chilometri che separano Bombay da Coimbatore...

La giovane poetessa bengalese Sarojini Naidu, tornata dal fronte, col suo stile così particolare definisce Gandhi come un «capriccioso sognatore di sogni impossibili e imbarazzanti» e descrive l’ascendente di colui che è divenuto per molti il Mahatma: «L’apparizione improvvisa, oggi, di san Francesco d’Assisi col suo saio, a Londra o a Milano, non sarebbe molto più sconcertante della presenza di quest’uomo dai piedi nudi, dalle vesti rozze, dagli occhi placidi, calmo, con un gentile sorriso ironico, che rifiuta, anche se lo riceve, un omaggio che nemmeno gli imperatori possono comprare».

I due primi satyagraha in India: Kheda e Ahmedabad

Due questioni intrecciate, due primi satyagraha in India, entrambi nel Gujarat, vicino casa sua, vengono a consolidare la reputazione di Gandhi.

Nel dicembre del 1917, alla riunione del Congresso a Calcutta, due contadini, Mohanlal Panda e Sankarlal Parikh, del villaggio di Sabha, nel distretto di Kheda, nel Gujarat, incoraggiati dal successo del Champaran, chiedono a Gandhi di aiutarli a essere esonerati dalle tasse: l’amministrazione fiscale, dicono, lo concede quando il raccolto è magro, come lo è stato quest’anno a causa delle piogge torrenziali; ma il fisco, intreccio di funzionari indiani e inglesi, non vuole sentirne parlare.

Quindici giorni dopo, Gandhi, di ritorno nel Champaran dove cerca di avviare delle scuole e migliorare l’allevamento155, riceve la visita di Anasuyaben Sarabhai, sorella di Ambalal Sarabhai. Anasuyaben, che è stata educata in Inghilterra, gli spiega che una volta finita l’epidemia di peste gli imprenditori, tra cui suo fratello, vogliono sopprimere il premio di rischio per gli operai tessili, e questo non è giusto perché il costo della vita è più che raddoppiato dal 1914. Lui promette di studiare la questione.

Mentre, l’8 gennaio 1918, senza consultare gli europei, il presidente Wilson espone un programma in quattordici punti per mettere fine al conflitto mondiale proclamando il diritto all’autodeterminazione dei popoli (compresi dunque gli indiani), Gandhi decide di studiare come priorità il dossier di Kheda. Si reca sul posto e consiglia ai contadini di rifiutare di pagare l’imposta e di affrontarne le conseguenze. Si devono verificare, dice, due condizioni: il comitato esecutivo del villaggio deve approvare all’unanimità questa strategia che implicherà dei rischi per tutte le famiglie; inoltre deve accettare che la lotta sia diretta da lui stesso o da qualcuno che lui designerà. Nomina allo scopo Vallabhbhai Patel, l’avvocato di Ahmedabad56.

Patel è entusiasta all’idea di dirigere quella che sarà una prima resistenza passiva, un satyagraha in India. Ha però qualche dubbio: dovrebbe rinunciare alla sua clientela di avvocato per un periodo indeterminato, e quindi correre dei grossi rischi per sé e per i suoi due figli55. Alla fine accetta. La seconda condizione è accolta, anche se un membro indeciso del comitato di villaggio si astiene. 3.000 contadini firmano così il giuramento di non pagare la tassa, quali ne siano le conseguenze. L’amministrazione fiscale si abbatte su di loro, moltiplicando le confische di bestiame e immobili. Quasi nessuno cede. In qualche caso le reazioni degli scioperanti sono violente. Gandhi, che vuole assolutamente una «guerra pacifica», protesta quando alcune donne e bambini picchiano un mamlatdar (agente delle tasse) venuto a confiscare i loro bufali.

Poi Gandhi va a trovare l’amministratore della provincia, Frederick Pratt, personaggio interessante, assai rappresentativo di quell’”armatura d’acciaio” di cui gli inglesi vanno tanto fieri. Questi previene Gandhi: «In India, disobbedire alla legge fiscale è molto diverso dall’infrangere le altre leggi; significa fare un passo inaccettabile, perché è minacciare di rovesciare l’amministrazione»55. Nei cinque mesi che seguono, da gennaio a marzo, Pratt negozia rudemente con Patel e a volte con Gandhi, che in pubblico chiama rispettosamente “Mahatma”. Alla fine si trova un accordo: la tassa non è abolita, ma i contadini più poveri ne sono esonerati. Secondo successo in India, sempre in campagna, ma questa volta non contro i latifondisti, bensì contro l’amministrazione britannica. E questo, grazie alla sola personalità di Gandhi.

Kripalani, che ormai lo seguirà dappertutto, nota il suo straordinario ascendente e osserva la trasformazione di Patel a contatto con Gandhi, come anche quella di Desai:

Patel è sotto l’influenza della personalità di Gandhi. Prima, viveva come un giovane avvocato sulla cresta dell’onda [...]. Poi ha rinunciato ai suoi abiti stranieri e alla sua vita agiata. Vive con gli operai, condivide il loro cibo, dorme sullo stesso suolo, fa tutto da sé, si lava la biancheria, percorre lunghe distanze a piedi per recarsi nei villaggi... Ma è più raggiante che mai, allegro e sorridente. L’ho visto spesso accadere nella vita di molti dei nostri leader: quando si uniscono alla lotta per la libertà, è come se si lasciassero alle spalle la vecchia vita. Sono born again come indiani.74

Avendo affidato a Patel il grosso della battaglia di Kheda, Gandhi torna a Sabarmati per occuparsi degli operai tessili di Ahmedabad che hanno subito l’abolizione del premio che rappresentava l’80 per cento dei loro salari. Il 1° marzo 1918 consiglia loro di scioperare per ottenere un aumento del 50 per cento e di impegnarsi a rispettare tre principi durante lo sciopero: nonviolenza, non-mendicità, non-compromesso. Gli operai tentennano: non hanno mai scioperato e non hanno riserve economiche. Alla fine accettano e giurano di tener fede alla loro decisione55. Il 4 marzo, di fronte a questa prima interruzione del lavoro nell’industria tessile in India, gli imprenditori procedono a una serrata. Per gli operai, ciò significa la perdita di ogni risorsa. La lotta è iniziata.

Anasuyaben, la sorella dell’imprenditore amico di Gandhi, passa le sue giornate nelle case degli operai a curare i malati e a distribuire viveri. Ogni mattina di quella settimana, Gandhi redige un bollettino di informazione che Anasuyaben fa stampare a sue spese, in cui esorta gli scioperanti ad approfittare di questa involontaria inattività per riparare le loro case, imparare a leggere, oppure apprendere un nuovo mestiere. Ogni sera, gli operai si ritrovano sotto una babul (acacia) sulla riva della Sabarmati, accanto all’asram, davanti alla grande proprietà dei Sarabhai, per ascoltare Gandhi. Il quale promette loro che, se lo sciopero fallisse e li riducesse in miseria, lui sarà il primo a lasciarsi morire di fame. Dopo qualche giorno, il morale degli scioperanti comincia a cedere: nessuno trova un altro lavoro; inoltre, dato che hanno giurato di non cercare aiuti finanziari all’esterno, si trovano con nulla in mano. Il 6 marzo, gli industriali, che sentono vicina la vittoria, vanno da Gandhi: «Gli operai per noi sono come dei figli, perciò non immischiatevi nei nostri affari di famiglia»109. Il 9, Ambalal va a pranzo con Gandhi: c’è anche Anasuyaben, che serve il fratello; il giovane, più aperto dei suoi colleghi, accetta la costituzione di una giuria di mediazione composta da tre rappresentanti di ogni parte (padroni e operai) sotto la presidenza dell’esattore locale, un funzionario rispettato, Anandshankar Dhurva. Il 12, i mediatori propongono un aumento del 35 per cento invece del 50 richiesto. I padroni rifiutano questa intromissione e annunciano che gli operai che rifiuteranno il 20 per cento saranno licenziati: non sarà difficile rimpiazzarli. Il 15, qualcuno accetta. Gandhi li esorta a resistere; uno di loro fa notare che lui e Anasuyaben, che «vanno e vengono in carrozza» e «mangiano cibo raffinato», non possono capire minimamente la situazione degli scioperanti affamati, senza altro impiego in vista109. Questa osservazione ferisce Gandhi; alla riunione del pomeriggio spiega di essere dispiaciuto nel vedere ormai solo «mille volti tristi» invece dei «circa cinquemila volti raggianti e determinati di un tempo». Aggiunge: «Non posso tollerare che infrangiate il vostro giuramento. Da adesso, non mangerò più niente, e non userò più la carrozza finché non avrete ottenuto il vostro aumento del 35 per cento»110. È il suo primo sciopero della fame in India. Molti altri digiuni (undici in tutto per l’esattezza) scandiranno ancora la sua vita. Ogni volta più estremi, più seguiti a livello nazionale e poi mondiale. Per lui questo è un elemento chiave: digiunare per espiare i suoi errori e costringere gli altri a riflettere sui propri.

Ambalal protesta: «È una questione tra noi e i nostri operai. Non dovete mettere in pericolo la vostra vita». Neanche la sorella vuole che lui digiuni. In seguito, Gandhi dirà di essere stato tormentato dall’angoscia della giovane donna «che [gli] era attaccata con l’affetto di una sorella»169. Riconosce da sé che il suo digiuno è una forma di ricatto:

Beninteso, non si può negare che il digiuno possa arrivare a esercitare una sorta di coercizione. Questi sono i digiuni che mirano a un obiettivo egoistico. Un digiuno intrapreso per estorcere denaro a qualcuno, o per uno scopo personale simile, equivarrebbe all’esercizio di una coercizione o di una pressione ingiustificata. Io prevedo senza dubbio di resistere a simili pressioni. Personalmente ho resistito ai digiuni intrapresi contro di me o di cui sono stato minacciato. Poiché si dice che il confine tra egoismo e altruismo sia spesso molto tenue, invito chi considera il fine di un digiuno come egoistico o basso a rifiutare decisamente di cedervi, anche se questo può provocare la morte di chi digiuna.

I negoziati si rifanno febbrili. Il 18, dopo tre giorni di digiuno, i negoziatori mettono a punto una formula complessa che permette a ciascuno di salvare la faccia. Innanzitutto, i padroni accettano la mediazione dell’esattore; poi, gli operai riprendono il lavoro con un aumento di salario del 35 per cento il primo giorno, del 20 il secondo, del 27 il terzo, e infine del 35. Il doppio risultato generale è l’accettazione della procedura della mediazione e la creazione di un sindacato degli operai tessili, l’Ahmedabad Textile Labour Association, il primo del Gujarat.

Il 19 marzo 1918, dopo quattro giorni, Gandhi rompe il suo primo digiuno indiano. L’amministratore britannico Pratt, che segue la questione, osserva: «Finché gli operai seguiranno le raccomandazioni di Gandhi Sahab, essi otterranno il benessere e la giustizia»109.

Molto tempo dopo, Frederick Pratt diverrà un importante diplomatico, mentre il fratello minore, William Henry Pratt, emigrato in Canada nel 1909, sarà famoso in tutto il mondo come interprete al cinema del ruolo di Frankestein sotto il nome di... Boris Karloff!

Sergente addetto al reclutamento

Alla fine di giugno, Gandhi viene a sapere che la guerra in Europa si mette male per gli inglesi, sia contro i tedeschi che contro i turchi. Le truppe franco-britanniche, nelle trincee, sono allo stremo. Il governo di Londra decide quindi di arruolare 500.000 indiani su base volontaria per dare il cambio ai “poilus” [‘pelosi’, soprannome dato ai soldati francesi, N.d.T.]. Come molte altre personalità indiane, Gandhi è invitato a Delhi dal viceré, Lord Chelmsford, per discuterne. Arrivato a palazzo, scopre che né Tilak (che tuttavia si è impegnato a non criticare il governo britannico), né Jinnah, né i fratelli Ali (che si sono schierati dalla parte della Turchia) sono stati invitati. Allora protesta: «Senza di loro, questa conferenza perde gran parte del suo valore. Non può uscirne fuori niente». Convinto di riuscire a spuntarla in un faccia a faccia, vuole incontrare il viceré senza partecipare alla conferenza, ma poi accetta di assistervi e incoraggia gli altri leader indiani ad approvare la mobilitazione: «Coloro che non possono battersi non possono dare prova delle virtù della nonviolenza»109. Nel corso della conferenza, dichiara pubblicamente: «Nella piena consapevolezza delle mie responsabilità, io do il mio assenso a questa mozione». Si spinge ancora oltre e, senza che nessuno glielo abbia chiesto, promette di reclutare lui stesso 600 uomini, ovvero uno per ciascuno dei 600 villaggi del distretto di Kherala in cui ha appena riportato un successo che lo ha reso molto popolare. Scrive ad Annie Besant e Jinnah per esortarli a unirsi a lui per spingere gli indiani ad arruolarsi ricorrendo a un argomento assai lontano dalle sue idee: questa guerra, dice, è un’occasione unica di imparare a servirsi delle armi di cui gli indiani sono privi, poiché il porto d’armi è vietato fin dalla nascita del Raj. «Io non dico che l’India debba combattere, ma che l’India debba conoscere nel dettaglio l’arte della guerra. Partecipando a questo sforzo, avremo in pugno l’Inglese».

A partire da giugno, Gandhi percorre in lungo e in largo il distretto di Kheda, accompagnato da Patel e Kripalani, per reclutare; ma, malgrado la sua notorietà, viene mal accolto.

Sto affrontando la prova peggiore della mia vita. Io voglio mandare degli uomini in battaglia, cioè a rischiare la morte [...]. E immagino che, attraverso questo mare di sangue, troverò il mio paradiso. Trovo gente incapace di uccidere. Come predicare loro la nonviolenza? Gli insegnano l’arte di uccidere. È tremendo [...]. In certi momenti, il mio cuore sprofonda.131

Si sente «reo di trasformare i più deboli nei più coraggiosi», sottolinea Patel. Insiste con i contadini sul loro dovere di “cooperare” con gli inglesi. Nessun successo, nonostante i primi sprazzi di coinvolgimento. Dopo dieci settimane, riesce a dare agli inglesi solo 100 nomi, tra cui quello di Patel e il suo. Rajendra Prasad osserva che Gandhi è turbato: «Io non so più cosa desidera Dio»131. Nel frattempo, a Sabarmati, la moglie di Harilal, Gutlab, muore, lasciandolo solo con quattro figli54.

L’11 agosto, nel corso di una campagna di reclutamento a Nadiad, in un caldo infernale, Gandhi sviene. Informati da Patel, Ambalal e la sorella vanno a prenderlo e lo portano a casa loro, dove si riposa un mese; è sfinito, rifiuta le cure e insiste per essere trasportato dall’altra parte del fiume, all’asram di Sabarmati. Si sente talmente a corto di forze che si prepara a morire: «Il mio ultimo messaggio all’India è che essa troverà la sua salvezza attraverso la nonviolenza; è con la nonviolenza che l’India contribuirà a salvare il mondo»169. Delira un po’, dichiara che le sue azioni sono dettate da Dio o da «una voce esteriore»54; che la sofferenza è redentrice; la penitenza, fonte di gioia; il sacrificio, una forma di azione. Poi gli torna la voglia di vivere: accetta di bere del latte di capra; scriverà poi che l’olfatto ha un ruolo fondamentale nel ritorno alla salute e, cosa piuttosto curiosa, che «la volontà di vivere si rivelò più forte della devozione alla verità»170.

Si alza dal letto e a luglio tiene un discorso ad alcuni studenti di Ahmedabad, a cui chiede di pulire la città invece di studiare delle scienze di origine inglese, inutili e addirittura nocive; qui risiede, dice, la vera swaraj, l’autonomia. Ad agosto, nel corso di una sessione straordinaria del Congresso, a Bombay, Gandhi vende le ultime copie del suo libro Hind swaraj e un piccolo settimanale clandestino, il «Satyagraha». Tilak, insieme ad Annie Besant, lancia una fervente campagna contro la Gran Bretagna e viene arrestato di nuovo.

Il 30 ottobre 1918, mentre Gandhi si riposa a Bombay nella casa dell’amico Pranjivan Mehta, viene firmato un armistizio tra Turchia e Regno Unito. Il 9 novembre, Guglielmo II abdica; l’11 la Germania capitola a Rethondes. La guerra è finita. Kallenbach potrebbe finalmente raggiungere Gandhi, invece si trasferisce a Durban, per lavorare come architetto, e si sposa. Le vie dei due uomini si sono definitivamente separate, anche se continueranno a scriversi due volte al mese; dovranno attendere una ventina d’anni per rivedersi. A novembre, Harilal vorrebbe risposarsi. Il padre si oppone: «Come posso io, che ho sempre incoraggiato l’astinenza sessuale, incoraggiarti a romperla?»54.

Il 28 dicembre, i repubblicani irlandesi trionfano alle elezioni promesse; a Parigi un operaio immigrato, che diverrà Ho Chi Minh, aderisce alle Jeunesses Socialistes. Nel frattempo, in India, il Congresso elegge presidente Motilal Nehru, che presenta a Gandhi suo figlio Jawaharlal. È un avvocato di trent’anni, di ritorno dagli Stati Uniti e da Londra, che sogna di entrare in politica. Su richiesta del padre, che non desidera vedere il suo rampollo impegnarsi in quel tipo di lotta, Gandhi gli dice: «Il paese ha bisogno di grandi avvocati, diventatelo, questo ci sarà utile»157. Nehru non è convinto: «Gandhi era troppo distante, diverso e apolitico per noi giovani, in quel momento»119.

Il primo svadesi

La Gran Bretagna esce dalla guerra esangue. Solo le colonie, in particolare l’India, forniscono ancora a Londra le risorse necessarie a una grande potenza. Ma la loro partecipazione alla prima guerra mondiale, i quattordici punti del presidente Wilson (che affermano il diritto dei popoli a disporre di se stessi) e l’appello lanciato dall’Internazionale Comunista agli abitanti delle colonie a sollevarsi conferiscono un peso nuovo alle loro rivendicazioni.

Così, a dicembre, mentre l’epidemia di influenza detta “spagnola” stermina una popolazione indiana già indebolita da malaria e colera, il viceré decide di prorogare le misure d’urgenza prese durante la guerra: queste leggi, chiamate Rowlatt Act dal nome del giudice che presiedeva il comitato incaricato della loro stesura, danno ai governatori delle province il diritto di arrestare chiunque senza processo e di vietare qualsiasi pubblicazione. Risultato: indignazione diffusa, in particolare nel Punjab, dove molti uomini sono morti nelle trincee.

A gennaio del 1919, Gandhi, furioso nel constatare ancora una volta che la sua solidarietà con gli inglesi non è valsa a nulla, vede in questo un’occasione per lanciare la sua prima azione politica su grande scala. Lo farà senza passare dal Congresso.

Il 28 marzo convoca nel suo asram, come per un vero e proprio complotto, Vallabhbhai Patel, Benjamin Guy Horniman (il caporedattore britannico del «Bombay Chronicle»), Sarojini Naidu, Umar Sobhani (un musulmano proprietario di una filanda a Bombay), Anasuyaben Sarabhai, Yagnik e Shankerdal Bunker, direttori di giornali («Young India» e «Navajivan») e un attivista nazionalista che l’ha aiutato finanziariamente (ma il cui nome è rimasto ignoto), e li chiama Indian covenanters (‘congiurati indiani’). Senza consultare il Congresso, fa firmare loro un testo da lui redatto, che contiene un appello a boicottare le importazioni occidentali finché le leggi Rowlatt resteranno in vigore, e questo a partire dal 30 marzo.

Invita così all’hartal (sciopero generale), al satyagraha e allo svadesi (boicottaggio dei prodotti stranieri).

Questo vale per tutta l’India, eccetto i principati «i cui abitanti non sono stati abituati a esprimersi, e che sarebbe troppo difficile tenere sotto controllo durante una tale campagna di massa». Il Congresso non si esprime. Gli uomini d’affari che devono la loro fortuna alla cooperazione con gli inglesi rifiutano di associarsi al movimento. Tagore si preoccupa di questo boicottaggio dei prodotti stranieri e lo scrive a Gandhi: «Nessun popolo può fare la propria salvezza staccandosi dagli altri»150. Gandhi gli risponde che per lui conta solo il bene dell’India, non quello dell’umanità103. Jinnah (che decisamente non apprezza molto Gandhi, col suo spirito religioso, la sua propensione all’autoanalisi, l’importanza che assegna alle astrazioni e quella che chiama la sua “umiltà esibizionista”) protesta: «Quali ne siano le conseguenze, fremo di orrore in anticipo!»109; eppure guida comunque a Bombay una manifestazione contro una cerimonia d’addio al governatore, Lord Willingdon, che più tardi tornerà a Delhi in veste di viceré.

Il movimento esordisce il 30 marzo 1919. Immediatamente vi aderiscono in molti, portandolo all’eccesso.

Il massacro di Amritsar

Fin dai primi giorni, le cose sfuggono di mano: ad Ahmedabad alcuni inglesi sono molestati, le case saccheggiate; viene proclamata la legge marziale. Gandhi racconta, desolato, sul suo diario:

Nel Kheda, dove il tasso di criminalità è più elevato che negli altri distretti, questa gente, al grido di “Mahatma Gandhi” ha divelto rotaie e fatto deragliare treni, e se non fosse stato per un puro caso, avrebbero causato la morte di centinaia di soldati. Gli operai delle filande di Ahmedabad hanno fatto lo stesso: si è sparsa una falsa voce secondo la quale Anasuyaben era stata arrestata o aggredita. Gli operai hanno attaccato un posto di polizia, catturato un sergente inglese, l’hanno ucciso, poi hanno bruciato il suo corpo in mezzo alla strada; hanno incendiato gli uffici postali e causato molti altri danni.109

Gandhi pensa allora di arrestare un movimento che, lanciato da appena dieci giorni, gli sfugge di mano, ma non fa in tempo: il 10 aprile ad Amritsar, nel Punjab (dove si trova il più sacro santuario sikh, il Tempio d’Oro), il governatore fa arrestare due deputati, un musulmano, il dottor Kichlu, appena tornato da quattro anni al fronte in Europa, e un hindu, il dottor Satyapal. Le manifestazioni di massa degenerano. Cinque europei e trenta indiani restano uccisi. Il 12, Gandhi tenta di recarsi sul posto per calmare la situazione, ma la polizia lo ferma alle porte di Delhi e lo scorta fino a Bombay. In una lettera del 12 aprile Tagore si rivolge direttamente a Gandhi chiamandolo “Mahatma” per la prima volta per iscritto e rinuncia pubblicamente al titolo nobiliare conferitogli da Giorgio V. Il 13 aprile 1919 il quotidiano angloindiano «The Englishman» commenta: «Come se importasse in qualche modo per la reputazione, l’onore e la sicurezza del regno e della giustizia britannici se questo poeta bengalese resti un knight [‘cavaliere’] o ridiventi un semplice Babu!».

