Naufragio al largo di Vesta

— Vuoi smetterla di andare su e giù in quel modo? – disse Warren Moore – Non serve a niente fare così. Pensa che c'è andata bene: siamo o non siamo a tenuta stagna qui dentro?

Mark Brandon si girò di scatto, digrignando i denti. — Mi fa piacere che la cosa ti rallegri! Certo tu non lo sai che la nostra riserva d'aria durerà solo tre giorni. — Poi, riprese ad andare su e giù.

Moore sbadigliò, assunse una posizione più comoda e aggiunse: — Tutto quello spreco di energia servirà solo a consumarla più in fretta. Perché non fai come Mike, qui? Lui si che sa prendere le cose con calma.

— C'era da aspettarselo che una volta o l'altra sarebbe finita così. – intervenne Mike Shea – Schivare gli asteroidi è una faccenda pericolosa. Conveniva fare il Salto. E' più lunga ma è l'unica soluzione sicura; ma no, il capitano voleva arrivare in orario ed eccoci qua.

— Cos'è il “Salto”? — domandò Brandon.

— L'amico Mike intende dire che avremmo dovuto evitare la cintura degli asteroidi seguendo una rotta esterna al piano dell'ellittica. Vero, Mike?

Mike esitò, poi replicò: — Sì… Qualcosa del genere.

Moore sorrise e continuò: — In ogni caso siamo fortunati ad essere ancora vivi, se penso che il resto della nave è andato in pezzi.

— Hai uno strano concetto di fortuna, tu. – disse Brandon – Siamo rinchiusi in un decimo della nave spaziale, con si e no tre giorni d'aria, nessuna possibilità di venirne fuori e hai la faccia tosta di venire a parlare di fortuna.

— Potremmo trovare una via d'uscita. — Fece Moore, speranzoso.

— Perché non guardi in faccia alla realtà! – Brandon era rosso in faccia, la voce gli tremava – Siamo finiti, lo capisci? Niente da fare, chiuso.

Mike guardò dubbiosamente dall'uno all'altro, poi trasse dalla tasca un fiasca di liquido verdastro e disse: — Questa è Acqua Jabra marziana di prima qualità, potremmo dividercela e tirare un po' su il morale del giovane Brandon.

— Tu si che sei un amico, Mike. — disse Mark tendendo la mano.

— Non fare l'idiota! – intervenne Moore – Teniamola da conto per le nostre ultime ore di vita… Quando l'aria sarà irrespirabile e i polmoni ci faranno male, allora faremo fuori tutta la bottiglia, tra tutti e tre, e non sapremo quando arriverà la fine, né c'importerà di saperlo.

— Maledizione , Warren, tu hai il ghiaccio nelle vene! Come fai a ragionare con tanta logica in un momento come questo? — Urlò disperato Brandon, lasciando cadere il braccio e accostandosi all'oblò, per guardar fuori. Davanti ai suoi occhi si stagliava Vesta, il grosso asteroide, colonizzato dall'uomo, che li aveva catturati nella sua orbita.

— Siamo a 500 chilometri dalla salvezza ed è come se fossimo ad un milione o più… Ci servirebbe solo una piccola spinta per liberarci dalla presa di Vesta ed atterrarvi sopra dolcemente.

— Già – intervenne Mike – quella pallottola non ha la gravità sufficiente nemmeno per schiacciare una meringa, ma ne ha abbastanza da mantenerci in orbita. Strano posto, Vesta… Ma, se si guarda attentamente… Laggiù si vede una macchia grigia, credo sia la cupola di Bennett. E' quella dove c'è l'osservatorio. E più in là c'è Calom, la stazione di rifornimento. — Esitò, poi si rivolse a Moore: — Senta, capo, non pensa che ci staranno cercando, una volta saputo dell'incidente? E non dovrebbe essere abbastanza facile trovarci, visto che siamo così vicini a Vesta?

— No! E' impossibile che ci stiano cercando. – disse Moore scuotendo la testa – Si accorgeranno dell'incidente solo quando, la Silver Queen, non arriverà all'appuntamento fissato. Anche perché quel dannato sasso che ci ha colpito, non ha dato tempo al capitano di lanciare l'S.O.S… E poi siamo talmente piccoli che ci vedrebbero solo se sapessero dove cercare.

