CAPITOLO SECONDO
ITALIA, ANNO ZERO
Assumendo il titolo di Re d’Italia come Vittorio Emanuele secondo, cioè col suo vecchio numerale di Re di Sardegna, questi aveva fatto una scelta della cui importanza forse non si rendeva esatto conto, ma che ne pregiudicava un’altra di carattere sostanziale. Certamente quello ch’era stato proclamato nel marzo del ’61 era uno Stato nuovo, consacrato dai plebisciti. Ma questi plebisciti avevano semplicemente sanzionato l’annessione al Piemonte, di cui accettavano la dinastia e le leggi fondamentali, e di cui così il nuovo Stato nazionale diventava un semplice ingrandimento. Esso nasceva non da un patto fra Sovrano e Popolo, basato su reciproci impegni, ma da un atto deditizio, che automaticamente implicava la rinunzia a una Costituente.
Ora, il vecchio Stato piemontese si era formato sul modello di quello francese, rigidamente accentrato. Cavour aveva cercato di allentarne il monolitismo. Ma, scoraggiato dalle resistenze che incontrava, aveva preferito desistere, lasciando le cose come stavano. E le cose stavano in modo che nella provincia il prefetto era praticamente onnipotente, e nel comune il sindaco era di nomina regia, cioè un funzionario di Stato più che un delegato del popolo. Dopo l’annessione della Lombardia, che aveva una certa tradizione di autonomie amministrative locali, si erano apportati dei ritocchi. Ma il sistema restava tipicamente centralistico. E a ribadire questo carattere, ora che si trattava di estenderlo a tutta la Nazione, contribuirono vari fattori.
Primo, la mancanza di una spinta rivoluzionaria dal basso: la sola che avrebbe potuto imporsi al potere centrale e limitarne l’invadenza. Secondo: il fatto che lo stesso Partito d’Azione, interprete delle scarse forze popolari che avevano recato qualche contributo al Risorgimento, era rimasto d’ispirazione mazziniana anche quando a Mazzini si ribellava, e quindi era anch’esso rigidamente unitario. Terzo: la necessità di mascherare in qualche modo, agli occhi del mondo e degli stessi Italiani, l’intrinseca debolezza di una Nazione diventata tale senza volerlo e quindi bisognosa di una «ingessatura» che ne tenesse saldate le membra e desse almeno l’illusione di una volontà unitaria che in realtà nel popolo mancava. Quarto, e forse più decisivo di tutti: l’interesse della classe dirigente di costituire il potere in modo da poterlo tenere saldamente in mano. Gli uomini che la componevano, quasi tutti di estrazione moderata, avevano fondati motivi di ritenere che l’Italia da loro fatta, senza di loro si sarebbe disfatta. E da questo si sentivano moralmente autorizzati a garantirsene il monopolio. Una struttura centralizzata, basata su prefetti investiti di poteri proconsolari, era il mezzo più sicuro per conservarlo.
Eppure, sia detto a suo onore, questa classe politica non procedette a occhi chiusi, lasciandosi guidare soltanto dai propri interessi corporativi. Anche se per le ragioni che abbiamo detto aveva abbracciato il principio unitario, essa si era formata all’insegna di un liberalismo che esaltava le autonomie locali, e il problema di rafforzarle o di darvi avvìo se lo pose. Anzi, a lanciarlo fu proprio un nobile piemontese, Ponza di San Martino, che fin dal ’53 aveva elaborato un piano di decentramento amministrativo, che suscitò l’entusiasmo di altri due influentissimi moderati, Minghetti e Farini. Forse per prevenire sospetti e diffidenze, esso non parlava di «regioni». Ma prevedeva l’istituzione di «grandi province», che territorialmente corrispondevano pressappoco alle regioni, dotate di poteri abbastanza ampi.
Quando nel ’60 diventò Ministro degl’Interni, Farini istituì per lo studio di questa fondamentale riforma una Commissione di cui Minghetti fu l’anima, e ne tracciò il programma in una Nota in cui si ritrovano tutti i pro e i contro della polemica regionalistica attuale. In Italia, diceva Farini riferendosi a un’Italia che ancora non comprendeva il Mezzogiorno, ci sono sei regioni, di cui almeno quattro (Piemonte, Lombardia, Liguria, Toscana) hanno una tradizione di Stato e quindi una certa esperienza amministrativa. Lo Stato può quindi delegar loro dei poteri.