Quel giorno stesso, in 10.000 tra uomini, donne e bambini si riuniscono in un parco della città, il Jallianwalla Bagh (bagh significa ‘giardino’ in punjabi e in urdu). È una manifestazione pacifica che prende come spunto le feste del Baisakhi, cerimonia tradizionale del nuovo anno punjabi. Ma il governatore della provincia si crede attaccato da manifestanti aggressivi e invia il generale Reginald Dyer, nato in India, alla testa di 25 gurkha e 25 pathan e baluchi armati di fucili 303 Lee-Enfield e di due mitragliatrici. Il generale fa bloccare l’ingresso principale del parco e ordina di sparare a caso sulla folla, in particolare sulle quattro uscite ancora aperte verso cui si precipita la gente. Quando certi soldati esitano e sparano in aria, Dyer ordina loro di mirare più in basso minacciandoli di morte. Le scariche durano dieci minuti; vengono sparate migliaia di pallottole e uccise 379 persone; migliaia di feriti sono abbandonati sul posto. I morti e i feriti sono tutti hindu in un paese musulmano. La sera stessa, il governatore del Punjab si complimenta con Dyer, decreta la legge marziale per l’intera provincia, che chiude per due mesi a qualunque visitatore; 51 “agitatori” sono condannati a morte e 46 all’ergastolo.

Grandissimo turbamento in tutto il paese.

L’“errore himalayano”

L’indomani, il 14 aprile, da Nadiad, nel Kheda, dove si trova, Gandhi dichiara di aver commesso un “errore himalayano” (formula che diverrà proverbiale in India) lanciando il movimento svadesi; poi torna a Sabarmati, a 100 chilometri da lì. Scriverà più tardi: «Ho capito di aver fatto un errore di calcolo himalayano proponendo la disobbedienza civile a gente che ignorava totalmente l’arte del satyagraha. Quest’arte viene istintivamente a chi è naturalmente rispettoso della legge»170. E questo non è il caso, secondo lui, delle masse indiane. D’ora in poi ripeterà senza sosta che l’India dovrà riformare se stessa prima di agire.

In un testo essenziale per comprendere la sua concezione della nonviolenza, aggiunge addirittura che la disobbedienza civile deve arrivare anche all’accettazione tranquilla del massacro di chi protesta:

La popolazione riunita a Jallianwalla Bagh non avrebbe dovuto fuggire o anche solo voltare le spalle quando le hanno sparato addosso. Se il messaggio della nonviolenza l’avesse toccata, essa avrebbe dovuto, quando è stato aperto il fuoco, avanzare marciando, a petto scoperto, e morire gioiosamente nella convinzione che ciò avrebbe significato la libertà per il suo paese [...]. Noi abbiamo fatto il gioco del generale Dyer, perché abbiamo agito come lui aveva previsto. Lui voleva vederci fuggire davanti alla canna del suo fucile, voleva che strisciassimo tracciando linee con il nostro naso per terra. Questo fa parte della politica dell’“a ferro e fuoco”. Quando affrontiamo questa politica guardandola dritta negli occhi, essa svanisce come un’apparizione.169

Gandhi assumerà la stessa posizione, vent’anni più tardi, verso la Shoah, dicendo che le vittime ebree devono affrontare il boia nazista con il sorriso...

Il 18 aprile, tornato a Sabarmati, dichiara che intraprenderà tre giorni di digiuno per penitenza. E che sospenderà il satyagraha. I leader del Congresso s’infuriano: perché invece non sfruttare l’indignazione provocata da quel massacro per intensificare il movimento? In generale, i biografi di Gandhi, che non vogliono criticarlo troppo, non insistono su questa scelta; uno storico indiano, Majumdar, si arrischia a dire che «rimane un mistero»109. Questo gesto, comunque, lo rifarà spesso: interrompere un movimento perché uscito dai binari.

Il silenzio, larcolaio, la dhoti

Gandhi inoltre prende tre decisioni che si riveleranno definitive: il silenzio, l’arcolaio, la dhoti.

Da una parte, convinto di aver agito in maniera troppo affrettata, decide che d’ora in poi passerà in silenzio tutti i lunedì senza eccezione, per ricercare la pace interiore secondo i principi hindu del mauna (‘silenzio’ in sanscrito) e della santi (‘pace’). Fino a quel momento lo aveva fatto solo occasionalmente; da adesso non infrangerà più questa regola se non in circa due occasioni, fino alla sua morte. In realtà, ama sempre più parlare con i gesti e moltiplica i contatti fisici; riempie giovani e vecchi di pacche sulle spalle, fa smorfie, poggia la mano sulla spalla ai giovani dell’asram passeggiando, o sulla testa in segno di benedizione54. Vedremo che questi contatti fisici non sono tutti innocenti...

Poi Gandhi decide di filarsi da solo il cotone, tessere da solo la stoffa e confezionarsi da solo i vestiti. In un villaggio vede un arcolaio e ne intuisce tutta la portata simbolica. Se ne mette uno in camera e per lui è una scoperta grandissima; allo stesso tempo disciplina manuale e occasione per concentrarsi, isolarsi dal mondo, riflettere, controllarsi, protestare contro l’influenza occidentale: questa sarà la risposta all’umiliazione. Tuttavia l’arcolaio non viene dalla tradizione indiana: è un attrezzo messo a punto in Europa e non c’è nessun legame con la ruota del destino, anche se in hindi le due parole (carkha e cakra) si somigliano foneticamente. Gandhi spiega che il carkha (l’arcolaio) e la khadi (il tessuto di cotone) lo mettono in relazione con un tessitore del XV secolo originario del Nord dell’India, KabHr, che cercò di creare dei legami tra hindu e musulmani, e con Thiruvalluvar, poeta del VI secolo che predicò nel Sud dell’India54. D’ora in poi si servirà dell’arcolaio per tutta la vita, almeno un’ora al giorno, e vi costringerà anche i suoi compagni, compresi i più restii; imponendo pure, in seguito, la produzione di una quantità minima di filato a ogni membro del Congresso al fine di allontanarne i più violenti. Dal suo eremo, Tagore gli scrive di essere ostile a questo tentativo di allontanare l’India dalla modernità, a questo «suicidio spirituale»150.

Gandhi infine decide di semplificare ulteriormente il suo abbigliamento. Adotta una volta per tutte la dhoti, quella striscia di stoffa che ha già indossato altre volte e che non lascerà più. Quel panno senza cuciture è come il pensiero indiano, che scivola da un concetto all’altro senza interruzioni, nonostante pieghe e torsioni...

Riunire i musulmani

Il 28 aprile 1919, il trattato di Versailles crea la Società delle Nazioni che raggruppa 45 nazioni (26 non europee), compresi i delegati fantoccio dell’India, che in realtà assicurano una voce supplementare alla Gran Bretagna; la Russia rifiuta di farne parte; la Germania ne è esclusa. Quanto al presidente degli Stati Uniti, Wilson, che ne è il promotore, non otterrà la ratificazione del trattato da parte del Senato americano. La Francia recupera l’Alsazia e la Lorena. L’Impero ottomano è sul punto di essere smantellato dai negoziatori del trattato di Sèvres.

A maggio del 1919, le truppe britanniche occupano il Medio Oriente (a eccezione della Siria) dalle coste del Mediterraneo fino a quelle del Mar Caspio e ai confini del Caucaso. Tra il Beluchistan e la Mesopotamia, niente sfugge al loro controllo. Inoltre, la conquista a partire dall’Egitto – da parte di truppe indiane, australiane, neozelandesi e sudafricane – di Siria, Palestina, Giordania e Mesopotamia ha procurato loro un passaggio via terra dal Mediterraneo al Golfo Persico. Ciò si è rivelato molto costoso per le casse dello Stato («L’avventura mesopotamica è stato uno dei peggiori investimenti che abbiamo mai fatto», dichiara all’epoca l’ex primo ministro britannico Lord Asquith)59. Ma di fatto questo offre alla Royal Dutch Shell e agli inglesi i diritti di estrazione petrolifera e assicura loro il controllo dell’Irak Petroleum e di tutte le concessioni petrolifere negate in precedenza dalla Turchia. Così alcune conquiste militari, motivate principalmente dalla protezione della via dell’India, portano quasi per un colpo di fortuna il petrolio agli inglesi.

I musulmani indiani si preoccupano del destino dei Luoghi Santi. Da sempre Gandhi si sente vicino a loro. Essi l’hanno aiutato nei momenti difficili della sua giovinezza: «Io non sono un hindu, ma un indiano. Io voglio essere un ponte tra le due comunità. Voglio legare, se possibile, queste due comunità col mio sangue»36.

Nel frattempo, Lord Chelmsford ed Edwin Montagu danno il tocco finale a un rapporto sullo stato dell’India in cui si mostrano preoccupati per «una divisione confessionale che significa la creazione di campi politici organizzati gli uni contro gli altri, e che insegna agli uomini a pensare da partigiani, non da cittadini. Il governo britannico è spesso accusato di dividere per regnare; perciò non dividiamo gli uomini senza necessità proprio mentre li conduciamo sulla via dell’autonomia; altrimenti, saremo tacciati di ipocrisia»193.

Invece che sulla «via dell’autonomia», il suddetto rapporto sfocia in una riforma superficiale: il Government of India Act. I consigli legislativi provinciali, eletti a suffragio ristretto, acquistano la facoltà di nominare e dimettere i “ministri regionali” responsabili dell’Istruzione, dell’Agricoltura, dell’Amministrazione locale, dell’Industria e delle Opere pubbliche; i portafogli della polizia e della giustizia, le prigioni e l’imposta fondiaria restano di competenza dei governatori provinciali, che rendono conto solo al viceré. A livello nazionale, un Consiglio Legislativo imperiale è suddiviso in due camere, un’Assemblea Legislativa e un Consiglio di Stato, entrambi senza potere reale. L’Assemblea Legislativa è elettiva per cinque settimi e il Consiglio di Stato lo è per tre quinti, entrambi con suffragio censuario molto ristretto. Inoltre una Camera dei Principi riunisce i rappresentanti diretti dei 109 Stati, a cui si aggiungono dodici seggi che ne rappresentano altri 127; 326 Stati non hanno alcuna rappresentazione. Perfino qualche indiano è ammesso in seno a un “Consiglio esecutivo del viceré” che non ha, neanche questo, alcun potere. Le prime elezioni di queste camere sono fissate per il novembre del 1923, quattro anni dopo. Gandhi va a dir loro che trova il testo assai insufficiente. Il Congresso, presieduto da Motilal Nehru, decide di non partecipare a queste elezioni.

Gandhi presiede una conferenza di indiani musulmani, l’All India Khilafat, che reclama che la custodia dei Luoghi Santi dell’islam (La Mecca, Medina e Gerusalemme) sia lasciata al califfo turco. Lancia l’idea di un satyagraha per protestare contro lo smantellamento dell’Impero ottomano. Chiede di essere ricevuto dal viceré, al quale dichiara: «Se vuole conquistare il cuore e lo spirito dei musulmani dell’India, il governo di Sua Maestà deve pervenire a un accordo con la Turchia»169.

Nel settembre del 1919, inventa il Gandhi cap, una bustina bianca che indossa di rado. Jawaharlal Nehru lo porterà con grande eleganza.

Chiusura del caso Amritsar

A ottobre finalmente si riunisce a Delhi, dopo molte reticenze, una commissione d’inchiesta sugli eventi di Amritsar diretta da un alto magistrato britannico, Lord Hunter, venuto appositamente da Londra. È una pagliacciata: quando il giudice domanda cortesemente al generale Dyer perché non abbia fatto soccorrere i feriti, di cui molti sono morti nelle ore successive alla sparatoria, questi risponde che nessuno glielo aveva chiesto! Poi Lord Hunter interroga Gandhi:

D. «Presumo, signor Gandhi, che siate voi l’istigatore del movimento del satyagraha?».
R. «Sissignore».
D. «Volete spiegarlo brevemente?».
R. «È un movimento interamente fondato sulla verità, destinato a sostituire i metodi violenti. Per come l’ho concepito, è un’estensione del diritto sociale in campo politico e la mia esperienza mi ha portato a concludere che questo movimento, e solo questo, può liberare l’India dalla minaccia di una violenza che si estenderebbe a tutto il paese se si volesse mettere fine agli abusi».
D. «Voi lo avete usato in opposizione alla legge Rowlatt. E, in questo contesto, avete chiesto alla popolazione di firmare l’impegno del satyagraha?».
R. «Sissignore».
D. «Avete intenzione di far aderire il maggior numero possibile di uomini a questo movimento?».
R. «Sì, conformemente al principio di verità e di nonviolenza [...]. Il satyagraha è lontano dalla resistenza passiva come il Polo Nord dal Polo Sud. La resistenza passiva è stata concepita come l’arma del debole, e non esclude l’utilizzo della forza fisica e della violenza, mentre invece il satyagraha è l’arma del forte ed esclude l’uso della violenza sotto qualsiasi forma [...]. Il suo significato intrinseco è l’adesione alla verità – da cui il suo nome di “forza della verità”. Io l’ho anche chiamato “forza dell’amore” o “forza dell’anima”».169

Quando Hunter gli domanda: «Chi determina la verità?», Gandhi risponde: «Questo spetta a ogni individuo»169.

La commissione conclude che il generale Dyer ha commesso un «grosso errore di giudizio». Nient’altro. Lui è sollevato dal suo incarico e rispedito senza alcuna sanzione in Inghilterra, dove riceve un’accoglienza trionfale. Se la Camera dei Comuni esprime la propria sfiducia nei suoi confronti con 230 voti contro 129, la Camera dei Lord ritiene, con 129 voti contro 86, che «si tratta di un uomo valoroso». Il «Morning Post» organizza una colletta: questa frutterà al generale una spada e 20.000 sterline, che gli permetteranno di godersi una lunga e serena pensione.

Un grande amore

A ottobre, dopo il fiasco della commissione Hunter, Mohandas, che ha appena compiuto cinquant’anni, va per la prima volta a Lahore per condurre delle indagini personali. È accompagnato dal pandit Malaviya, da Motilal Nehru, allora presidente del Congresso, da Charlie Andrews, che lo segue dal 1913, e da Pyarelal Nayar (di appena diciannove anni). Questo giovane assistente dice di trovare in Gandhi «la calma sicurezza della forza; l’accesso a una riserva nascosta di potenza che potrebbe attraversare anche un impenetrabile muro di granito»114. Per tre mesi gira il Punjab e interroga numerosi testimoni del massacro di Amritsar, promuovendo allo stesso tempo la khadi e il carkha.

Gandhi allora viaggia a piedi nudi, in terza classe. In ogni camera in cui alloggia, fa togliere letto, tavolo e sedia. Quando qualcuno fa il suo elogio, lui l’interrompe e obietta che bisogna ammirare solo il popolo, e critica chi gli si rivolge in inglese109. Con la sua voce appena udibile, arringa il popolo e appare agli occhi dei funzionari inglesi come un riformatore religioso (come Mahatma Munshi Ram o Swami Vivekananda) e non ancora come un uomo politico. La gente comincia a comprendere che è dotato di poteri psichici eccezionali. E, come per i più grandi guru, si mormora che basti incrociarne lo sguardo (darsan) per ottenere la sua benedizione.

Numerosi leader del Congresso del Punjab si trovano ancora in detenzione, tra cui Rambhuj Dutt Chaudhuri nella cui casa alloggia Gandhi. In assenza del suo ospite, lui incontra la moglie Sarala Devi, che all’epoca ha quarantasette anni, è nipote di Tagore, e dirige il giornale «Hindustani» al posto del marito54. Lei gli rammenta che si sono incrociati diciott’anni prima, nel dicembre del 1901, quando lei dirigeva il coro che eseguiva l’inno di apertura della seduta del Congresso, messo in musica da Tagore, a Calcutta.

Il colpo di fulmine è reciproco. Il 27 ottobre, qualche giorno dopo il suo arrivo a Lahore, Gandhi scrive: «La compagnia di Sarala Devi mi ispira molta tenerezza. Lei si occupa molto bene di me»154. Ed è così preso da questa relazione (che qualifica come “indefinibile”) che pensa a un «matrimonio spirituale»169. Effettivamente formano una coppia eccezionale: lei, grande intellettuale, lo ricollega a Tagore e al Bengala; insieme, sono l’India tutta intera.

A dicembre il Congresso tiene la sua seduta annuale ad Amritsar, per commemorare il massacro. Tilak e Motilal Nehru, il presidente, si riavvicinano a Gandhi che esorta a respingere le riforme proposte da Montagu e Chelmsford. Il Congresso rifiuta la partecipazione a queste elezioni a suffragio ristretto. I 7.000 delegati vogliono portare Gandhi alla testa del Congresso, ma lui preferisce far eleggere Lala Lajpat Rai, patrono del Congresso del Bengala. La riunione sfocia così nella decisione di acquistare il giardino in cui è avvenuto il massacro per farne un luogo sacro. Gandhi propone di lanciare una sottoscrizione per raccogliere le 536.000 rupie necessarie: «Il memoriale dovrebbe essere il simbolo nazionale della volontà onesta e costante di giungere all’unione tra musulmani e hindu», scriverà in seguito. «Proprio come non proviamo rancore verso un demente, noi non possiamo nutrirne per il generale Dyer. Di conseguenza, svuoterò il memoriale di ogni idea di amarezza e rancore»169.

Un giornale inglese protesta contro la celebrazione:

La proposta di Gandhi di commemorare la sparatoria del Jallianwalla Bagh rischia di non favorire molto la concordia. È un tragico incidente in cui il nostro governo è stato trascinato a tradimento, ma l’amarezza del suo ricordo vale la pena di essere coltivata? Adesso non dobbiamo tentare di trovare una simbiosi più ampia, come quella predicata dal Buddha e dal Cristo? Gandhi sembrerebbe destinato a divenire l’apostolo di un tale movimento, ma le circostanze lo costringono a cercare un modo per suscitare resistenze e formare gruppi saldi. Arriverà forse a darsi come missione quella di unificare il mondo?169

La casta, prova «essenziale per una buona evoluzione
dell’anima»

Gandhi ritiene che il boicottaggio sia fallito perché non ha potuto ordinare di mantenere la calma in maniera così efficace come faceva a Durban sull’«Indian Opinion». Deve dunque creare un giornale? È incerto: in India, a differenza del Sudafrica, ce ne sono già molti e il paese è immenso, un solo giornale non arriverà a tutti. Poi però si butta. All’inizio del 1920, i suoi amici industriali del settore tessile di Ahmedabad (che facevano parte dei congiurati) gli affidano due mensili: uno in gujarati, «Navajivan» (‘La vita nuova’), l’altro in inglese, «Young India». La tiratura allora è di 40.000 copie. Ben presto diverranno settimanali e Gandhi li utilizzerà per più di vent’anni, come ha fatto in Sudafrica, per comunicare le sue idee. Molti giornali indiani riprenderanno spesso i suoi articoli, assicurando loro un impatto considerevole in tutto il paese.

Nei suoi primi articoli, Gandhi spiega di essere contrario a qualsiasi forma di macchina, perfino la bicicletta, fatta eccezione per la macchina da cucire Singer che lo incanta154. Spiega anche che, per lui, il concetto centrale dell’induismo, il varnadharma, ricopre contemporaneamente la nozione di “dovere” nella vita individuale e quella di “solidarietà” nella vita sociale; esso prende la forma di asramdharma nella vita individuale e la forma di varnadharma in quella sociale. Il varnadharma deve permettere di instaurare una società egualitaria fondata sull’amore e la mutua cooperazione.

In un articolo di capitale importanza, Gandhi approva la divisione della società indiana in caste: «Noi siamo tutti nati per servire la creazione divina, i bramini con il sapere, gli ksatriya con il potere protettore, il vaisya con l’abilità commerciale e gli sudra con il lavoro manuale». Ciononostante, lui che è un vaisya non è rimasto commerciante. Aggiunge poi che le caste sono «necessarie all’armonia personale e collettiva». Esse non devono tuttavia costituire una gerarchia sociale. Gandhi scrive: «Lo spirito del sistema delle caste non è uno spirito di arrogante superiorità, ma si tratta della classificazione di diversi sistemi specifici di cultura»169. Esse perciò devono essere «separate ma uguali» e – punto che illustra bene il suo rapporto con la morale – costituiscono una prova «essenziale per una buona evoluzione dell’anima» nel lungo percorso della reincarnazione. Lui dunque non chiede l’abolizione di questo sistema, ma precisa che «ciascuno deve sapere restare al suo posto, grazie all’autocontrollo» come «richiede la Bhagavad-Gita laddove consiglia al principe Arjuna di uccidere il cugino in battaglia a sola condizione che non ne tragga né interesse personale né piacere». In compenso, denuncia l’intoccabilità, «che nuoce alla causa dell’indipendenza»169.

Per di più, benché sia sempre più innamorato e il suo rapporto con Sarala Devi non sia affatto platonico, Gandhi scrive che la generalizzazione della castità non conduce affatto all’estinzione del genere umano, che il matrimonio svia l’uomo da missioni più alte, che solo il brahmacari, l’uomo casto, è un uomo completo. Allo stesso tempo, non dissimula più la sua relazione, che pone problemi a tutti nell’ambiente benpensante dell’epoca. Suo figlio Devdas e il suo collaboratore Mahadev Desai gli chiedono di porvi fine54. Lui obbedirà dopo nove mesi, a giugno del 1920. «È grazie a loro che non sono precipitato nel fuoco dell’inferno», dirà nel 1933.

Quando, a dicembre di quell’anno, Sarala Devi si lamenterà di essere stata sacrificata «a Bapu e alle sue leggi», le risponderà con una lettera che mostra bene quanto la loro relazione non sia solo spirituale:

Ho analizzato il mio amore per te. Sono così giunto a una definizione del matrimonio spirituale. È un’associazione tra due persone di sesso opposto in cui la dimensione fisica è totalmente assente. È dunque possibile tra fratello e sorella, tra padre e figlia. Tra due brahamacbri, è possibile solo in pensiero, parole e atti [...]. Possediamo noi questa squisita purezza, questa perfetta armonia, questa perfetta fusione, questa somiglianza di ideali, questo totale oblio di sé, questa fermezza d’intenti, questa totale fiducia? Per quanto mi riguarda, posso rispondere francamente che è solo un’aspirazione. Io non sono capace di questa sorta di amicizia con te...

L’avventura lo segnerà profondamente e fino alla fine si sforzerà di provare a se stesso di essere capace di questo “totale oblio di sé”, di questo controllo del desiderio, tanto da lanciarsi, come vedremo, in sbalorditive esperienze di continenza sessuale.

Quindici anni dopo, in occasione di una discussione con Margaret Sanger, un’americana venuta a perorare presso di lui il controllo delle nascite, egli racconterà ancora, dopo aver accennato che sua moglie era analfabeta, che aveva «rischiato di soccombere» a «una donna di vasta cultura», ma che per fortuna si era liberato da «quella trance»109.

Un satyagraha per l’islam

Le negoziazioni del trattato di Sèvres tra gli alleati e l’Impero ottomano accelerano. Si parla di affidare la custodia dei Luoghi Santi di Gerusalemme alla Gran Bretagna che li occupa dal 1917. I musulmani indiani sono furiosi. Gandhi pensa che sia una buona occasione per un’alleanza tra questi e gli hindu. «Un’occasione simile non si ripresenterà per cent’anni», osserva. Perciò vuole rilanciare l’idea di un satyagraha per l’islam.