— Hmmm – Mike corrugava la fronte, riflettendo intensamente – allora dobbiamo assolutamente atterrare su Vesta prima che i tre giorni passino.

Improvvisamente, Brandon proruppe: — Volete finirla, voi due, con questo chiacchierio infernale e fare piuttosto qualcosa? Facciamo qualcosa, per amor di Dio!

Moore si adagiò sulla cuccetta, in apparenza calmissimo, ma una ruga sottilissima, in mezzo agli occhi, tradiva la sua concentrazione.

La situazione era tragica: su questo non c'era alcun dubbio. Il troncone salvatosi girava beffardamente intorno a Vesta, senza apparenti possibilità di poter essere spostato dalla sua orbita; mentre a bordo c'era una provvista di cibo sufficiente per molti giorni, un Gravitatore regionale, che manteneva in condizioni di peso normali e perfino l'illuminazione era un po' scarsa ma sufficiente. C'era poco da sbagliare, in ogni modo, nel definire il vero tallone d'Achille: tre giorni d'aria soltanto e la mancanza di qualsiasi mezzo per comunicare con l'esterno!

Moore sospirò. Un unico ugello in condizioni di funzionare avrebbe sistemato tutto, perché sarebbe bastata una spinta nella direzione giusta a farli atterrare sani e salvi su Vesta.

La ruga tra i suoi occhi si approfondì. Fare qualcosa, ma cosa? Si alzò dalla cuccetta e bevve un bicchiere d'acqua. Poi guardò la tazza vuota, come se un barlume si fosse acceso nel suo cervello: — Mike, come stiamo ad acqua? — Chiese.

— Come non lo sa, capo? Abbiamo ancora tutta l'acqua che c'era a bordo. – rispose amaro l'altro – viaggia ancora con noi la cisterna principale piena per tre quarti. Giusto mentre la stavo riparando, l'asteroide ci ha colpiti e, poiché avevo chiuso il condotto principale, l'acqua non è defluita via: saranno circa 20000 metri cubi!

— Ah. — Moore avvertiva una strana sensazione. Sentiva che da qualche parte nel suo cervello, si era formata un'idea… Ma non riusciva a farla affiorare. Intuiva solo che quello che aveva appena saputo, aveva un significato importante, ma proprio non poteva individuarlo.

— Riassumiamo la situazione: abbiamo cibo per una settimana, aria per tre giorni e una provvista d'acqua per un anno intero… Siamo un piccolo satellite fornito anche di un oceano… Tanta acqua da poterla gettare via…

L'idea fino a qualche istante prima in embrione, maturò, all'improvviso e si concretò. Il gesto con cui Moore aveva accompagnato la sua ultima affermazione si cristallizzò a mezz'aria.

— Ci sono! – Proruppe ad un tratto. – Come ho fatto a non pensarci subito… Mike! Com'è orientata, rispetto a Vesta questa trappola? — Mike Shea lo guardava a bocca aperta, ormai certo del fatto che fosse impazzito, ma rispose, quasi automaticamente:

— Il nostro “Polo Nord” si trova suppergiù verso l'alto del portello, e punta verso Vesta; il “Sud” si trova invece al di là della cisterna, in direzione opposta all'asteroide… Ma a che ti serve saperlo?

— Già, a che ti serve, maledizione! - rantolò il povero Brandon. – Forse per qualche tuo piano idiota. Non voglio sapere niente, hai capito? So io come usarla quell'acqua altrimenti: ti ci annego dentro, così risparmieremo anche un po' d'aria!

— Via, ragazzo, cerca di calmarti. So benissimo cosa provi. Anch'io sono disperato quanto te. Ma devi lottare, altrimenti finirai per impazzire. Su, cerca di riposare, ora, e lascia fare a me. Forse le cose si aggiusteranno.

Brandon, premendosi , una mano sulla fronte, barcollò fino alla cuccetta lasciandovisi cadere sopra. Singhiozzi soffocati lo scuotevano in tutta la persona, mentre Moore e Shea, imbarazzati, si tenevano in disparte e in silenzio.

