CAPITOLO VENTESIMO
CRISPI
«Incipit vita nova», comincia una nuova vita, scrisse uno degli esponenti della Pentarchia, Baccarini, quando Crispi salì al potere. E nessuno infatti sembrava meglio qualificato di lui a ravvivare una vita politica che Depretis aveva addormentato riducendola a un puro giuoco di equilibri e compromessi.
Crispi era nato nel ’18 a Ribera in provincia di Agrigento da una famiglia di origine greco-albanese, che a ogni generazione forniva qualche prete alla Chiesa di questo rito. Gli altri facevano i «campieri» o «gabelloti», ch’era la categoria sociale cui la mafia attingeva i suoi quadri. Non ci sono elementi per affermare che i Crispi ne facevano parte. Ma non ce ne sono nemmeno per escluderlo.
Francesco, detto «Cicciu», fu messo dal padre in seminario sotto la protezione di uno zio Vescovo. E fu solo grazie a lui che non ne venne espulso per indisciplina e protervia. Gli unici autori che studiò con passione furono gli storici romani. E fu questo, di lì a tanti anni, uno dei motivi della sua infatuazione per Bismarck, anche lui gran cultore di classici. Quando s’incontrarono, passarono più tempo a discutere di Tacito e di Svetonio che di Europa e di diplomazia.
Visto che da quel ribelle non c’era speranza di tirar fuori un prete, la famiglia lo mandò a studiar legge a Palermo, dove arrivò quasi contemporaneamente al colera. Il padre corse a riprenderlo e lo riportò a Ribera. Ma Francesco fuggì per tornare in città dove aveva lasciato l’innamorata, prese il contagio, e a casa lo piansero per morto. Viceversa era uno dei pochi che se la fossero cavata, ma non osava farsi vivo per via della ragazza, di cui il padre non voleva sapere. Rimasto senza sussidi, s’impiegò presso un avvocato, e trovò modo di fondare anche un giornaletto che usciva su due fogli una volta al mese. Tanti anni dopo, come vuole il malcostume polemico italiano, gli avversari rispolverarono i suoi scritti di allora, d’intonazione filoborbonica. E si scoprì che aveva composto anche delle cattive poesie. A ventidue anni sposò la sua Rosina, che gli dette una figlia, ma entrambe morirono poco dopo. Fu per lui una tragedia, in cui sembrò che si spegnessero i suoi giovanili entusiasmi. Tornò agli studi giuridici, prese la laurea e si trasferì a Napoli per esercitarvi la professione.
Napoli lo guarì dal suo filoborbonismo, e l’amicizia dei Poerio gli fece da passaporto negli ambienti liberali, dove assunse subito, com’era nel suo carattere, una posizione di punta. Quando nel ’47 scoppiarono in Sicilia e in Calabria i moti che preludevano alla rivoluzione indipendentista dell’isola, Crispi faceva già parte del Comitato che l’ispirava e solo per un pelo sfuggì all’arresto. Pochi mesi dopo era a Palermo, che le truppe borboniche avevano dovuto evacuare, e a lui fu affidato il compito di trasformare i ribelli in soldati. Come organizzatore dovette dare buona prova perché le sue squadre resistettero bene al ritorno offensivo dei borbonici, e questo gli valse un posto di prestigio nel governo provvisorio di Ruggero Settimo. Sebbene nutrito di Mazzini, i suoi scritti e discorsi di questo periodo non rivelano tuttavia nulla di unitario e nazionale. Crispi pensava e agiva da Siciliano, per l’autonomia dell’isola. La sua voce non si levò per l’invio di truppe sotto le bandiere del Piemonte in guerra con l’Austria: il suo orizzonte si fermava a Messina. Ma in fatto d’ideologia dimostrò fin d’allora una certa disinvoltura perché quando fu avanzata la proposta di offrire il trono della Sicilia al secondogenito di Carlo Alberto, il repubblicano Crispi l’appoggiò calorosamente.
