La forma dello spazio

 

Le equazioni del campo gravitazionale che mettono in relazione la curvatura dello spazio con la distribuzione della materia stanno già entrando a far parte del senso comune.


 

Cadere nel vuoto come cadevo io, nessuno di voi sa cosa vuol dire. Per voi cadere è sbattersi giù magari dal ventesimo piano d'un grattacielo, o da un aeroplano che si guasta in volo: precipitare a testa sotto, annaspare un po' nell'aria, ed ecco che la terra è subito lì, e ci si piglia una gran botta. Io vi parlo invece di quando non c'era sotto nessuna terra né nient'altro di solido, neppure un corpo celeste in lontananza capace d'attirarti nella sua orbita. Si cadeva così, indefinitamente, per un tempo indefinito. Andavo giù nel vuoto fino all'estremo limite in fondo al quale è pensabile che si possa andar giù, e una volta li vedevo che quell'estremo limite doveva essere molto ma molto più sotto, lontanissimo, e continuavo a cadere per raggiungerlo. Non essendoci punti di riferimento, non avevo idea se la mia caduta fosse precipitosa o lenta. Ripensandoci, non c'erano prove nemmeno che stessi veramente cadendo: magari ero sempre rimasto immobile nello stesso posto, o mi muovevo in senso ascendente; dato che non c'era né un sopra né un sotto queste erano solo questioni nominali e tanto valeva continuare a pensare che cadessi, come veniva naturale di pensare.

Ammesso dunque che si cadesse, si cadeva tutti con la stessa velocità senza sbalzi; infatti eravamo sempre pressapoco alla stessa altezza, io, Ursula H'x, il Tenente Fenimore. Non levavo gli occhi di dosso a Ursula H'x perché era molto bella da vedere, e aveva nel cadere un atteggiamento sciolto e rilassato: speravo che mi riuscisse qualche volta a intercettare il suo sguardo, ma Ursula H'x cadendo era sempre intenta a limarsi e lucidarsi le unghie o a passarsi il pettine nei capelli lunghi e lisci, e non volgeva mai gli occhi verso di me. Verso il Tenente Fenimore nemmeno, devo dire, nonostante lui facesse di tutto per attrarne l'attenzione.

Una volta lo sorpresi – credeva che io non vedessi – mentre faceva dei segni a Ursula H'x: prima sbatteva i due indici tesi uno contro l'altro, poi faceva un gesto rotatorio con una mano, poi indicava in giù. Insomma pareva alludesse a una intesa con lei, a un appuntamento per più tardi, in una qualche località là sotto dove si sarebbero incontrati. Tutte storie, lo sapevo benissimo: non c'erano incontri possibili tra noi, perché le nostre cadute erano parallele e tra noi restava sempre la medesima distanza. Ma che il Tenente Fenimore si mettesse in testa idee del genere – e cercasse di metterle in testa a Ursula H'x – bastava a darmi ai nervi; con tutto che lei non gli desse retta, anzi facesse con le labbra un lieve strombettio, rivolgendosi – mi pareva non ci fossero dubbi – proprio a lui. (Ursula H'x cadeva rivoltolandosi su se stessa con movimenti pigri come se si crogiolasse nel suo letto ed era difficile dire se un suo gesto era rivolto a qualcuno piuttosto che a qualcunaltro o se stava giocherellando per conto suo come d'abitudine.)