Alla fine, Moore toccò nel gomito Mike: Vieni — bisbigliò – diamoci da fare. Quello è il portello numero cinque, vero? – L'altro assentì. – è ancora a perfetta tenuta?

— Beh, disse Mike — la porta interna lo è, naturalmente, ma su quella esterna non giurerei. Non ho osato aprire quella interna per controllare.

— Allora non ci resta che controllare lo stato di quella porta. Devo assolutamente uscire all'esterno, e ci toccherà per forza rischiare. Dov'è la tuta spaziale? — Una tuta, una pistola a raggi e un detonatore era tutto quello che l'impatto aveva risparmiato…

Mike gli passò la tuta. La controllarono: era tutto a posto.

Ma sapevano che la prossima mossa sarebbe stata decisiva: a che serviva la tuta se non potevano aprire la porta?

Moore si rivolse a Shea : — Forza, vediamo. Apri uno spiraglio e  se senti il sibilo dell'aria che fugge, chiudi immediatamente.

Il meccanismo era stato scosso violentemente, in seguito al tremendo urto, e i suoi congegni un tempo silenziosissimi facevano ora udire una specie di rumore raschiante, ma il funzionamento non era rimasto compromesso… Non c'era alcun sibilo! Neanche il pezzetto di carta messo da Moore sulla sottile linea nera apparsa era rimasto attaccato, tenuto su dal risucchio.

— Dio sia lodato! Non c'è traccia di corrente. Adesso aprila tutta e dammi la pistola a raggi. Non so quanto ci metterò. Tu siediti e aspettami qui.

— Ma cos'ha intenzione di fare, capo? Mi piacerebbe saperlo.

Moore smise un attimo di assestarsi il casco: — Hai sentito quando ho detto che avevamo acqua da buttare? Bene, ho deciso di provare a buttarla via! — Senza altre spiegazioni, si portò nel compartimento stagno, lasciando Mike dietro di sé con gli occhi fuori della testa.

Con il cuore in gola, Moore, aspettava l'apertura del portello esterno. Il suo piano era straordinariamente semplice, ma poteva non essere facile da mettere in pratica. Poi la barriera esterna prese a scivolare, spalancandosi, e si trovò per la prima volta “fuori”, nello spazio. Un pauroso senso di sgomento s'impossessò di lui mentre, a mo' di insetto, si teneva aggrappato al rampone magnetico di cui la tuta era dotata. Per un momento fu sopraffatto da un senso di vertigine… Poi riaprì gli occhi e frugò ansiosamente nei cieli alla ricerca del puntolino bianco azzurro che era la Terra.

La sua ricerca era vana. Infatti la Terra era invisibile, nascosta da Vesta così come il Sole. Vesta, un pallone che riempiva un buon quarto del cielo e che galleggiava, ben fermo nello spazio, bianco come la neve… Moore lo fissava con struggente bramosia.

Scrutò l'esterno del relitto, alla ricerca del serbatoio dell'acqua. Ma non riuscì a scorgere che una giungla di paratie sporgenti, frastagliate, accartocciate e appuntite. Con precauzione, prese a strisciare lungo la superficie dell'astronave.

Per quindici minuti, venti, mezz'ora, Moore arrancò penosamente evitando spuntoni e trappole; aggirando zone, dove il materiale non ferroso avrebbe fatto perdere presa al rampone, scaraventandolo nello spazio. Il sudore gli colava negli occhi e gli incollava i capelli sulla fronte. I muscoli cominciavano a dolergli per lo sforzo inconsueto. La mente già provata dallo choc dell'incidente gli giocava strani scherzi.

Quello strisciare gli sembrava eterno, qualcosa che era sempre esistito, e che dovesse durare per sempre… Capiva soltanto che era necessario muoversi. Aggrapparsi per forza, trascinarsi; saggiare le superfici… Saggiare e trascinarsi… Saggiare e trascinarsi…

Eccola! Quella era la paratia dietro cui si celava la cisterna. Strisciò verso quella speranza di vita, sempre più vicino… Sempre più vicino… Finché poté toccarla. C'era arrivato!