Ma dopo questo promettente esordio, la Nota faceva macchina indietro dicendo che questi poteri dovevano però essere esercitati da funzionari di Stato, cioè da qualche specie di superprefetto, e non da organi elettivi perché questi si sarebbero messi in concorrenza col parlamento nazionale e avrebbero semplicemente moltiplicato per sei i difetti del centralismo piemontese. Sono gli argomenti che anche noi abbiamo sentito dibattere in questo dopoguerra e che probabilmente continueranno ad affliggerci anche ora che l’ordinamento regionale ha preso il suo rugginoso avvìo.
Poi successe quel che successe. Garibaldi partì per Marsala, giunse da trionfatore a Napoli, Vittorio Emanuele fu proclamato Re d’Italia, di un’Italia alla cui completezza non mancavano più che Roma e le Venezie, e il problema della sua struttura si presentò con maggiore urgenza, ma sotto una luce del tutto nuova.
Minghetti non aveva perso il suo tempo. Alla vigilia della consacrazione dell’Unità, la sua Commissione aveva già approntato quattro disegni di legge, che anche lui corredò di una Nota in cui si ritrovano le stesse speranze, ma anche le stesse paure, di Farini. Nemmeno lui parlava di regioni. Le chiamava «consorzi di province», le voleva rette da un governatore di nomina regia e si affrettava a dire ch’esse dovevano collaborare al rafforzamento, non all’allentamento del vincolo unitario.
Ma pur con tutte queste precauzioni e riserve, i poteri concessi ai Consorzi erano sostanziali, e facevano di quella di Minghetti la proposta più audace. Così audace che i più se ne spaventarono. La Farina mobilitò contro di essa la sua Società Nazionale, e Nigra da Parigi scrisse a Cavour: «Per carità, combatta il sistema regionale, se no siam perduti».
Cavour non condivideva questi timori, ma era troppo animale politico per impegnarsi in una battaglia che offriva ben poche speranze di vittoria. Specialmente i notabili del Sud, ch’erano la forza del suo partito, invocavano lo Stato forte e autoritario che imbrigliasse i movimenti eversivi e sanfedisti da cui si sentivano minacciati. Eppoi doveva fare i conti con la vecchia burocrazia piemontese, abituata al comando accentrato e fermamente decisa a esercitarlo su tutta la Nazione per non perderne il controllo. Pur incoraggiando Minghetti a difendere in parlamento la sua riforma e sostenendola di persona, Cavour si rifiutò di farla sua impegnandovi la sorte del governo, e quindi non pose la «questione di fiducia». Cioè disse a Minghetti: «Combatti la tua battaglia. Se vinci, noi faremo nostra la tua vittoria realizzando la riforma. Se perdi, la sconfitta è soltanto tua».
Naturalmente questo indebolì la posizione di Minghetti, ma non fu la causa determinante del suo insuccesso. Agli avversari non mancarono gli argomenti per dimostrare la pericolosità di un progetto che, anche se lasciava un margine irrisorio alle autonomie locali, creava tuttavia qualche imbarazzo al potere centrale nel momento in cui questo doveva risolvere problemi urgentissimi come quelli di Roma e di Venezia, l’unificazione di ben sette diversi sistemi legislativi, doganali, monetari, scolastici, eccetera, tutte operazioni che esigevano il comando accentrato e vi conducevano. Ma a rendere inevitabile la bocciatura furono altri due motivi, molto più profondi.
Il primo – su cui non s’insisterà mai abbastanza – era la particolare natura del processo unitario. Il Risorgimento era stato, come oggi si direbbe, una «operazione di vertice», che seguitava a interessare soltanto il vertice, cioè l’esigua minoranza che lo aveva fatto. È vero ch’essa mostrava una spiccata allergia a qualsiasi delega di potere. Ma è altrettanto vero che, anche se avesse voluto farne, avrebbe incontrato grosse difficoltà per mancanza di personale. La tradizione e l’abitudine del «pubblico servizio» mancava totalmente. Il «servitore dello Stato» era esistito solo a Torino e un po’ a Napoli. Tutte le altre piccole capitali italane non avevano conosciuto che il cortigiano, cioè il servitore del padrone, e in queste condizioni la creazione di centri di potere locali era impossibile, o quanto meno molto difficile, perché non si sarebbe saputo a chi affidarli.