Anch'io, naturalmente, non sognavo altro che d'incontrare Ursula H'x, ma dato che nella mia caduta seguivo una retta assolutamente parallela a quella che seguiva lei, mi pareva fuori luogo manifestare un desiderio irrealizzabile. Certo, a voler essere ottimista, restava sempre la possibilità che, continuando le nostre due parallele all'infinito, venisse il momento in cui si sarebbero toccate. Quest'eventualità bastava a darmi qualche speranza, anzi: a tenermi in una continua eccitazione. Vi dirò che un incontro delle nostre parallele io l'avevo tanto sognato, in tutti i suoi particolari, che esso faceva ormai parte della mia esperienza come se l'avessi già vissuto. Tutto sarebbe avvenuto da un momento all'altro, con semplicità e naturalezza: dopo tanto andar separati senza poterci avvicinare d'un palmo, dopo tanto averla sentita estranea, prigioniera del suo tragitto parallelo, ecco che la consistenza dello spazio, da impalpabile che era sempre stata, si sarebbe fatta più tesa e nello stesso tempo più molle, un infittirsi del vuoto che sarebbe parso venire non da fuori ma da dentro di noi, e avrebbe stretto insieme me e Ursula H'x (già mi bastava chiudere gli occhi per vederla venire avanti, in un atteggiamento che sapevo suo anche se diverso da tutti gli atteggiamenti a lei soliti: le braccia tese all'in giù, aderenti ai fianchi, torcendo i polsi come se si stirasse e nello stesso tempo accennasse a un divincolamento che era anche una maniera quasi serpentina di protendersi) ed ecco che la linea invisibile che percorrevo io e quella che lei percorreva sarebbero diventate una sola linea, occupata da una mescolanza di lei e di me dove quanto di lei era morbido e segreto veniva penetrato, anzi, avvolgeva e quasi direi risucchiava quanto di me con più tensione era andato fin lì soffrendo d'essere solo e separato e asciutto.

Succede ai sogni più belli di trasformarsi a un tratto in incubi e così a me veniva adesso in mente che il punto d'incontro delle due nostre parallele poteva essere quello in cui s'incontrano tutte le parallele esistenti nello spazio, e allora non di me e di Ursula H'x soli avrebbe segnato l'incontro ma pure – prospettiva esecrabile! – del Tenente Fenimore. Nel momento stesso in cui Ursula H'x avrebbe cessato d'essermi estranea, un estraneo con i suoi sottili baffetti neri si sarebbe trovato a condividere le nostre intimità in modo inestricabile: questo pensiero bastava a gettarmi nelle più strazianti allucinazioni della gelosia: sentivo il grido che il nostro incontro – di me e di lei – ci strappava fondersi in un unisono spasmodicamente gioioso ed ecco che – agghiacciavo al presentimento! – da esso si staccava lancinante il grido di lei violata – così nella mia astiosa parzialità immaginavo – alle spalle, e nello stesso tempo il grido di volgare trionfo del Tenente, ma forse – e qui la mia gelosia raggiungeva il delirio – questi loro gridi – di lei e di lui – potevano anche non essere così diversi e dissonanti, potevano raggiungere essi pure un unisono, sommarsi in un unico grido addirittura di piacere, distinguendosi dal grido dirotto e disperato che sarebbe sgorgato dalle mie labbra.

In questo alternarsi di speranze e apprensioni continuavo la mia caduta, senza però smettere di scrutare nelle profondità dello spazio se mai qualcosa annunciasse un cambiamento attuale o futuro della nostra condizione. Un paio di volte riuscii ad avvistare un universo, ma era lontano e si vedeva piccolo piccolo, molto in là sulla destra o sulla sinistra; facevo appena a tempo a distinguere un certo numero di galassie come puntini luccicanti raggruppati in ammassi sovrapposti che ruotavano con un flebile ronzio, e già tutto era dileguato com'era apparso, verso l'alto o di lato, tanto da restare nel dubbio che fosse stato un barbaglio della vista.

– Là! Guarda! Là c'è un universo! Guarda là! Là c'è roba! – gridavo a Ursula H'x facendo segno in quella direzione, ma lei, la lingua stretta tra i denti, era tutta intenta a carezzarsi la pelle liscia e tersa delle gambe alla ricerca di rarissimi e quasi invisibili peli superflui da sradicare con un secco strappo delle unghie a pinza, e il solo segno che avesse inteso il mio richiamo poteva essere il modo in cui tendeva una gamba verso l'alto, come a sfruttare – si sarebbe detto – per la sua metodica ispezione il po' di luce che riverberasse da quel lontano firmamento.

Inutile dire quanto disdegno il Tenente Fenimore ostentava in questi casi verso quel che io potevo aver scoperto: dava un'alzata di spalle – che gli faceva sobbalzare le spalline, la bandoliera e le decorazioni di cui era inutilmente bardato – e si voltava dalla parte opposta ridacchiando. Salvo a esser lui (quando era certo che io guardavo da un'altra parte) che per destare la curiosità di Ursula (e allora era il mio turno, di ridere, vedendo che lei, per tutta risposta, si rigirava su se stessa in una specie di capriola voltando verso di lui il didietro: una mossa indubbiamente poco riguardosa ma pur bella da vedersi, tanto che io dopo essermene rallegrato come d'un'umiliazione per il mio rivale mi sorprendevo a invidiarlo come d'un privilegio) indicava un labile punto in fuga per lo spazio sbraitando: – Là! Là! Un universo! Grosso così! L'ho visto! È un universo!

