DEI VIZI E DELLE VIRTÙ

Nella mia famiglia quasi tutti gli uomini hanno studiato giurisprudenza, anche se, che io ricordi, nessuno è mai diventato avvocato. I cileni amano le leggi, più sono complicate meglio è. Niente ci affascina più di pratiche e scartoffie. Se una procedura è chiara sospettiamo subito che sia illegale. (Io, per esempio, ho sempre dubitato che il mio matrimonio con Willie fosse valido, perché si è risolto in cinque minuti, con un paio di firme su un registro. In Cile la trafila sarebbe durata diverse settimane.) I cileni sono sostenitori della legalità, nel paese non esiste attività più redditizia di uno studio notarile, perché noi vogliamo tutto in varie copie, in carta da bollo e con tanti timbri. Siamo fanatici della legalità al punto che il generale Pinochet non volle passare alla storia come un usurpatore del potere, bensì come legittimo presidente, e perciò dovette modificare la Costituzione. In seguito, per una di quelle ironie della sorte tanto comuni nella storia, restò imprigionato nei cavilli delle leggi che lui stesso aveva creato per rendere perpetua la sua carica. Secondo la nuova Costituzione, infatti, il suo mandato si sarebbe prolungato per altri otto anni – da diversi era già al potere –, fino al 1988, quando il popolo avrebbe deciso se riconfermarlo o indire nuove elezioni. Perse il plebiscito e l'anno successivo anche le elezioni: dovette pertanto consegnare la fascia presidenziale al suo oppositore, il candidato democratico. È difficile spiegare all'estero come sia caduta la dittatura, che contava sull'appoggio incondizionato delle Forze Armate, della destra e di gran parte del popolo. I partiti politici erano stati aboliti, non esisteva un parlamento e la stampa era sottoposta a censura. Come dichiarò parecchie volte il generale, "nel paese non si muoveva una foglia senza il [suo] consenso". Ma allora come fece a perdere il potere a seguito di una votazione democratica? Un fatto simile può accadere solo in un paese come il Cile. Allo stesso modo, grazie a un cavillo della legge, ora si cerca di condannarlo, insieme ad altri militari, con l'accusa di violazione dei diritti umani, nonostante lui stesso abbia nominato la Corte Suprema e malgrado l'esistenza di un'ampia legge sull'amnistia, che solleva gli ex detentori del potere dai crimini commessi durante la dittatura. A quanto pare furono arrestate centinaia di persone e ora i militari negano di averle assassinate ma, poiché non sono più ricomparse, si considerano sequestrate. In questi casi il reato non cade in prescrizione e quindi gli imputati non possono invocare l'amnistia.

La passione per le leggi, per quanto inefficaci, annovera i suoi più convinti esponenti nell'immensa macchina burocratica della nostra povera patria. In questo apparato il "cilenuccio mediocre", altrimenti detto "uomo in grigio", può vegetare a suo piacere, senza temere brutti scherzi da parte dell'immaginazione, tranquillo fino al giorno della pensione, a patto che "non commetta l'imprudenza di cercare di cambiare le cose", come afferma il sociologo e saggista Pablo Huneeus che, tanto per la cronaca, è uno dei pochi cileni eccentrici non imparentati con la mia famiglia. Il pubblico funzionario deve capire, fin dal suo primo giorno in ufficio, che qualunque iniziativa individuale segnerebbe la fine della sua carriera, perché lui non si trova lì per acquisire meriti, ma per raggiungere un degno livello d'incompetenza. Spostare da una parte all'altra pratiche bollate e timbrate non risolve i problemi, bensì ne impedisce la soluzione. Se le questioni si risolvessero, la burocrazia perderebbe il suo potere e molta gente onesta resterebbe senza lavoro; se invece queste si complicano, cresce il budget dello stato, che può assumere più dipendenti. In questo modo cala l'indice di disoccupazione e tutti sono contenti. Il funzionario abusa del suo briciolo di potere e considera il pubblico suo nemico, sentimento pienamente corrisposto. Per me è stata una sorpresa scoprire che negli Stati Uniti basta possedere una patente di guida per muoversi liberamente nel paese e che la maggior parte delle pratiche si manda avanti per posta. In Cile, invece, è necessario dimostrare all'impiegato di essere nati, di non essere in carcere, di avere pagato le tasse, di essere iscritto nei registri elettorali e di essere vivo, perché affannarsi per spiegare di non essere morti non basta, bisogna presentare un "certificato di esistenza in vita". Comunque sia, il governo ha creato un ufficio per la gestione delle lamentele contro la burocrazia. Ora i cittadini possono protestare per avere ricevuto un trattamento sgarbato e denunciare i funzionari incapaci... in tre copie e in carta bollata, ovviamente. In occasione di un recente viaggio in pullman siamo rimasti bloccati per un'ora e mezzo alla frontiera con l'Argentina, per il controllo dei documenti. Attraversare il vecchio muro di Berlino non era tanto complicato. Probabilmente Kafka era cileno.

Penso che questa fissazione per il rispetto delle norme rappresenti una sorta di protezione contro la nostra innata aggressività: se non esistesse il manganello della legge non faremmo altro che azzuffarci. L'esperienza ci ha insegnato che quando perdiamo le staffe siamo capaci di qualunque sproposito, perciò cerchiamo di essere prudenti e ci nascondiamo dietro a un mare di scartoffie in carta da bollo. Per quanto possibile noi cileni evitiamo lo scontro, preferiamo raccogliere consensi e, alla minima occasione, mettere la proposta ai voti. Amiamo votare. Quando i ragazzini si trovano nel cortile della scuola per giocare a calcio, per prima cosa stendono un regolamento e votano per nominare un presidente, un consigliere e un tesoriere. Ciò non significa che siamo tolleranti, anzi, ci battiamo all'ultimo sangue per le nostre idee (io rappresento un tipico caso). L'intolleranza si manifesta in tutti i campi: religione, politica, cultura. Chi osa esprimere un parere discordante si ritrova coperto d'insulti e di ridicolo, sempre che non venga messo a tacere con metodi più drastici.

I nostri usi sono tradizionalisti e conservatori, preferiamo una cosa brutta ma conosciuta a una bella ancora da scoprire, ma in realtà siamo sempre a caccia di novità. Per noi ciò che arriva dall'estero è migliore per natura di quello che abbiamo, e dobbiamo sperimentare tutto, dall'ultimo marchingegno elettronico ai sistemi economici o politici. Abbiamo trascorso buona parte del XX secolo a saggiare forme diverse di rivoluzione, siamo passati dal marxismo al capitalismo selvaggio provando tutte le sfumature intermedie. La speranza che un altro governo migliori la situazione è remota come una vincita alla lotteria, un'ipotesi priva di fondamento razionale. In fondo sappiamo bene che la vita non è semplice. Il nostro è un paese sismico: come non essere fatalisti? Data la realtà delle cose, non ci resta che dimostrarci anche un po' stoici, ma non c'è motivo per farlo in modo dignitoso, e quindi ci lamentiamo a ruota libera.

Per quanto riguarda la mia famiglia, eravamo tanto spartani quanto stoici. Come predicava il nonno, "la vita comoda provoca il cancro", mentre la mancanza di agi tempra la salute. Lui raccomandava docce fredde, cibi duri da masticare, materassi scomodi, viaggi in terza classe e scarpe pesanti. La teoria inculcatami dal nonno, basata sul sacrificio come garanzia di salute, fu in seguito ribadita dalla disciplina delle scuole inglesi, dove ho trascorso la maggior parte della mia infanzia. Se si riesce a sopravvivere a un tipo di educazione simile, poi si apprezzano anche i piaceri più insignificanti. Io sono una di quelle persone che sussurrano una preghiera di ringraziamento quando scende l'acqua calda dal rubinetto. Non amo la vita semplice, e quando trascorro diversi giorni senza provare piccole angosce e sofferenze mi preoccupo, perché sicuramente significa che il cielo mi sta preparando una pena maggiore. Malgrado ciò, non sono del tutto paranoica, anzi, è piacevole vivermi accanto. Non chiedo molto per essere felice, basta un po' d'acqua calda che scende dal rubinetto.