Quando, dopo Custoza e Novara, il generale Filangieri venne a restaurare l’ordine borbonico, a Crispi non restò che la fuga. La prima tappa fu Torino, dove sbarcò alla meglio il lunario scrivendo per i giornali, ma senza riuscire a inserirsi. La città era ostile a quella torma di fuoriusciti che l’avevano alluvionata (ce n’era oltre ventimila), e Crispi era fra i meno assimilabili. Offeso che il governo piemontese non gli avesse offerto una cattedra, s’era ritirato a vivere spartanamente in una casuccia di periferia, dove riceveva solo gli amici che accettavano un rango subalterno. Scrisse alcuni saggi, piuttosto mediocri, sulla Sicilia e la sua rivoluzione, e annodò una fitta corrispondenza con Mazzini, cosa che naturalmente non sfuggì alla polizia. Nel ’53 lo arrestarono e gl’intimarono lo sfratto. Partì su una nave diretta a Malta, ma non solo. Lo seguiva una ragazza savoiarda, Rosalia Montmasson, «stiratrice in bianco» semianalfabeta, ma appetitosa e a sua volta piena di appetiti: doti a cui Crispi era molto sensibile, e lo resterà per tutta la vita.
A Malta si ripeté la stessa esperienza di Torino. L’esule definì l’isola «uno scoglio ingrato» e non legò con gli altri fuoriusciti che vi si erano rifugiati: «quanto di più sordido» disse di loro «abbia potuto rigettare il ’48». Fondò un giornale di cui era l’unico redattore, e le autorità lo lasciarono fare finché vi scrisse cose che riguardavano solo l’Italia e la Sicilia. Ma quando si mise a criticare la politica locale, lo sfrattarono anche di lì.
S’imbarcò per Londra dopo aver sposato in chiesa Rosalia, e fu un viaggio terribile perché soffriva atrocemente il mare. Mazzini lo accolse fraternamente, lo presentò agli altri emigrati e fece del suo meglio per introdurlo nell’ambiente inglese, ma con poco successo. Ombroso e suscettibile, non era mai contento degl’impieghi che via via gli davano, ma soprattutto forse non si rassegnava a una posizione in sottordine nei confronti del Maestro. Per questo preferì trasferirsi a Parigi, anche a costo di vivere di ripieghi. Ma la polizia lo teneva d’occhio, e quando Orsini, ai primi del ’58, lanciò la famosa bomba contro l’Imperatore, lo trasse in arresto.
Non si è mai saputo con esattezza quali rapporti in realtà fossero corsi tra lui e l’attentatore. Negl’interrogatori, egli ammise di averlo conosciuto a Londra, ma affermò di non averlo da allora più incontrato, e la polizia non trovò elementi per smentirlo. Ma più tardi uno dei complici, Rudio, che aveva avuto la grazia, rivelò che Crispi e Orsini si erano visti mezz’ora prima del colpo. Comunque, egli fu espulso anche da Parigi, e per alcuni mesi girovagò fra Lisbona e Londra, ma sempre mantenendosi in stretto contatto con Mazzini e con gli amici di Sicilia.
Nel luglio del ’59, con regolare passaporto argentino, sbarcò a Palermo un certo Manuel Pereda. Era Crispi, senza baffi e con gli occhiali. Vide i suoi fidi, s’informò di molte cose, e tornò a Londra per mettere Mazzini al corrente della situazione. Grazie alla pace di Villafranca che le lasciava il Veneto, l’Austria aveva ancora un piede in Italia, ma non ne era più la padrona. A Napoli, il dispotico Re Bomba era morto e sul suo trono sedeva l’anemico e irresoluto Franceschiello. La situazione dell’isola non poteva essere più propizia per un’azione rivoluzionaria che strappasse al Piemonte monarchico e conservatore l’iniziativa dell’unificazione nazionale. Perché ormai Crispi, riposti i sogni autonomistici, solo a questo mirava, e naturalmente Mazzini non gli lesinava il suo incoraggiamento.