A marzo, in Palestina, alcuni nazionalisti arabi venuti da Damasco lanciano un raid sulla Galilea; le colonie ebraiche subiscono attacchi micidiali. Gli ebrei decidono allora di armarsi. Il 4 aprile e i giorni seguenti i quartieri ebraici di Gerusalemme sono attaccati (18 ebrei morti e 4 musulmani). Gli inglesi rimuovono il sindaco, Musa Kazim al-Husseini, e condannano in contumacia suo fratello che è stato arrestato ma è riuscito a fuggire. Il 24 aprile, alla conferenza di San Remo, le potenze alleate ratificano la concessione al Regno Unito di un mandato sulla Palestina e la Transgiordania.

Nel giugno del 1920, dopo due anni di silenzio, Gandhi riprende la sua corrispondenza con Kallenbach, tornato in Sudafrica; inoltre partecipa ad Allahabad a una riunione con i rappresentanti delle principali comunità religiose. Espone loro un programma di resistenza nonviolenta che propone di lanciare a partire dal 1° agosto, per ottenere che i Luoghi Santi musulmani siano lasciati sotto il controllo del sultano e per contrastare l’uso di prodotti stranieri, azione diversa dal puro boicottaggio: «Finché il Congresso si atterrà a una non-cooperazione nonviolenta, il boicottaggio dei prodotti britannici, considerati come distinti dagli altri prodotti stranieri, dovrà essere rifiutato»170.

Poco dopo, il 7 luglio, nel corso di una sessione straordinaria particolarmente animata del comitato esecutivo del Congresso, a Calcutta, Gandhi, che eccezionalmente alloggia dal figlio Harilal, domanda «riparazione per i torti causati al Punjab» e la difesa del Califfato. Cita Thoreau: «Io sono convinto che se mille uomini, cento, o anche dieci che potrei nominare [...], se solamente dieci uomini onesti [...], se anche un solo uomo onesto, nello Stato del Massachusetts, cessando di tenere degli schiavi, rifiutasse effettivamente questa pratica e fosse quindi imprigionato, questo significherebbe l’abolizione della schiavitù in America»160. Aggiunge inoltre che il satyagraha, di cui ha da poco importato la pratica in India, «si fonda sull’antica legge dell’”autosacrificio” che non implica un’umile sottomissione dell’anima alla volontà di chi fa il male, ma un’opposizione dell’anima alla volontà del tiranno, e una resistenza ai suoi ordini ingiusti»169. Questa frase acquisterà una risonanza particolare allo scoppio della seconda guerra mondiale.

L’inizio del satyagraha è fissato al 1° agosto. Gandhi dichiara a Muzaffarnagar, poi a Bombay, il 29 luglio: «Il tempo dei discorsi sulla non-cooperazione è passato ed è arrivato quello dell’applicazione pratica. Ma due cose erano necessarie al completo successo: un ambiente libero da qualsiasi violenza e spirito di sacrificio»169.

Quel 1° agosto, giorno dell’inaugurazione del movimento, muore Lokamanya Tilak, sfinito da lunghi anni di prigione e di esilio. Alla sua cremazione a Bombay, davanti a più di 200.000 persone, Gandhi lo definisce «il creatore dell’India moderna». E Sri Aurobindo, facendo riferimento alla lotta che comincia, dichiara:

Un grande spirito, una grande volontà, un illustre ed eminente leader di uomini ha lasciato il suo campo di azione e di fatica. Per i suoi compatrioti, Lokamanya Tilak rappresentava molto di più, perché era divenuto l’incarnazione degli sforzi passati e il capo della lotta attuale per una vita libera e più ricca [...]. [La sua] morte ci coglie in un momento in cui il paese attraversa ore tormentate e decisive. Essa avviene in un periodo critico, anzi coincide con una svolta cruciale in cui il Padrone del Destino sta interrogando la nazione, la cui risposta determinerà la forza e il significato del suo avvenire.8

Lo stesso giorno, Gandhi rispedisce al viceré la sua medaglia d’oro del Kaisar-i-Hind, quella ricevuta per la guerra zulu e quella della guerra dei Boeri, con queste parole:

Non è senza una fitta al cuore che restituisco queste medaglie nel quadro dell’operazione di non-cooperazione che comincia oggi, in relazione con il movimento [in favore del mantenimento del ruolo del califfo come protettore dei Luoghi Santi]. Sebbene queste onorificenze mi siano care, io non posso in coscienza portarle finché i miei compatrioti musulmani saranno obbligati a sopportare l’affronto inflitto ai loro sentimenti religiosi.169

Quella sera stessa ha luogo un primo autodafé dei tessuti stranieri.

“La legge della spada”

Il 10 agosto, è sottoscritto il trattato di Sèvres tra gli alleati e i delegati del sultano Mehmet VI, che conserva il trono. Il trattato conferma lo smembramento dell’Impero ottomano, crea una repubblica indipendente d’Armenia e un territorio autonomo dei curdi. La Società delle Nazioni affida le province arabe alla Francia e al Regno Unito che eredita alcuni Luoghi Santi di Gerusalemme. L’Italia e la Grecia ottengono dei brandelli dell’Impero. Istanbul, le coste del Mar di Marmara e i Dardanelli sono smilitarizzati. Gli Stretti turchi sono posti sotto il controllo di una commissione internazionale. Il mandato sulla Palestina sancisce che la Gran Bretagna deve «mettere il paese in condizioni politiche, amministrative ed economiche che permetteranno la costituzione di una patria nazionale ebraica e lo sviluppo di istituzioni di autogoverno».

L’11, su «Young India», Gandhi pubblica un articolo importante, “La legge della spada”, in cui ammette per l’unica volta nella sua vita che la violenza può essere lecita:

Credo che se l’unica scelta fosse tra la vigliaccheria e la violenza, io consiglierei la violenza. Preferirei che l’India ricorresse alle armi per difendere il suo onore piuttosto che diventare o restare, per vigliaccheria, un’immensa vittima del suo disonore. Dunque non auspico che l’India pratichi la nonviolenza per debolezza, ma in piena coscienza della sua forza e del suo potere. Credo tuttavia che la nonviolenza sia infinitamente superiore alla violenza.

Riconferma la sua inclinazione: «Io amo molto la dottrina che considera la realtà plurale. Questa dottrina mi ha insegnato a giudicare un musulmano e un cristiano dal rispettivo punto di vista». Respinge la democrazia parlamentare per rifiuto della centralizzazione e predica la democrazia diretta. Aggiunge: «Io non sono un visionario. Mi definisco un “idealista pratico”»169.

Ad agosto del 1920, Sri Aurobindo spiega al dottor Moonje, braccio destro di Tilak, le ragioni del suo rifiuto di presiedere il Congresso:

Io non sono più un uomo politico. Ho intrapreso, in maniera definitiva, un altro genere di lavoro che ha per base la spiritualità, un lavoro di ricostruzione spirituale, sociale, culturale ed economica di natura pressoché rivoluzionaria, ed effettuo o per lo meno veglio su una sorta di esperimento di laboratorio che assorbe tutta l’energia di cui sono capace [...]. E l’ho intrapresa come la missione del resto della mia vita [...]. Comunque posso permettermi di segnalarvi che fate una scelta errata chiedendomi di prendere il posto di Tilak. Nessuno oggi in India, per lo meno nessuno che attualmente conosciamo, è in grado di occupare quel posto, e io meno di chiunque altro. Io sono idealista fino al midollo; non posso essere utile che quando si deve effettuare qualcosa di drastico, una svolta radicale o rivoluzionaria da prendere (per rivoluzione, non intendo dire violenza)... La politica di Tilak [...] è senza dubbio la sola alternativa a una certa forma di non-cooperazione della resistenza passiva.8

Nello stesso momento, a Mosca, al secondo Congresso della Terza Internazionale, Lenin sottolinea la necessità di sostenere i movimenti “nazionali rivoluzionari”. Finanziati da Mosca, il Partito Comunista dell’India e i radicali di Dhaka (Anusilan) intraprendono una violenta campagna contro Gandhi, mentre gli uomini di Aurobindo, in esilio interiore, sono in cerca di un nuovo maestro.

L’imprudente promessa: l’indipendenza in un anno

Da agosto, il satyagraha continua senza avere un grosso impatto: il topolino di Gandhi non ha fatto tremare l’elefante del Raj.

A dicembre, mentre il III Congresso islamico-cristiano di Haifa reclama il blocco dell’immigrazione ebraica e la creazione di uno Stato arabo di Palestina, il Congresso Nazionale Indiano si riunisce a Nagpur, nodo ferroviario al centro geografico dell’India. Questa volta, si contano 14.000 delegati, hindu e musulmani: una vera città!

Comunque il Congresso è molto ben organizzato: ogni villaggio che conti cinque aderenti è considerato come un’unità del movimento; al di sopra ci sono i cantoni, poi i distretti e ventuno comitati provinciali designati da quelli distrettuali68.

Le scelte tattiche sono fatte dall’high command (il comitato direttivo), in pratica da Gandhi in persona: appena sei anni dopo il suo ritorno in India è riuscito, con la sua azione all’esterno del Congresso, a guidarlo senza mai cercare, almeno per il momento, di diventarne il presidente. Rifiuta anche di vedere il Congresso come un partito: «non più di quanto lo sia il Parlamento britannico, che contiene anch’esso diversi partiti, uno dei quali è momentaneamente più forte degli altri».

Molti delegati imitano il suo costume, mentre si rifiutano di farlo Jinnah o Motilal Nehru. Molti, come Jawaharlal Nehru, si mostrano così rispettosi verso Gandhi da non dargli mai le spalle. Tutti si riferiscono a lui come il “Mahatma”23. Quando Mohammad Ali Jinnah nel suo discorso se ne dimentica e lo chiama semplicemente “Gandhi”, il capo del Movimento del Khilafat, Maulana Mohammed Ali, lo interrompe per chiedergli di chiamarlo “Mahatma”, «come fanno tutti»; numerosi delegati allora applaudono. Jinnah continua, imperturbabile, ma una parte dell’assemblea lo apostrofa: «Siediti!»23. Il presidente della seduta, Sri Vijayaraghavachari, prega Jinnah di rispettare le usanze. Gandhi allora si alza e dice: «Io non sono un Mahatma. Sono un uomo comune. Costringendo Jinnah a scegliere questo vocabolo particolare, voi non mi rendete omaggio. Non possiamo ottenere la libertà forzando gli altri ad adottare il nostro punto di vista. Un uomo è libero di pensare o dire tutto ciò che vuole degli altri se il suo linguaggio non ha niente di scortese o spregiativo»23. Applausi entusiastici. Furioso, Jinnah (che già nel 1915, a Bombay, era stato umiliato pubblicamente da Gandhi) lascia la sala. Scriverà al Mahatma: «I suoi metodi hanno provocato scissioni e divisione praticamente in ogni istituzione a cui si è accostato. In tutto il paese, la gente è disperata, e l’estremismo del suo programma ha colpito solo l’immaginazione di una gioventù inesperta, di ignoranti e analfabeti»23.

Per conquistare la fiducia dei tanti radicali disorientati dalla morte di Tilak, Gandhi propone a Sri Aurobindo la presidenza del Congresso. Come le altre volte, questi declina l’offerta e spiega:

In primo luogo, non ho mai firmato e mai firmerò nessuna professione di fede nel Congresso, essendo la mia di diverso orientamento. Poi, dopo essermi ritirato nell’India francese, ho sviluppato una posizione e dei punti di vista che divergono considerevolmente da quelli che coltivavo un tempo, e mi troverei molto in imbarazzo per ciò che avrei da dire al Congresso. Sono in totale accordo con tutto ciò che si fa finché l’obiettivo è di ottenere la libertà per l’India, ma mi vedrei nell’impossibilità di identificarmi in un qualsiasi programma...8

Per allontanare dal Congresso i fautori della violenza, Gandhi propone che ogni membro sia obbligato a filare un rocchetto e inviarlo all’organizzazione centrale, All India Khadi Board.

È allora che avviene l’imprudenza. Giunto a imporsi come «la sola autorità esecutiva» del Congresso, Gandhi afferma alla tribuna, quel 21 dicembre 1920, che se il Congresso accettasse di allargare lo svadesi (cioè il boicottaggio dei prodotti stranieri) alle scuole, agli enti, ai tribunali, dunque alle istituzioni giudiziarie e scolastiche, che se gli indiani volessero dare le dimissioni dai posti governativi che occupano, disertare l’esercito, rifiutare i titoli e gli onori britannici, rifiutare addirittura ogni contatto con gli inglesi, che se ciascuno si impegnasse a cancellare le differenze di abbigliamento, a portare la khadi, a usare l’arcolaio in ogni casa almeno un’ora al giorno, che se tutto ciò si facesse con disciplina e spirito di sacrificio, allora gli inglesi sarebbero sopraffatti, il paese cadrebbe come un frutto maturo, lo swaraj (l’autonomia) diverrebbe realtà nel giro di un anno34. Tutti restano sbalorditi: Gandhi promette lindipendenza di a un anno!

Un seguace di Jatin Mukherjee, Bhupendra Kumar Datta, l’interrompe: «Volete dire che, in un anno, farete del Congresso il Parlamento della democrazia indiana indipendente se il popolo sottoscrive il vostro appello?». «Sì», gli risponde Gandhi tra gli applausi. Datta allora per un anno gli accorda la collaborazione dei suoi sostenitori estremisti. «Ma, allo scadere dell’anno, contiamo di riprendere il nostro programma che non indietreggia davanti alla violenza». Gandhi replica: «Sarei più felice se accettaste la nonviolenza come un principio, e non come una politica»95. Informato da Datta, Sri Aurobindo è scettico: «Gandhi ha mostrato una grande energia. Potrà portare la lotta abbastanza lontano, ma non credo che saprà liberare il paese dall’oggi al domani. Non lasciatevi andare. Dovrete di nuovo agire secondo le sue convinzioni. Non opponetevi per il momento, collaborate. Ma non voglio che facciate della nonviolenza un feticcio»8.

Il Congresso dibatte, discute, tergiversa. Das e Motilal Nehru appoggiano Gandhi senza esitazioni, poi il Congresso approva il suo progetto con 1.855 voti contro 873. Per dissipare ogni tensione, Gandhi aggiunge, come ama dire: «Una decisione del Congresso non impedisce affatto a uno dei suoi membri di intraprendere un’azione contraria»154. Altri si uniscono successivamente alla prima cerchia dei suoi collaboratori: Bhave, Patel, Kalelkar, Kripalani, Prasad, Nayar, Desai, Jawaharlal Nehru; li imiteranno presto Jamnalal Bajaj, Ghanshyam Das Birla, Swami Anand. Un quarto di secolo dopo, quanti di questi giovani saranno ancora in vita dirigeranno l’India.

Nel frattempo, in Francia, al congresso di Tours, un militante di una sezione parigina del Partito Socialista, il giovane Quoc, di cui si è già parlato, vota con la maggioranza del partito per l’adesione alla Terza Internazionale. Lo ritroveremo, molto più tardi, sotto il nome di Ho Chi Minh.

In Irlanda, dopo la morte del sindaco di Cork, Lord MacSwiney, dopo sessantatré giorni di sciopero della fame e l’esecuzione da parte dell’IRA, in segno di rappresaglia, di 14 membri dei servizi segreti britannici a Dublino, il 21 novembre 1920 l’esercito britannico spara sulla folla, allo stadio di Crow Park, a Dublino. È il Bloody Sunday. Il 23 dicembre, il governo firma il Government of Ireland Act, che concede l’autonomia all’Irlanda del Sud.

Per attenuare il sentimento di trionfo che potrebbe ricavare dalla seduta del Congresso, Gandhi il 12 gennaio 1920 scrive su «Young India» un articolo sul legame tra nonviolenza e umiltà: «Lo spirito di nonviolenza conduce necessariamente all’umiltà [...]. I non-cooperanti non devono inorgoglirsi dei loro successi stupefacenti al Congresso. Noi dobbiamo agire come il mango, che si piega quando è carico di frutti»170.

L’anno del tutto o niente

Gandhi teme che con il satyagraha possa scattare di nuovo la violenza, come nel 1919. Il 27 gennaio scrive su «Young India»: «Il satyagraha esclude il ricorso alla violenza sotto qualsiasi forma, che sia di pensieri, parole o atti. Con una giusta causa, la capacità di soffrire indefinitamente e la rinuncia alla violenza, la vittoria è certa»169.

Ha ragione ad avere paura: il 29 gennaio 1921, alcuni operai tessili e dei contadini della regione di Bardoli, nel Gujarat, rifiutano di pagare le tasse, il che non è previsto nella parola d’ordine del movimento. Inizia una battaglia, condotta da Patel, che durerà in tutto sette anni.

Quando, il 10 febbraio, viene posata la prima pietra di un arco di trionfo al porto di Bombay, Gandhi scrive: «La non-cooperazione e la disobbedienza civile non sono che ramificazioni diverse dell’albero chiamato satyagraha: il satyagraha è la ricerca della verità; e Dio è verità. L’ahimsa è la luce che mi rivela questa verità».

A marzo, su «Young India», Gandhi descrive gli abiti occidentali come “ripugnanti”. Torna ossessivamente sull’arcolaio: «L’uso dell’arcolaio in tutte le case e l’adozione esclusiva di abiti filati e tessuti a mano, da parte di tutti quanti, sono assolutamente indispensabili per la libertà dell’India». E aggiunge: «L’unica preoccupazione è che l’arcolaio dovrebbe essere introdotto nelle scuole indiane». Infine: «Lo swaraj è impossibile senza l’abolizione completa dell’intoccabilità da parte degli hindu»169.

Tagore scrive sulla stampa indiana, il 2 marzo 1921:

Verrà il giorno in cui l’uomo debole di cuore, completamente libero dall’armatura, proverà che sono i mansueti a ereditare la terra. È dunque logico che il Mahatma Gandhi [...] evochi l’immenso potere dell’umanità dell’India oltraggiata e deprivata. I predestinati dell’India hanno scelto come alleato [...] la potenza dell’anima e non quella del muscolo. Essa deve elevare la storia umana, dal livello fangoso della lotta materiale alle vette delle battaglie dello spirito.153

Tre giorni dopo, dice di Gandhi:

Ho cercato [...] di scoprirvi una melodia; ma l’India della non-cooperazione, con il suo formidabile volume sonoro, la sua minaccia agglomerata, i suoi clamori di negazione, non mi canta niente. E mi dico: «Se non riesci a marciare allo stesso passo dei tuoi compatrioti, in questa grande crisi della loro storia, guardati dal dire che loro hanno torto e tu ragione; abbandona il tuo ruolo di soldato, torna nel tuo angolino di poeta e sii pronto ad accettare la derisione e la disgrazia popolare».151

Ad aprile, Gandhi indice una colletta per sostenere il movimento che si diffonde. Ma, ai suoi occhi, il numero non è né necessario né sufficiente. Scrive infatti: «Dato che un esercito di resistenza civile è o dovrebbe essere esente da passione, ovvero senza spirito di rivincita, esso ha bisogno di un numero molto meno cospicuo di soldati [...]. In realtà, un solo resistente civile perfetto basterebbe a vincere la battaglia contro il male»170.

L’India attira allora l’attenzione dei pacifisti, che la considerano, dichiara Romain Rolland riprendendo Tagore, come una «forza spirituale [...] capace di aiutare l’Europa a superare i contrasti nazionali di cui ha appena sofferto il Vecchio Continente e a oltrepassare il materialismo della civiltà moderna»137.

Primo fallimento

Il 6 settembre 1921, Gandhi vede Tagore, che il 1° ottobre pubblica un articolo in cui riconosce ciò che c’è di positivo nel suo contributo: «Se ne stava sulla soglia della capanna di migliaia di diseredati, vestito come uno di loro. Parlava nella loro stessa lingua. Questa finalmente era la verità e non una citazione da un libro...»103. Qualche tempo dopo, Tagore tuttavia scrive a un corrispondente francese: «È l’isolamento morale, costante, invisibile fardello per lo spirito, che mi opprime di più. Vorrei che fosse possibile unire le mie mani a quelle del Mahatma Gandhi, e così abbandonarmi alla corrente dell’adesione popolare. Ma non posso nascondermi più a lungo che la nostra concezione e la nostra ricerca della verità sono del tutto opposte...».

Il viceré non intende lasciar proseguire queste manifestazioni. Cedere all’ultimatum è fuori questione e dichiara quindi fuorilegge i militanti del partito; iniziano gli arresti di massa: sono fermate 30.000 persone, tra cui Mahadev Desai, Maganlal Gandhi, Pyarelal Nayar, Lajpat Rai, Abiul Kalam Azad, Chakravarti Rajagopalachari, Vallabhbhai Patel, Rajendra Prasad, Motilal e Jawaharlal Nehru54. Si assiste addirittura a un fenomeno di emulazione tra i membri del Congresso per sapere chi si beccherà la condanna più pesante. Il 17 novembre un giovane leader, Subhas Chandra Bose, nato nel 1897 e formatosi a Cambridge, che ha appena dato le dimissioni dall’Indian Civil Service per lavorare con Chitta Rajan Das, avvocato del Bengala molto impegnato nella lotta, organizza il boicottaggio della visita del principe di Galles a Bombay, cosa che gli costa la prigione. Lo ritroveremo vent’anni dopo. Per espiare queste rivolte e queste violenze, Gandhi intraprende un digiuno di cinque giorni.

All’inizio di dicembre Gandhi, che ha perso di nuovo il controllo della situazione, vede con inquietudine l’Irlanda spaccata in due, con le sei contee del Nord sotto il Regno Unito. Lui non vuole che il “corpo dell’India” subisca una simile amputazione. Alla fine del mese, nel corso della sessione annuale del Congresso ad Ahmedabad, quasi tutti i leader sono sotto chiave, tranne lui. La promessa dell’indipendenza entro un anno non è stata mantenuta. Gandhi ne è screditato e Das viene eletto presidente.

Nel frattempo, la BBC trasmette le sue prime emissioni radiofoniche. Gandhi saprà ben presto servirsi di questo mezzo.

Il massacro di Chauri Chaura

Gandhi constata che, nonostante l’arresto di tanti manifestanti, molti vogliono ampliare la disobbedienza civile e organizzare uno sciopero fiscale; il 19 gennaio 1922 scrive: «Osservo in molti luoghi un desiderio di partecipare alla disobbedienza civile di massa sospendendo il pagamento delle tasse. Ma io raccomando la massima prudenza prima di lanciarsi in questa pericolosa avventura»169. Poi, di fronte al fallimento di altre forme di azione, decide di farvi ricorso. Il 1° febbraio invia un ultimatum al viceré, Lord Reading, minacciando uno sciopero fiscale generale se i prigionieri politici non saranno liberati. Il viceré rifiuta. Con l’appoggio scettico di ciò che resta del comitato direttivo del Congresso, Gandhi ordina allora lo sciopero fiscale generale a partire dal 12 febbraio. Naturalmente Londra non può tollerarlo. Il ministro delle Colonie, Montagu, pensa che Gandhi sia impazzito, che sarebbe dovuto essere arrestato da un pezzo e che bisogna farlo senza attendere oltre.

Il 4 febbraio, a Chauri Chaura, vicino Gorakhpur, nell’Uttar Pradesh, una folla di 2.000 persone, che vuole ottenere la chiusura di un negozio che vende alcolici, supera il cordone della polizia. I poliziotti si fanno prendere dal panico, sparano in aria, vengono colpiti da pietre, entrano ancora più nel panico e uccidono tre manifestanti (due hindu, un musulmano). La folla inferocita assedia le forze dell’ordine rifugiate nella loro postazione, aspetta che le loro munizioni si esauriscano per aprire il fuoco contro di loro, e stermina 22 poliziotti respingendo addirittura tra le fiamme quelli che tentano di fuggire. Il governo di Londra allora impone la legge marziale e 172 persone sono incriminate: 19 saranno condannate a morte e 113 a pene che vanno dai due anni all’ergastolo; 38 saranno assolte per “insufficienza di prove” e 3 moriranno sotto tortura nel corso degli interrogatori.