Non dico che mentisse: affermazioni del genere, per quel che so, potevano essere tanto vere che false. Che ogni tanto noi passassimo al largo d'un universo, era provato (oppure che un universo passasse al largo rispetto a noi), ma non si capiva se erano tanti universi seminati per lo spazio o se era sempre lo stesso universo che continuavamo a incrociare ruotando in una misteriosa traiettoria, o se invece non c'era nessun universo e quello che credevamo di vedere era il miraggio d'un universo che forse era esistito una volta e la cui immagine continuava a rimbalzare sulle pareti dello spazio come il rimbombo d'un'eco. Ma poteva anche darsi che gli universi fossero sempre stati lì, fitti intorno a noi, e non si sognassero di muoversi, e noi neppure ci muovevamo, e tutto era fermo per sempre, senza tempo, in un buio punteggiato solo da rapidi scintillii quando qualcosa o qualcuno riusciva per un momento a spiccicarsi da quella torpida assenza di tempo e accennare la parvenza d'un movimento.

Tutte ipotesi ugualmente degne d'esser prese in considerazione, e di cui m'interessava solo quel tanto che riguardava la nostra caduta e il riuscire o meno a toccare Ursula H'x. Insomma, nessuno ne sapeva niente. E allora, perché quel presuntuoso di Fenimore prendeva alle volte un'aria superiore, come di chi è sicuro del fatto suo? S'era accorto che quando voleva farmi arrabbiare il sistema più sicuro era fingere d'avere con Ursula H'x una familiarità di vecchia data. A un certo punto Ursula prendeva a venir giù dondolandosi, a ginocchia unite, spostando il peso del corpo in qua o in là, come ondeggiando in uno zigzag sempre più ampio: tutto per ingannare la noia di quell'interminabile caduta. E il Tenente allora si metteva anche lui a ondeggiare, cercando di prendere lo stesso ritmo di lei, come seguisse la stessa pista invisibile, anzi come ballasse al suono di una stessa musica udibile solo da loro due, che lui faceva addirittura finta di fischiettare, e mettendoci, solo lui, una specie di sottinteso, d'allusione a un gioco tra vecchi compagni di baldorie. Era tutto un bluff, figuriamoci se non lo sapevo, ma bastava a mettermi per il capo l'idea che un incontro tra Ursula H'x e il Tenente Fenimore poteva esser già avvenuto, chissà quanto tempo prima, all'origine delle loro traiettorie, e quest'idea mi dava un morso doloroso, come un'ingiustizia commessa ai miei danni. Riflettendoci, però, se Ursula e il Tenente avevano un tempo occupato lo stesso punto dello spazio, era segno che le rispettive linee di caduta s'erano andate allontanando e presumibilmente continuavano ad allontanarsi. Ora, in questo lento ma continuo allontanamento dal Tenente, niente di più facile che Ursula s'avvicinasse a me; quindi il Tenente aveva poco da andar fiero delle sue passate intrinsichezze: il futuro era a me che sorrideva.

Il ragionamento che mi portava a questa conclusione non bastava a tranquillizzarmi intimamente: l'eventualità che Ursula H'x avesse già incontrato il Tenente era di per sé un torto che se mi era stato fatto non poteva più esser riscattato. Devo aggiungere che passato e futuro erano per me termini vaghi, tra i quali non riuscivo a fare distinzione: la mia memoria non andava più in là dell'interminabile presente della nostra caduta parallela, e ciò che poteva esserci stato prima, dato che non si poteva ricordare, apparteneva allo stesso mondo immaginario del futuro, e col futuro si confondeva. Così io potevo anche supporre che se mai due parallele erano partite dallo stesso punto, queste fossero le linee che seguivamo io e Ursula H'x (in questo caso era la nostalgia d'una medesimezza perduta che nutriva il mio ansioso desiderio d'incontrarla); però a quest'ipotesi io riluttavo a dar credito, perché poteva implicare un nostro allontanamento progressivo e forse un approdo di lei tra le braccia gallonate del Tenente Fenimore, ma soprattutto perché non sapevo uscire dal presente se non per immaginarmi un presente diverso, e tutto il resto non contava.