Di noi cileni dicono che siamo invidiosi e che siamo infastiditi dal successo altrui. È vero, ma non si tratta d'invidia, bensì di buon senso: il successo non è normale. L'essere umano è biologicamente predisposto al fallimento, lo dimostra il fatto che è provvisto di gambe e non di ruote, di braccia e non di ali, di metabolismo invece di batterie. Perché rincorrere il successo se possiamo goderci in pace le nostre sconfitte? Perché fare oggi ciò che possiamo rimandare a domani? O farlo bene se si può farlo a metà? Noi cileni detestiamo il compatriota che emerge dalla massa, a meno che ciò non avvenga in un altro paese, perché in questo caso il fortunato diventa una specie di eroe nazionale. Chi trionfa in patria, invece, è malvisto; per tacito accordo si cerca subito di fargli abbassare la cresta. Questo altro sport nazionale si definisce chaqueteo, che significa "tirare il prossimo per la giacca e farlo ruzzolare". Nonostante il chaqueteo e la mediocrità diffusa, ogni tanto qualcuno riesce timidamente a emergere. Il nostro popolo ha sfornato uomini e donne d'eccezione: due premi Nobel, Pablo Neruda e Gabriela Mistral, i cantautori Victor Jara e Violeta Parra, il pianista Claudio Arrau, il pittore Roberto Matta, il narratore José Donoso, solo per citarne alcuni.

Noi cileni adoriamo le cerimonie funebri, perché chi è morto non dà più filo da torcere e non può più sparlare di nessuno. Non solo accorriamo in massa ai funerali, dove si è costretti a rimanere in piedi per ore e ad ascoltare almeno quindici discorsi di commiato, ma celebriamo anche l'anniversario di morte dei defunti. Un altro dei nostri passatempi preferiti consiste nel narrare e ascoltare storie, più sono macabre e tristi, meglio è; in questo e nel consumo di alcolici assomigliamo agli irlandesi. Siamo anche appassionati di telenovelas, perché le disgrazie dei protagonisti ci forniscono una buona occasione per piangere delle nostre. Sono cresciuta ascoltando drammoni radiofonici in cucina, nonostante il nonno avesse proibito la radio, che considerava uno strumento diabolico capace di diffondere solo pettegolezzi e volgarità. Noi bambini e le domestiche ci struggevamo per l'interminabile serial Il diritto di nascere, che durò diversi anni, se ben ricordo.

La vita dei personaggi delle telenovelas è molto più interessante dell'esistenza quotidiana, anche se la trama non è sempre facile da seguire. Per esempio: un giovanotto seduce una donna e la mette incinta, poi sposa per vendetta una ragazza zoppa e lascia pure lei "con una pagnotta nel forno", quindi vola in Italia a raggiungere la prima moglie. Penso che si possa definire "trigamia". Nel frattempo la zoppa subisce un intervento alla gamba, cambia pettinatura, eredita una fortuna, diventa manager in una grande azienda e fa nuove conquiste. Quando il giovane rientra dall'Italia e trova quella donna ricca e con due gambe della stessa lunghezza, si pente di averla lasciata. E qui cominciano i problemi del regista, che deve sbrogliare una matassa intricata. Non gli resta che provocare un aborto alla prima donna, per evitare fastidiosi figli illegittimi che vanno a zonzo per il canale televisivo, e far morire la povera italiana, affinché il giovane – che a quanto pare è il buono della situazione – resti opportunamente vedovo. In questo modo la ex zoppa può sposarsi con l'abito bianco, anche se ormai ha un pancione enorme, e mettere subito al mondo un bel maschietto, ovviamente. Nelle telenovelas non lavora nessuno, vivono tutti d'amore e le donne sfoggiano ciglia finte e abito da sera fin dal mattino. Nel corso di queste tragedie quasi tutti finiscono all'ospedale e le puntate prevedono parti, incidenti, stupri, droga, giovani che scappano da casa o che evadono dal carcere, ciechi, pazzi, ricchi che diventano poveri e poveri che diventano ricchi. Molta sofferenza. Il giorno dopo una puntata particolarmente drammatica le linee telefoniche del paese sono congestionate, perché tutti si chiamano per discutere i particolari. Le amiche mi telefonano da Santiago in California – a carico mio – per mettermi al corrente dell'accaduto. Solo una visita del papa potrebbe competere con l'audience dell'ultima puntata di una telenovela, ma questo è capitato solo una volta nella storia ed è molto probabile che non si ripeta.

Oltre ai funerali, ai racconti morbosi e alle telenovelas, esistono i crimini, che rappresentano sempre un interessante tema di conversazione. Noi cileni siamo affascinati da psicopatici e assassini, meglio ancora se di buona famiglia. "Abbiamo una memoria labile per ricordare i crimini commessi dallo stato, ma non dimentichiamo mai i piccoli peccati del prossimo" scrisse un famoso giornalista. Uno degli omicidi più famosi della storia fu perpetrato da un certo signor Barceló, il quale uccise la moglie dopo averla sottoposta per anni a maltrattamenti e dichiarò subito che si era trattato di un incidente. L'uomo spiegò che, mentre la stava abbracciando, era partito un colpo che le aveva fatto saltare il cervello. Purtroppo non fu in grado di chiarire come mai le stesse puntando alla testa una pistola carica, perciò la suocera si lanciò in una crociata per vendicare la figlia scomparsa; non la biasimo, io avrei fatto lo stesso. Questa signora apparteneva alla crema della crema di Santiago ed era abituata a ottenere sempre ciò che voleva. Pubblicò un libro in cui denunciava il genero e, dopo che questi fu condannato a morte, si insediò nell'ufficio del presidente della repubblica per impedirgli di concedere la grazia al detenuto. L'uomo fu giustiziato. Fu il primo e uno dei pochi imputati della classe alta mai condannati alla pena capitale, perché in genere questo castigo era riservato a chi non aveva conoscenze e non poteva permettersi un buon avvocato. Oggi la pena di morte in Cile non esiste più, come in tutti i paesi civili.

Sono cresciuta ascoltando gli aneddoti raccontati dai nonni, dagli zii e dalla mamma, materiale che mi è stato utile per scrivere i miei romanzi. Quanto c'era di vero in quei racconti? Non ha importanza, perché al momento di narrarli nessuno chiede una prova dei fatti, basta la leggenda, come nel caso della triste storia del fantasma che apparve alla nonna durante una seduta spiritica e le rivelò il punto esatto dove, sotto la scala, era nascosto un tesoro. A causa di un errore nelle planimetrie – e non per uno scherzo birbone giocato dallo spirito – il tesoro non fu mai trovato, nonostante la casa sia stata praticamente demolita. Ho cercato di indagare per scoprire come e quando si siano verificati questi pietosi episodi, ma nessuno della famiglia si dimostra interessato e, anzi, se faccio troppe domande si infastidiscono.

Non vorrei dare l'impressione che noi cileni abbiamo solo difetti, perché possediamo anche qualche virtù. Lasciatemi pensare... Per esempio, siamo un popolo di poeti. Non è merito nostro, ma del paesaggio. Per forza di cose, chi nasce e vive circondato da un simile spettacolo naturale compone versi. In Cile, se si sposta una pietra non spunta una lucertola, bensì un poeta o un cantautore. Sono personaggi ammirati, rispettati, ai quali si perdona qualunque difetto. Un tempo, durante i comizi la gente recitava a gran voce i versi di Pablo Neruda, che tutti noi conoscevamo a memoria. Preferivamo i suoi versi d'amore, perché abbiamo un debole per il romance.

Ci commuovono le disgrazie, ci crogioliamo nel risentimento, nella nostalgia, nella delusione, nel lutto; i nostri tramonti sono lunghi, forse per questo prediligiamo i temi malinconici. Nel caso qualcuno non se la cavi bene con i versi, restano altre forme d'arte. Tutte le donne che conosco scrivono, dipingono, scolpiscono, o si dedicano ad attività manuali durante il tempo libero, che non è molto. La produzione artistica ha sostituito il ricamo. Ho ricevuto in dono tanti quadri e ceramiche che nel mio garage non c'è più posto per la macchina.

Su noi cileni potrei aggiungere che siamo affettuosi, non facciamo che elargire baci a destra e a sinistra. Noi adulti ci salutiamo con un sincero bacio sulla guancia destra; i bambini baciano i grandi quando arrivano e quando si accomiatano, inoltre, in segno di rispetto, i piccoli si rivolgono agli adulti chiamandoli "zio" o "zia", come in Cina, e chiamano così anche la maestra. Gli anziani sono baciati senza pietà, anche contro la loro volontà. Le donne si scambiano baci anche se si detestano, e baciano tutti gli uomini che capitano loro a tiro, senza badare a età, classe sociale o norme d'igiene. Solo i maschi nel periodo fertile, diciamo tra i quattordici e i settant'anni, non si baciano, fatta eccezione per padri e figli, ma si scambiano pacche e abbracci che è un piacere vederli. Le manifestazioni d'affetto sono molteplici: dall'accogliere a braccia aperte un ospite inatteso al condividere con gli altri ciò che si possiede. Che non vi salti in mente di complimentarvi con qualcuno per un capo che indossa, perché sicuramente se lo toglierebbe per regalarvelo. Se a tavola resta qualcosa, è buona regola offrirlo agli ospiti perché lo portino via, così come l'etichetta suggerisce di non presentarsi mai a casa di qualcuno a mani vuote.