È il terzo massacro legato a una manifestazione organizzata da Gandhi nell’arco di un anno. Il 10 febbraio, per punirsi di questa violenza, come ha già fatto dopo il massacro di Amritsar, decide di digiunare per cinque giorni e ancora una volta chiede, con stupore generale, la sospensione del movimento.

Il 13 febbraio scrive su «Young India»: «È la peggiore umiliazione che abbia mai provato, ma il paese ha molto da guadagnare dalla mia umiliazione e dalla confessione dei miei errori»169.

I leader del Congresso, siano essi liberi o reclusi, che si tratti di Chakravarti Rajagopalachari, Azad o anche del fedele Mahadev Desai, insorgono: perché fermare tutto a causa di un incidente marginale, senza rapporto col movimento? Jawaharlal Nehru scrive: «Il governo inglese stava perdendo vigore, ma, grazie a questa decisione di Gandhi, può riprendere l’iniziativa»120. Solo Motilal Nehru sottoscrive la decisione di Gandhi: ha previsto che le cose prenderanno una brutta piega.

Gandhi scrive allora il 16 febbraio su «Navajivan»: «Confessare un errore è come una scopa che spazza via la polvere e ripulisce il suolo». E aggiunge: «L’obiettivo non è la nonviolenza, ma la libertà. Ma, senza la nonviolenza, non avremo la libertà»169. Scrive a Kallenbach per confidargli che si aspetta di essere arrestato e deportato141.

Il 28 febbraio, giorno in cui il governo inglese concede l’indipendenza all’Egitto (la sovranità ottomana è già stata abolita nel 1914) conservando il controllo del canale di Suez, passaggio essenziale per la via delle Indie, Gandhi riceve nell’asram la figlia di un leader del Congresso del Bihar, Brajkishore Prasad. Si chiama Gandhi Prabhavati e si è sposata nel 1920, all’età di quattordici anni, con un certo Jaya Prakash Narayan, partito per studiare negli Stati Uniti. Kasturba e Gandhi vegliano su di lei, come su altre donne dell’asram; lei fa dunque voto di castità.

Il 12 marzo, Gandhi scrive a un leader musulmano, in carcere, Hakim Ajmal Khan109: «Senza la nostra unità, non potremo ottenere la nostra libertà, e i musulmani dell’India non potranno dare al Califfato tutto l’aiuto che desiderano offrirgli»106.

Sei anni di prigione

Il 10 marzo 1922, nonostante l’interruzione della sua iniziativa, Gandhi è arrestato e processato per “sovversione” ad Ahmedabad. Il processo riguarda tre articoli di «Young India», e il direttore del giornale, Shankarlal Banker, è arrestato con lui. Quando fa il suo ingresso nella sala delle udienze, il giudice Broomfield e il sostituto procuratore generale si alzano in piedi. Gandhi sostiene da solo la sua difesa, ammette tutto ciò di cui lo si accusa e anzi dichiara che quelle accuse sono un onore109: «Io sono qui per chiederle di infliggermi la pena più pesante per quello che è, agli occhi della legge, un crimine deliberato e, per me, il più alto dovere di un cittadino. La vostra unica scelta, signor giudice, è tra il dimettervi o infliggermi la pena più severa, se credete che il sistema legale che contribuite ad amministrare sia buono per il popolo»169. Viene condannato a sei anni di prigione. A Londra, l’Inner Temple, al cui foro si era iscritto trent’anni prima, lo radia.

Viene portato alla prigione di Geeta, a Pune, vicino Bombay. I suoi due giornali, «Navajivan» e «Young India», continuano a essere pubblicati sotto la direzione di Vinoba Bhave, Kaka Kalelkar e Anasuyaben Sarabhai.

Il 4 luglio, a Londra, la Camera dei Comuni applica la carta del mandato sulla Mesopotamia e la Palestina: un’amministrazione civile sostituisce l’occupazione militare. Essa è ratificata dalla Società delle Nazioni. L’articolo 2 riprende la dichiarazione Balfour del 1917 (l’annuncio della futura creazione di una «patria nazionale ebraica» in Palestina); gli arabi rifiutano di riconoscerla e boicottano le istituzioni mandatarie.

Nell’estate del 1922, i leader del Congresso sono liberati uno dopo l’altro, anche se alcuni rifiutano di lasciare la loro cella. Jawaharlal Nehru è furioso di essere tra i primi liberati: «Continuiamo la lotta», scrive con un’enfasi che non è da lui, «seguiamo il nostro grande leader, Gandhi, nella lealtà al Congresso. Siamo organizzati, vigilanti e non dimentichiamo né l’arcolaio né la nonviolenza!».

Dalla prigione in cui si prepara a passare sei anni, Gandhi cambia battaglia e sceglie la questione dell’intoccabilità, perché gli inglesi non potranno rimproverargli di combatterla. Anzi, questi sono anche soddisfatti, ritiene, di veder indirizzare l’energia dei nazionalisti su un obiettivo diverso dall’indipendenza. Dice: «Gli hindu ortodossi credono ancora che adorare Dio e toccare una parte dei loro correligionari siano due cose incompatibili, e che la vita religiosa si riassuma nel fare le proprie abluzioni ed evitare le contaminazioni fisiche. [...] Io non desidero reincarnarmi ma, se dovessi rinascere, nascerei intoccabile»169.

Non è il benvenuto su questo terreno: il movimento degli intoccabili, diretto da una nuova figura, Bhimrao Ramji Ambedkar, lo taccia di ipocrisia. Ambedkar, che ha trent’anni, viene dagli intoccabili mahar, che hanno dato il nome allo Stato del Maharashtra. Non riesce a perdonare le umiliazioni subite alla scuola del villaggio, quando doveva sedersi fuori dalla classe2. Il maharajah di Baroda (Vadodara) gli ha pagato gli studi all’Elfinstone College di Bombay, poi alla Columbia University, negli Stati Uniti, e alla London School of Economics. Primo intoccabile ad aver conseguito un dottorato, è diventato membro del Foro di Londra. Ambedkar denuncia l’«ineguaglianza graduata» della società indiana, «ordine crescente della riverenza e ordine decrescente del disprezzo [...] in cui la divisione in una moltitudine di sottogruppi rivali rende impossibile qualsiasi azione concertata»2. Chiama gli intoccabili dalit, traduzione in marathi dell’espressione “i calpestati”. Sostiene la necessità di un elettorato separato, fonda a Bombay un giornale, «Mooknayak» (‘Guida dei silenziosi’) e prende posizione contro l’indipendenza, perché essa indebolirebbe gli intoccabili; minaccia inoltre di incitare i suoi compagni ad abiurare l’induismo. La religione, obietta Gandhi, non è oggetto di scambio: «Sarebbe terribile se le anime di cinquanta milioni di persone fossero messe all’asta»169.

A dicembre del 1922, all’apertura della sessione plenaria annuale del Congresso a Gaya, nel Bihar, Gandhi, sempre recluso, ha fallito su tutta la linea: i dodici mesi hanno visto solo rivolte, treni bruciati, poliziotti uccisi da folle che urlavano il suo nome. E, soprattutto, l’indipendenza che lui ha promesso non c’è. Tuttavia riesce a far votare una risoluzione in cui si chiede che ogni partecipante al movimento di non-cooperazione firmi il seguente impegno: «In quanto hindu, io credo nella giustizia e nella necessità di sopprimere quel male che è l’intoccabilità; io cercherò ogni volta che è possibile il contatto personale con le classi umili e mi sforzerò di rendere loro servizio»169. Il Congresso si scinde in due gruppi in base all’orientamento nei confronti delle elezioni sempre previste per il novembre del 1923: i “no-changers” (Patel, Rajendra Prasad, Jawaharlal Nehru e Rajagopalachari) non vogliono tornare sulla decisione già presa di non parteciparvi. I “pro-changers” (Motilal Nehru, Chitta Rajan Das) vogliono prendervi parte.

Altri leader come Vinayak Damodar Savarkar, che Gandhi ha conosciuto a Londra nel 1909, sono molto più radicali. Essi pensano che occorra “purificare” il suolo dell’India da ogni presenza straniera, anche con la violenza. Altri hindu tradizionalisti, al contrario, ritengono che l’intoccabilità appartenga all’ambito religioso e non debba essere mischiata con la lotta politica per l’indipendenza. Gandhi continua a sostenere il boicottaggio, anche se non è riuscito; riconosce però che la carta del Congresso prevede un solo obiettivo: «Ottenere l’indipendenza con tutti i mezzi legittimi e pacifici». Certi membri del Congresso, tra cui Motilal Nehru e Chitta Rajan Das, ora criticano il boicottaggio «che è fallito» e che per loro non può che volgere in catastrofe; fondano così in seno al Congresso un partito moderato, il Partito Swaraj.

Leggere, scrivere

L’anno 1923 è per Gandhi, in prigione, quello della scrittura e della lettura. Legge cinquanta opere, soprattutto religiose, e fila il cotone all’arcolaio. Scrive un testo su Il satyagraha in Sudafrica173 e inizia a lavorare alla sua Autobiografia170. Chiede agli altri militanti reclusi di non fare ostruzionismo sistematico, anche se non sono riconosciuti come prigionieri politici: «Noi dobbiamo fare della prigione un’istituzione neutra in cui possiamo, dobbiamo, collaborare in una certa misura»154. Fa arrivare delle parole d’ordine alle sue truppe: «L’intoccabilità è una maledizione per l’India», «L’armonia intercomunitaria è il fondamento dell’indipendenza», «Andate nei villaggi»... Invia al figlio Manilal, che dirige l’«Indian Opinion» in Sudafrica, una lettera in cui gli descrive l’amore fisico come «il più basso di tutti gli atti»170. Molti gli scrivono per porgli domande religiose e lo considerano un maestro; lui risponde che tutto ciò che non è nella Bhagavad-Gita, in particolare l’intoccabilità, non è hindu.

Nel frattempo, la figlia di Jawaharlal Nehru, Indira, a undici anni, crea la Brigata delle Scimmie. Questo gruppo di bambini ha in particolare il compito di sorvegliare la polizia e distribuire dei volantini di propaganda per l’indipendenza. Cresciuta a Pune, va spesso a trovare Gandhi in prigione.

In Turchia, il colonnello Mustapha Kemal, leader dei Giovani Turchi, prende il potere; il 29 ottobre 1923, depone il sultano, si fa proclamare presidente della Repubblica e non si cura più dei Luoghi Santi. Il partito del Califfato in India, che desiderava vederli affidati alla Turchia, non ha più ragion d’essere.

A novembre, le elezioni ai consigli legislativi delle province sono boicottate dalla maggioranza dei nazionalisti. Gli swarajisti (come vengono chiamati adesso quelli che sostengono Motilal Nehru) ottengono la maggioranza dei seggi nell’Assemblea Legislativa centrale e in quelle provinciali. Nehru dirige il Partito Swaraj nell’Assemblea centrale e Chitta Rajan Das ne prende la testa nel Consiglio Legislativo del Bengala109, dove costituisce il gruppo più importante e dove conclude un patto con i musulmani. Jawaharlal Nehru diventa sindaco di Allahabad. Vithalbhai Patel (fratello di Vallabhbhai) è eletto in uno dei due seggi riservati ai musulmani del comune di Bombay, e Jinnah nell’altro. Nel resto del paese gli swarajisti sono battuti da partiti locali.

Alla fine dell’anno, sempre dietro le sbarre, Gandhi è nominato presidente del Congresso, nel corso di una sessione straordinaria riunita a Delhi. Intanto Romain Rolland scrive a Tagore: «Ho terminato il mio [libro su] Gandhi in cui rendo omaggio alle mie due grandi anime, fiumi straripanti di spirito divino»136. Questa piccola opera dell’autore di Giancristoforo fa conoscere il Mahatma in Europa. Lo scrittore francese vi scrive: «La religione della nonviolenza non è solo per i santi, essa è per gli uomini comuni. È la legge della nostra specie, come la violenza è la legge delle bestie»133.

Liberazione nell’insuccesso

All’inizio di gennaio del 1924, quando ha scontato quasi due anni di regime carcerario molto duro e gliene restano ancora quattro, Gandhi accusa forti dolori all’addome. Rifiuta di vedere dei medici, non perché sono inglesi, ma perché non crede nella loro competenza. Spiega che più medici ci sono in una città, più questa trabocca di malati, che la guarigione passa per il morale – e riprende la sua teoria dell’equilibrio tra terra, acqua, fuoco, aria ed etere. Una giovane dottoressa, Sushila Nayar, sorella del suo segretario, Pyarelal, lo cura poi con il chinino per una malaria; diventerà una delle sue “compagne segrete”169. Su sua richiesta, accetta di andare all’ospedale Sassoon (dal nome di una delle grandi famiglie ebree dell’India che l’ha fondato) di Pune, dove i medici inglesi gli diagnosticano un’appendicite acuta. È operato il 12 gennaio da un medico-colonnello britannico (che deve eseguire l’operazione alla luce di una torcia a vento a causa di un blackout). Piovono messaggi di solidarietà dal mondo intero. L’ospedale diventa affollatissimo: nessuno vede Gandhi da due anni! La stampa e le personalità di tutto il paese vanno a trovarlo. Considerandosi ancora un prigioniero, rifiuta di parlare di politica con chiunque.

Il 5 febbraio, lascia l’ospedale per tornare dietro le sbarre. Aspetto paradossale della situazione: medici e infermieri britannici, che hanno fatto di tutto per tenerlo più a lungo possibile in un luogo più ospitale della prigione, gli fanno un saluto d’onore alla sua uscita e lo pregano di non dimenticare che è stato operato da un medico inglese assistito da infermieri inglesi e farmaci inglesi, e che l’ombrello che lo ripara dal sole quando lascia l’ospedale è anch’esso inglese54... Lui risponde che non ha chiesto di boicottare i prodotti inglesi in quanto inglesi, ma che gli indiani portino tessuti fabbricati da indiani.

Meno di una settimana dopo, il 9 febbraio, il viceré ritiene che questa ricomparsa di Gandhi alla luce del sole rischi di rendere la sua permanenza in prigione assai impopolare e che lui sia molto più utile fuori, visto che ora vuole occuparsi degli intoccabili più che lottare per l’indipendenza. Viene liberato.

Poiché gli restano da scontare ancora quattro anni, per quel lasso di tempo sarà sorvegliato con l’obbligo di rendere noti i luoghi in cui si trova e le sue attività.

Nell’istante in cui diventa famoso, perde molto del suo credito presso i militanti. Gandhi ha dimostrato la sua incapacità di condurre una rivoluzione su scala nazionale. Tanto più che la nonviolenza non ha più il vento in poppa: nell’aprile del 1924, Bose è eletto sindaco di Calcutta prima di essere arrestato, a ottobre, per presunte attività terroristiche ed esiliato a Mandalay, in Birmania, dove Tilak aveva passato sei anni.

A maggio, Gandhi parte per riposarsi a Juhu, stazione balneare vicina a Bombay dove un amico industriale parsi, Shantikumar Morarji, possiede una villa; vi ritornerà in diversi momenti chiave della sua vita. Riprende la direzione di «Young India» e di «Navajivan», si sposta di villaggio in villaggio con il suo carkha sotto braccio per promuovere l’arcolaio e la khadi. Assume anche concretamente la presidenza effettiva del comitato esecutivo del Congresso. Il 24 maggio Gandhi scrive: «Ho conosciuto il punto di vista di Sri Aurobindo tramite mio figlio che si è recato appositamente da lui [...]. Riconosco che la nostra base deve essere spirituale. E cerco, con i miei limiti, di dirigere ogni attività da un punto di vista spirituale»169.

A giugno, durante l’assemblea del Congresso provinciale del Bengala, l’avvocato Chitta Rajan Das, presidente del Partito Swaraj, rende omaggio al patriottismo di un giovane, Gopinath Saha, che ha assassinato un inglese innocente da lui scambiato per Tagart, il commissario di polizia inglese responsabile di azioni abiette e che avrebbe ucciso Jatin Mukherjee. Gandhi insorge contro questo elogio e propone al Congresso, riunito ad Ahmedabad, di subordinare l’appartenenza al Congresso all’obbligo di filare il cotone. I membri del Partito Swaraj rifiutano. Gandhi fa marcia indietro, ma si lancia in una severa critica del terrorismo e dell’azione di Saha. Un rapporto della polizia segreta lo definisce «sconfitto e umiliato»: «Mentre ci si aspettava la sua vittoria, Gandhi è stato costretto a battere in ritirata»169.

Un aneddoto145: in quello stesso mese Gandhi visita Shimoga, nello Stato di Mysore, in prossimità delle più importanti cascate dell’India, le Jog Falls. Kaka Kalelkar e Mahadev Desai, che l’accompagnano, vorrebbero visitare il posto e cercano di convincerlo a fare una deviazione. Gandhi rifiuta, dichiarando che è un lusso che non può permettersi: lui è a Mysore per diffondere un messaggio e il tempo per andare alle cascate e tornare non potrebbe essere sfruttato per incontrare numerosi operai. Kaka Saheb, autorizzato a fare l’escursione, lo prega di dare il permesso anche a Mahadev Desai. Risposta di Gandhi: «No. Per Mahadev, io sono la cascata. Mahadev resterà»109. Quindici anni più tardi, glielo consentirà.

Più in generale, si interessa poco ai paesaggi54. Nel suo solo libro di Ricordi175, evoca la natura soltanto tre volte: nel 1893, in viaggio per il Sudafrica, nota la vegetazione di Zanzibar; nel 1896, di passaggio a Calcutta, «ammira la bellezza» dello Hooghly River; nel 1914 descrive Hardwar, nell’Uttar Pradesh, uno dei siti più sacri dell’India dove ha luogo un impressionante pellegrinaggio all’inizio di ogni anno solare indiano.

Il satyagraha di Vykom

A giugno, nel Kerala (nel Sud dell’India), a Vykom, nello Stato principesco di Travancore, un evento conferisce nuova attualità alla battaglia degli intoccabili: alcuni di loro, cui è stato vietato di percorrere le strade che passano davanti ai templi o alle case di bramini, lanciano un’azione nonviolenta che consiste nel cercare di accedere ogni giorno, a un’ora fissa, a quelle strade proibite e passare il resto del tempo ad aspettare davanti agli sbarramenti.

Entusiasta, Gandhi suggerisce al Congresso un referendum sulle caste, ma nessuno vuole sentirne parlare. Propone allora di appoggiare questa manifestazione pacifica, per ora puramente simbolica. Alcuni leader intoccabili come Sri Narayanan Guru, del Kerala, disapprovano apertamente questi metodi troppo dolci e suggeriscono agli abitanti di Vykom «di penetrare nelle vie proibite e scavalcare le barricate. Dovranno entrare nei templi e sedersi con gli altri a cenare»169. Gandhi risponde loro a settembre:

Con questi metodi [...], se sono forti e pronti a morire in numero sufficiente, potranno raggiungere i loro scopi. Ma io ritengo semplicemente che li avrebbero raggiunti con un mezzo che è l’opposto del satyagraha; inoltre, non convincerebbero gli ortodossi a condividere il loro punto di vista, ma glielo avrebbero imposto con la forza.

E aggiunge: «So che questa sofferenza dolce e silenziosa finirà per bruciare i muri del pregiudizio. Di conseguenza ci tengo a che i riformatori prendano pienamente coscienza delle loro responsabilità e che non si scostino di un capello dalla disciplina che si sono imposti»169.

È ben presto vittoria: non solo la strada che porta ai templi, ma tutte le strade di Vykom sono aperte agli intoccabili54. Eppure, per alcuni di loro, questo non basta: vogliono proseguire la lotta e sollecitano il sostegno di Gandhi. Questi risponde con una lettera in cui appare chiaramente come concepisca il suo ruolo in una battaglia. Lettera superba, espressione del suo stile e del suo ascendente:

I satyagrahi, se contano su di me, devono sapere che si appoggiano a un giunco spezzato [...], poi asciugare le loro lacrime, se possono; ma la sofferenza è un loro privilegio personale e a questa sofferenza seguirà sicuramente la vittoria, purché essi siano puri [...]. I satyagrahi di Vykom conducono una battaglia gravida di conseguenze quanto quella dello swaraj [...]. Il cuore più duro, l’ignoranza più grossolana devono sparire davanti al sole nascente della sofferenza senza collera né malizia.169

Alcuni decidono dunque di continuare la lotta per ottenere di più. Una missiva toccante indirizzata a Gandhi descrive la loro quotidianità; essa merita di essere letta, perché fa comprendere l’India di quei tempi e la devozione che ispira Gandhi a coloro che lo seguono:

Ormai sono rimasti solo dieci volontari, me compreso. Ogni giorno, uno di noi cucina, mente gli altri praticano il satyagraha per periodi di tre ore ciascuno. Contando l’andata e il ritorno, il satyagraha dura quattro ore. Ci alziamo regolarmente alle quattro e mezza e dedichiamo una mezz’ora alla preghiera. Dalle cinque alle sei spazziamo, attingiamo l’acqua, laviamo i piatti. Alle sette, tranne due di noi (che sono usciti per il satyagraha alle 5,45, dopo il bagno), torniamo dal bagno e filiamo o cardiamo fino all’ora di andare al posto di blocco. Produciamo circa mille metri [di filo] al giorno, alcuni di più. La produzione media supera i diecimila metri al giorno. Non insisto sul lavoro realizzato di domenica, perché ognuno agisce secondo la propria volontà; alcuni di noi cardano e filano ancora due o tre ore ma, a ogni modo, quel giorno non è lavorativo. Quelli che sono membri del Congresso filano la domenica per la quota di filo da garantire. Altri dedicano alcune ore al nostro umile contributo ai fondi del Memorial Deshabandu dell’India che lei ha creato. Abbiamo intenzione di inviarle un piccolo pacco di filo, il 4 settembre. Spero che sarà felice di riceverlo. Lo fileremo al di fuori delle ore di lavoro abituali. Ci riproponiamo o di mendicare o di filare per tutta quella favorevole giornata, e di inviarle ciò che avremo ottenuto. Non abbiamo ancora deciso.169

In disparte, davanti alla violenza

Mentre la comunità hindu rimane divisa sulla questione dell’intoccabilità, un nuovo incidente, questa volta tra hindu e musulmani, volge in tragedia: il 9 settembre 1924 a Kohat, nel nord-ovest dell’India, degli hindu insultati su un giornale musulmano replicano su un loro giornale. I toni si accendono e ben presto scoppiano disordini: 150 hindu e musulmani si uccidono tra loro. Si verificano incendi e saccheggi. Alcuni hindu vengono costretti a mangiare carne, o convertiti con la forza; alcune donne vengono violentate.