Il secondo motivo era che la riforma si basava su un equivoco. Sebbene i suoi paladini dicessero che non intendevano rianimare l’antico spirito autonomistico, essi speravano di trovarvi un sostegno. Ma questo spirito non c’era perché i vecchi Stati non erano che delle satrapie – anche se benevole, come in Toscana – che, impedendo al suddito di amministrarsi da sé, avevano soffocato in lui ogni slancio di partecipazione. Gl’Italiani restavano assenti dalla vita nazionale non perché fossero attaccati a quella regionale o municipale, ma perché erano totalmente diseducati a qualsiasi forma di autodecisione. Solo i Lombardi avevano una certa tradizione amministrativa, perché sia gli Spagnoli che gli Austriaci gli avevano consentito, in questo campo, un certo margine di autogoverno. Tutti gli altri consideravano la cosiddetta «cosa pubblica» come cosa del padrone, cui addossavano tutte le responsabilità nella stessa misura in cui gli riconoscevano tutti i poteri, e contro il quale si riservavano solo un diritto di protesta a voce più o meno alta a seconda della sua tolleranza: un atteggiamento che neanche dopo cent’anni ha subìto sostanziali mutamenti. E questo fece sì che al progetto Minghetti mancasse anche l’appoggio della pubblica opinione.
Con gran meraviglia di tutti, esso trovò un difensore in Mazzini. Ignoriamo che cosa lo spingesse a ritrattare in quell’occasione il suo risoluto e tenace centralismo unitario. Ma il suo esempio non fece scuola neanche fra coloro che a lui s’ispiravano. Il progetto Minghetti fu forse l’unico su cui non si vide una contrapposizione di schieramenti. Uomini di Destra si trovarono alleati di uomini di Sinistra sia nella critica che nell’elogio. Ma le critiche furono molto più massicce e applaudite degli elogi.
Il 18 maggio, cioè dieci giorni prima che Cavour fosse colpito dal male che lo avrebbe condotto alla tomba, una commissione nominata dalla Camera decise di seppellire i quattro disegni di legge prima ancora che venissero in discussione. I regionalisti d’oggigiorno parlano di procurato aborto. Ma sbagliano. La soluzione unitaria non fu scelta dagli uomini, ma imposta dalla stessa logica del processo risorgimentale. Era fatale che la Nazione prevalesse sulla regione. Per quanto fragile, la prima era una realtà concreta; la seconda una creatura astratta che non rispondeva né a una tradizione né a un anelito di popolo. Possiamo deplorarlo perché l’accentramento aveva i suoi inconvenienti: primo fra tutti quello di estraniare vieppiù il cittadino dalla cosa pubblica e di diseducarlo all’autogoverno. Ma non si può contestarlo.
Così nacque, accentrata e prefettizia, l’Italia dei «notabili». E ora vediamo i problemi di fronte a cui si trovava, proprio nel momento in cui perdeva l’uomo più qualificato ad affrontarli.
Delle statistiche di quei tempi – e forse di tutti i tempi – non c’è molto da fidarsi. Ma almeno all’ingrosso sembra accertato che l’Italia unificata sotto la corona di Vittorio Emanuele, e cioè senza il Lazio e le tre Venezie, contava nel ’61 circa ventidue milioni di abitanti, i quali per la prima volta dopo la caduta di Roma, cioè dopo quindici secoli, si accingevano a coabitare sotto lo stesso tetto e la medesima legge.