La dote principale dei cileni è l'ospitalità, ci basta poco per tendere le braccia a qualcuno e aprirgli la porta di casa. Ho sentito spesso raccontare dai turisti stranieri che quando in Cile si chiede un'indicazione spesso si viene accompagnati a destinazione e se la persona interpellata nota che il forestiero è molto spaesato, è capace di invitarlo a cena e, in caso di bisogno, magari di offrirgli anche un letto. Tuttavia, devo ammettere che la mia famiglia non era particolarmente socievole. Uno dei miei zii si mostrava infastidito quando la gente gli si avvicinava troppo e il nonno prendeva a bastonate il telefono perché gli pareva una mancanza di rispetto che qualcuno lo chiamasse senza prima domandargli il permesso. Era sempre arrabbiato con il postino, perché gli consegnava corrispondenza che non aveva sollecitato, e non apriva mai le buste sulle quali non era riportato il mittente. I miei parenti si sentivano superiori al resto dell'umanità, non capisco per quale ragione. Stando a quanto insegnava il nonno, era bene fidarsi solo dei parenti stretti e dubitare di tutti gli altri. Lui era un cattolico molto osservante, ma era contrario alla confessione, perché non si fidava dei preti e preferiva chiedere perdono dei propri peccati direttamente a Dio. La stessa cosa valeva per sua moglie e i suoi figli. Malgrado questo misterioso complesso di superiorità, a casa nostra tutti gli ospiti, anche i più odiosi, venivano sempre ricevuti a braccia aperte. In questo senso noi cileni siamo come i beduini del deserto: l'ospite è sacro e l'amicizia, una volta dichiarata, è da considerarsi un vincolo indissolubile.

Non capita mai di entrare in una casa, ricca o povera che sia, senza ricevere qualcosa da mangiare o da bere, anche solo una "tazzina di tè". Questa è un'altra tradizione nazionale. Siccome il caffè è sempre stato scarso e piuttosto costoso – persino il Nescafé era un lusso – si consumava più tè in Cile che in tutta l'Asia. Tuttavia, durante il mio ultimo soggiorno ho constatato con sorpresa che la cultura del caffè ha finalmente preso piede: ora è possibile gustare espressi e cappuccini come in Italia, basta pagare. Tanto per la cronaca vorrei aggiungere, per tranquillizzare i potenziali turisti, che in Cile esistono anche impeccabili bagni pubblici e che l'acqua minerale si vende ovunque; sono finiti i tempi in cui bastava bere un sorso d'acqua per rischiare la dissenteria. In un certo senso è un peccato, perché noi, che siamo cresciuti bevendo acqua cilena, siamo immuni a tutti i batteri possibili e immaginabili. Io posso bere senza problemi l'acqua del Gange, mentre mio marito si lava i denti all'estero e gli viene il tifo. In Cile non siamo grandi intenditori di tè e troviamo delizioso qualunque infuso scuro con un po' di zucchero. Inoltre esistono un'infinità di erbe autoctone cui si attribuiscono proprietà curative e, in casi davvero gravi, si ricorre all'agüita perra, semplice acqua calda servita in una tazza scheggiata. All'ospite si offre subito una "tazzina di tè", un'agüita o un "vinello". In Cile amiamo i diminutivi, perché si sposano perfettamente con il nostro desiderio di passare inosservati e di non metterci in mostra, neanche con le parole. All'ospite si offre poi da mangiare "quello che c'è in pentola", e questo significa che la padrona di casa sarebbe capace di togliere il pane di bocca ai figli per darlo all'invitato, il quale, ovviamente, ha l'obbligo di accettare. Se l'invito è ufficiale ci si può attendere un banchetto pantagruelico; l'obiettivo è di provocare ai commensali un'indigestione le cui conseguenze si facciano sentire per diversi giorni. Naturalmente i compiti pesanti sono sempre riservati alle donne. Adesso va di moda l'uomo in cucina, una vera sciagura, perché mentre lui colleziona elogi, sua moglie deve lavare la montagna di pentole e piatti sporchi che lui lascia nel lavandino. La nostra cucina tipica è semplice, perché in Cile terra e mare sono generosi; al mondo non esistono frutti e pesci più gustosi, ve lo posso assicurare. In linea di massima, nei luoghi dove i prodotti sono scarsi, i piatti sono elaborati e piccanti, come in India o in Messico, dove esistono trecento ricette diverse per cucinare il riso. Noi invece lo prepariamo in un modo solo, e ci sembra più che sufficiente. La creatività che non è necessaria per elaborare piatti originali, la sfruttiamo per inventare i nomi delle pietanze, che potrebbero indurre lo straniero a pensare il peggio: locos apanados (matti impanati), queso de cabeza (formaggio di testa di maiale), prieta de sangre (insaccato di sangue), sesos fritos (cervella fritte), dedos de dama (dita di dama), brazo de reina (braccio di regina), suspiros de monja (sospiri di monaca), niños envueltos (bebè in fasce), calzones rotos (pantaloni rotti), cola de mono (coda di scimmia), e così via.

Noi cileni siamo dotati di un gran senso dell'umorismo e amiamo ridere, anche se, in fondo, preferiamo comportarci da persone serie. A proposito del presidente Jorge Alessandri (1958–1964) – uno scapolone nevrotico che beveva solo acqua minerale, proibiva di fumare in sua presenza e indossava sciarpa e cappotto estate e inverno – la gente commentava con ammirazione: "Com'è triste don Jorge!". Questo ci infondeva fiducia, perché significava essere in buone mani: quelle di un uomo serio o, per meglio dire, di un vecchio depresso che non perdeva tempo a sorridere inutilmente. Le disgrazie ci divertono: quando le cose vanno male affiniamo il nostro senso dell'umorismo e, dato che quasi sempre vanno male, noi cileni ridiamo spesso. In questo modo compensiamo in parte la tendenza a lamentarci di tutto. L'indice di misura della popolarità di un personaggio dipende dalle barzellette che ispira; pare che il presidente Salvador Allende inventasse battute su se stesso – certe anche abbastanza pesanti – per farle circolare. Per parecchi anni ho firmato una rubrica umoristica per una rivista e ho condotto un programma televisivo con ambizioni di comicità, che funzionava solo perché non c'era molta concorrenza, dato che in Cile persino i pagliacci sono tristi. Anni dopo, una rubrica dello stesso genere mi fu affidata da un giornale venezuelano. Fu accolta malissimo e mi attirò parecchie antipatie, perché il senso dell'umorismo dei venezuelani è più diretto e meno pungente del nostro.

La mia famiglia è famosa per gli scherzi da prete, ma non è molto raffinata in materia di umorismo; le uniche barzellette che i miei parenti capiscono sono quelle del signor Otto. Per esempio: "Una signorina molto elegante si lascia scappare un'aria e, per confonderla, fa rumore con le scarpe. Allora il signor Otto, con accento tedesco, esclama: 'Ti troverai con il tacco staccato, ma non riuscirai mai a imitare un rumore come quello che hai appena mollato'". Mentre scrivo ho le lacrime agli occhi dal ridere. Ho cercato di raccontarla a mio marito, ma la rima è impossibile da tradurre e per di più in California uno scherzo sui tedeschi non fa ridere nessuno. Sono cresciuta ascoltando barzellette sui galeghi, sugli ebrei e sui turchi. Noi cileni siamo dotati di un senso dell'umorismo nero e non perdiamo occasione per burlarci degli altri, chiunque siano: sordomuti, ritardati, epilettici, gente di colore, omosessuali, preti, straccioni e altro ancora. Abbiamo barzellette per tutte le religioni e per tutte le razze. Ho sentito per la prima volta l'espressione politically correct quando avevo quarantacinque anni, e in Cile non sono riuscita a spiegare cosa significasse né agli amici né ai parenti. Una volta, in California, decisi di prendere uno di quei cani delle scuole per ciechi che vengono scartati perché non risultano idonei dopo le dure prove d'addestramento. Nella domanda che inoltrai per l'assegnazione ebbi la pessima idea di precisare che volevo uno dei cani "scartati" e come risposta ricevetti una nota secca che mi ammoniva per aver utilizzato il termine "scartato", quando avrei dovuto dire che l'animale aveva "cambiato occupazione". Vallo a spiegare in Cile!