Gandhi se la prende con la stampa delle due comunità per aver fomentato l’odio e descrive i giornalisti come «una peste strisciante che semina il contagio con menzogne e calunnie». Vuole andare a Kohat, ma è ancora in libertà vigilata e il viceré gli rifiuta l’autorizzazione. Il 18 settembre, decide di fare ventuno giorni di digiuno nella casa di Mohamed Ali, uno dei leader del partito del Califfato a Delhi. Gli hindu si indignano di vederlo solidarizzare così con i musulmani quando le vittime di Kohat sono per la maggior parte correligionari. Lui replica che la questione dei rapporti intercomunitari è divenuta la «questione prioritaria»54.

A dicembre, finalmente viene autorizzato ad andare a Kohat con uno dei leader musulmani, Shaukat Ali. Entrambi condannano i disordini e il ruolo dell’amministrazione britannica locale, ma Ali ritiene che i musulmani abbiano patito quanto gli hindu e che perciò si debba dimenticare tutto, mentre Gandhi pensa al contrario che gli hindu siano stati molto più colpiti e che si debbano rimettere in discussione le conversioni forzate.

Sempre a dicembre, il Congresso tiene la sua riunione annuale a Belgaum, nel Karnataka, a 300 chilometri a sud di Pune. Gandhi, il cui mandato è scaduto, cede la presidenza alla poetessa Sarojini Naidu. La nonviolenza ha fallito, non ha mantenuto le sue promesse. Il terrorismo è ripreso e il Congresso esita a condannarlo. Altri nazionalisti, come Lajpat Rai, pensano che bisogna accettare i musulmani in India solo se questi smettono di esserlo. Una risoluzione presentata da Gandhi per condannare l’assassinio di un inglese è approvata per un pelo; lui si sente rinnegato, si dichiara «sconfitto e umiliato»: «Con poche eccezioni, c’è un grande fossato tra la classe colta indiana e me [...]. Tutta l’élite della nazione sembra contro di me, contro il mio stile di vita e il mio pensiero. Ma il popolo mi ama»169. L’ossessione dell’arcolaio continua: Gandhi impone un contributo obbligatorio di 2.000 metri di filo al mese ai membri del Congresso. Invece di ottenere 10 milioni di adesioni, nel 1924 il Congresso ne ha solo 200.00041.

Intanto, dopo sei anni passati in Francia, quello che diverrà Ho Chi Minh lascia Parigi per Mosca, dove il Partito Comunista forma i quadri dei movimenti anticolonialisti17.

Alla fine del 1924 il secondo figlio di Gandhi, Manilal, allora trentenne, rimasto in Sudafrica per dirigere l’asram di Phoenix e l’«Indian Opinion», fa una breve visita al padre: il giornale va bene; la fattoria si è sviluppata; l’apartheid è sempre più severo; la lotta degli indiani è ormai comune con quella dell’ANC, ma la nonviolenza è sempre più contestata. Mohandas invita il figlio a sposarsi; Manilal sta per rispondergli che effettivamente... ma non vuole dire di più.

A gennaio del 1925 il Mahatma viaggia, soprattutto in Bengala, sempre aiutato finanziariamente da Ambalal e Bajaj, per perorare la causa degli intoccabili, mentre i movimenti nazionalisti si fanno sempre più violenti. Un gruppo di bramini del Maharata fonda il partito Rashtriya Swayamsevak Sangh (RSS), che assume come obiettivo l’emancipazione della “nazione hindu”. L’RSS impone ai suoi membri l’uniforme, il saluto e una bandiera; danno la caccia a tutti gli yavan (la parola indica contemporaneamente gli “stranieri” e tutti i non hindu). Nel corso di una manifestazione, un membro dell’RSS apostrofa Gandhi domandandogli se sia meglio lasciare 330 milioni di persone in schiavitù o massacrare qualche migliaio di inglesi; lui risponde:

Uccidere tutti gli inglesi non migliorerebbe la situazione degli indiani. Io non mi oppongo alla violenza da un punto di vista morale, ma per ragioni pratiche: essa sarebbe inefficace [...]. La violenza non farà che rimpiazzare la dittatura inglese con un’altra [...]. Sconfiggere un satana con le armi farà nascere un altro satana. Uccidere non può mai essere nobile.169

Gandhi condannerà sempre gli attentati e questo darà ad alcuni l’impressione che approvi la serie di impiccagioni che seguono inesorabilmente.

In un discorso pronunciato a febbraio di quell’anno, a Bhavnagar, alla terza conferenza politica del Kathiawar, Gandhi ribadisce il suo rifiuto del terrorismo e paragona i rapporti tra Gran Bretagna e India a quelli tra padre e figlio:

Che fa un figlio quando si oppone a una qualunque azione di suo padre? Chiede al padre di tornare sulla sua discutibile decisione; gli presenta delle richieste rispettose. Se il padre non accetta, nonostante le sue ripetute preghiere, il figlio rifiuta di collaborare con lui e arriva a lasciare il tetto paterno. Questa è giustizia pura. Il padre stesso comprende questa affettuosa non-cooperazione. Lui non può sopportare di essere abbandonato da suo figlio, né di essere separato da lui; profondamente disperato, si pente.169

Invece Gandhi si mostra assai pessimista sui rapporti tra hindu e musulmani. Scrive dunque: «Non accetterò mai lo scambio di sangue per sangue, né del tempio per la moschea. Ma chi mi ascolta?»169.

Mirabehn e altre donne

La moglie di Gandhi vive a Sabarmati; il suo secondogenito, Manilal, è tornato in Sudafrica. Gandhi manda il più piccolo, Devdas, a trovare Sri Aurobindo a Pondicherry; quest’ultimo, sempre scettico, gli domanda155: «Che fareste, con la vostra nonviolenza, se l’Afghanistan decidesse di invadere l’India?». Il primogenito, Harilal, diventato direttore della società All India Stores Limited a Lyallpur, nel Punjab, vedovo con quattro figli, beve molto e preoccupa la madre. Nel marzo del 1925 una lettera comunica a Gandhi che Harilal si sarebbe reso colpevole di malversazioni. Lui se ne dissocia subito pubblicamente: «Per me, la legge del satyagraha, legge dell’amore, è un principio eterno. Io collaboro con tutto ciò che è buono. Desidero non collaborare con ciò che è male – venga esso da mia moglie, da mio figlio o da me stesso»169. Scopre inoltre che la moglie si è tenuta per sé alcune centinaia di rupie destinate all’asram. Invece di regolare la questione in famiglia, ancora una volta, dedica a questo un articolo sul «Navajivan», denunciando le bassezze della moglie di cui dice di sentirsi lui stesso responsabile e colpevole.

A maggio apprende la morte dell’avvocato Das, che ha fondato il Partito Swaraj con Motilal Nehru, e che l’aveva appoggiato al congresso di Nagpur, nel 1920, quando aveva promesso l’indipendenza del paese entro un anno...

A giugno, mentre il libricino di Romain Rolland lo fa conoscere al resto del mondo, lo sfiora l’idea di accettare gli innumerevoli inviti che ha ricevuto dall’Europa e dagli Stati Uniti. Poi ci ripensa e agli americani risponde: «Sia detto senza arroganza da parte mia ma con umiltà, il mio messaggio e i miei metodi valgono veramente, in principio, per il mondo intero. Se il movimento che aspiro a rappresentare ne ha la vitalità e gode della benedizione di Dio, esso conquisterà il mondo intero senza aver avuto bisogno della presenza fisica mia o di chicchessia»169.

Alcuni stranieri gli rendono visita. A novembre arriva così a Sabarmati una certa Madeleine Slade, la trentatreenne figlia di un ufficiale di Marina. Dopo un’infanzia felice, in cui sognava di diventare pianista, ha letto la biografia di Beethoven scritta da Romain Rolland, al quale ha fatto visita nel 1924 a Villeneuve, in Svizzera, dove il pacifista si era dovuto rifugiare. Lui le ha parlato del libro che ha recentemente pubblicato su Gandhi, che definisce un «secondo Cristo». Lei l’ha letto nel viaggio di ritorno a Londra, ne è rimasta profondamente colpita, ha scritto a Gandhi per chiedergli di riceverla e ha acquistato immediatamente un biglietto per Bombay. Gandhi le ha risposto di prendersi un anno per riflettere, di imparare a dormire sulla nuda terra e a filare il cotone e di diventare vegetariana. Lei si è abbonata a «Young India», ha letto la Bhagavad-Gita e un po’ del Rig Veda in francese. Ha venduto il suo pianoforte e ha spedito 20 sterline al Mahatma con un campione di lana filata da lei. Il 24 luglio 1925, lui le risponde da Calcutta, dove si trova, che è pronto ad accoglierla: «Ricordate che la vita a Sabarmati non ha niente di roseo. È dura. A ogni membro è assegnato del lavoro manuale. Il clima del paese non è un aspetto trascurabile»109.

All’inizio di settembre del 1925, la giovane lascia Londra; il padre l’accompagna fino a Parigi; non lo rivedrà mai più. Ripassa per Villeneuve, dove Romain Rolland le dice di invidiarla perché incontrerà colui che lui ammira tanto senza conoscerlo.

Gandhi l’attende con grande impazienza: un’inglese che aspira a diventare sua discepola! Il 6 novembre, Devdas, il figlio più piccolo, l’accoglie a Bombay al suo sbarco dalla nave. L’indomani è attesa alla stazione di Ahmedabad da Mahadev Desai, Vallabhbhai Patel e Swami Anand, che la conducono all’asram dove Gandhi la riceve. Colpo di fulmine! Lui le dice: «Tu sarai mia figlia» (lui non ne ha e questa è l’unica volta che manifesta una sorta di rimpianto al riguardo); la alloggia in una delle casette dell’asram, a pochi metri dall’edificio principale dove vive lui. Il 13 novembre, scrive a Romain Rolland:

Che tesoro mi avete mandato! Io smuovo qualsiasi sasso per aiutarla a diventare un ponte tra l’Oriente e l’Occidente. Dato che sono troppo imperfetto per avere dei discepoli, lei sarà per me una compagna di ricerche; e, poiché vi supero sia in età che in esperienza spirituale, vi propongo di condividere l’onore della paternità. Miss Slade mostra notevoli capacità di adattamento e ci ha già messo molto a nostro agio.169

Infatti, la giovane si mette a cucinare ciò che Gandhi ama mangiare, si veste con un sari bianco, si taglia i capelli, fa voto di castità, impara l’hindi e accetta il nome che Gandhi le dà, quello di una principessa rajput del periodo medievale che ha rinunciato a tutto per Dio: Mira, da cui Mirabhen.

A fine novembre, venendo a sapere che alcuni membri dell’asram hanno rapporti sessuali tra loro, Gandhi decide di digiunare per sette giorni. Scrive su «Young India»:

Desidero che l’asram si liberi da quegli errori che indeboliscono la virilità della nazione e minano la personalità della gioventù. Ma non era pensabile punire i ragazzi per i loro errori. L’esperienza acquisita in due scuole sotto la mia direzione mi ha insegnato che la punizione non purifica, anzi non fa che indurire i ragazzi. In casi simili, in Sudafrica, sono ricorso al digiuno, a mio avviso con eccellenti risultati.

Segue poi una frase sorprendente, che mostra l’ampiezza dei poteri che si attribuisce: «Se io posso volermi identificare con la sofferenza dei più umili dell’India, e se ne ho il potere, permettetemi di identificarmi anche con i peccati dei ragazzi sotto la mia custodia. Agendo così in tutta umiltà, spero di vedere un giorno Dio, cioè la Verità, faccia a faccia»169. Il 6 dicembre aggiunge: «Se potessi agire senza i miei occhi, allora potrei agire senza digiunare. Gli occhi mi sono necessari per vedere il mondo esterno, il digiuno per vedere il mondo interiore...»169.

All’indomani di questo digiuno, scoppia un altro scandalo di ordine sessuale – ma questa volta è lui nell’occhio del ciclone: un ex membro musulmano dell’asram accusa Gandhi di aver invitato sua nuora a non portare più il velo e per di più gli rimprovera di “toccare” le donne dell’asram! Davanti allo scandalo pubblico, Gandhi riconosce su «Navajivan» che lui non è uno yogi e perciò resta vittima delle esigenze della natura umana: «Come tutti, io sono una creatura terrena, soggetta allo stesso istinto sessuale»169. Ricorda che ha fatto voto di castità ventun anni prima, che non conosce «nessun altro luogo in India» in cui le donne godano di tanta libertà come nel suo asram, che lui le considera delle madri, sorelle o figlie, ma riconosce che le donne dell’asram lo “toccano”. Tuttavia, si giustifica: se loro lo “toccano” è in modo del tutto “materno”; e per quanto lo riguarda, il suo contatto è quello «di un padre che tocca innocentemente sua figlia in pubblico»169. Prosegue le sue confessioni: «Io non ho mai apprezzato l’intimità. Quando le ragazze escono a passeggio con me, poggio loro la mano sulla spalla camminando. Loro sanno, come tutti, che questo contatto è sempre innocente»169. E aggiunge: «A parte me, nessun altro uomo ha contatti con le giovani, perché non ne hanno occasione. Non si può stabilire un rapporto paterno a proprio piacimento»169.

In realtà, da qualche mese, o forse più, col pretesto dei brividi che gli causa la malaria, Gandhi ha cominciato a dormire con una o due ragazze che lo massaggiano e lo scaldano. Evita di farlo con Mira che è appena arrivata.

Alla fine del 1925, indebolito da questi attacchi, sfinito dalla fatica, ha perduto due chili. Non è riuscito niente34: né l’indipendenza, né l’autonomia, né la campagna in favore degli intoccabili. Ed ecco che la sua stessa reputazione viene messa in causa. Decide di non uscire per un anno intero da Sabarmati: si infligge un anno della prigionia da cui è stato liberato.

Un anno nellasram

A dicembre dunque non va a Kanpur, dove Sarojini Naidu è la prima donna a presiedere una sessione annuale del Congresso. Lì si incontrano, in mezzo a 7.000 delegati, due giovani scrittori di passaggio, ancora pressoché sconosciuti: Naipaul e Aldous Huxley. Quell’anno, in Germania, un certo Adolf Hitler pubblica Mein Kampf; in Italia, il Partito Fascista al potere diventa partito unico; Chiang Kai-shek diventa il capo del Kuomintang cinese. Il desiderio di pace spinge Briand, Mussolini, Arthur Neville Chamberlain e Stresemann a firmare il trattato di Locarno. A Mosca, il futuro Ho Chi Minh redige un pamphlet, Il processo della colonizzazione francese, in cui denuncia il monopolio coloniale sul sale, l’alcol, l’oppio, il caucciù: «Decine di migliaia di ossa ingrassano gli alberi di caucciù, proprio come il nostro sudore ingrassa i francesi»17. Gandhi non si interessa agli altri movimenti di liberazione nazionale, né ai movimenti fascisti d’Europa, tranne per condannare la loro violenza; in generale è molto più preoccupato dai movimenti comunisti, perché intuisce l’importanza che l’Unione Sovietica comincia ad assumere negli animi di alcuni giovani nazionalisti indiani.

Chi incontra Gandhi recluso a Sabarmati (il cui finanziamento, quell’anno, è difficile) descrive un uomo abbattuto. Jawaharlal Nehru osserva «profondi segni di tristezza»19 nei suoi occhi scintillanti. Mehta scrive: «Deve essere accaduto qualcosa di terribilmente penoso in lui, perché mi sentivo sempre profondamente turbato in sua presenza»91. Gandhi non apprezza più la venerazione nei suoi confronti. A un’altra inglese che gli chiede di farle da guru, lui risponde: «Se volete venire, venite pure; ma ricordate che io sono fatto di carne e di sangue, e che le nostre anime indistruttibili possono comunicare a migliaia di chilometri di distanza l’una dall’altra»109. Non ama più che lo chiamino “Mahatma”: «La puzza di questa parola mi è insopportabile», dice, e lavora all’arcolaio per sfuggirne. Cede i diritti d’autore dei suoi libri all’asram, poi li trasferisce al giornale «Navajivan». Detta una specie di testamento: «Io non ho alcuna proprietà personale. Se ne fosse trovata qualcuna dopo la mia morte, questa dovrà essere donata agli amministratori dell’asram, Revashankar Zaveri, Jamnalal Bajaj, Mahadev Desai, Imam Saheb, Chaganlal Gandhi»169. Un gruppo composito: un amico miliardario, membri della famiglia e collaboratori.

All’inizio di febbraio, nella sua prigionia volontaria, studia l’hindustani (miscuglio di hindi e urdu) che vorrebbe imporre come lingua nazionale: è una lingua facile da comprendere, al contrario dell’antico sanscrito che alcuni cercano di promuovere.

Quando, nello stesso mese, muore a Londra il padre di Mirabehn, Gandhi vuole rimandarla in Gran Bretagna; lei rifiuta, cede la sua eredità all’asram e chiede di assentarsi per andare a imparare l’hindustani a Delhi. Il Mahatma si oppone alla sua partenza. Lei resta e si impegna ancora di più. Attaccata dalla stampa inglese che l’accusa di aver venduto tutti i suoi libri, di aver fatto dono della sua eredità a Gandhi e di «vivere nella setta di un pazzo anti-inglese», lei risponde su «Young India» del 7 febbraio:

Io non ho perso i contatti con la mia famiglia [...]. Vivo in mezzo a duecento tra bambini, donne e uomini dell’India, in un posto molto ben organizzato. Questa gente non considera Gandhi un guru; loro lo chiamano Bapu (che significa ‘padre’); è un esploratore sociale. Non ho venduto i miei libri, essi sono molto utili qui. Ho rinunciato a qualsiasi proprietà privata. Gandhi mi ha chiesto di riflettere un anno, prima di venire. Non sono stata costretta a pronunciare giuramenti [...]. Penso di essere arrivata in un luogo in cui la mia anima è in pace. Passo il mio tempo a imparare l’hindi e filare il cotone.169

La vita nell’asram, quell’anno, è particolarmente austera, scandita dalla preghiera del mattino e della sera. Quella del mattino inizia alle 4,10 precise e comprende testi musulmani, buddhisti e cristiani; quella della sera è più breve54. Queste preghiere hanno luogo all’aria aperta, seduti per terra, sotto un albero di neem (nim, Azadirachta indica) o vicino al fiume. Nessuna divinità è invocata. Gandhi canta brevemente, e questo gli ispira «pace, verità e bellezza». Mira racconterà che, allo spuntare del giorno, «lui era il primo ad arrivare e, quando era l’ora, si metteva a cantare. La sua voce era magnifica»54. Dopo la preghiera, si fila il cotone per un’ora a beneficio dei daridranarayan (in sanscrito ‘Dio [travestito] da povero’). Come in Sudafrica, la cucina è collettiva: niente posti assegnati né gerarchia; uomini e donne svolgono gli stessi lavori. Tutti fanno le pulizie perché, «dato che il lavoro è sacro, non ci sono servitori»174. Gandhi dorme pochissimo; è come sempre ossessionato dall’igiene, dalla pulizia, e detesta la trascuratezza in tutte le sue forme, che sia nel pensiero, nella scrittura o nell’impiego del tempo della vita quotidiana.

Molto provato dagli attacchi che ha subito, osserva quell’anno: «Come può la gente elevarsi degradando gli altri? [...] La mia coscienza obbedisce a una legge più alta della legge [...]. Gli esperimenti con la verità sono come quelli che conduce uno specialista nel suo laboratorio»169.

Termina poi il libro cominciato in prigione, nel quale racconta quelli che chiama i suoi «esperimenti con la verità» e che interrompe nel 1921 («in mezzo alla battaglia», dice, «come il momento in cui si svolge la Bhagavad-Gita»). Quella che chiamerà “autobiografia”170 è in realtà un’appassionante arringa pro domo, scritta in un momento in cui deve affrontare un fiasco politico, uno scandalo personale e la rinuncia a un grande amore. La scrive in gujarati, mentre i suoi testi migliori, come il discorso pronunciato all’università di Benares o la sua arringa davanti al tribunale di Ahmedabad, sono, suo malgrado, in inglese. La sua vita non ne esce abbellita, ma non racconta tutto: ad esempio, non fa parola di Sarala Devi. Sri Aurobindo commenterà: «La sua autobiografia diventerà un classico sulla scia delle Confessioni di Jean-Jacques Rousseau o di sant’Agostino»8.

Benché occupato a regolare la vita dell’asram fin nei minimi dettagli, compreso il suo finanziamento, risponde di persona a molte lettere. «Un giorno», ricorda Pyarelal, suo segretario, «ho contato esattamente cinquantasei lettere che aveva scritto di sua mano; aveva riletto ognuna di esse, dalla data fino al saluto finale, prima di consegnarle per spedirle. Alla fine, era così stanco che si premeva le tempie con le dita, e si è sdraiato sulla nuda terra, lì dov’era seduto, senza nemmeno stendere le coperte su cui era appoggiato»109. Tagliato fuori dalla realtà del paese, scrive i suoi editoriali e denuncia su «Young India» «l’ingiustizia quotidianamente perpetrata negli Stati Uniti contro i neri allo scopo di preservare il principio della superiorità bianca», ricordando agli indiani che «il loro modo di trattare i cosiddetti “intoccabili” non è migliore di quello in cui i bianchi trattano i neri negli Stati Uniti»169.

Diventa maniacale e si irrita quando non si rispettano le sue esigenze; la sua matita, ad esempio, deve essere posata a destra e non a sinistra sullo scrittoio165. Quando Ram Narayan Chaudhari, uno dei suoi assistenti, gli domanda: «Non è una cosa senza importanza?», Gandhi risponde:

Nella nostra vita, deve esserci metodo. Se il Sole, la Luna e la Terra non osservassero le loro leggi, l’universo intero sarebbe distrutto. Ogni minuto del mio tempo è dedicato a certi compiti. Se non trovo i miei oggetti al loro posto, sprecherò molto del mio tempo, e questo comporterà molti inconvenienti, e il mio lavoro ne risentirà. Chi mi sta vicino deve tenere questo bene a mente.165

Un giorno nota che uno dei membri dell’asram, Kaka Kalelkar, ha l’abitudine di spezzare dei rametti dell’albero di neem e di servirsene come stuzzicadenti, quando avrebbe bisogno a malapena di quattro o cinque foglie. Gli fa osservare: «È una violenza [...]. Queste foglie devono essere raccolte umilmente, chiedendo scusa all’albero»165.

Barricato nell’asram, «si reca tutti i giorni in infermeria per passare qualche minuto con ogni paziente. Applica lui stesso le fasciature ed effettua i lavaggi. La gente dell’asram dice che, per incontrare Gandhi ogni giorno e passare qualche momento con lui, bisogna ammalarsi»165. Un giorno, un ragazzo originario dell’India del Sud si ammala di dissenteria e chiede del caffè. Ora, né il tè né il caffè sono permessi nell’asram, ma ce n’è un po’ in un piccolo armadio a muro adiacente alla camera di Kasturba. Gandhi, che ha vietato il caffè a tutti, gli risponde: «Un caffè leggero può far bene allo stomaco. Non abbiamo né idlidosa [cibi dell’India meridionale] ma anche delle fette di pane tostato vanno bene con il caffè». E gli serve lui stesso su un vassoio un bicchiere di caffè con due fette di pane tostato165!

Comincia addirittura a bere la sua urina, dicono quelli che ne vantano le qualità curative: essa contiene, dicono, melatonina, magnesio e fosforo...