In ottobre tornò in Sicilia con un falso passaporto inglese, ma ne fu deluso. Gli amici di Palermo non vollero nemmeno vederlo per paura di compromettersi e gli consigliarono di riprendere il largo. Stoicamente, data la sua allergia al mare, s’imbarcò per Atene. Di lì, dopo un inutile tentativo di fermarsi nuovamente a Malta, circumnavigò il Mediterraneo, senza mai potersi alzare dalla cuccetta, e via Barcellona raggiunse Genova, per convincere Farini, allora governatore delle province emiliane ribelli al Papa, a organizzare una spedizione in Sicilia sotto la guida di Garibaldi. Così nacque l’idea dei Mille, e nacque nella mente di Crispi.
Farini gli consigliò di parlarne a Rattazzi, che in quel momento aveva preso il posto di Cavour, e Rattazzi gli suggerì d’intendersi col suo compaesano La Farina, che di Cavour era il consulente per le questioni siciliane. Fra i due uomini non c’era possibilità d’accordo: un po’ perché erano di opposta estrazione ideologica: moderato La Farina e devotissimo a Cavour, democratico e rivoluzionario Crispi; ma forse ancora di più per la ombrosità e protervia del loro carattere. Entrambi si consideravano il n. 1 della Sicilia e volevano restarlo. Fatto sta che dopo un primo inutile colloquio, Crispi preferì rivolgersi a Rosalino Pilo perché persuadesse Garibaldi, di cui era grande amico. E siccome Garibaldi nicchiava, si fece scortare presso di lui da Bixio. Giunse perfino a falsificare le notizie in arrivo da Palermo per vincere l’esitazione del Generale, che a un certo punto si trovò di fronte al fatto compiuto, e compiuto da Crispi, di un corpo di volontari armato e sul piede di guerra.
Fra i Mille che il 6 maggio presero il largo c’era anche lui, in tuba e marsina; e con lui c’era Rosalia, che prima di diventare a Calatafimi «l’angelo dei feriti» – come la chiamerà Cavallotti –, dovette farlo al capezzale del suo uomo, in preda al solito mal di mare. Aveva rifiutato la carica di sottocapo di Stato Maggiore perché di guerra sapeva di non saper nulla. Ma sapeva anche di essere indispensabile a Garibaldi, «il più gran condottiero che sia stato al mondo, ma inetto a governare un villaggio», come disse anni dopo a Ferdinando Martini. E infatti la mente politica della spedizione fu lui. Fu lui che suggerì al Generale di assumere la dittatura sull’isola in nome di Vittorio Emanuele, fu lui che ne redasse i proclami e che, come Segretario di Stato, emanò le prime misure, fra le quali ci fu l’abolizione del baciamano e del titolo di «Eccellenza», e l’espulsione dei gesuiti.
Preso completamente alla sprovvista dal successo della spedizione, Cavour, che frattanto era tornato al potere, spedì in tutta fretta a Palermo La Farina perché sorvegliasse «quei matti» e gliene riferisse. La Farina riferì che sulla fedeltà di Garibaldi al Re si poteva contare, ma non su quella di Crispi, che faceva solo gl’interessi di Mazzini e mirava a istaurare una Repubblica. Non era vero: Crispi aveva da un pezzo rinunziato ai sogni autonomistici e fatto sinceramente suo il grido di Garibaldi: «Italia e Vittorio Emanuele». Ma era vero che si opponeva all’annessione immediata dell’isola per farne ancora la base delle successive operazioni su Napoli, che Cavour tentava di ostacolare.