Di essi, circa il settanta per cento vivevano di agricoltura, che però non era dappertutto la stessa, e non soltanto per la diversa natura del suolo. Nella pianura padana da un pezzo aveva già preso avvìo un capitalismo agrario, tecnicamente abbastanza evoluto. Le aziende erano in mano a grandi affittuari, che le conducevano a risaie e a pascoli, integrandole con allevamenti di bestiame e caseifici. Nel Centro subappenninico, e specialmente in Toscana, questo sviluppo aveva trovato un insormontabile ostacolo nella mezzadria, cui i terrieri erano rimasti fedeli non tanto per motivi economici, quanto per ragioni sociali. La mezzadria era l’immobilismo, ma anche, anzi appunto per questo, la tranquillità. Chiusa nel suo podere, autosufficiente nei suoi bisogni e sottomessa all’onnipotente «capoccia», la famiglia del mezzadro era più conservatrice del padrone. Nei metodi tradizionali, il contadino toscano dava il meglio. Ma non evolveva. La distribuzione delle proprietà era abbastanza equilibrata, razionale la rotazione delle colture, eccellente il prodotto, il pane assicurato a tutti, ma poco più che il pane. Un mondo stagnante, basato sulla parsimonia.
Nel Sud, permanevano i violenti contrasti tipici del sottosviluppo. Accanto a latifondi vasti come province, c’era una piccola proprietà sbriciolata in minifondi, insufficienti anche ai più elementari bisogni. Salvo certe limitatissime zone privilegiate – quelle, per esempio, degli agrumeti –, la coltura era praticata coi mezzi rudimentali dell’aratro a chiodo senz’altri concimi che quelli naturali e spesso senza rotazione perché quasi tutta a cereali, che impoveriscono e spossano la terra. Infatti la resa era così scarsa, che fin d’allora l’Italia dovette importare grano, anche nelle annate buone, mentre esportava il riso piemontese e lombardo che superava il fabbisogno nazionale.
Anche come Paese agricolo il nostro, dunque, era un Paese povero, e lo si vedeva dalle diete. In molte zone il pane era già un lusso domenicale: il cibo di base era la polenta di granturco, che provocò il diffondersi della «pellagra». Sulla mensa del contadino settentrionale, la carne non compariva più di una volta al mese, e su quella del meridionale, meno di una volta all’anno.
Ma anche peggio andavano le cose nel campo dell’industria, che contribuiva solo per uno scarso venti per cento al reddito nazionale e non assorbiva che un diciotto per cento della popolazione attiva. Il suo pilastro era la seta greggia, di cui l’Italia restava la più grande esportatrice d’Europa. Questo primato era stato minacciato dalla concorrenza prima dell’India, poi della Cina e infine del Giappone. Ma il costo dei trasporti da quei lontani Paesi aveva consentito ai bachicoltori italiani di superare la crisi, o almeno di limitarne le conseguenze. Proprio negli anni dell’Unità un altro flagello si era abbattuto su di loro: una malattia del baco chiamata «pebrina». Ma anche questa jattura fu di lì a poco scongiurata, e le filande ripresero aìre.
Esse erano addensate quasi esclusivamente in Piemonte e Lombardia, e ciò contribuisce a spiegare come mai il decollo industriale avvenne proprio in queste regioni. I primi impianti industriali degni di questo nome furono i cotonifici di Torino, del Verbano e di Busto Arsizio, e i lanifici di Biella, di Schio e di Prato. Alcuni studiosi dicono che questa localizzazione fu determinata soltanto da motivi orografici, e cioè dal fatto che qui c’erano dei fiumi cui, in un Paese povero di carbon fossile come il nostro, si poteva attingere la forza motrice per le macchine. La spiegazione non ci convince affatto. Fiumi e torrenti in Italia ce ne sono dappertutto. Imprenditori e tecnici svizzeri ne avevano trovati, per impiantare un cotonificio, anche a Salerno. Ma il fatto è che le industrie nascono grazie all’iniziativa degli uomini, non ai favori dell’orografia. Ai primi dell’Ottocento gl’imprenditori piemontesi e lombardi erano ancora terrieri, ma già applicavano all’agricoltura dei criteri industriali. Avevano regimato e canalizzato i corsi d’acqua e trasformato la fattoria in «cascina» che col suo caseificio era già una piccola industria di trasformazione. Altrettanto succedeva in Toscana. Come fiumi, Prato non ha che il Bisenzio, cioè un rigagnolo. Ma in compenso ha i Pratesi, che già nel Trecento producevano lana e l’esportavano in tutto il mondo. Se il decollo industriale ebbe in queste zone i suoi epicentri, fu perché solo qui trovò degli uomini disposti ad affrontarne i rischi.