L'ultimo tratto, quello che un tempo era stato un corridoio e conduceva dritto nel punto desiderato, adesso era solo un ripido pendio. Moore s'inerpicò in preda ad un'agitazione che non riusciva a dominare: doveva riposare, ma l'ansia lo divorava, doveva agire o correva il rischio di scoppiare!

Puntò la pistola a raggi verso il punto prescelto e, un'emanazione invisibile, cominciò a formare sulla paratia una macchia luccicante via via sempre più intensa.

Lentamente il colore percorreva lo spettro. Dal rosso cupo, mentre il calore continuava ad affluire in cerchi concentrici sempre più larghi, come un bersaglio formato da altrettante gradazioni di rosso, fino ad accostarsi ad un bianco accecante.

Bisognava assolutamente che il lavoro si concludesse alla svelta, pena il fallimento. La pistola a raggi poteva esaurirsi prima del previsto e la sua tuta, costruita per trattenere il calore e non per respingerlo, poteva cominciare a fondere anch'essa.

Nel metallo cominciava a formarsi una depressione. Ci siamo quasi, pensava, tra un'imprecazione e l'altra, quanto avrebbe ancora resistito a quel calore… Ancora calore… Ancora… La pressione si stava accumulando…

Poi, all'improvviso, l'opera si compì. Una piccola crepa si formò e l'acqua che ribolliva all'interno si aprì un varco.

E, da quel foro, prese ad emergere una nuvola di vapore che, Moore attraverso la nebbia che lo avvolgeva, vedeva condensarsi quasi all'istante in gocce di ghiaccio che si dissolvevano nel nulla.

Per qualche minuto, esausto ed affascinato, rimase ad osservare quel fenomeno. Poi, consapevole della pressione – seppur lieve – che lo allontanava dalla nave, fu preso da una gioia selvaggia: si era reso conto che quello era l'effetto di un'accelerazione da parte del relitto… Il lavoro era stato compiuto: quel getto di vapore sostituiva la propulsione dei razzi!

Si accinse a rientrare. L'immane sforzo dell'andata per raggiungere la cisterna, gli sembrava ora uno scherzo in confronto a quello che stava passando al rientro… Moore era infinitamente più stanco, tanto che in seguito non avrebbe serbato memoria di quel percorso massacrante; i suoi occhi doloranti erano quasi ciechi e solo una nebbiosa euforia lo spingeva a tornare… La sua mente era occupata da un unico pensiero: tornare indietro rapidamente, per comunicare agli altri la felice novità dell'imminente salvezza.

All'improvviso si ritrovò davanti al portello. A stento afferrò il fatto che quello “era” il portello. Quasi non capì perché stava premendo “quel” pulsante… Un misterioso istinto gli diceva di farlo.

Come in un sogno si sentì trascinare lungo il corridoio, fino alla cabina. La tuta gli fu strappata via. Un liquido ardente e pungente gli scivolò in gola. Tossì, inghiottì, e si sentì meglio.

Davanti ai suoi occhi le immagini sfuocate dei due compagni di sventura, cominciarono a prendere forma, solidificandosi… Con voce rauca e alterata, narrò come meglio gli fu possibile gli eventi delle ultime due ore… Solo due ore.

— Vuoi dire che quel getto d'acqua ci sta spingendo verso Vesta, come lo scappamento di un razzo? — Balbettò Brandon.

— Azione e reazione. – ansimò Moore – E' situato sul lato opposta a Vesta… Ed ecco perché ci spinge in quella direzione.

Shea stava ballando davanti al finestrino: — Ha ragione lui, Brandon. Ci stiamo avvicinando. Ci stiamo avvicinando!

— Ehi, Mike, piantala di guardare fuori da quell'oblò. Tanto ci vorranno cinque o sei ore prima di poter atterrare, e porta qui quella bottiglia di Jabra. — Urlò Moore ormai ripresosi del tutto.

Shea obbedì repentinamente e, Moore, riempiti generosamente i bicchieri – deciso ad ubriacarsi per rivincita – disse solennemente:

— Signori, un brindisi. Brindo alla provvista per un anno di cara, vecchia H2O, che un tempo avevamo a bordo!


Titolo originale: Marooned off Vesta - 1939