La Farina non badò a mezzi per screditare il suo arcinemico agli occhi di Garibaldi. Alla fine ci riuscì, ma per poco. Un bel giorno il Generale lo fece espellere come un malfattore qualsiasi e restituì il potere a Crispi. Ma La Farina tornò con le credenziali di Cavour e tentò di far arrestare Crispi che fuggì da una finestra. I due uomini si ritrovarono di lì a poco faccia a faccia, come deputati nel primo parlamento nazionale, La Farina a destra, Crispi a sinistra, e fu tra loro un duello alla siciliana, cui nemmeno la morte di La Farina pose fine. Pubblicato postumo, il suo carteggio costituiva un tale attentato all’onorabilità di Crispi, che questi ottenne dal Tribunale il sequestro del libro e la condanna dell’editore per calunnia.
Seduto all’estrema sinistra, Crispi fu per anni la bestia nera di tutti i governi. Quando si alzava a parlare – e si alzava continuamente –, in aula si faceva silenzio. «Si direbbe che stia per tirar fuori di tasca un paio di revolver» scriveva Petruccelli della Gattina, e come tali infatti usava le sue parole per lanciare accuse e annunciare catastrofi. La modestia non era il suo forte. «Costante nei miei propositi, fedele alla bandiera dell’unità nazionale, il domani mi ha dato sempre ragione» diceva di sé. «Si stupefà continuamente della propria grandezza» osservava malignamente Bonghi «e come a lui vengano spontanei, pronti, improvvisi in grandissima copia suggerimenti, consigli, idee, che gli altri, a stillarvisi il cervello, non troverebbero in cento anni.» Si richiamava sempre ai grandi princìpi ideali e morali per denunciare i patteggiamenti, i compromessi, gli opportunismi della Destra. E così fece anche in una memorabile requisitoria a tinte apocalittiche contro il malgoverno della Sicilia e lo stato di abbandono in cui era lasciata da un regime che faceva rimpiangere quello dei Borboni. Suscitò tale impressione, che ben diciotto deputati del suo gruppo, fra cui Garibaldi, Bertani e Guerrazzi, si dimisero per protesta rinunciando al mandato parlamentare. Lui, che aveva provocato quel finimondo, rimase al suo posto. E a chi gli chiedeva se era con Garibaldi o con Mazzini, rispondeva: «Io sono con Crispi», ch’è la cosa più vera che abbia mai detto di sé.
Alle ostilità che questo egocentrismo gli procurava, la sua condotta privata non faceva mancare pretesti. La figlia di un alto magistrato borbonico da lui stesso epurato, Lina Barbagallo, andò da lui a perorare la causa del padre. E la perorò così bene che Barbagallo riebbe il suo posto, mentre Lina prendeva quello di Rosalia. Anche sul piano ideologico, il paladino dei «grandi princìpi» mostrava nei loro confronti una certa disinvoltura. Nel ’65, al termine di un lungo discorso sulla questione romana, dichiarò che «la monarchia ci ha unito, la Repubblica ci dividerebbe», e alla fulminante risposta di Mazzini che lo tacciava di traditore, replicò con un opuscolo stranamente pacato, o forse soltanto imbarazzato, che tuttavia dimostrava l’evoluzione del suo pensiero verso una forma di democrazia autoritaria che non escludeva nemmeno la dittatura. «Ti sei messo al chiaro e al sodo» gli scrisse Bertani. «Ora sei ministeriabile.»
In verità sembrava che ai ministeri non ci tenesse, perché rifiutò quelli che gli offrirono prima Ricasoli e poi Rattazzi. Ma solo perché il potere lo voleva in esclusiva, non in compartecipazione. Nell’imminenza della guerra del ’66 auspicò all’Italia «un battesimo di sangue» e nel ’70 fu tra coloro che con più impazienza reclamarono la spedizione su Roma.