Il secondo passo fu la meccanica, cui diede avvìo l’ebbrezza ferroviaria. Oggi è difficile rendersi conto di questa ubriacatura. Ne fu contagiato lo stesso Cavour, il quale vedeva nelle ferrovie l’unica soluzione dei problemi economici italiani. E ancora qualche decennio più tardi Carducci scioglieva alla locomotiva un inno famoso. Ma non c’è da meravigliarsene: in un’Europa come quella d’allora, e specialmente in un’Italia povera di strade e ferma alla diligenza, era logico che la ferrovia apparisse come una grande conquista, la più necessaria e rivoluzionaria di quelle che oggi si chiamano le «infrastrutture di base».
Era per costruire binari e vagoni che a Napoli erano nati gli stabilimenti di Pietrarsa e a Genova quelli dell’Ansaldo, i quali al momento dell’Unità contavano già un migliaio di operai, primo nucleo di un vero e proprio proletariato industriale. Ma al loro sviluppo mancava la fondamentale condizione: la siderurgia, cioè il ferro. A essa non faceva ostacolo la povertà di minerale, di cui l’Italia d’allora ricavava dalle sue viscere circa centomila tonnellate; ma quella di carbon fossile per fonderlo e ricavarne ghisa e acciaio. Di ghisa, producevamo venticinquemila tonnellate, di acciaio trentamila. E naturalmente non bastavano per fare da propellente a un decollo industriale che nella siderurgia ha sempre il suo pilastro. Ecco perché quello nostro seguitava a librarsi sulle ali malcerte delle manifatture, che potevano contare su una manodopera abbondante, senza strumenti per far valere le proprie rivendicazioni, e quindi sfruttabile all’osso.
Pur dovendo importare dall’estero locomotive e macchinari, la sbornia ferroviaria continuò. Il primo treno era comparso a Napoli, che ancora ne mena gran vanto e lo sbandiera come il segno di un preteso primato tecnologico. In realtà quel treno non era stato che il balocco di Re Bomba e dieci anni dopo la sua comparsa, cioè alla vigilia dell’Unità, non aveva a disposizione che cento chilometri di binari. Il Piemonte ne aveva nel frattempo costruiti novecento, il Lombardo-Veneto cinquecento, la Toscana duecentocinquanta, e nel suo complesso la rete nazionale superava i duemila. Il loro esercizio in parte era statale, in parte privato, e la scelta fra i due sistemi era uno dei problemi che più dovevano travagliare e dividere la vita politica del Paese per alcuni decenni.
Come quello ferroviario, anche lo sviluppo della flotta mercantile era abbastanza promettente. Per tonnellaggio, al momento dell’Unità, eravamo al terzo posto in Europa dopo Inghilterra e Francia; e, grazie alle grandi tradizioni marinare di Genova e Napoli, potevamo contare su equipaggi di prima qualità. Ma non altrettanto poteva dirsi del materiale, cioè delle navi. Erano quasi tutte a vela, mentre le flotte concorrenti erano già quasi tutte a vapore. I vantaggi del vapore sulla vela non erano ancora decisivi. Ma lo diventarono quando il canale di Suez aprì la via maestra del Mar Rosso, che con le sue bonacce alla vela non si presta.
A questi motivi di debolezza economica che facevano dell’Italia, al suo debutto di Nazione, un’area di sottosviluppo, frangia agricola di un’Europa industriale, si aggiungeva il dissesto finanziario. Lo Stato doveva ora accollarsi i debiti contratti dal Piemonte per le guerre di liberazione, che segnavano un passivo pauroso: quasi il doppio del reddito nazionale. Questo non sarebbe stato molto grave in un Paese industrialmente attrezzato e animato da un forte slancio produttivo. Ma in Italia mancavano non soltanto queste condizioni, ma anche il presupposto per crearle: i capitali.