A marzo, un messaggio proveniente dal Capo gli annuncia che suo figlio Manilal, che adesso è trentaquattrenne e che dodici anni prima ha lasciato a dirigere l’«Indian Opinion», vuole sposarsi, come ha fatto intendere nella sua ultima visita. Sorpresa: vuole sposare Fatima Gool, la figlia di un commerciante musulmano del Capo, Yusuf Gool, a casa del quale Gandhi aveva passato alcuni giorni nel 1914, subito prima del suo ritorno in India. La famiglia Gool e in particolare Timmie (Fatima) accettano il matrimonio, nonostante la differenza di religione. In una lettera del 3 aprile, invece, il Mahatma proibisce al figlio questa unione: «Il tuo matrimonio avrebbe un forte impatto sulla questione hindu-musulmana [...]. Non puoi dimenticare, la società non può dimenticare che sei mio figlio». E minaccia: «Temo che, se stringi questo legame, tu non sia più l’uomo più indicato per occuparsi dell’”Indian Opinion”». Peggio ancora: «Credo che ti sarà impossibile, dopo di ciò, tornare a stabilirti in India», per poi aggiungere un’ipocrisia abissale: «Ma sei un uomo libero, e io non posso costringerti a fare niente»55.

Il giornale per Manilal è la sua vita, fin dall’infanzia, e vedersi proibire il rientro in India gli sembra inconcepibile, anche se suo padre non ha un tale potere. Cede e rinuncia al matrimonio con Timmie; accetta addirittura di sposarsi con una ragazza qualsiasi che sceglierà suo padre per lui54.

Gandhi si ostina ancora nel suo rifiuto di uscire dall’asram. Anche quando, a maggio, il nuovo viceré, Edward Frederick Lindley Wood, tredicesimo visconte di Halifax (Lord Irwin), lo invita ad andarlo a trovare, lui non intende lasciare Sabarmati. Alla fine dell’estate, ne esce solo per tenere delle conferenze sulla Bibbia e la Gita all’università Gujarat Vidyapith di Ahmedabad, a pochi chilometri da lì. Questi discorsi lo portano a chiarire il suo pensiero. Ormai propende per un’interpretazione metaforica della Gita: il corpo umano è il carro, Arjuna lo spirito, Krishna la guida. Dio, come Krishna, vuole che gli uomini combattano contro le loro debolezze e non contro gli altri uomini. La Gita è dunque un testo sul dominio di sé e non sulla guerra54.

Il 2 settembre 1926, osserva: «È dovere di ogni uomo o donna colti leggere con empatia i testi sacri di tutti i popoli del mondo. Se accettiamo di rispettare la religione altrui come noi vorremmo che gli altri rispettassero la nostra, allora lo studio amichevole delle religioni del mondo è un dovere sacro»169. Manifestazione di tolleranza particolarmente gustosa dopo la sua decisione di opporsi al matrimonio di suo figlio con una musulmana. Rispettare l’altro, sì, ma ognuno a casa propria! Esattamente come per le caste...

All’inizio di dicembre, Manilal si reca in India, due anni dopo la sua ultima visita, per sposare una ragazza che suo padre ha scelto per lui: è la nipote diciannovenne di un suo collaboratore, Sushila, di una famiglia di agiati commercianti della casta baniya, come lui. Gandhi esige che il matrimonio sia estremamente semplice e che tutti i regali offerti alla coppia siano ceduti all’asram. Ai giovani sposi offre solo una copia della Gita, una raccolta di canti di preghiera dell’asram e un arcolaio.

Alla fine di dicembre, il padre osa ancora scrivere al figlio, appena tornato in Sudafrica: «Voglio da parte tua la promessa solenne che rispetterai il libero arbitrio di Sushila, che la tratterai come tua compagna, non come tua schiava [...], e che ti prenderai il tuo piacere con lei solo se lei è consenziente»169.

Nuovi viaggi

A un certo punto Gandhi ritiene di poter uscire dall’asram e si reca a Gauhati, capitale dell’Assam (il cui nome in sanscrito significa ‘mercato della noce’), dove ha luogo, alla fine di dicembre, la sessione annuale del Congresso; è accolto calorosamente: lo scandalo sessuale del 1925 è dimenticato. Poi decide di andare a visitare un’imponente esposizione di khadi a Bangalore.

Mirabehn, che l’ha accompagnato a Gauhati, spera di poterlo seguire a Bangalore, invece lui la manda a studiare l’hindustani nell’asram Bhagavadbhakti, a Rewari, come lei aveva desiderato. Una volta arrivata riceve una lettera, spedita il giorno stesso della sua partenza, che getta una luce particolare sull’evoluzione del loro rapporto: «Partire oggi», scrive Gandhi, «per me è stato difficile, perché ti ho fatta soffrire, ma era inevitabile. Io voglio che tu diventi perfetta; voglio che faccia sparire tutti gli angoli [...] che ti sbarazzi di ogni nervosismo. [...] Il mio spirito senza il mio corpo è sempre con te. Ed è molto più del debole spirito imprigionato da tutte le limitazioni della carne. [...] Devi conservare la tua personalità, ma resistere quando è necessario. Perché io posso sbagliarmi su di te, nonostante tutto il mio amore per te. Io non voglio che tu mi creda infallibile»169.

Non essendosi ancora completamente ripreso dalla dissenteria, Gandhi resta molto più del previsto a Bangalore e trascorre i primi mesi del 1927 a casa di un suo compagno di lotta, Chakravarti Rajagopalachari, che conosce da circa nove anni e che a volte gli fa da guardia del corpo. Ed ecco un altro colpo di fulmine: il suo quarto figlio, Devdas, che ha ventisei anni e fa da assistente al padre, chiede in sposa Lakshmi, la figlia più giovane del loro ospite, che ne ha quindici. Il matrimonio tra una bramina e un baniya è raro, e i due padri, che non sono contrari all’unione, decidono di allontanare i due giovani per qualche anno senza possibilità di scriversi né di vedersi. Devdas torna dunque nel Nord dell’India, mentre Lakshmi parte col padre e il Mahatma convalescente per Kolhapur, nel Sud del Maharashtra.

A Ceylon come nel Karnataka, Gandhi, che ha appena fatto sposare uno dei suoi figli all’interno della sua casta e ha accettato di unirne un altro con una bramina, sostiene che tutte le ragazze hindu dovrebbero sposare un intoccabile. Nell’India del Sud, invita a scrivere servendosi dell’alfabeto sanscrito, il devanagari.

L’India entra quindi nell’attualità mondiale. Nel febbraio del 1927, il primo “Congresso anti-imperialista” riunisce a Bruxelles «diversi popoli che vivono sotto il giogo del colonialismo europeo». Vi partecipano Albert Einstein, Henri Barbusse, Romain Rolland, Jawaharlal Nehru, la vedova di Sun Yat-Sen, alcuni delegati del Kuomintang e del governo del Tonchino, due partiti comunisti e rivoluzionari dell’Indocina. Viene istituita una Lega contro l’oppressione coloniale e l’imperialismo da parte di alcuni africani e antillani, Lamine Senghor, Tiemoko Garan-Kouyate, Camille Sainte-Rose ecc.

Quando poi Nehru parte per la Svizzera, Gandhi gli scrive una lettera di raccomandazione per Romain Rolland, presentandolo come «uno dei suoi più cari amici e colleghi»54, anche se l’interesse di Nehru per il marxismo lo preoccupa.

Quell’anno, rimane ancora fermo sul piano politico. Si occupa del suo asram, che ha quasi raggiunto l’autosufficienza. Riceve molti visitatori da tutto il mondo. Si occupa della sua Associazione di Filatori all’arcolaio e continua ad assillare gli altri con le sue manie.

A maggio, mentre Lindbergh attraversa l’Atlantico senza scali, Harilal, il primogenito di Gandhi, conduce una vita sregolata e piena di debiti. I genitori e le sorelle della moglie si occupano dei suoi quattro figli, e lui pubblica un attacco contro suo padre. Gandhi scrive a Kallenbach, che allora si trova nella sua casa di Inanda, nella periferia di Durban: «In un certo senso, Harilal è un bravo ragazzo, ma è in aperta ribellione...»54.

Prima rottura con Nehru

Ai primi di ottobre, il viceré, Lord Irwin, succeduto l’anno prima a Reading, invita di nuovo Gandhi a Delhi. Da Mangalore, nel Sud del Karnataka (ex colonia portoghese dove vive una forte comunità cattolica), Gandhi prende la nave per Bombay, poi il treno per Delhi. Lì, Irwin gli annuncia che una commissione presieduta da Sir John Simon verrà in India tra qualche mese per fare delle proposte in materia costituzionale. Gandhi gli risponde che, se l’aveva convocato per dirgli questo, avrebbe potuto accontentarsi di mandargli una lettera con un francobollo da un penny: quella commissione non includerà nessun membro indiano. Nessuno, dice, vorrà riceverla! Il viceré lascia intendere che Simon proporrà uno status di dominion, e questo i più giovani, come Jawaharlal Nehru, non lo vogliono, ma Gandhi è pronto ad accettare. È la loro prima rottura.

Il 30 ottobre 1927, in un discorso a Chidambaram, Gandhi rende omaggio a un grande “intoccabile”, Nandanar, un paria dell’India meridionale, seguace della resistenza passiva, che molto tempo prima era miracolosamente riuscito a entrare nel tempio di Chidambaram nonostante l’opposizione del suo capo e dei bramini. Gli attribuisce un satyagraha, anche se la parola a quell’epoca non esisteva ancora: «Quando sentii parlare e poi lessi la storia di Nandanar e del suo nobilissimo satyagraha, e del suo grande successo, la mia testa si chinò dinanzi al suo coraggio e per tutto il giorno mi sentii migliore dato che mi trovavo nel luogo santificato dai piedi benedetti di Nanda»169.

La sessione annuale del Congresso, che quell’anno deve tenersi a Madras, riveste un’estrema importanza: che fare della Commissione Simon? Incontrarla? Combatterla? Motilal Nehru, che ha cambiato parere e adesso vuole che il figlio entri in politica, chiede a Gandhi di aiutarlo a farsi eleggere alla presidenza del Congresso. Patel, molto più vicino a Gandhi, è anche lui candidato. Questi è favorevole ad accettare lo status di dominion; il giovane Nehru, in opposizione al Mahatma, è contrario.

Il 1° novembre, Jawaharlal Nehru scrive a Gandhi163 una lettera incredibilmente violenta contro l’accettazione dello status di dominion: «Nessuna organizzazione nazionalista accetterà di considerare lo status di dominion come obiettivo. Voi ci riducete a un dibattito tra scolaretti, censurandoci come un istitutore irascibile [...] che non ci insegna niente, ma ogni tanto ci sgrida»162. Si fa beffe del progetto di boicottare i prodotti stranieri. «L’Occidente non è più decadente di quanto il sogno del “Regno-Unito di Rama” sia allettante. Decontaminando l’industria dal virus del capitalismo, l’industrializzazione sarà l’unica risposta alla miseria dell’India»157. Gandhi risponde il 17 novembre, senza arrabbiarsi, ma senza modificare la sua posizione: «Sono desolato di perdere un collega eroico della vostra portata, ma bisogna anche sacrificare dei colleghi se si vuole realizzare una grande missione»162.

Jawaharlal Nehru non cede, guida insieme a Subhas Chandra Bose (appena liberato a Mandalay, in Birmania) la sinistra estremista del Congresso e fa adottare una risoluzione in cui si reclama l’indipendenza totale dell’India (e non lo status di dominion). Gandhi rifiuta di aderire. Su «Young India» del 12 gennaio 1929 spiega: «Lo status di dominion può facilmente essere meglio dell’indipendenza se noi ci dotiamo dei mezzi»169.

Tutti concordano nel rifiutare di lavorare con la Commissione Simon e nel creare un’altra commissione propriamente indiana, presieduta da Motilal Nehru, al fine di elaborare un altro schema costituzionale.

Nei corridoi, due giovani attivisti antibramini consegnano a Gandhi un pamphlet satirico contro Chakravarti Rajagopalachari, padre della fidanzata di Devdas, perché lui è un bramino. Gandhi prende le sue difese e dichiara per la prima volta che intende farne il suo successore: «Questo pamphlet mostra che vi nutrite di menzogne. Io dico e ripeto che Rajagopalachari è il mio unico successore possibile...». In realtà, questi all’epoca ha almeno quattro rivali: Patel, Nehru, Prasad e Azad (un musulmano favorevole all’unità hindu-musulmana e vicino a Das). Tranne Azad, sono tutti avvocati. Per non dover scegliere, Gandhi spinge Motilal Nehru (e non suo figlio) alla presidenza del Congresso.

Sempre a gennaio, a Sabarmati, il terzo figlio di Gandhi, Ramdas, di due anni più grande di Devdas, sposa a sua volta una giovane scelta dai genitori, anche lei della loro sotto-casta: Nirmala Vora è della famiglia della moglie di un nipote di Gandhi. Come i Gandhi, i Vora sono dei baniya del Kathiawar. Dopo una breve cerimonia religiosa, Gandhi parla a Ramdas e a Nirmala della povertà che lui ha imposto ai suoi figli e, «commosso fino alle lacrime», chiede al figlio di trattare la sua sposa come una vera compagna e non come una serva: «Vi guadagnerete entrambi il pane col sudore della fronte, come i poveri [...]. Che la Gita sia per voi una miniera d’oro!»54.

Il 5 febbraio, la Commissione Simon sbarca in India, ricevuta al grido di «Simon, go back!». Tutti i partiti la boicottano. Motilal Nehru redige la prima costituzione dell’India elaborata da indiani. Con grande sorpresa di suo figlio, appoggia il consiglio di Gandhi e chiede lo status di dominion. Il suo rapporto è respinto dal figlio, da Subhas Bose e dagli altri nazionalisti, come anche dai musulmani al seguito di Jinnah, per cui l’indipendenza li porrebbe sotto il controllo degli hindu.

I “lavoratori silenziosi”

Sono trascorsi sei anni dalla condanna del 19 marzo 1922 e adesso Gandhi si riconosce il diritto di intervenire di nuovo in pubblico, e si rivolge agli studenti: «Noi siamo nati per servire i nostri simili e possiamo farlo adeguatamente solo se siamo del tutto svegli»169. Con queste parole riecheggia un pensiero di Henry Thoreau in Walden: «Il mattino è quando io sono sveglio e per me è l’alba. La riforma morale è uno sforzo per uscire dal sonno»169.

Tragedia famigliare: ad aprile, Maganlal, il nipote di Gandhi, giunto con lui in Sudafrica nel 1902 per aiutarlo e che da vent’anni assicura la gestione quotidiana di Phoenix, Tolstoj, Kochrab e poi Sabarmati, muore all’età di quarantun anni a Patna. Gandhi scrive alla vedova, Santok. Ricordando le doti di Maganlal («carpentiere, giardiniere, tessitore, tipografo, meccanico, amministratore...»169) evoca quei “lavoratori silenziosi” che, come Pyarelal, Desai, Kalelkar e Kripalani, lo seguono ciecamente:

Colui che avevo scelto come mio erede non c’è più [...]. Aveva optato per la via del silenzio, il dono di sé costruttivo. Lui era le mie mani, i miei piedi e i miei occhi. Il mondo non sa bene quanto la mia pretesa “grandezza” dipenda dal lavoro incessante e noioso dei lavoratori, uomini e donne, silenziosi, devoti, capaci e puri. Se la fede in Dio non mi sostenesse, io impazzirei per la perdita di colui che mi era più caro dei miei stessi figli.169

Le manifestazioni contro la Commissione Simon continuano. A Lucknow, Govind Ballabh Pant è ferito gravemente dalla polizia mentre cercava di proteggere Jawaharlal Nehru. Il 30 ottobre, mentre la Commissione Simon è a Lahore, Lala Lajpat Rai, il “leone del Punjab”, sessantatré anni, alla testa di una marcia silenziosa e nonviolenta, è colpito brutalmente da un commissario di polizia, Scott, e muore pochi giorni dopo. Un rivoluzionario, ex allievo di Lala Rai alla scuola di Lahore, Bhagat Singh, giovane punjabi di vent’anni, ammiratore di Jatin Mukherjee, decide di vendicarlo: organizza l’assassinio di Scott, ma sbaglia e al suo posto uccide un altro poliziotto inglese, Saunders. Poi riesce a scappare salendo su un treno in prima classe e facendosi passare per inglese! Così diventa enormemente popolare nel paese. Un rapporto dei servizi segreti, il Criminal Intelligent Department, osserva che «a un certo punto addirittura è parso scalzare Gandhi come uomo politico faro del momento»154.

A dicembre, il Congresso tiene la sua assemblea annuale a Calcutta e Gandhi torna alla ribalta. Fa adottare le parole d’ordine: lotta contro lo status degli intoccabili, promozione della khadi, temperanza, diritti delle donne. Motilal, che presiede l’assemblea, medita ancora di trasmettere la presidenza al figlio. Bhagat Singh, l’eroe di Lahore, è presente clandestinamente. Molti delegati, esaltati dal suo attentato e dalle manifestazioni contro la Commissione Simon, si pronunciano, come l’anno prima, a favore dell’indipendenza immediata, mentre la risoluzione messa ai voti non chiede, come il rapporto di Motilal Nehru, che uno status di dominion. La discussione si accalora. Gandhi suggerisce allora di mandare un ultimatum alle autorità britanniche, esigendo che lo status di dominion sia concesso all’India entro due anni. Se il governo rifiuterà di soddisfare questa richiesta, il Congresso pretenderà l’indipendenza totale e, per ottenerla, lancerà una campagna di disobbedienza civile.

Sotto la pressione degli estremisti, Gandhi accetta di ridurre l’ultimatum a un anno: se, alla data del 31 dicembre 1929, l’India non sarà dotata di uno status di dominion, il Congresso proclamerà unilateralmente l’indipendenza dell’India e ricorrerà alla disobbedienza civile, affinché questa sia effettivamente riconosciuta da Londra.

Così, ancora una volta, Gandhi lancia un ultimatum, analogo a quello del 1921, che era stato un doloroso fiasco. Solo pochi leader del Congresso pensano che questa volta possa andare diversamente; per gli altri, l’esercito e l’amministrazione sono ancora saldamente in mano agli inglesi. Sono ancora un’“armatura d’acciaio”. E poi il paese non è messo a ferro e fuoco.

Per la presidenza del Congresso, Gandhi è ancora indeciso tra Patel, il preferito dei militanti, e Jawaharlal Nehru, tornato da un viaggio in URSS. Alla fine sceglie Nehru per allontanarlo dalla tentazione comunista e con lui i suoi seguaci. Mentre Sir Samuel Hoare, futuro ministro dell’India, scrive che «lui non dà mai l’impressione di voler lavorare con qualcuno», Gandhi propone dunque al voto dei delegati Jawaharlal Nehru, di cui elogia

il coraggio, la determinazione, l’impegno, l’integrità che hanno infiammato l’immaginazione della gioventù del paese. Lui è in sintonia con il popolo. I suoi stretti legami con la politica europea costituiscono una carta importante per amministrare la nostra [...]. Chi conosce i rapporti esistenti tra Jawaharlal Nehru e me sa che i nostri cuori sono in sintonia, conosce il suo senso della disciplina, la sua lealtà. È un compagno inestimabile, in cui si può avere fiducia assoluta.169

E, per attenuare l’amarezza di Patel: «Tutto sommato, il presidente del Congresso non è un autocrate»169.

Come dare forza all’ultimatum? Nessuno sa bene che fare. Un motivo in più per infuriarsi davanti alla flemma britannica...

Nel frattempo, Bhagat Singh, sempre clandestino, va nel suo villaggio natale di Channa, vicino Calcutta, a trovare un guru rivoluzionario, Swami Niralamba, che è stato un compagno di Jatin Mukherjee.

Il «vangelo dei rivoluzionari»

Nel gennaio del 1929, Bhagat Singh fonda l’Esercito repubblicano socialista segreto e in un testo molto violento rimprovera a Gandhi di essersi ritirato nel suo asram e gli contesta il diritto di esprimersi in nome del popolo154:

In questi ultimi anni, Gandhi ha forse preso parte alla vita sociale delle masse popolari? Si è seduto la notte accanto al fuoco di un contadino per sapere cosa pensasse? Ha passato anche una sola serata in compagnia dell’operaio di una fabbrica? Noi invece l’abbiamo fatto e perciò affermiamo di sapere cosa pensa il popolo. Noi assicuriamo a Gandhi che l’indiano medio, come l’essere umano medio, capisce ben poco delle sottigliezze dell’ahimsa e dell’“Ama i tuoi nemici”. Il mondo va così... Abbiamo un amico, l’amiamo, a volte tanto da farci uccidere per lui. Abbiamo un nemico, l’evitiamo, lo combattiamo e, se possibile, lo uccidiamo. Il vangelo dei rivoluzionari è semplice e sincero.

Comunque Gandhi viaggia: si sposta da un villaggio all’altro predicando la fabbricazione individuale di khadi e il boicottaggio degli abiti stranieri, che in teoria non è stato interrotto. Soffre ancora di dissenteria.

A febbraio, Rasik, secondogenito di Harilal, muore di febbre tifoide a diciassette anni a Delhi, dove ha raggiunto lo zio Devdas, divenuto giornalista. Molto legato a quel nipote, Gandhi definisce «invidiabile» la sua morte. Pubblica inoltre su «Navajivan» un articolo toccante intitolato “Tramonto di mattina: vedo avvicinarsi la vecchiaia”.

L’8 aprile, Bhagat Singh e un suo amico, Batukeshwar, escono dal loro rifugio: entrambi indossano eleganti abiti europei e, provvisti di un lasciapassare da visitatori, entrano nella camera del Consiglio, a Delhi, durante la presentazione di un progetto di legge sui conflitti sindacali, e gridano: «Inqilab zindabad!» (‘Lunga vita alla rivoluzione!’). Lord Simon assiste ai dibattiti da una galleria. I due distribuiscono volantini il cui testo comincia così: «Serve un grande rumore per far sentire i sordi...», e lanciano un ordigno esplosivo volutamente innocuo. Nessuno resta ferito. I due amici sono arrestati. Le indagini rivelano che Bhagat Singh ha assassinato il poliziotto Saunders, l’anno precedente. La sua condanna a morte è inevitabile, nonostante l’enorme impatto popolare avuto dal suo atto di insolenza e di nonviolenza. Gandhi non perdona i due giovani e su di loro fa una dichiarazione ambigua che gli sarà rimproverata: «Le autorità non hanno mezze misure per punire i colpevoli. Ma la loro indifferenza verso i sentimenti del popolo esaspera la nazione, e l’esasperazione può generare l’irreparabile»169. È il massimo che riesce a dire per comprendere la violenza degli umiliati.

Scegliere una lotta

A Londra, Ramsay MacDonald diventa primo ministro; gli inglesi non reagiscono all’ultimatum del Congresso; Gandhi prosegue i suoi viaggi per promuovere la khadi: va nell’India del Nord, poi a marzo in Birmania e ad aprile in Andhra; in estate parte per Kausani, sull’Himalaya, dove scrive un’introduzione alla sua traduzione della Gita in gujarati. Poi incontra Ghaffar Khan a Lucknow. L’ultimatum sta per scadere, nella totale indifferenza...

Ad agosto, Gandhi è stanco. Si sente vacillare e vorrebbe passare il testimone. Scrive su «Young India»: «La battaglia del futuro deve essere condotta da uomini e donne più giovani»169. In Palestina, intanto, scoppiano nuovi scontri tra ebrei e arabi a Hebron, Safed, Jaffa, Gerusalemme, che la polizia inglese non riesce a contenere.