Dicevano che si serviva per le sue ambizioni della massoneria, di cui era certamente un alto dignitario, e che in fatto di denaro non andava per il sottile. Sebbene dalle accuse più gravi la storia poi lo abbia assolto, la sua vita privata le rendeva plausibili. Aveva a carico tre famiglie perché, oltre a Lina, che gli aveva dato una figlia, manteneva anche un’altra amante, che gli aveva dato un figlio, e Rosalia si faceva ripagare la tolleranza con lussi d’ogni genere. L’ex angelo di Calatafimi era diventata una megera grassa e volgare, vestita come una sciantosa e spesso ubriaca. Quando Crispi decise di disfarsene approfittando del fatto che il loro matrimonio religioso di Malta non era stato trascritto sul registro dello stato civile, dovette pagarle una cospicua liquidazione. Per di più il trasferimento della capitale a Roma l’obbligava a svendere la grande casa che aveva comprato a Firenze nel momento in cui il prezzo degl’immobili era salito alle stelle, e non gliene restava che un mucchio di cambiali, ognuna delle quali, in mano ai suoi nemici, diventava un’arma politica contro di lui.
Fu questo il motivo per cui, quando la Destra cadde e Depretis condusse la Sinistra al potere, non offrì nessun portafoglio a Crispi, che pure era uno dei suoi più autorevoli rappresentanti. Cercò di placare il suo rancore affidandogli una missione diplomatica a Parigi, Londra e Berlino, donde Crispi tornò entusiasta di Bismarck e fermamente convinto – come un po’ tutti gli uomini della Sinistra – che il nemico dell’Italia fosse la Francia e l’amico la Germania. Ma con Depretis non si riconciliò e alle sue continue mozioni degli affetti rispose: «Scuse e proteste di amicizia in privato, battiture in pubblico. Riprendo libertà d’azione».
Questa libertà si tradusse, come sappiamo, nella famosa Pentarchia, cui non si sa se più facesse da cemento il nostalgico richiamo della vecchia Sinistra romantica e barricadiera o l’impazienza verso la troppo lunga dittatura di Depretis. «Fin dal 1878» dirà Crispi più tardi «in Italia non vi furono partiti politici, ma uomini politici. Deplorai codesto stato di cose, e me ne stetti in disparte con pochi fedelissimi amici. Non potendo essere con gli uomini, fui con le idee.» Ma quando Depretis gli offrì il Ministero degl’Interni al posto di Nicotera caduto sulla gamba di Vladimiro, si affrettò ad accettarlo dimenticando tutti i suoi sproloqui contro il trasformismo.
Negli ultimi tempi egli aveva accentuato la sua intransigenza nazionalistica, tacciando di rinunciataria la politica che aveva accettato il protettorato francese sulla Tunisia e declinato l’invito inglese a un intervento in Egitto. Pure, quando il governo decise lo sbarco a Massaua per cercare nel Mar Rosso «la chiave del Mediterraneo» – uno slogan destinato dalla sua stessa stupidità alla più duratura fortuna –, lo criticò aspramente dicendo che quell’impresa poteva avere un senso solo se fosse stata seguita da una spedizione su Tripoli. E quando, dopo un’ennesima requisitoria contro di lui, tese il dito verso lo scanno di Depretis gridando: «Mettete un uomo energico, là», tutti capirono a chi alludeva. E lo capì anche il Re, che da un pezzo aveva cessato di covare diffidenze per l’ex repubblicano e ora vedeva in lui soltanto l’uomo che aveva voluto suo padre nel Pantheon e che reclamava il rafforzamento del potere esecutivo e degli armamenti militari per quella politica di prestigio che gli stava tanto a cuore. Ecco perché, dopo la morte di Depretis, sulla successione non ci furono dubbi. Contemporaneo di Vittorio Emanuele, di Cavour e di Garibaldi, Crispi rappresentava la continuità ideale del Risorgimento, e ne conciliava un po’ tutte le tendenze, o per meglio dire ne riassumeva tutte le contraddizioni. Per di più era il primo meridionale che saliva al potere dando un sembiante di realtà all’integrazione del Mezzogiorno.
Appena composto il suo ministero, l’autoritario giacobino si affrettò a dare corpo alla predizione di Baccarini con una visita-lampo a Berlino. Qualche giornale l’annunziò come «l’incontro dei due Cancellieri». E c’era del vero perché Crispi proprio questo aveva in mente di fare: più il Cancelliere che il Primo Ministro.