Il denaro scarseggiava al punto che in molte zone del Sud non lo conoscevano nemmeno e gli scambi avvenivano in natura. Meno che in Piemonte, dovunque era diffusa la diffidenza per la carta moneta, e chi se la trovava tra le mani correva subito a convertirla in metallo che poi tesaurizzava dentro il materasso o la calza di lana. Per stanare dai loro nascondigli e mobilitare a scopi produttivi questi piccoli peculi mancava la fondamentale condizione: la fiducia. Specie nel Meridione la renitenza agl’investimenti era generale e irriducibile. Non vollero farne nemmeno i proprietari delle solfatare di Sicilia, che con qualche miglioria tecnica avrebbero potuto comodamente triplicare il loro prodotto, allora senza concorrenti in Europa, e sfruttarlo in loco con raffinerie di acido solforico. Lo stesso accadeva dei vini e dei formaggi che con lo zolfo e la seta greggia rappresentavano le più forti «voci» della nostra esportazione. Ne producevamo in abbondanza, ma di tale qualità che stavamo perdendo quasi tutti i mercati esteri. L’unico investimento che gl’Italiani seguitavano a considerare sicuro e proficuo era quello in terre: Cattaneo calcolava che nella stessa Lombardia, la regione più intraprendente di tutte, quello in terre rappresentava gli otto decimi di tutti gl’investimenti.
Di Banche ce n’erano perché ogni Stato della vecchia Italia aveva la sua o le sue, anzi ce n’erano troppe, il che contribuiva alla loro debolezza. L’Unità imponeva di fonderle in istituti più robusti, omogenei ed elastici, ma soprattutto più disponibili a una politica creditizia che favorisse l’industrializzazione. Ma questo urtava contro due grossi ostacoli. Anzitutto, la mancanza di spirito e di coraggio imprenditoriale. Ad averne erano così pochi che si conoscevano per nome: il siciliano Orlando che aveva animato l’Ansaldo, il ligure De Ferrari, il romano Torlonia, il livornese Bastogi. Il secondo ostacolo era la mentalità degli stessi governanti, tutti di estrazione «moderata», e quindi attaccatissimi al vecchio assetto economico e sociale, che l’industrializzazione avrebbe certamente sconvolto. Per quanto la loro agricoltura avesse assunto caratteri capitalistici, gli stessi terrieri del Nord concordavano coi latifondisti del Sud nel mantenimento dell’ordine tradizionale, basato sulla sonnolenza e quiescenza di plebi rurali ligie al notabile ed escluse da tutto, a cominciare dal voto.
Infatti se in campo creditizio qualcosa si mosse, fu più dal basso che dall’alto. Le grandi Banche, a cominciare da quella Nazionale – nata dalla fusione di quella di Torino con quelle di Genova, delle Legazioni e di Parma –, d’incoraggiamenti all’industria ne dettero ben pochi. Ne dettero molti di più le Casse di Risparmio che, nate a Milano negli anni venti, al momento dell’Unità superavano i cento milioni di depositi, cifra per quei tempi di tutto rispetto. Ma queste Casse si erano diffuse soltanto nel Centro-Nord, dove la gente cominciava già a divezzarsi dall’economia del marengo nel materasso. Era dunque il denaro privato, non quello dello Stato, che accettava il rischio dell’investimento.
Questo rappresentava in se stesso un notevole progresso, ma contribuiva ad aggravare la jattura che tuttora ci perseguita: il divario fra Nord e Sud. Alcuni meridionalisti continuano a sostenere che i settentrionali si servirono dell’Unità per schiacciare e distruggere l’economia del Mezzogiorno. Mentre le casse dello Stato piemontese erano vuote, essi dicono, quelle del Reame borbonico erano piene, e Napoli vantava floride industrie, che in pochi anni vennero spazzate via.
Che il bilancio del Reame fosse in attivo, è vero, per due motivi. Anzitutto perché Napoli non aveva dovuto sostenere le immani spese di guerra cui il Piemonte si era sobbarcato per liberare e unificare l’Italia. Eppoi perché i suoi governi badavano solo a tesaurizzare, mentre quelli piemontesi badavano ad attrezzare il Paese, realizzando bonifiche e costruendo strade, ferrovie e canali. Le casse di Napoli erano piene di oro perché Re Bomba, come i suoi «cafoni», non credeva nemmeno nella carta moneta stampata dalla sua propria banca e si stizziva solo a sentirne parlare; ma dei 1848 Comuni del suo Reame, 1621 non avevano neanche una trazzera che rompesse il loro isolamento. E sul confronto fra queste due politiche economiche, il napoletano Scialoja aveva scritto anni prima un saggio memorabile.