Il mio matrimonio con un americano non funziona poi male. Andiamo d'accordo, anche se la maggior parte delle volte nessuno dei due ha la minima idea di cosa stia dicendo l'altro, poiché entrambi siamo sempre disposti a concederci il beneficio del dubbio. L'inconveniente maggiore consiste nel fatto che il nostro senso dell'umorismo è diverso. Willie non riesce a credere che in spagnolo io sia spiritosa e, da parte mia, non capisco mai perché diavolo rida. L'unica cosa che diverte entrambi sono i discorsi improvvisati del presidente George W. Bush.

11.

DOVE NASCE LA NOSTALGIA

Ho ripetuto spesso che la mia nostalgia ebbe inizio con il golpe militare del 1973. quando il Cile cambiò tanto che ormai non lo riconosco più, ma in realtà credo risalga a molto prima. La mia infanzia e la mia adolescenza sono state segnate da viaggi e addii. Non facevo in tempo a piantare le radici in un posto che dovevo già fare le valigie per trasferirmi altrove.

Avevo nove anni quando lasciai la casa dov'ero cresciuta e dissi addio, con molta tristezza, al mio indimenticabile nonno. Perché non mi annoiassi durante il viaggio per la Bolivia, lo zio Ramón mi regalò un planisfero e le opere complete di Shakespeare in spagnolo, che lessi d'un fiato, tornai a leggerle diverse volte e ancora conservo. Mi affascinavano quelle storie di mariti gelosi che uccidono la moglie per un fazzoletto, di re che muoiono per il veleno instillato loro nell'orecchio da un nemico, di amanti che si suicidano a causa di un messaggio giunto tardi. (Come sarebbe stata diversa la storia di Romeo e Giulietta se avessero avuto un telefono!) Shakespeare mi iniziò alle storie di sangue e passione, un cammino pericoloso per noi scrittori che viviamo in un'epoca minimalista. Quando ci imbarcammo nel porto di Valparaíso, diretti alla provincia di Antofagasta, dove poi avremmo preso un treno per La Paz, mia madre mi consegnò un taccuino e mi disse di cominciare a scrivere un diario di viaggio. Da allora ho scritto quasi tutti i giorni; è la mia abitudine più radicata. Man mano che il treno procedeva, il paesaggio mutava e qualcosa si lacerava dentro di me. Se da un lato mi incuriosivano le novità che mi sfilavano davanti agli occhi, dall'altro un'indescrivibile tristezza sedimentava nel mio cuore. Nei villaggi boliviani dove sostava il treno compravamo pannocchie, pane fatto in casa, patate nere che sembravano marce e deliziosi dolci preparati dalle indigene boliviane vestite con sottane di lana variopinta e bombette come quelle dei banchieri inglesi. Io prendevo appunti sul mio taccuino, instancabile come un notaio, quasi già allora intuissi che solo grazie alla scrittura avrei potuto restare ancorata alla realtà. Oltre il finestrino il paesaggio appariva indefinito a causa della polvere sui vetri e deformato dalla velocità del treno.

L'esperienza di quei giorni colpì la mia immaginazione. Ascoltai storie di spiriti e demoni che popolano villaggi abbandonati, di mummie trafugate da tombe profanate, di mucchi di teschi umani esposti in un museo, alcuni dei quali antichi di oltre cinquantamila anni. A scuola, durante le lezioni di storia, avevo studiato che in questi luoghi desolati avevano vagato i primi spagnoli giunti in Cile dal Perú nel XVI secolo. Immaginavo quel pugno di guerrieri con le armature arroventate dal sole, i cavalli esausti e gli occhi stralunati, seguiti da migliaia di prigionieri indios che trasportavano provviste e armi. Fu un'impresa di grande coraggio, dettata da un folle desiderio di conquista. Mia madre ci leggeva qualche pagina sugli indios di Atacama, ormai estinti, e qualche notizia sui quechua e sugli ayamara, gli indigeni con i quali avremmo convissuto in Bolivia. Anche se allora non potevo immaginarlo, quel viaggio fu il primo della mia vita errabonda. Il diario esiste ancora, mio figlio lo tiene nascosto e si rifiuta di restituirmelo, perché sa che lo distruggerei. Ora mi pento di molte cose scritte in gioventù: poesie bruttissime, storie strazianti, appunti da suicida e lettere d'amore inviate a sventurati amanti, ma, soprattutto, quel diario ridicolo. (Attenzione, aspiranti scrittori; non tutto quello che scrivete merita di essere conservato per i posteri.) Quando mi consegnò quel taccuino, mia madre intuì che avrei rischiato di perdere le mie radici cilene e che, in mancanza di terra, dovevo piantarle nella carta. Da allora ho sempre scritto. Mantenevo la corrispondenza con il nonno, con lo zio Pablo e con i genitori di alcune amiche, certi signori pazienti ai quali fornivo un resoconto delle mie impressioni su La Paz, sulle montagne violette, sugli indios taciturni e sull'aria così rarefatta che i polmoni erano sempre sul punto di riempirsi di schiuma e la mente di allucinazioni. Non scrivevo ai miei coetanei, ma solo agli adulti, perché loro mi rispondevano.

Ho trascorso l'infanzia e l'adolescenza in Bolivia e in Libano, al seguito dell'uomo "bruno con i baffi" impegnato con la sua carriera diplomatica, così come mi avevano predetto tante volte le gitane. Ho imparato a parlare un po' d'inglese e di francese, e anche a mangiare pietanze dall'aria sospetta senza fare domande. La mia educazione è stata caotica, per usare un eufemismo, ma ho colmato le enormi lacune leggendo di tutto, con la voracità di un piranha. Ho viaggiato in nave, aereo, treno e macchina e non ho mai smesso di scrivere lettere in cui confrontavo ciò che vedevo con il mio unico e indelebile punto di riferimento: il Cile. Non mi separavo mai dalla mia torcia elettrica – che mi servì per leggere anche nelle condizioni più avverse – né dal mio taccuino.

Dopo due anni trascorsi a La Paz partimmo con armi e bagagli alla volta del Libano. A Beirut ho vissuto anni di totale isolamento, tra casa e scuola. Quanto mi mancava il Cile! Mentre le altre ragazze ballavano il rock 'n roll, io passavo il tempo a leggere e a scrivere lettere. Quando scoprii Elvis Presley ormai era un grassone. Indossavo un austero abito grigio per far dispetto a mia madre, che è sempre stata vanitosa ed elegante, e sognavo a occhi aperti il principe azzurro che sarebbe arrivato in sella al suo cavallo bianco per riscattarmi da un'esistenza mediocre. A scuola, durante la ricreazione, mi nascondevo dietro a un libro, nell'angolo più appartato del cortile, per mascherare la mia timidezza.

L'avventura in Libano si concluse improvvisamente nel 1958, quando sbarcarono i marines americani della Sesta Flotta per intervenire nei violenti scontri politici the di lì a poco avrebbero lacerato il paese. La guerra civile era cominciata mesi prima, si udivano spari e grida, nelle strade c'era confusione e la paura aleggiava nell'aria. La città era divisa in settori religiosi che si battevano con un rancore accumulato nei secoli, mentre l'esercito tentava di mantenere l'ordine. Le scuole chiusero una dopo l'altra, eccetto la mia, perché la nostra impassibile direttrice aveva deciso che la guerra non la riguardava, dato che la Gran Bretagna non vi prendeva parte. Purtroppo questa interessante situazione durò poco: lo zio Ramón, preoccupato dalla piega che stava assumendo la rivolta, mandò la mamma in Spagna con il cane e rispedì noi bambini in Cile. Di lì a poco lui e mia madre furono trasferiti in Turchia e noi restammo a Santiago, i miei fratelli come interni in un collegio e io a casa del nonno.