Il 24 ottobre, mentre Gandhi si trova nell’Uttar Pradesh, a New York si verifica un crollo della Borsa di cui Gandhi dirà più tardi: «Sono convinto che la crisi economica che si è estesa a tutti i paesi, compresi gli Stati Uniti, sia una conseguenza di questa guerra mondiale che qualcuno osa chiamare la “grande guerra”»169.

Il 31 ottobre, cioè due mesi prima della sessione annuale del Congresso che deve tenersi il 23 dicembre a Lahore, capitale del Punjab, il viceré (o piuttosto un rappresentante incaricato di sostituirlo) fa sapere, come ci si doveva aspettare, che la montagna ha partorito un topolino: la Commissione Simon si limita a proporre di ammorbidire le regole del suffragio censuario e promette una «tavola rotonda con alcuni delegati indiani». Ridicolo! Gandhi chiede dunque di incontrare il viceré insieme a Motilal Nehru. Non viene concessa nessuna udienza. È la rottura totale.

A questo punto, lo scontro programmato dalla risoluzione del Congresso dell’anno precedente diventa inevitabile54. L’ultimatum è scaduto. Bisogna trarne le conseguenze. Jawaharlal Nehru fa votare la risoluzione di Purna (il “Purna Swaraj”), vera e propria dichiarazione d’indipendenza.

Il 31 dicembre 1929 a mezzanotte, i membri del Congresso Nazionale issano sulle rive del fiume Ravi la bandiera dell’India: tre strisce orizzontali arancione, bianco e verde, con al centro un arcolaio disegnato da Gandhi. Il 26 gennaio 1930, data della promulgazione della dichiarazione, diviene “festa nazionale dell’indipendenza”; 172 eletti danno le dimissioni dalle assemblee regionali in segno di appoggio a questo testo.

Adesso bisogna spingersi oltre: ma come? Come ottenere la concretizzazione di ciò che è solo un desiderio? L’amministrazione britannica non crollerà da sola e l’“armatura d’acciaio” è ancora intatta. Tutti ricordano il fiasco del 1921. Bisogna quindi scegliere una strategia di lotta. Appena uscito di prigione, Subhas Chandra Bose propone la creazione immediata di un governo provvisorio; Bajaj suggerisce una marcia fino al palazzo del viceré; Patel consiglia il rifiuto di pagare le tasse e la lotta contro la vendita di alcolici. Uno dei principali alleati musulmani di Gandhi, il dottor Ansari, che ha già presieduto il Congresso, è scettico: la situazione non è favorevole come nel 1919, quando l’inflazione, le leggi Rowlatt, la legge marziale e il problema del sultano avevano unito tutti gli indiani110. Nel 1930, al contrario, il governo di Londra è laburista; il viceré, Lord Irwin, predica «un approccio cristiano al problema indiano»; i rapporti tra hindu, musulmani e sikh sono tesissimi e il Congresso è diviso.

Proprio in quel periodo un funzionario subalterno, il signor Godse, è trasferito a Ratnagiri, nel Maharashtra, sulla costa dell’Oman. In quella città si trova anche un importante prigioniero politico di cui si è già parlato: Vinayak Damodar Savarkar, condannato a cinquant’anni di prigione. Il figlio di questo funzionario, Nathuram Godse, si incontra più volte col detenuto e i due discutono dell’indipendenza del paese, dell’inviolabilità della madre patria, dell’abolizione del sistema delle caste, dell’emancipazione delle classi inferiori, del recupero degli hindu convertiti di forza all’islam o al cristianesimo.

Meno di vent’anni più tardi, quello stesso Nathuram Godse assassinerà Gandhi.

«Paralizzare il governo»

Il 18 gennaio 1930 segna un grande evento: Tagore, prima di partire per un viaggio nell’URSS, va a trovare Gandhi a Sabarmati e gli chiede se abbia una strategia per evitare che questa nuova sfida sia, come quella del 1919, un buco nell’acqua. «Ci penso notte e giorno e non vedo luce»168, risponde misteriosamente Gandhi. Molti credono che il Mahatma darà ascolto a Subhas Bose e proporrà la creazione di un governo parallelo, tanto più che il 23 gennaio dichiara: «La dominazione britannica deve finire [...]. Il popolo inglese deve capire che l’Impero è giunto alla sua fine. Ma non lo capirà a meno che noi, in India, non creiamo un potere che ci permetta di imporre la nostra volontà»169. Quello stesso giorno, appena uscito dalla sua prigione birmana, Bose è arrestato di nuovo per aver organizzato una manifestazione non autorizzata.

Il 26 gennaio, in occasione della prima celebrazione del “giorno dell’indipendenza”, sono organizzati in tutta l’India dei raduni illegali. Uno di questi conta 100.000 persone a Delhi. Un messaggio di Gandhi, letto in ognuno di questi raduni clandestini e messo ai voti per alzata di mano, annuncia un movimento di disobbedienza civile, senza altre precisazioni. Il testo merita di essere citato169:

Il governo britannico in India non solo ha privato il popolo indiano della propria libertà, ma si è fondato sullo sfruttamento delle masse e ha rovinato l’India dal punto di vista economico, politico, culturale e spirituale. Di conseguenza, noi crediamo che l’India debba rompere i suoi legami con la Gran Bretagna e ottenere un’indipendenza completa [...]. Riconosciamo tuttavia che il modo più efficace per ottenere la nostra libertà non è la violenza. Perciò intendiamo prepararci a rinunciare, finché potremo, a qualsiasi collaborazione volontaria con il governo inglese, e prepararci alla disobbedienza civile, rifiutando anche di pagare le tasse... Dunque oggi ci impegniamo solennemente a seguire le istruzioni che darà il Congresso al fine di instaurare l’indipendenza totale.

Molte regioni invitano Gandhi ad andare da loro a guidare di persona questa nuova campagna di disobbedienza civile. Lui ancora non rivela la parola d’ordine principale che intende scegliere, anche se nel suo messaggio ha evocato il tema più delicato, lo sciopero fiscale. Vuole alimentare il dubbio, oppure non ha ancora scelto?

Ad Ahmedabad alcuni ragazzi rifiutano di cantare God Save the King, obbligatorio in tutte le scuole, e cantano invece il Bande Mataram, il “Saluto alla madre India”.

Il 15 febbraio 1930, Gandhi ha la «rivelazione» (in ogni caso è ciò che dirà più tardi): la battaglia deve cominciare dal sale, per estendersi poi ad altre sfide, al fine di rendere impossibile il funzionamento stesso del Raj, spezzare l’“armatura d’acciaio”, mettere in ginocchio gli inglesi e costringerli a partire.

Come ripeterà ancora in pubblico, il suo scopo è «paralizzare il governo».

Senza svelare ancora le sue intenzioni, la settimana successiva Gandhi scrive dunque un articolo sul sale. Anche se in passato ha affermato che il sale era «un veleno», adesso ne esalta le virtù: «Insieme all’aria e l’acqua, il sale è forse l’elemento principale di cui le persone hanno bisogno. È l’unico condimento per i poveri; nemmeno le bestie possono vivere senza sale». E poi, sfidare gli inglesi su questo terreno è meno grave che non pagare le tasse.

Eccetto l’acqua, non c’è nessun altro prodotto come il sale la cui tassazione permetta allo Stato di colpire milioni di affamati, i malati, gli infermi, i poveri senza alcuna risorsa. Di conseguenza, questa imposta rappresenta la tassa più disumana che l’ingegno umano abbia potuto immaginare [...]. L’illegalità è che un governo rubi il sale del popolo e gli faccia pagare caro l’articolo rubato.170

La prima battaglia, pensa Gandhi senza ancora esprimerlo, consisterà dunque nell’andare a raccogliere il sale – azione illegale – su tutto il litorale del paese e a venderlo; poi bisognerà intraprendere altre azioni su altri temi sempre più paralizzanti. Lui stesso vuole marciare dall’asram al mare e lì raccogliere il sale. È convinto che non potrà portare a termine questa marcia: per quanto, finché non si raccoglie il sale, non si commetta nulla di illegale, pensa che gli inglesi l’arresteranno prima che arrivi al mare. E poiché vuole assolutamente condividere questa scampagnata con quelli che gli sono più cari, fa venire dal Sudafrica il figlio prediletto, Manilal, senza rivelargli ciò che l’aspetta...

Per molti giorni ancora mantiene segreta la sua idea, perché sa che nel Congresso ci sono sempre più agenti segreti infiltrati del Criminal Intelligence Department, cioè dei servizi segreti inglesi. L’idea lo trasfigura; durante la preghiera dell’asram, parla «con una luce particolare negli occhi»74. Il 20 chiede a Mahadev Desai, Vallabhbhai Patel, Mohanlal Pandya e Revashankar Vas di riflettere su una marcia con partenza dall’asram, alludendo a «un appuntamento in riva al mare». Il 23 manda Patel ad attraversare il Gujarat per trovare il villaggio di arrivo. Sceglie Dandi, a 400 chilometri da Sabarmati, cioè, a ritmo spedito, a tre settimane di cammino. Gandhi spiegherà un po’ più tardi questa scelta: «La storia di Dandi è essa stessa tragica. È un bel posto in riva al mare. In realtà, trae il suo nome dal fatto che lì c’era una divadandi, cioè un faro. Adesso, è un villaggio deserto. Un europeo e poi degli indiani hanno tentato invano, contronatura, di rendere il suolo coltivabile»169.

Ma Patel è arrestato durante il viaggio e spedito in prigione per tre mesi. Non prenderà parte alla marcia...

Il 27 febbraio 1930, senza ancora parlare del sale, Gandhi annuncia su «Young India» che, per una volta, anche se si scatenasse la violenza, non interromperà il movimento:

Deve essere dato per scontato che, quando il movimento di disobbedienza civile inizierà, il mio arresto diverrà una certezza [...]. Sarà allora dovere di tutti coloro che vogliono il successo del movimento mantenere la nonviolenza e la disciplina. Ciascuno dovrà restare al suo posto, tranne in caso di richiamo del capo. Se vi è una reazione spontanea delle masse, cosa che mi auguro, e se l’esperienza è davvero una guida, essa sarà ampiamente autoregolata [...]. Di conseguenza, anche se tutti gli sforzi possibili e immaginabili devono essere fatti per contrastare le forze della violenza, questa volta la resistenza civile, una volta iniziata, non potrà e non dovrà più interrompersi fino a quando anche un solo resistente sarà ancora in libertà o in vita. Ogni seguace del satyagraha dovrà trovarsi in una delle condizioni seguenti: in prigione o in una posizione analoga; impegnato nella resistenza civile; in attesa di ordini, filando o effettuando un compito costruttivo e utile allo swaraj.169

A febbraio, Ho Chi Minh vorrebbe lasciare Mosca per l’Indocina ma, dato che la Francia ha messo una taglia sulla sua testa, si stabilisce a Hong Kong, territorio britannico, dove crea il Partito Comunista Vietnamita17.

Le undici richieste

Il 2 marzo Gandhi manda al viceré una lunga e ingegnosa missiva, a cui ha molto lavorato con Patel, prima che venisse arrestato, poi con Desai e Nehru, e il cui tenore sarà tenuto segreto per una settimana. Nehru non sa della scelta del sale come tema della prima battaglia e la lettera ancora non lo rivela.

Gandhi esordisce col minacciare il viceré di violenze: «Attendere ancora è un peccato. È risaputo che, sebbene disorganizzato e per il momento ancora insignificante, il partito della violenza guadagna terreno e fa sentire la sua presenza. Il suo obiettivo è lo stesso che ho io, ma sono convinto che non potrà portare alle moltitudini silenziose la soddisfazione desiderata»168. Se il viceré non vuole la violenza, deve soddisfare undici rivendicazioni lungamente maturate. Altrimenti, sarà sciopero generale109. La liberalizzazione del commercio del sale è solo una di queste undici richieste, la quarta, citata en passant, senza insistere. Eccole tutte:

1. divieto di vendita di alcolici;
2. un miglior tasso di cambio tra rupia e scellino;
3. riduzione della metà della tassa fondiaria;
4. abolizione della tassa sul sale;
5. riduzione della metà delle spese militari;
6. riduzione degli stipendi degli alti funzionari;
7. instaurazione di diritti di dogana sugli abiti stranieri;
8. concessione del monopolio del traffico costiero alle navi indiane;
9. liberazione di tutti i detenuti politici, tranne quelli accusati di omicidio;
10. soppressione del Criminal Intelligence Department o suo controllo da parte di rappresentanti eletti;
11. diritto al porto d’armi per gli indiani.

Queste undici richieste costituiscono un riassunto perfetto delle aspirazioni concrete degli indiani dell’epoca. Le ha elaborate tutte Gandhi in persona, tranne la seconda, la terza e l’undicesima110.

Gandhi continua la sua lettera annunciando al viceré che lancerà un movimento, ma lo fa in termini vaghi168: «Questa nonviolenza si esprimerà per mezzo della disobbedienza civile, limitata per il momento agli abitanti dell’asram del satyagraha, ma destinata alla fine dei conti a toccare tutti coloro che decideranno di unirsi al movimento, con dei limiti evidenti». Conclude con un formidabile riassunto in poche righe dei suoi rapporti con la potenza coloniale:

La mia ambizione è niente meno che convertire il popolo britannico con la nonviolenza e di mostrargli in tal modo il torto che ha fatto all’India. Io non cerco in alcun modo di nuocere al vostro popolo. Io voglio servirlo, proprio come il mio. Credo di averlo sempre servito. L’ho servito ciecamente fino al 1919. Anche quando i miei occhi si sono aperti e ho inventato la non-cooperazione, il mio scopo è rimasto lo stesso.169

L’indomani, il 3 marzo, senza attendere la risposta del viceré (che non arriverà mai), svela al consiglio direttivo del Congresso riunito a casa sua, ad Ahmedabad, il metodo che ha scelto senza consultarli: sarà una marcia di 400 chilometri da Sabarmati a Dandi per andare, in violazione della legge, a raccogliervi del sale. Partenza tra nove giorni, il 12 marzo all’alba. Arrivo il 6 aprile. Percorreranno tra i 15 e i 20 chilometri al giorno.

Per il consiglio direttivo e il suo presidente Jawaharlal Nehru si tratta di un’enorme sorpresa. Nehru se ne ricorderà: «Nelle nostre file, fu lo stupore totale: non capivamo bene cosa c’entrasse il sale nella lotta per l’indipendenza coloniale [...]. Improvvisamente, la semplice parola “sale” assunse il fascino di una formula magica e si caricò di misteriosi poteri»119. Messi davanti al fatto compiuto, i leader del Congresso autorizzano Gandhi a lanciarsi nella battaglia del sale. Allora tutti vogliono partecipare. Gandhi impone il silenzio: «Sceglierò io chi partirà. Saranno soprattutto dei membri dell’asram, più alcuni di voi»169. Non dice chi. A uno dei compagni che si preoccupa per la sua salute, risponde che avrà la forza di marciare: «Mi prendo cura di me come una donna incinta si prende cura della sua salute per il bene del bimbo che porta in grembo; io in me porto il bene dello swaraj». E precisa:

In caso fossi arrestato, sarebbe pericoloso interrompere il movimento. Se tutto va bene, dovrei arrivare a Dandi il 5 aprile. Perciò mi sembra che il 6 sia più che indicato [per cominciare la raccolta del sale]. È il primo giorno della Settimana Nazionale e l’anniversario del satyagraha che, nel 1919, ha visto una presa di coscienza di massa fino a quel momento sconosciuta...169

Si riferisce al primo satyagraha che aveva lanciato in India il 30 marzo 1919 contro le leggi Rowlatt e che sfociò, quindici giorni dopo, nel massacro di Amritsar. Di qui la sua insistenza nel dichiarare che, anche se si verificassero sanguinosi incidenti, non ci si fermerà. Pensa anche al lungo cammino percorso dalla primissima marcia, quella da cui tutto ebbe inizio: la marcia delle donne del 1913, in Sudafrica... Inoltre pensa che è vecchio, più vecchio di quanto fosse suo padre quando è morto, e si paragona dunque, parlando con diversi amici, a Gesù che entra a Gerusalemme per esservi crocifisso.

Ultimi preparativi

Gandhi espone dunque i dettagli alle sue truppe. Comunica i nomi dei 79 partecipanti che ha scelto personalmente. Tra questi, Jawaharlal Nehru, Sarai Nadu, Manilal Gandhi, Kanti, uno dei figli di Harilal (questi è stato mandato a preparare un movimento dello stesso tipo a Benares), Pyarelal Nayar, Chaganlal Joshi (responsabile dell’asram dalla morte di Maganlal), Narayan Kharel (maestro di musica dell’asram), Abbas Tyabji, giudice musulmano all’alta corte di Baroda, divenuto “professore di arcolaio” nell’asram, Valji Desai (traduttore in inglese degli scritti di Gandhi), uno studente gujarati proveniente dall’America, Haridas Muzumdar, soprannominato “l’americano”, due figli di Kalelkar (Satish e Bal) e alcuni delegati delle 55 province indiane, di cui due musulmani, un cristiano e quattro intoccabili; il più giovane del gruppo è Vithalal Thakkar, di sedici anni. Gandhi, a sessantadue anni, è il più anziano. Patel, che ha preparato tutto con il Mahatma, è ancora in prigione. Gandhi esige da ognuno una preghiera quotidiana, la filatura di 190 metri di cotone in tre ore e – richiesta incredibile! – la redazione giornaliera di un diario personale che lui potrà consultare in qualsiasi momento...

Spiega poi cosa si aspetta da ogni villaggio-tappa: un pasto semplice (che i marciatori cucineranno da soli), un posto pulito per dormire, un luogo isolato dove i satyagrahi potranno «adempiere ai bisogni naturali»168.

Diciotto studenti dell’università Vidyapith di Ahmedabad, membri dell’Arun Tukdi (“Unione del Sole Nascente”) scelti da Kalelkar, divenuto vicerettore dell’università, sono mandati in avanscoperta per controllare la preparazione delle cucine, dei dormitori e delle latrine. Incorreggibilmente moderno, Gandhi ne approfitta per assegnare una prima inchiesta sociologica di una sorprendente attualità sulle popolazioni incontrate; chiede infatti che a ogni sosta siano raccolte le seguenti informazioni:

Composizione della popolazione (quanti uomini, donne, hindu, musulmani, parsi ecc.); numero di intoccabili e, all’occorrenza, loro grado di istruzione; numero di ragazzi e ragazze che frequentano la scuola del villaggio se ce n’è una; quantità di capi di bestiame, numero di arcolai, numero di persone che indossano la khadi; ammontare e tasso dell’imposta fondiaria, superficie dei campi coltivati in comune; consumo di sale.169

Vuole ancora essere lo “sparviero affamato” di cui parlava Gokhale quindici anni prima.

La stampa del mondo intero è forse ancor più affascinata da questa marcia che da quella indiana. Gandhi organizza un ufficio stampa che pubblicherà comunicati quotidiani. Arrivano giornalisti dall’Europa e dall’America, e anche quattro cineasti. Un corrispondente domanda a Gandhi: «Pensa che in seguito alla vostra battaglia potrebbe esplodere la violenza?». «Sì, è una possibilità, che io riduco scegliendo un itinerario ben studiato». Itinerario che non passa per nessuna grande città e non incontra nessuna strada principale36. Ma, questa volta, è fuori questione interrompere la marcia se scoppiano delle violenze per colpa degli inglesi.

Il 10 marzo, a due giorni dalla partenza, in un discorso a quelli che vogliono accompagnarlo, riuniti la sera in preghiera, Gandhi dichiara: «Voglio che siate ben coscienti che noi raggiungeremo il nostro obiettivo, o moriremo. Non faremo marcia indietro. Tutti i soldati che vengono con me devono sapere che possono benissimo non tornare indietro. Quelli che sono sposati devono chiedere il consenso alle mogli e ringraziarle per averci offerto degli uomini per questa battaglia»168. Spiega inoltre che spera di essere imitato in tutta l’India. Dice infatti:

Supponiamo che dieci persone in ciascuno dei settecentomila villaggi dell’India decidano di produrre del sale e disobbedire così alla legge, che potrà fare secondo voi il governo? Nemmeno il peggiore dittatore che voi possiate immaginare riuscirebbe a disperdere i reggimenti dei militanti pacifici della resistenza civile facendo parlare i suoi cannoni. Per poco che decidiate di mobilitarvi, vi assicuro che arriverete a paralizzare questo governo in poco tempo.169

Questa è esattamente la sua strategia di fondo: «paralizzare il governo».

L’indomani, con sua grande sorpresa, non viene ancora arrestato: il viceré tentenna, nonostante le insistenti richieste del governatore di Bombay da cui dipende la regione di Dandi. Nella notte tra l’11 e il 12, Gandhi arringa una folla immensa riunita sulle rive della Sabarmati. Accanto a lui, Ambalal Sarabhai, suo vicino e amico, l’industriale tessile contro cui ha condotto lo sciopero del 1917, e Anasuyaben Sarabhai, sua sorella, che allora lo spalleggiò con Naidu e Bajaj, fanno parte dei suoi principali finanziatori. «È molto probabile», dice Gandhi, «che questo discorso sia l’ultimo che vi rivolgo. Anche se l’amministrazione domani mi permettesse di avviare questa marcia, questo sarà il mio ultimo discorso sulle rive sacre della Sabarmati. Non è neanche escluso che queste siano le ultime parole della mia vita»169.

Poi dà ai partecipanti delle consegne che ci possono sembrare inaudite, ma che nel clima del momento appaiono del tutto naturali:

Nonostante la fatica legata alla marcia, la disciplina dell’asram dovrà essere seguita da tutti, soprattutto su tre punti essenziali: la preghiera, la filatura, la redazione quotidiana del diario [...]. Spesso si ha l’impressione di essere morti di stanchezza e ci si addormenta prima di aver concluso la redazione del proprio diario; in certi luoghi, è difficile procurarsi un arcolaio, o più precisamente un numero sufficiente di arcolai, e per chi fila lentamente è difficile raggiungere la quota di 190 metri in meno di tre ore. Il nostro pellegrinaggio è sacro, noi dobbiamo averne coscienza in ogni minuto del nostro tempo. Quelli che non riusciranno a raggiungere la loro quota o che non troveranno il tempo di filare o di scrivere il diario dovranno venire a parlare con me. Io mi intratterrò con loro. L’impiego del loro tempo sarà sicuramente stato inadatto e io li aiuterò a migliorarlo.169

Mirabhen, che non partecipa alla marcia, ricorda l’angoscia che li oppresse tutti la notte prima della partenza. Scriverà:

Tutti credevano che Gandhi sarebbe stato arrestato da un momento all’altro. Scese la notte, ma non si presentò nessun poliziotto [...]. Mentre lui si preparava ad andare a letto, Kasturba gli frizionò la testa con dell’olio mentre io gli applicavo del ghee [burro, usato anche per i massaggi] sui piedi; stavamo in silenzio, perché sentivamo che stava riflettendo. Cadde addormentato in un batter d’occhio. Quelli che si trovavano nell’asram non vollero tornare a casa loro; volevano restare svegli per proteggerlo. Credo che Gandhi sia stato l’unico a dormire quella notte.92

All’alba del 12 marzo, gli 80 marciatori si avvolgono in una khadi o una semplice tunica (tranne Naidu, che non ha potuto fare a meno di indossare un magnifico sari di seta...) e la maggior parte mette in testa la bustina bianca che Nehru renderà famosa. Tutti, compreso Gandhi (che non porta il cappello), portano una bisaccia contenente un sacco a pelo, un cambio di vestiti, un takli (che serve a mantenere il filo nell’arcolaio), un quaderno e un bicchiere di metallo. Kasturba disegna sulla fronte di Gandhi il tilak, segno hindu di buon augurio fatto con curcuma secca e succo di limone, e gli infila al collo una ghirlanda di cotone. Kalelkar gli porge una canna di bambù che si vedrà ben presto sui giornali e nei cinegiornali di tutto il mondo.