Quanto alle floride industrie, si riducevano a due: gli stabilimenti meccanici di Pietrarsa e i cotonifici di Salerno. I primi erano dello Stato che gli garantiva le commesse e li esentava dagli utili togliendogli così ogni incentivo al miglioramento del prodotto e alla riduzione dei costi. I secondi erano stati impiantati da imprenditori e tecnici svizzeri che seguitavano a gestirli in condizioni di monopolio perché protetti da una tariffa doganale che arrivava al cento per cento: cioè il prodotto concorrenziale straniero, oltre a esser gravato da forti spese di trasporto, per entrare nel mercato napoletano, doveva raddoppiare il prezzo perché la metà gli veniva sottratta dal dazio.
Quando, con l’unificazione, le barriere doganali fra Stato e Stato furono soppresse, le macchine di Pietrarsa furono soppiantate da quelle dell’Ansaldo e le cotonate di Salerno da quelle di Busto Arsizio perché le fabbriche liguri e lombarde, sviluppatesi in regime di libera concorrenza, producevano meglio e a minor costo. Questo fu il motivo per cui le «floride» industrie napoletane decaddero: perché erano minate dal vizio d’origine dell’autarchia.
Naturalmente anche questa crisi contribuì ad aggravare il ritardo del Sud, di cui fu una delle cause, ma non la sola. Quella più grave era il fallimento della riforma agraria tentata fra il Sette e l’Ottocento. I ceti borghesi erano riusciti a far abolire il sistema feudale perché anche il Re vi aveva trovato la sua convenienza. Il barone che poteva sottoporre il contadino al proprio fisco e alla propria giustizia diventava uno Stato nello Stato. Ecco perché il potere centrale aveva abolito questi privilegi e cercato di contrapporre a quella proterva aristocrazia una classe intermedia di piccoli proprietari distribuendo loro le terre del pubblico demanio e quelle confiscate alla Chiesa. I contadini respirarono perché al fisco e ai tribunali del barone preferivano quelli dello Stato. Ma dalla quotizzazione delle terre non trassero alcun beneficio, perché ad approfittarne furono soltanto i grandi proprietari, nobili e borghesi, che con esse ingrandirono i propri latifondi, lasciando ai cafoni soltanto le briciole e ribadendoli nelle loro condizioni di miseria.
Negativa sul piano sociale, l’operazione si rivelava tale anche sul piano economico. Pur con tutte le sue ingiustizie, il latifondo poteva servire, come aveva servito nel Nord, all’accumulo di capitale e al suo investimento in migliorie agricole e in altre attività produttive. Ma il terriero del Sud s’era ben guardato da queste operazioni, e questo era il grande fallimento della borghesia meridionale, che non si era dimostrata migliore della nobiltà. Essa viveva di terra, ma non sulla terra, vi praticava un’agricoltura di rapina, angariava i contadini non meno di quanto facessero i baroni, e con costoro era perfettamente solidale nella difesa dell’ordine costituito. Da questa nuova classe dirigente provenivano i «moderati» che avevano secondato l’azione di Cavour sia contro i Borboni che contro Garibaldi. Essi accettavano una posizione subalterna nei confronti dei settentrionali, che comportava l’inferiorità economico-sociale del Mezzogiorno rispetto al Settentrione. A patto che fossero rispettate le loro prerogative baronali, sulle quali si preparavano a vegliare gelosamente.
Lo strumento per conservarle era soprattutto il monopolio della scuola. Da un’inchiesta fatta tre anni dopo, risultò che nel ’61 gl’Italiani analfabeti erano ottanta su cento. Ma mentre in Piemonte, Lombardia e Liguria questa percentuale scendeva al cinquanta, nel Sud toccava il novanta. Ancora peggio andavano le cose per quanto riguardava l’istruzione media e superiore. Dei giovani fra gli undici e i diciotto anni, solo il nove per mille proseguivano gli studi oltre la scuola elementare, e in tutto il Regno gli studenti universitari ammontavano a seimilacinquecento.