Forse era questo il segreto: immedesimarsi tanto nel proprio stato di caduta da riuscire a capire che la linea seguita cadendo non era quella che sembrava ma un'altra, ossia riuscire a cambiare quella linea nell'unico modo in cui poteva essere cambiata cioè facendola diventare quale era veramente sempre stata. Ma non fu concentrandomi su me stesso che mi venne quest'idea, bensì osservando con occhio innamorato Ursula H'x quant'era bella anche vista da dietro, e notando, nel momento in cui passavamo in vista d'un lontanissimo sistema di costellazioni, un inarcarsi della schiena e una specie di guizzo del sedere, ma non tanto del sedere in sé quanto uno slittamento esterno che pareva strusciasse contro il sedere e provocasse una reazione non antipatica da parte del sedere stesso. Bastò questa fuggevole impressione a farmi vedere la situazione in modo nuovo: se era vero che lo spazio con qualcosa dentro è diverso dallo spazio vuoto perché la materia vi provoca una curvatura o tensione che obbliga tutte le linee in esso contenute a tendersi o curvarsi, allora la linea che ognuno di noi seguiva era una retta nel solo modo in cui una retta può essere retta cioè deformandosi di quanto la limpida armonia del vuoto generale è deformata dall'ingombro della materia, ossia attorcigliandosi tutto in giro a questo gnocco o porro o escrescenza che è l'universo nel mezzo dello spazio.

Il mio punto di riferimento era sempre Ursula e difatti un certo suo andare come volteggiando poteva rendere più familiare l'idea che la nostra caduta fosse un avvitarci e disavvitarci in una specie di spirale che un po' si stringeva e un po' s'allargava. Però queste sbandate Ursula le prendeva – a guardar bene – ora in un senso ora in un altro, quindi il disegno che tracciavamo era più complicato. L'universo andava dunque considerato non un rigonfiamento grossolano piantato li come una rapa, ma come una figura spigolosa e puntuta in cui a ogni rientranza o saliente o sfaccettatura corrispondevano cavità e bugne e dentellature dello spazio e delle linee da noi percorse. Questa era però ancora un'immagine schematica, come se avessimo a che fare con un solido dalle pareti lisce, una compenetrazione di poliedri, un aggregato di cristalli; in realtà lo spazio in cui ci muovevamo era tutto merlato e traforato, con guglie e pinnacoli che si irradiavano da ogni parte, con cupole e balaustre e peristili, con bifore e trifore e rosoni, e noi mentre ci sembrava di piombar giù dritto in realtà scorrevamo sul bordo di modanature e fregi invisibili, come formiche che per attraversare una città seguono percorsi tracciati non sul selciato delle vie ma lungo le pareti e i soffitti e le cornici e i lampadari. Ora dire città equivale ad avere ancora in testa figure in qualche modo regolari, con angoli retti e proporzioni simmetriche, mentre invece dovremmo tener sempre presente come lo spazio si frastaglia intorno a ogni albero di ciliegio e a ogni foglia d'ogni ramo che si muove al vento, e a ogni seghettatura del margine d'ogni foglia, e pure si modella su ogni nervatura di foglia, e sulla rete delle venature all'interno della foglia e sulle trafitture di cui in ogni momento le frecce della luce le crivellano, tutto stampato in negativo nella pasta del vuoto, in modo che non c'è cosa che non vi lasci la sua orma, ogni orma possibile di ogni cosa possibile, e insieme ogni trasformazione di queste orme istante per istante, cosicché il brufolo che cresce sul naso d'un califfo o la bolla di sapone che si posa sul seno d'una lavandaia cambiano la forma generale dello spazio in tutte le sue dimensioni.