Quando arrivai a Santiago avevo quindici anni e mi sentivo spaesata, perché avevo trascorso molto tempo all'estero e avevo perso i contatti con i vecchi amici e i cugini. Per di più avevo un accento strano, e questo in Cile rappresenta un problema, perché la gente ti "colloca" in una classe sociale a seconda di come parli. La Santiago degli anni sessanta mi pareva piuttosto provinciale, paragonata, per esempio, allo splendore di Beirut, che a quei tempi si vantava di essere la Parigi del Medio Oriente. Ma questo non significava che il ritmo fosse tranquillo, anzi, già allora gli abitanti della città erano stressatissimi. La vita era disagevole e dura, la burocrazia opprimente, gli orari pesanti, ma in cuor mio ero decisa ad adottare questa città. Ero stanca di separarmi da luoghi e persone, desideravo mettere radici e non andarmene più. Credo di essermi innamorata del Cile grazie alle storie del nonno e ai viaggi che facemmo insieme nel Sud. Il nonno mi insegnava la storia e la geografia, mi mostrava le carte geografiche, mi costringeva a leggere gli autori nazionali, mi correggeva la grammatica e l'ortografia. Come maestro era poco paziente e molto severo; diventava rosso di rabbia quando commettevo degli errori, ma se era contento di come svolgevo i compiti mi premiava con un pezzo di formaggio Camembert che lasciava maturare nel suo armadio; quando apriva l'anta l'odore di stivali marci inondava il quartiere. Io e il nonno andavamo d'accordo, perché a tutti e due piaceva rimanere in silenzio. Potevamo trascorrere ore, seduti uno accanto all'altra, a leggere o a guardare la pioggia che batteva sui vetri, senza sentire la necessità di dire qualcosa giusto per farlo. Credo che simpatia e rispetto fossero reciproci. Scrivo questa parola – rispetto – con qualche riserva, perché il nonno era autoritario e maschilista e trattava le donne come fiori delicati, ma l'idea di nutrire rispetto nei loro confronti dal punto di vista intellettuale non lo sfiorava neppure. Io ero una quindicenne scontrosa e ribelle e discutevo con lui da pari a pari. Questo lo incuriosiva. Quando mi battevo per ottenere la stessa libertà di cui godevano i miei fratelli e lottavo affinché mi venisse accordata la possibilità di studiare come loro, il nonno sorrideva divertito, ma per lo meno mi ascoltava. La prima volta che sentì la parola "maschilista" era uscita dalle mie labbra. Non sapeva cosa significasse e quando glielo spiegai ci mancò poco che morisse dalle risate; l'idea di coniare un vocabolo per definire l'autorità maschile, naturale come l'aria che si respira, gli parve un'ingegnosa trovata. Quando iniziai a mettere in discussione quell'autorità, non lo trovò più tanto divertente, ma credo che in fondo capisse e magari persino ammirasse il mio desiderio di assomigliare a lui, forte e indipendente, piuttosto che a una vittima delle circostanze come mia madre.

Ero quasi riuscita a diventare come il nonno, quando la natura mi tradì facendomi spuntare il seno, due misere prugnette, e tutti i miei piani andarono a farsi benedire. Per quanto mi riguarda, l'esplosione ormonale fu devastante. Nel giro di qualche settimana diventai una ragazzina complessata con la testa piena di sogni romantici e preoccupata solo di attrarre il sesso opposto, impresa tutt'altro che semplice, visto che non ero dotata del minimo fascino ed ero costantemente imbronciata. Non potevo nascondere il disprezzo che provavo nei confronti della maggior parte dei ragazzi che conoscevo, perché mi sembrava evidente che ero più sveglia di loro. (Ho impiegato parecchi anni per imparare a comportarmi come un'idiota in modo che gii uomini si sentissero superiori. E quanta fatica mi è costata!) Trascorsi quegli anni lacerata dalle idee femministe che mi frullavano per la testa, ma che non riuscivo a esprimere in maniera coerente perché nell'ambiente dove vivevo non si parlava di femminismo, ma anche dal desiderio di essere come le altre ragazze della mia età e di essere accettata, desiderata, conquistata, protetta.

Il povero nonno dovette combattere con l'adolescente più infelice della storia dell'umanità. Nulla di ciò che diceva riusciva a consolarmi. Non che dicesse molto. A volte borbottava che per essere una donna non ero poi male, ma questo non cambiava che avrebbe preferito fossi un uomo, per potermi insegnare a usare i suoi attrezzi. Ma almeno riuscì a eliminare il mio vestito grigio, che bruciò in cortile. Io feci un pandemonio, ma in fondo ne ero felice, anche se ero convinta che, con o senza quel ridicolo abito, nessun uomo mi avrebbe mai degnata di uno sguardo. Invece qualche giorno dopo accadde un miracolo: il mio primo spasimante, Miguel Frías, si dichiarò. Ero talmente disperata che mi aggrappai a lui come un polipo e non lo lasciai più. Cinque anni dopo ci sposammo, nacquero i nostri due figli e la nostra storia durò per altri venticinque anni. Ma sto correndo troppo...

Frattanto il nonno aveva smesso il lutto e si era risposato con un donnone dall'aria solenne, nelle cui vene scorreva il sangue di quei coloni tedeschi arrivati dalla Selva Nera per popolare il Sud nel XIX secolo. Al confronto, noi sembravamo dei selvaggi e come tali ci comportavamo. La seconda moglie del nonno era una valchiria imponente, alta, pallida e bionda, dotata di una prua bella piena e di una notevole poppa. Dovette sopportare un marito che sussurrava nel sonno il nome della prima moglie e combattere con la sua famiglia, che non l'accettò mai del tutto e che, anzi, le rese spesso la vita impossibile. Mi dispiace che ciò sia accaduto, perché senza di lei gli anni della vecchiaia del patriarca sarebbero stati molto solitari. Era un'eccellente padrona di casa e un'ottima cuoca; era anche autoritaria, zelante, parsimoniosa e incapace di afferrare il contorto senso dell'umorismo della mia famiglia. Sotto il suo regno sparirono dalla cucina i sempiterni fagioli, lenticchie e ceci; la poveretta cucinava deliziosi manicaretti che i suoi figliastri coprivano di salsa piccante prima di assaggiarli. Ricamava anche meravigliosi asciugamani che loro usavano per togliersi il fango dalle scarpe. Immagino che per lei i pranzi domenicali con quegli zotici fossero un tormento insopportabile, ma continuò a organizzare quelle riunioni per decenni, per dimostrarci che, qualunque cosa facessimo, non l'avremmo mai spuntata. E vinse nettamente quella guerra della perseveranza. Lei non condivideva la complicità che esisteva tra me e il nonno, ma restava con noi alla sera, quando ascoltavamo con la luce spenta una storia dell'orrore che trasmettevano per radio. Ricamava a memoria, impassibile, mentre io e il nonno morivamo dalla paura e dalle risate. Il vecchio si era riconciliato con i mezzi di comunicazione e possedeva una radio antidiluviana che doveva aggiustare tutti i giorni. Con l'aiuto di un "maestro" installò un'antenna e collegò dei cavi a una graticola metallica, intenzionato a captare le comunicazioni degli extraterrestri, ora che non c'era più la nonna che li convocava nelle sue sedute.

In Cile esiste l'istituzione del "maestro", termine con cui si definisce qualunque tizio (mai una donna) che sappia cavarsela bene con pinza e fil di ferro. Si tratta di un soggetto piuttosto rozzo, che chiamiamo affettuosamente maestro chasquilla, oppure semplicemente "maestro", un titolo onorifico che equivale a "dottore". Con pinza e fil di ferro questi uomini sono in grado di costruire di tutto, da un semplice lavamano alla turbina di un aeroplano. Un maestro è dotato di grande inventiva e di un coraggio senza limiti. Nel corso della sua lunga vita il nonno ricorse poche volte a uno di questi specialisti, perché non solo era capace di riparare qualunque guasto, ma anche di costruirsi da solo i suoi attrezzi. Tuttavia, quando era ormai anziano e non poteva più chinarsi e sollevare pesi, si faceva aiutare da un "maestro", che veniva spesso a trovarlo per lavorare con lui, tra un bicchiere e l'altro di gin. Negli Stati Uniti, dove la mano d'opera costa cara, la metà della popolazione maschile possiede un garage pieno di attrezzi e tutti imparano fin da ragazzi a leggere i manuali delle istruzioni. Mio marito, di professione avvocato, possiede una pistola per sparare i chiodi, una macchina per tagliare la pietra e un'altra che sputa cemento da una bocchetta. Il nonno, invece, in Cile era un'eccezione, perché nessuno della classe medio-alta è in grado di decifrare un manuale e meno che mai si sporcherebbe le mani con il grasso di un motore. Per questo esistono i "maestri", che senza alcuna difficoltà sono in grado di improvvisare le soluzioni più ingegnose con i mezzi più modesti. Ne conobbi uno che si era salvato per miracolo cadendo dal nono piano mentre cercava di riparare una finestra. Era salito in ascensore massaggiandosi le contusioni per andare a scusarsi di aver rotto il martello. L'idea di assicurarsi con una cinghia o di chiedere un risarcimento per i danni non lo aveva neppure sfiorato.