L’ultimo a salutarlo prima della partenza è Ambalal Sarabhai; è lì con sua figlia che, da bambina, giocava a guadare il fiume. Gandhi sussurra al suo vecchio amico che non rimetterà piede nell’asram finché l’India non sarà libera. I loro occhi si riempiono di lacrime...

Quella mattina, accanto alle foto di Sabarmati, la stampa pubblica dei brani della traduzione in gujarati della Bhagavad-Gita che Gandhi ha fatto con l’aiuto di Swami Anand.

La marcia del sale

La marcia parte alle sei e mezza del mattino. Gandhi sfoggia, come fa spesso, un orologio da taschino sul petto. La colonna si mette in movimento. Lui si guarda alle spalle una volta, forse presentendo che non tornerà mai più a Sabarmati.

Pyarelal Nayar e Chaganlal Joshi marciano dietro di lui. Vengono poi Nehru e Sarojini Naidu, e quelli che abbiamo già citato, tra cui Narayan Kharel, il maestro di musica dell’asram, venuto nonostante suo figlio Vasant sia morto di vaiolo qualche giorno prima, e, dietro ai rappresentanti delle 55 province, naturalmente un agente dei servizi segreti britannici! Patel invece è ancora in prigione. In fondo e ai lati della strada, persone incaricate della logistica, la stampa e un nugolo di curiosi che si danno il turno o li scortano in carrozza o in macchina...

I primi giorni non fanno molta strada, poi si attestano su una media quotidiana di 17 chilometri al giorno.

In numerosi villaggi che costellano il loro itinerario, le strade sono decorate e innaffiate per evitare la polvere, e pure i funzionari locali applaudono168. In altri villaggi la popolazione si mostra ostile, in parte perché Gandhi ha un atteggiamento favorevole nei confronti degli intoccabili. Il 15 marzo, a Dabhan, Gandhi va direttamente nel quartiere degli intoccabili per attingere l’acqua, snobbando il comitato d’accoglienza che non immaginava che lui, Gandhi, potesse attingersi da solo l’acqua dai pozzi e aveva incaricato qualcuno di farlo.

La stampa riporta tutto con dovizia di particolari. Il 20 marzo, i giornali spiegano che la marcia si interromperà presto, poiché diciotto persone non stanno bene. Gandhi smentisce:

È verissimo che si sono dovuti prendere due giorni di riposo allo sevashram di Broach, perché erano sfiniti e avevano i piedi piagati. A eccezione di un caso di vaiolo che si è rivelato non grave, non ci sono state malattie vere e proprie [...]. Attualmente stanno bene, sebbene siano costretti a prendersi ancora qualche giorno di riposo. Sperano di raggiungere la colonna a Surat.169

Verso il 25, quando la marcia si avvicina alla meta nell’euforia generale e Gandhi non è ancora stato arrestato, questi comincia a lasciar intendere ciò che ha in mente per la tappa successiva del movimento, dopo la marcia del sale. In un testo del 27 marzo annuncia che, una volta conclusa la marcia, farà disporre dei picchetti di scioperanti davanti alle rivendite di alcolici, alle fumerie d’oppio, ai negozi che vendono tessuti stranieri.

Dobbiamo eliminare questa piaga un giorno o l’altro. Perciò, ovunque i militanti ritengano di poter posizionare dei picchetti di scioperanti senza correre dei rischi sconsiderati [...], devono intraprendere questa campagna, ma in nessun caso sentirsi obbligati ad agire in questo momento, perché non vedrebbero come far abrogare le leggi sul sale. Per ora mi sembra molto più ragionevole dedicarsi a queste ultime.169

Quello stesso giorno, di mattina, a Dandi, l’euforia dei marciatori scema un po’ a causa della fatica accumulata. Due piccoli incidenti irritano Gandhi: Muzumdar, “l’americano” del gruppo, accetta un gelato; alcuni marciatori maltrattano uno dei valletti che li accompagnano, che porta sulla testa una pesante lampada a petrolio168. La sera, quando si fermano, Gandhi riunisce i marciatori estenuati e fa loro la predica, esprimendo la sua «scottante verità»:

Noi siamo dei deboli, facili da tentare. Alla luce di ciò che ho scoperto oggi, come potrei avere il diritto di scrivere al viceré una lettera in cui critico severamente il suo stipendio? [...] Noi agiamo in nome degli affamati, dei diseredati, dei disoccupati [...]. Nessun lavoratore libero e rispettato accetterebbe di portare un tale fardello sulla testa. Noi ci opponiamo alla servitù, al lavoro forzato. Ma cos’è questa, se non servitù? Ricordatevi che, con lo swaraj, noi speriamo di condurre la cosiddetta classe bassa a decidere le sorti dell’India!110

L’agente segreto inglese che segue la marcia nota che, quella sera, «l’atmosfera è diventata elettrica»169.

Il 3 aprile, a due giorni dall’arrivo, stupito dalla passività degli inglesi, Gandhi riconosce di essere «preso alla sprovvista da questo non intervento esemplare degli inglesi», poi constata che in realtà questi non sono rimasti inerti: «Ovunque il sale rischia di essere preso a uso personale dalla popolazione che vive nelle vicinanze, i funzionari lo distruggono. Così, una ricchezza nazionale viene distrutta a spese della nazione e il sale tolto di bocca alla gente!»169.

Quello stesso giorno, racconta alla stampa un aneddoto edificante, rivelatore del clima che circonda la spedizione:

Shrimati Khorshedbai Naoraji si è recata [in macchina] a Sandhiar, tappa del giorno, con Mridulabehn, la figlia di Ambalal Sarabhai [che è venuta a salutarlo col padre alla partenza]. Avevano dovuto attendere che andassero a prenderle per portarle a Sandhiar. Le vie d’accesso alla località non erano molto pulite, così loro decisero di pulirle e chiesero delle scope agli abitanti del villaggio sorpresi. Essi si unirono a queste spazzine nazionali appartenenti a famiglie aristocratiche; senza dubbio il villaggio non era mai stato così pulito come quando queste sorelle hanno dedicato il loro tempo libero a spazzarlo. Raccomando questo autentico servizio, questo discorso muto delle sorelle, all’esercito di giovani che vogliono servire e liberare la nazione.169

Il 4 aprile i marciatori sono autorizzati dalla polizia, che fa da scorta, ad andare fino a Dandi. Ma alcuni esploratori vanno ad avvertire Gandhi che lì tutto il sale è stato raccolto dalla polizia! Allora lui effettua una ricognizione nei dintorni di Dandi, a bordo di un’auto presa in prestito per l’occasione, e pensa di organizzare un’incursione contro tre grossi mucchi di sale custoditi come oro in un magazzino governativo a Dharasana, a 35 chilometri a sud di Dandi. Questo deposito focalizzerà l’attenzione di tutti.

Nella notte tra il 5 e il 6 aprile, dopo aver percorso 386 chilometri in venticinque giorni, i marciatori arrivano a Dandi. Gandhi scrive quindi in inglese, su uno striscione, per i giornalisti stranieri sempre più numerosi: «In questa battaglia del diritto contro la forza, io voglio la solidarietà del mondo!»54.

Alle dieci del mattino del 6 aprile, davanti ai fotografi accuratamente disposti, il Mahatma, in una sorta di coreografia ben studiata, si bagna nell’oceano, raccoglie un po’ di sale nelle mani, poi si raddrizza e lo mostra alla folla: lui è l’India che prende in mano il proprio destino.

È un’esplosione di gioia. La gente applaude, danza, canta. Sarojini Naidu si rivolge a lui definendolo il «violatore di leggi». Gandhi dichiara: «È un dovere, per quelli che hanno coscienza del male tremendo causato dal sistema governativo dell’India, essere sleali e predicare apertamente la slealtà. Davvero la lealtà verso uno Stato così corrotto è un peccato, e la slealtà una virtù»169.

Dopo tre giorni di riposo, che Gandhi passa in un campo di fortuna allestito a 6 chilometri da lì, a Karadi, molti marciatori sono arrestati dopo aver raccolto del sale ad Aat, vicino Dandi. Tra loro ci sono Jawaharlal Nehru, Jamnalal Bajaj, Mahadev Desai e Manilal. Gandhi protesta:

Il governo non aveva il diritto di agire come ha fatto oggi nel villaggio di Aat, a 6 chilometri da Dandi. La polizia ha usato la forza per cercare di strappare il sale ai resistenti civili. Non ne aveva il diritto, in quanto emanazione di un governo civilizzato. Non c’è stata alcuna provocazione. I resistenti non cercavano di fuggire con il sale. La polizia può arrestare i resistenti civili e confiscare loro il sale in modo cortese, ma questo può essergli preso solo dopo il loro arresto e non strappandoglielo brutalmente dalle mani.169

Paralizzare il Raj

La sera stessa del 9 aprile, Gandhi decide di passare alla tappa successiva e lo comunica al paese in un messaggio che può sembrarci un po’ magniloquente, ma di cui le circostanze e la posta in gioco giustificano l’enfasi. Questa volta annuncia un’azione su vasta scala:

Finalmente il momento tanto atteso sembra arrivato. Nel cuore della notte, i miei colleghi e compagni mi hanno destato da un sonno profondo e hanno chiesto di mandare loro un messaggio. Perciò, io detto quanto segue, pur non avendone la minima voglia. Ho già emanato abbastanza messaggi [...]. Gli hindu devono rinunciare all’intoccabilità; hindu, musulmani, sikh, parsi e cristiani devono unirsi; e la maggioranza accontentarsi di quel che resterà quando le minoranze saranno state soddisfatte.169

Poi questa consegna generale che mira a dare una scossa al paese intero:

Se gli studenti lasciano le scuole e le università statali e se i funzionari del governo danno le dimissioni per dedicarsi al servizio della popolazione, noi constateremo che il purna swaraj verrà a bussare alla nostra porta.

Infine questa direttiva precisa:

Le donne devono organizzare dei picchetti davanti agli spacci di alcolici, alle fumerie d’oppio, ai negozi che vendono tessuti stranieri. Giovani e vecchi, in tutte le case, devono utilizzare il takli, filare e tessere quotidianamente. La stoffa straniera deve essere bruciata.

E più concretamente ancora:

Servono almeno dieci donne per costituire un picchetto davanti a un negozio di stoffe straniere o uno spaccio di alcolici. Devono scegliersi una responsabile. Devono prima mandare una delegazione dal negoziante per chiedergli di rinunciare a proseguire il suo commercio, e mostrargli volantini che espongano fatti e cifre relativi all’alcol o ai tessuti stranieri, a seconda del caso. Se il negoziante rifiuta di rinunciare alla sua attività, le volontarie devono prendere posizione davanti al suo negozio lasciando libero il passaggio e fare personalmente appello ai sentimenti dei potenziali clienti.

Si tratta di iniziative soprattutto urbane: non è contemplato né possibile mettere in moto le masse rurali.

L’indomani, Gandhi si congratula con le donne che, in alcune città, tra cui Bombay, hanno eseguito i primi picchetti:

In questa guerra nonviolenta, il loro contributo dovrebbe essere molto più grande di quello degli uomini [...]. Se per forza si intende potenza morale, in questo caso la donna è immensamente superiore all’uomo. Non ha forse più intuito, non ha forse un grande spirito di sacrificio, non è forse più resistente, non ha forse più coraggio? Senza di lei, l’uomo non potrebbe esistere. Se la nonviolenza è la legge della nostra esistenza, il futuro è nelle mani della donna.169

Scatta la repressione. L’“armatura d’acciaio” regge. Gli arresti si moltiplicano in tutto il paese e parallelamente il movimento si estende. Nel Sud del Kheda, nel villaggio costiero di Bhagalpur, circa 20.000 persone raccolgono del sale e, nella metà dei villaggi di quel distretto, gli eletti si dimettono dai loro posti e non riconoscono più l’autorità del Raj. A Peshawar, nel nord-ovest del paese, quando il loro capo Ghaffar Khan viene fermato, centinaia di khudai (‘servitori di Dio’), i soldati nonviolenti che costituiscono la sua guardia personale, resi furiosi dall’arresto del loro vecchio capo, affrontano al bazar il fuoco dei mitra inglesi; centinaia di persone sono uccise o ferite, ma la folla resta calma davanti ai soldati. Chiamati di rinforzo, i garhwali, noti per la loro lealtà all’Impero, rifiutano di sparare sui loro compatrioti disarmati. Per cinque giorni, la città resta nelle mani degli insorti.

In tutto il paese sono arrestate 60.000 persone. L’Impero tuttavia regge il colpo.

Il 13 aprile, Gandhi insorge contro le violenze dei suoi seguaci. Le sente sulla sua pelle, come se fosse l’India incarnata:

Riconosco di essere del tutto disarmato davanti alla violenza, quando è compiuta da noi; e, quando ne sento parlare, un medico che mi prendesse il polso constaterebbe subito l’accelerazione del battito del mio cuore. Ho bisogno di alcuni istanti, dedicati alla ricerca dell’aiuto di Dio, perché il mio cuore recuperi un ritmo normale. Non riesco a rimediare a questa debolezza. La alimento, anzi. Questa emotività mi permette di poter continuare a servire, a guidare e a confidare in Dio. Lui solo sa quando sarò abbastanza deluso e sconvolto dai nostri atti di violenza perché sia giustificato un digiuno temporaneo o permanente. È l’arma ultima del satyagrahi contro coloro che lui ama.169

Il 17 aprile, in un testo che rivela le sue ossessioni e che ricorda il comportamento degli uomini di Ghaffar Khan qualche giorno prima, ribadisce l’ordine di non scappare davanti alla violenza degli altri:

Dopo il massacro del 1919 [quello di Amritsar], ho ribadito a più riprese la mia speranza che, la prossima volta, da nessuna parte in India la gente sarebbe fuggita davanti alle pallottole, ma che le avrebbe ricevute in petto, a braccia conserte, con una rassegnazione coraggiosa. Mi sembra che questa prova si avvicini più in fretta del previsto. Ma se vogliamo esercitarci a subire dei colpi di pallottola o delle cariche di baionetta a petto nudo, dobbiamo abituarci a restare impassibili davanti alle cariche della cavalleria o ai manganelli. So bene che è più facile a dirsi che a farsi...169

Il 24 aprile, nel corso di una manifestazione dello stesso tipo a Benares, il suo primogenito Harilal viene arrestato. Un leader del Congresso, Sri Prakasa, gli scrive da quella città: «Sembra che debba portare alla vostra conoscenza il comportamento del volontario Harilal che, a mio avviso, ha seguito più di tutti le vostre indicazioni riguardo al comportamento da tenere quando la polizia ci strappa il sale. [...] Quasi tutti gli altri volontari sono stati feriti, ma la sua condotta merita di essere menzionata, ed è con orgoglio che cito il suo nome»54.

Il 27, una lettera scritta da Gandhi e consegnata da 28 donne (hindu, musulmane, parsi) arriva al viceré, per protestare contro la vendita di alcolici e di abiti importati169.

Il 1° maggio, Gandhi alza ancora i toni e dichiara che questa volta tocca al grande deposito di Dharasana, vicino Dandi, dove gli inglesi hanno stipato tutto il sale della regione dopo l’annuncio della marcia. Il viceré denuncia in anticipo «questa incursione contro una proprietà privata».

Il 3, sempre più provocatore, Gandhi scrive a quest’ultimo una lettera di un’ironia pungente, avvertendolo esplicitamente che entrerà nel deposito in una data che mantiene segreta:

Caro amico, se Dio vuole, ho intenzione, con i miei compagni, di partire il... per Dharasana, arrivare lì il... e prendere possesso dei magazzini di sale. Avete detto alla popolazione che quegli edifici sono una “proprietà privata”. Ma è solo una copertura: Dharasana è sotto il controllo del governo quanto la vostra residenza personale. Nemmeno un pizzico di sale può uscirne senza il vostro consenso. Potete impedire questa “incursione” (come l’avete definita non senza ironia e malignità) in tre modi:

1. abolendo la tassa sul sale;
2. arrestandomi, e con me i miei compagni, ma io spero che il paese sarà in grado di rimpiazzare quelli che saranno stati presi;
3. con la violenza, ma io spero anche che ogni cranio fracassato sia rimpiazzato; [...]

Se non riesce a comprendere la necessità di abolire la tassa sul sale e autorizzare gli indiani a raccogliere e fabbricare il proprio sale, io mi vedrò obbligato a intraprendere la marcia annunciata nel primo capoverso di questa lettera.
Sono e resto

Vostro amico.

Gandhi non ha il tempo di spedire questo messaggio: il 4 maggio, poco dopo mezzanotte, tre ufficiali (due inglesi e un indiano) e una trentina di poliziotti indiani armati penetrano nel campo di Karadi e lo arrestano, in virtù della legge del 1827 che permette una detenzione senza processo168. Gandhi chiede al nipote Kanti di preparargli un sacco a pelo e a Desai di mandare la sua lettera al viceré, poi porta con sé un arcolaio e una palla di ciuffi di cotone. Ottiene il permesso di ascoltare il Vaisnava Jana, il canto di Narsingh Mehta che da vent’anni figura nelle sue preghiere e che ha accompagnato la marcia, poi si lascia portar via sorridendo («Finalmente potrò dormire!»)54.

«Yerawada Palace»

Gandhi viene condotto alla prigione di Yerawada, a Pune, che ha lasciato sei anni prima; qui ritrova il sindaco di Calcutta, Sarojini Naidu, Patel e Kalelkar, ma non è autorizzato a parlare con loro. Stringe amicizia con una guardia irlandese, Patrick Quinn, a cui dà lezioni di gujarati e che porta ben in evidenza, attaccato alla camicia con una spilla, un foglietto scritto da Gandhi: «Siate gentili con i prigionieri. Se siete provocati, dominate la vostra collera!».

Il detenuto apprezza di avere il tempo di dormire e di filare il cotone. Riallaccia i contatti per iscritto con un’amica di Pune, Lady Premila Thackersey, da cui è stato in convalescenza nel 1924, la quale gli porta una macchina da cucire. Lady Thackersey è la vedova di Sir Vithaldas Thackersey (questo cognome sembra essere una forma anglicizzata di Ohbkur, ‘guida spirituale’, da cui deriva anche quello di Tagore). L’autorità penitenziaria l’autorizza a scrivere lettere dal contenuto non politico e lui ne scrive una decina al giorno. Spesso si tratta di risposte a problemi dell’asram, dove si è impegnato a non tornare più prima dell’indipendenza54. Dopo un controllo, le sue missive sono inviate all’asram di Sabarmati, dove Narandas Gandhi, fratello di Maganlal, che ha sostituito Joshi (arrestato), le distribuisce. All’inizio, Gandhi scrive come indirizzo del mittente «Yerawada», poi «Yerawada Palace» e infine «Yerawada Mandir» (‘tempio di Yerawada’).

Fuori, la lotta continua: il 12 maggio, un avvocato musulmano, Abbas Tyabji (sessantacinque anni), guida una marcia su Dharasana; arrestati dopo pochi minuti, i manifestati sono incarcerati. Il 21, Sarojini Naidu, accompagnata da Manilal e Pyarelal, prende il testimone e si mette alla testa di 2.500 satybgrahi, ma poi sono caricati e arrestati.

In quello stesso mese, gli inglesi inviano un importante distaccamento militare per assediare Utmanzai, dove agli uomini di Ghaffar Khan viene intimato di spogliarsi delle loro camicie rosse. Battuti e umiliati, loro rifiutano di obbedire. Le case sono incendiate e le “camicie rosse” gettate in prigione. Quelli che prima non la portavano cominciano a indossarla: se Ghaffar Khan aveva reclutato solo un migliaio di combattenti, la repressione britannica permette di richiamarne circa 80.000!

A metà giugno, Chakravarti Rajagopalachari, detto C.R., e 100 satyagrahi sono arrestati al termine di una marcia di 240 chilometri fino a Vedaranyam, un villaggio di pescatori nel Tamil Nadu.

In ottobre, il governo britannico organizza una tavola rotonda a Londra sulla questione indiana, senza la presenza di rappresentanti del Congresso, dichiarato organizzazione illegale. Su richiesta di Ambedkar, la conferenza accetta il principio di un elettorato separato per gli intoccabili. Alla fine della conferenza, convinto che non accadrà niente per molto tempo, Jinnah si stabilisce come avvocato a Londra.

Un uomo d’affari di Bombay riassume così la situazione alla giornalista francese Andrée Viollis, membro del Partito Comunista, venuta a indagare: «Una pura perdita di tempo, questa tavola rotonda! Attualmente, c’è una sola questione: gli inglesi vogliono o no lasciarci il controllo della nostra borsa, la gestione delle nostre finanze?». In totale sarà arrestato un centinaio di migliaia di persone nel corso del 1930.

Nella riunione del Congresso che si tiene alla fine di quell’anno a Karachi, essendo tutti i principali leader detenuti, Vallabhbhai Patel, che non ha partecipato a nessuna marcia ed è stato appena liberato, ne assume la presidenza. Il desiderio di indipendenza dell’anno precedente è reiterato, ma senza alcun mezzo per metterlo in opera: «Noi riteniamo un crimine contro l’uomo e contro Dio sottomettersi a una legge che ha condotto il nostro paese al disastro»109. L’”armatura d’acciaio” ha bloccato la marcia. Il popolo, contrariamente a quanto sperava Gandhi, non si è sollevato in massa...

Il 2 ottobre 1930, mentre Gandhi è dietro le sbarre per un periodo indeterminato, ed evidentemente non tornerà presto all’asram, una certa Prema Kantak, che insegna lì, gli scrive che vorrebbe conservare come suo ricordo degli zoccoli con le suole di legno che lui ha portato. Gandhi le risponde dalla sua cella con una lettera molto interessante dove, per la prima volta dopo molto tempo, parla di suo padre:

Se ne ha voglia, certo che può conservare quegli zoccoli. Ma che se ne farà di quei pezzi di legno? Io tenevo con me una foto di mio padre. Avevo attaccato delle sue foto nell’armadio della mia camera, in Sudafrica. Adesso, mi sono sbarazzato di tutto. Questo non vuol dire che l’onori di meno. Se volessi conservare tutte le foto delle persone che amo, non avrei spazio per metterle. E se volessi conservare i loro sandali, sarei costretto a comprare un campo dove custodirli. [...] Le consiglio di seguirmi quando marcio sulla retta via. Questo sarà mille volte meglio che conservare i miei zoccoli...54

Il 5 gennaio 1931, il settimanale americano «Time Magazine» nomina Gandhi “personaggio dell’anno”, dopo essere stato indeciso tra Sinclair Lewis, MacDonald, Stalin, Hitler e Al Capone...