Mi bastò capire che lo spazio era fatto in questo modo per accorgermi che vi s'insaccavano certe cavità morbide e accoglienti come amache in cui io mi potevo ritrovare congiunto con Ursula H'x e dondolare insieme a lei mordendoci vicendevolmente per tutta la persona. Le proprietà dello spazio infatti erano tali che una parallela prendeva da una parte e una dall'altra, io per esempio precipitavo dentro una caverna tortuosa mentre Ursula H'x veniva risucchiata in un cunicolo comunicante con quella stessa caverna di modo che ci ritrovavamo a rotolare insieme su un tappeto d'alghe in una specie d'isola subspaziale intrecciandoci in tutte le pose e i capovolgimenti, finché a un tratto le nostre due traiettorie riprendevano la loro andatura rettilinea e proseguivano ognuna per conto suo come se niente fosse stato.

La grana dello spazio era porosa e accidentata da crepe e dune. Facendo ben attenzione, potevo accorgermi di quando il percorso del Tenente Fenimore passava in fondo a un canyon stretto e tortuoso; allora mi appostavo sull'alto d'uno strapiombo e al momento giusto mi buttavo sopra di lui badando di colpirlo con tutto il mio peso sulle vertebre cervicali. Il fondo di questi precipizi del vuoto era pietroso come il letto d'un torrente in secca, e tra due spunzoni di roccia che affioravano il Tenente Fenimore stramazzando restava con la testa incastrata e io già gli premevo un ginocchio nello stomaco ma lui intanto stava schiacciandomi le falangi contro le spine d'un cactus – o il dorso d'un'istrice? – (spine comunque di quelle che corrispondono a certe aguzze contrazioni dello spazio) perché non riuscissi a impadronirmi della pistola che gli avevo fatto cadere con un calcio. Non so come mi trovai un istante dopo con la testa affondata nella granulosità soffocante degli strati in cui lo spazio cede sfaldandosi come sabbia; sputai, stordito e accecato; Fenimore era riuscito a raccattare la sua pistola; una pallottola mi fischiò all'orecchio, deviata da una proliferazione del vuoto che s'elevava in forma di termitaio. E già io gli ero addosso con le mani alla gola per strozzarlo, ma le mani mi sbatterono l'una contro l'altra con un «paff!»: le nostre vie erano tornate a essere parallele e io e il Tenente Fenimore scendevamo tenendo le nostre consuete distanze e voltandoci ostentatamente la schiena come due che fanno finta di non essersi mai visti né conosciuti.

Quelle che potevano essere pure considerate linee rette unidimensionali erano simili in effetti a righe di scrittura corsiva tracciate su una pagina bianca da una penna che sposta parole e pezzi di frase da una riga all'altra con inserimenti e rimandi nella fretta di finire un'esposizione condotta attraverso approssimazioni successive e sempre insoddisfacenti, e così ci inseguivamo, io e il Tenente Fenimore, nascondendoci dietro gli occhielli delle «l», specie le «l» della parola «parallele», per sparare e proteggerci dalle pallottole e fingerci morti e attendere che passi Fenimore per fargli lo sgambetto e trascinarlo per i piedi facendogli sbattere il mento contro il fondo delle «v» e delle «u» e delle «m» e delle «n» che scritte in corsivo tutte uguali diventano un sobbalzante susseguirsi di buche sul selciato per esempio nell'espressione «universo unidimensionale» lasciandolo steso in un punto tutto calpestato dalle cancellature e di lì rialzarmi lordo d'inchiostro raggrumato e correre verso Ursula H'x la quale vorrebbe far la furba infilandosi dentro i fiocchi della «effe» che si affinano finché diventano filiformi, ma io la prendo per i capelli e la piego contro una «d» o una «t» così come le scrivo io adesso nella fretta, inclinate che ci si può sdraiare sopra, poi ci scaviamo una nicchia giù nel «g», nel «g» di «giù», una tana sotterranea che si può a piacere adattare alle nostre dimensioni o rendere più raccolta e quasi invisibile oppure disporre più in senso orizzontale per starci bene coricati. Mentre naturalmente le stesse righe anziché successioni di lettere e di parole possono benissimo essere srotolate nel loro filo nero e tese in linee rette continue parallele che non significano altro che se stesse nel loro continuo scorrere senza incontrarsi mai così come non ci incontriamo mai nella nostra continua caduta io, Ursula H'x, il Tenente Fenimore, tutti gli altri.

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