In fondo al giardino del nonno c'era una casetta, che sicuramente era stata costruita per la servitù. Mi sistemarono lì. Per la prima volta in vita mia godevo di privacy e silenzio, un lusso al quale mi sono abituata. Di giorno studiavo e di notte leggevo romanzi di fantascienza che, in edizione tascabile, compravo per qualche soldo all'edicola dell'angolo. Come tutti gli adolescenti cileni di quegli anni, per farmi notare giravo con La montagna incantata e Il lupo della steppa sotto il braccio; non ricordo di averli mai letti. (Il Cile è probabilmente l'unico paese dove Thomas Mann e Hermann Hesse sono bestseller intramontabili, anche se, per esempio, non riesco a immaginarmi cosa abbiamo in comune noi cileni con Narciso e Boccadoro.) Nella biblioteca del nonno trovai una collezione di romanzi russi e le opere complete di Henri Troyat, autore di lunghe saghe familiari della Russia prima e dopo la rivoluzione. Rilessi quei libri parecchie volte e, anni dopo, chiamai mio figlio Nicolas, in omaggio a un personaggio di Troyat, un giovane contadino, allegro e solare, che s'innamora della moglie del padrone e sacrifica la propria vita per lei. È una storia tanto romantica che, ancora oggi, a ripensarci, mi commuovo. Quelle erano le mie letture preferite, e lo sono ancora: personaggi appassionati, cause nobili, audaci dimostrazioni di coraggio, idealismo, avventura e, per quanto possibile, scenari remoti dai climi ostili, come la Siberia o un deserto africano, luoghi, insomma, che non visiterei mai. Le isole tropicali, tanto indicate per una vacanza, risultano deleterie in letteratura.

Tutti i giorni scrivevo a mia madre in Turchia. Le lettere impiegavano due mesi per giungere a destinazione, ma questo, per noi che amavamo il genere epistolare, non ha mai rappresentato un problema. Io e la mamma ci siamo scritte tutti i giorni per quarantacinque anni, con la promessa reciproca che se una di noi due fosse morta, l'altra avrebbe distrutto la montagna di corrispondenza accumulatasi. Senza questa garanzia non saremmo riuscite a confidarci liberamente; non riesco neanche a immaginare cosa accadrebbe se quelle lettere, in cui sparlavamo senza ritegno di parenti e conoscenti, finissero in mani indiscrete.

Ricordo gli inverni della mia adolescenza, quando la pioggia inondava il cortile e filtrava sotto la porta della mia casetta, quando il vento minacciava di spazzare via il tetto e tuoni e fulmini facevano tremare la terra. Se solo avessi potuto restare chiusa là dentro a leggere per tutto l'inverno, la mia vita sarebbe stata perfetta: ma dovevo andare a scuola. Detestavo aspettare l'autobus, sfinita e ansiosa, senza sapere se sarei stata tra i fortunati che sarebbero riusciti a salire o tra gli sconfitti che sarebbero rimasti a terra ad attendere il successivo. La città si era estesa ed era difficile spostarsi da una parte all'altra; prendere un autobus (cioè un micro) era un atto suicida. Dopo essere rimasti ad attendere per ore insieme a un'altra ventina di disperati, talvolta sotto la pioggia e con i piedi a mollo in una pozzanghera di fango, bisognava saltare come lepri appena il veicolo si avvicinava, scoppiettando e sputando una nuvola di gas dal tubo di scappamento, per riuscire ad aggrapparsi alla porta o alle giacche dei passeggeri che erano riusciti a salire. Non è più così, ovviamente. Sono trascorsi quarant'anni e Santiago è una città completamente diversa. Oggi gli autobus sono veloci, moderni e numerosi. L'unico inconveniente è rappresentato dai conducenti, che sfrecciano per le vie travolgendo qualunque cosa si trovi sulla loro strada, perché fanno a gara per arrivare primi alle fermate e accaparrarsi il maggior numero di passeggeri. Gli autisti dei bus detestano gli studenti, perché pagano una tariffa ridotta, e gli anziani, perché impiegano molto tempo a salire e scendere, perciò fanno il possibile affinché queste due categorie di passeggeri non si avvicinino al veicolo. Per farsi un'idea del carattere dei cileni bisogna utilizzare i mezzi pubblici a Santiago e spostarsi nel paese con il pullman, si tratta di un'esperienza molto istruttiva. Sugli autobus si incontrano cantanti ciechi e venditori ambulanti di aghi, calendari, santini e fiori, ma anche maghi, giocolieri, borsaioli, matti e mendicanti. In genere i cileni sono sempre di cattivo umore e non si scambiano nemmeno un'occhiata per strada, ma sull'autobus si instaura una sorta di solidarietà umana, come accadeva nei rifugi antiaerei a Londra durante la Seconda guerra mondiale.

Un ultimo commento sul traffico: i cileni, tanto timidi e gentili, al volante diventano dei selvaggi. Si sfidano per arrivare primi ai semafori, serpeggiano senza indicare il cambio di corsia, si scambiano insulti e gestacci. La maggior parte delle nostre parolacce termina con l'accento, perciò il suono è simile al francese. Una mano tesa come per chiedere l'elemosina indica un'allusione diretta alla dimensione dei genitali del nemico; meglio saperlo, onde evitare di metterci imprudentemente una moneta.

Io e il nonno facemmo alcuni viaggi indimenticabili sulla costa, sulle montagne e nel deserto. Un paio di volte mi portò a visitare gli allevamenti di pecore della Patagonia argentina: erano vere e proprie odissee, che affrontavamo in treno, con la jeep, su carri trainati da buoi e a cavallo. Diretti verso sud, attraversavamo meravigliose foreste di alberi autoctoni, dove la pioggia cadeva incessantemente; solcavamo le acque incontaminate dei laghi che, come specchi, riflettevano le immagini dei vulcani innevati; valicavamo la ripida Cordigliera delle Ande, percorrendo i sentieri nascosti di cui allora si servivano i contrabbandieri. Dall'altra parte delle montagne ci attendevano mulattieri argentini, uomini rozzi e silenziosi, dalle mani abili e dal volto segnato come la pelle dei loro stivali. Ci accampavamo sotto le stelle, avvolti in pesanti coperte di lana spagnola, con la sella sotto la testa al posto del cuscino. I mulattieri ammazzavano un agnellino e lo facevano arrosto. Lo mangiavamo sorseggiando il mate, un tè verde e amaro, servito in una zucca che passava di mano in mano e dotata di un beccuccio metallico che passava di bocca in bocca. Sarebbe stato scortese dimostrarsi schifati davanti al beccuccio pieno di saliva e tabacco masticato. Il nonno non credeva ai germi per lo stesso motivo per cui non credeva ai fantasmi: non li aveva mai visti. All'alba ci lavavamo con l'acqua gelata e un potente sapone giallo, fatto con grasso di pecora e soda caustica. Conservo un ricordo indelebile di quei viaggi, tanto che, trentacinque anni dopo, quando mi trovai a narrare la fuga dei protagonisti del mio secondo romanzo, D'amore e d'ombra, riuscii a descrivere quell'esperienza e quei paesaggi senza omettere nulla.

12.

GLI ANNI CONFUSI DELLA GIOVINEZZA

Durante l'infanzia e la giovinezza percepivo mia madre come una vittima e ben presto decisi che non avrei voluto seguire le sue orme. Mi pareva che essere nata donna fosse una bella sfortuna; la vita di un uomo è molto più semplice. Perciò diventai femminista molto prima di aver sentito questa parola. Ho sempre desiderato essere indipendente e non avere nessuno a cui obbedire, questo punto fermo ha condizionato le mie decisioni per tutta la vita. Ripensando al passato mi rendo conto che mia madre affrontò con molto coraggio un duro destino, ma allora la giudicavo debole, perché dipendeva dagli uomini che le stavano accanto, come suo padre e suo fratello Pablo, i quali controllavano le spese e impartivano ordini. Le davano retta solo quando era malata, e quindi lei si ammalava spesso. Poi sposò lo zio Ramón, uomo dalle grandi qualità, ma maschilista come il nonno, gli zii e il resto dei cileni.