I motivi di questa catastrofica situazione li abbiamo già illustrati nei volumi precedenti. Il vero puntello del vecchio regime era stata l’ignoranza. Principi e preti l’avevano coltivata con somma cura ben sapendo che solo su di essa potevano reggersi, e Francesco IV di Modena, al Congresso di Verona, ne aveva addirittura fatto un programma di governo dicendo che bisognava mandare sulla forca tutti coloro che sapevano leggere e scrivere. Appunto perché non sapevano leggerli, gl’Italiani erano rimasti sordi agli appelli di Mazzini, e il Risorgimento era rimasto l’isolata iniziativa di una piccola élite. Ora mancavano le aule. Mancavano gl’insegnanti. Mancava lo stesso desiderio di cultura, che solo la cultura infonde. Ma mancava anche un’altra cosa, quella fondamentale: lo spirito di apostolato, che della scuola è l’anima. L’Italiano colto provava un’invincibile ripugnanza a parlare all’Italiano incolto perché non c’era abituato e non ne possedeva nemmeno lo strumento: la lingua.
Sulla lingua, fra il Sette e l’Ottocento, c’erano state polemiche a non finire, di cui abbiamo già dato conto ai nostri lettori. Gl’illuministi del «Caffè» volevano che fosse adottata quella del popolo, ma di popoli in Italia ce n’erano molti, che parlavano lingue diversissime. I «puristi» volevano che si adottasse quella che si parlava nelle Corti fra il Tre e il Cinquecento. Manzoni proponeva che si adottasse il toscano, ch’era forse una lingua non migliore delle altre in senso lessicale, ma sulle altre aveva questo vantaggio: che quella scritta variava poco da quella parlata, e quella parlata la parlavano quasi allo stesso modo sia i colti che gl’incolti. Era dunque l’unica lingua «viva», levigata dall’uso, ma purtroppo lo era solo in bocca ai Toscani. In bocca agli altri, diventava artificiale e leziosa.
La diatriba era destinata a continuare ben oltre l’Unità, ma provocava intanto questa nefasta conseguenza: che gl’Italiani sempre più si abituavano a preoccuparsi meno di cosa dicevano che di come lo dicevano. E questo assillo dello «stile» fine a se stesso, del bell’eloquio per il bell’eloquio, della bella pagina per la bella pagina, non solo ci ha regalato una lunga dinastia d’inutili calligrafi e retori, ma ha potentemente contribuito a isolare la cultura dalla società. Se la lingua che si parla nelle accademie, nei tribunali, in parlamento seguita a essere incomprensibile all’uomo della strada, è colpa di questa frattura cui la scuola non ha ovviato. Perché non poté, o perché non volle?
Che non volle, lo dicono alcuni studiosi di estrazione marxista semplificando grossolanamente un problema molto più complesso. Essi lasciano supporre una specie di losca congiura fra uomini di potere e uomini di cattedra per fare della scuola una scuola di classe, privilegio ereditario dei notabili che avevano costruito l’Italia e intendevano confiscarla a proprio esclusivo beneficio. Come vedremo, non fu affatto così: gli uomini che dopo Cavour governarono l’Italia, pur nelle ristrettezze in cui il Paese versava, fecero grossi sforzi per diffondere l’istruzione. Però è vero che i risultati furono inadeguati per i motivi che abbiamo detto, e cioè per l’incomunicabilità di una cultura che, nata nei palazzi, non ne era mai uscita e, anche ai livelli più bassi, pretendeva restare «accademica» e monopolio di «iniziati». Non per congiura dunque, ma per secolare costume, i suoi depositari ripugnavano alla divulgazione. Ma non c’è dubbio che, per quanto non preordinata, questa incapacità di «apertura» finiva per far della scuola uno strumento di classe.
La politica scolastica resterà una delle maggiori inadempienze dei governi post-risorgimentali, e forse la più grave, quella di cui seguitiamo a pagare le conseguenze. Però le responsabilità vanno giudicate nel loro contesto. Crediamo che poche classi dirigenti abbiano dovuto affrontare con mezzi così scarsi problemi così ardui come quella che ora raccoglieva l’eredità di Cavour. Per quanto abusata, la frase di D’Azeglio – l’Italia è fatta, bisogna fare gl’Italiani – rispondeva al vero. E fare gl’Italiani doveva rivelarsi impresa molto più difficile che fare l’Italia. Tant’è vero che vi siamo ancora impegnati.