Mi sentivo soffocare, prigioniera, come tutti gli altri, e soprattutto le donne, di un sistema rigido. Non era permesso fare un passo fuori dal seminato; dovevo comportarmi come gli altri, scivolare nell'anonimato o affrontare lo scandalo. Ci si aspettava che finissi il liceo, che mi tenessi stretto il mio fidanzato, che mi sposassi prima dei venticinque anni – dopo sarebbe stato tardi – e che, una volta sposata, avessi subito dei figli, perché nessuno pensasse che usavo anticoncezionali. Ci tengo a precisare che a quei tempi era già stata inventata la famosa pillola, responsabile della rivoluzione sessuale, ma in Cile se ne parlava sottovoce; era stata messa al bando dalla Chiesa e per procurarsela era necessario ricorrere a qualche amico medico di idee liberali, ovviamente solo se si era in grado di esibire un certificato di matrimonio. Le donne nubili erano piene di preoccupazioni, perché sono pochi gli uomini cileni che hanno la delicatezza di usare il preservativo. Nelle guide dovrebbero raccomandare alle turiste di tenerne sempre uno in borsa, perché non mancherà loro l'opportunità di utilizzarlo. Il cileno considera la seduzione di qualunque donna in età fertile come un impegno da mettere in pratica con coscienza. In linea generale i miei compatrioti ballano malissimo, ma sono molto abili con le parole; sono stati i primi a scoprire che il punto G si trova nell'orecchio femminile e che è inutile perdere tempo a cercarlo più in basso. Una cura efficace da consigliare a qualunque donna depressa consiste nel passare davanti a un edificio in costruzione: i lavori si fermano all'istante e parecchi muratori scendono dalle impalcature per fare apprezzamenti. La galanteria in Cile ha raggiunto il rango di arte ed esiste un concorso annuale per premiare i complimenti migliori a seconda della categoria: classici, creativi, erotici, umoristici e poetici.

Fin da bambina mi è stato insegnato che dovevo essere riservata e fingere di essere buona. Dico fingere perché ciò che si fa di nascosto non importa, basta che non si sappia in giro. In Cile siamo vittime di una singolare forma di ipocrisia: il minimo errore da parte del prossimo ci scandalizza, ma in privato commettiamo crudeli peccati. La sincerità ci lascia un po' disorientati, noi facciamo le cose di nascosto, preferiamo usare eufemismi (allattare diventa "dar la pappa al pupo" e tortura "procedimento illecito"). Ci vantiamo di essere emancipati, ma affrontiamo stoicamente il silenzio a proposito di argomenti considerati tabù e dei quali non si deve parlare, dalla corruzione (che definiamo "acquisizione illecita") alla censura del cinema, per citarne solo un paio. Un tempo fu censurato Il violinista sul tetto, ora non si può proiettare L'ultima tentazione di Cristo, perché la Chiesa si oppone e i fondamentalisti cattolici sarebbero capaci di mettere una bomba nel cinema. Quando da noi uscì Ultimo tango a Parigi, Marlon Brando era ormai un vecchio obeso e la margarina era passata di moda. Il tabù più difficile da abbattere, soprattutto per le donne, è ancora quello sessuale.

Le ragazze di certe famiglie emancipate andavano all'università, ma non fu il mio caso. La mia famiglia si considerava intellettuale, ma in realtà eravamo dei barbari medievali. Dai miei fratelli ci si aspettava che diventassero dei professionisti – possibilmente avvocati, medici o ingegneri, le altre occupazioni erano considerate di secondo livello –, ma io dovevo accontentarmi di un lavoro qualsiasi, fino a quando un marito e dei figli non mi avessero assorbita a tempo pieno. In quegli anni le donne professioniste provenivano quasi tutte dalla classe media, che rappresenta la spina dorsale del paese. Oggi non è più così, e il livello dell'educazione femminile è addirittura superiore a quello dell'educazione maschile. A scuola non andavo male, ma dato che avevo già un fidanzato, a nessuno, me compresa, venne in mente che avrei potuto affermarmi professionalmente. Terminai il liceo a diciassette anni, talmente confusa e immatura da non sapere cosa scegliere, anche se ho sempre avuto ben chiaro che dovevo lavorare, perché non esiste femminismo che si rispetti che non sia basato sull'indipendenza economica. Come diceva il nonno: "Chi paga comanda". Accettai un posto di segretaria in un'organizzazione delle Nazioni Unite, dove copiavo statistiche forestali su grandi fogli a quadretti. Nei momenti liberi non ricamavo il corredo, ma leggevo romanzi di autori sudamericani e discutevo furiosamente con qualunque uomo si mettesse sulla mia strada, a cominciare dal nonno e dal povero zio Ramón. Quando entrai nel mondo del lavoro e scoprii gli svantaggi di essere donna, la mia insofferenza nei confronti del sistema patriarcale si acutizzò.

E che dire della scrittura? Credo di avere segretamente desiderato di dedicarmi alla letteratura, però non osai mai parlare di un progetto tanto ambizioso perché tutti mi avrebbero riso in faccia. A nessuno interessava quello che dicevo, figuriamoci quello che avrei scritto. Non conoscevo autrici di rilievo, a parte due o tre zitelle inglesi del XIX secolo e la poetessa nazionale Gabriela Mistral, che però sembrava un uomo. Gli scrittori erano uomini attempati, solenni, inavvicinabili o per la maggior parte già morti. Non conoscevo personalmente nessuno di loro, a parte quello zio che girava per il quartiere suonando l'organetto, il quale aveva pubblicato un libro sulle sue esperienze mistiche in India. In cantina erano ammucchiati centinaia di esemplari di quell'enorme volume – sicuramente acquistati dal nonno per farli sparire dalla circolazione –, che io e i miei fratelli usavamo da piccoli per costruire fortini. No, quello della scrittura non era un cammino che potessi intraprendere in un paese come il Cile, dove la mancanza di considerazione nei confronti delle donne, dal punto vista intellettuale, era ancora assoluta. Grazie a una guerra senza tregua, noi donne siamo riuscite a guadagnarci, in certi campi, il rispetto di quei trogloditi, ma appena abbassiamo la guardia, il maschilismo solleva nuovamente la sua testa odiosa.

Per un po' di tempo lavorai come segretaria, sposai Miguel, il fidanzato di sempre, e rimasi subito incinta della mia prima figlia, Paula. Nonostante le mie teorie femministe, ero una tipica moglie cilena, pronta al sacrificio e servizievole come una geisha, di quelle che trattano il marito come un bambino, con premeditazione e malafede. Basti dire che avevo tre lavori, mandavo avanti la casa, stavo dietro ai bambini e correvo dalla mattina alla sera come un'atleta per mantenere fede al cumulo di responsabilità che mi ero assunta, compresa la visita quotidiana al nonno, ma alla sera attendevo mio marito con l'oliva del suo Martini tra i denti e gli preparavo i vestiti per il giorno dopo. Nei momenti liberi gli lustravo le scarpe e gli tagliavo le unghie e i capelli, come un'Elvira qualunque.

Ben presto riuscii a ottenere un trasferimento all'interno dell'organizzazione e cominciai a lavorare all'ufficio stampa, dove ero incaricata di redigere comunicati e mantenere i contatti con i giornali, compito più interessante che contare alberi. Devo ammettere che non ho scelto il giornalismo, ma ero distratta e lui mi ha catturata, è stato amore a prima vista, una passione improvvisa che ha determinato buona parte della mia esistenza. In quel periodo in Cile fu inaugurata la televisione, con due canali in bianco e nero che dipendevano dalle università. Era una televisione dell'età della pietra – più primitiva di così non si poteva – e proprio per questo riuscii a inserirmi, anche se fino ad allora gli unici schermi che avevo visto erano quelli del cinema. Mi lanciai a capofitto nella carriera giornalistica, malgrado non avessi la laurea. A quei tempi era ancora un lavoro che si imparava sul campo e gli autodidatti come me erano abbastanza tollerati. Faccio presente che in Cile la maggior parte dei giornalisti sono donne, più preparate, conosciute e coraggiose dei colleghi maschi, anche se quasi sempre costrette a lavorare sotto le direttive di un uomo. Il nonno accolse la notizia con indignazione; secondo lui quello del giornalista era un mestiere da buffone: nessuno con le rotelle a posto rilascia dichiarazioni alla stampa e nessuna persona perbene si dedica a una professione basata sui pettegolezzi. Ciò nonostante, credo seguisse di nascosto le mie trasmissioni alla televisione, perché a volte si lasciava scappare qualche commento che lo tradiva.

In quegli anni le baraccopoli attorno alla capitale erano lievitate in maniera allarmante. Le capanne avevano pareti di cartone e tetti di latta e gli abitanti erano vestiti di stracci. Si vedevano perfettamente dalla strada che dall'aeroporto conduceva a Santiago e non era certo uno spettacolo piacevole da offrire ai turisti; per molti anni si ovviò al problema nascondendole dietro a dei muri. Come diceva allora un politico: "Se la miseria esiste, facciamo almeno in modo che non si noti". Oggi ci sono ancora zone degradate, malgrado lo sforzo sostenuto dai governi per sistemare gli occupanti in quartieri più decenti, ma non è niente in confronto a prima. Dalle campagne o dalle province più sperdute accorrevano in massa emigranti in cerca di lavoro e, non avendo un tetto, costruivano le loro angosciose baracche.

Nonostante i carabineros cercassero di impedirlo, queste baraccopoli crescevano e si organizzavano; una volta che la gente aveva occupato un terreno era impossibile mandarla via o impedire che altri continuassero ad arrivare. Le baracche erano allineate lungo sentieri di terra battuta, che d'estate sollevavano un polverone e d'inverno si trasformavano in un pantano. In mezzo alle baracche scorrazzavano centinaia di bambini scalzi, mentre i loro padri si recavano in città a cercare un lavoro per la giornata, "per mettere qualcosa in pentola", espressione generica che indica qualunque cosa, da qualche spicciolo a un osso per il brodo. Qualche volta visitai queste baraccopoli, prima con amici sacerdoti, per cercare di portare aiuto, e in seguito, quando il femminismo e la confusione politica mi obbligarono a uscire dal guscio, per imparare. Come giornalista realizzai reportage e interviste che mi permisero di comprendere meglio la mentalità cilena.

Tra i problemi più gravi, propri di un'esistenza senza speranza, c'erano l'alcolismo e la violenza domestica. Parecchie volte vidi donne con il viso tumefatto. Ma la mia compassione cadeva nel vuoto, perché loro avevano sempre una scusa per giustificare l'aggressore: "era ubriaco", "si è arrabbiato", "era geloso", "mi picchia perché mi ama", "cosa avrò fatto per provocarlo?". Mi dicono che ciò non è cambiato molto, nonostante le campagne di sensibilizzazione. Le parole di un tango molto famoso narrano di un tipo che attende che la sua donna gli serva il mate e poi "le sferra trentacinque coltellate". Adesso i carabineros hanno l'ordine di irrompere nelle case senza aspettare che siano gli occupanti ad aprire gentilmente la porta o che compaia, appeso alla finestra, un cadavere con i segni di trentacinque coltellate; ma la strada da fare è ancora molta. Per non parlare delle percosse ai bambini! Sui giornali si legge in continuazione di piccini torturati o morti a causa delle botte dei genitori. Secondo la Banca Interamericana per lo Sviluppo, l'America Latina è una delle regioni più violente del mondo, la seconda dopo l'Africa. La violenza sociale nasce nelle famiglie; è impossibile eliminare la criminalità dalle strade senza prima mettere fine ai soprusi domestici, perché i bambini vittime di maltrattamenti diventano spesso adulti violenti. Oggi se ne parla – il problema è denunciato dalla stampa, esistono centri d'accoglienza e programmi di rieducazione e la polizia garantisce una protezione alle vittime –, ma allora l'argomento era tabù.

La gente delle baraccopoli possedeva una coscienza di classe e l'orgoglio di appartenere al proletariato: questo mi sembrò sorprendente, in una società arrivista come quella cilena. Poi scoprii che l'arrivismo appartiene alla classe media; i poveri non sanno neppure cosa sia, sono troppo occupati a cercare di sopravvivere. Negli anni successivi queste comunità acquisirono una coscienza politica, si organizzarono e divennero terreno fertile per i partiti della sinistra. Dieci anni più tardi, nel 1970, si rivelarono determinanti per l'elezione di Salvador Allende, e per questa ragione i poveri furono vittime della repressione più feroce durante la dittatura militare.

Mi dedicai al giornalismo molto seriamente, anche se i miei colleghi pensavano che mi inventassi i servizi. Non me li inventavo, mi limitavo a calcare un po' la mano. Conservo ancora qualche mania legata a quella professione: vado in giro a caccia di notizie e di storie, sempre con una matita e un taccuino nella borsa, per annotarmi quello che mi sembra interessante. Ciò che ho imparato allora mi serve oggi per scrivere: capacità di lavorare sotto pressione, di condurre un'intervista, di svolgere un'indagine, di esprimermi con proprietà di linguaggio. Non dimentico mai che il libro, di per se stesso, non rappresenta un fine, così come un giornale o una rivista, ma è solo un mezzo di comunicazione. Per questo cerco di coinvolgere chi legge e di mantenere vivo il suo interesse fino all'ultimo capitolo. Non sempre ci riesco, ovviamente, perché il lettore tende a distrarsi.

Ma chi è questo lettore? Quando i nordamericani arrestarono a Panama il generale Noriega, ormai caduto in disgrazia, aveva con sé due libri: la Bibbia e La casa degli spiriti. Nessuno scrittore sa per chi scrive. Ogni libro è come un messaggio in una bottiglia, affidato al mare con la speranza che raggiunga l'altra costa. Mi sento molto riconoscente quando qualcuno lo trova e lo legge, specialmente qualcuno come il generale Noriega.

Nel frattempo lo zio Ramón fu nominato rappresentante del Cile alle Nazioni Unite, a Ginevra. Lo scambio di corrispondenza tra me e mia madre era più veloce di quando viveva in Turchia, e ogni tanto potevamo sentirci per telefono. Quando nostra figlia Paula aveva un anno e mezzo, mio marito vinse una borsa di studio in ingegneria, in Belgio. Sulla carta geografica Bruxelles sembrava molto vicina a Ginevra e non volli perdere l'occasione di vedere i miei. Venendo meno alla mia promessa di mettere radici e di non andarmene mai più, facemmo le valigie e partimmo per l'Europa. Fu un'ottima decisione, anche perché mi fu possibile studiare radio e televisione e migliorare il francese, che non parlavo dai tempi del Libano. Durante quell'anno scoprii il Movimento per la liberazione della donna e capii di non essere l'unica strega sulla terra; eravamo parecchie.

Pochi in Europa avevano sentito parlare del Cile; il paese diventò di moda quattro anni più tardi, con l'elezione di Salvador Allende. Tornò sulla bocca di tutti con il golpe militare del 1973, con la sequela di violazioni dei diritti umani e più recentemente con l'arresto dell'ex dittatore a Londra, nel 1998. Tutte le volte che i giornali parlano del Cile è per qualche avvenimento politico di rilievo, a parte quando è brevemente ricordato dalla stampa per qualche terremoto. A chi mi chiedeva da dove venissi, dovevo fornire lunghe spiegazioni e disegnare una carta per dimostrare che il Cile non si trova al centro dell'Asia, ma in Sud America. La gente confondeva spesso il Cile con la Cina, perché il nome suona più o meno uguale. I belgi, abituati all'idea delle colonie in Africa, si stupivano che mio marito sembrasse inglese e che io non fossi negra; ogni tanto mi domandavano perché non mi vestivo con il costume tipico. Penso si riferissero ai vestiti che Carmen Miranda indossava nei film di Hollywood: gonna a pois e un cesto di ananas in testa. Visitammo l'Europa dalla Scandinavia al Sud della Spagna con una Volkswagen scassata, dormendo in tenda e mangiando salsicce, carne di cavallo e patate fritte. Fu un anno di turismo frenetico.

Rientrammo in Cile nel 1966, con nostra figlia Paula, che a tre anni parlava con la proprietà di un accademico ed era diventata un'esperta di cattedrali, e con Nicolas in grembo. Paragonato all'Europa – dove vedevamo hippy capelloni ovunque, dove covavano le ribellioni studentesche e si sbandierava la liberazione sessuale –, il Cile era piuttosto grigio. Ancora una volta mi sentii forestiera, ma mi ripromisi nuovamente di piantare radici e non muovermi più.

Dopo la nascita di Nicolas ripresi a lavorare, questa volta per una rivista femminile appena lanciata sul mercato, "Paula". Era l'unico giornale che promuoveva la causa femminista e si occupava di argomenti mai discussi prima, come il divorzio, gli anticoncezionali, gli abusi domestici, l'adulterio, l'aborto, la droga, la prostituzione. Considerando che a quei tempi non si poteva pronunciare la parola cromosoma senza arrossire, noi eravamo di un'audacia suicida.

Il Cile è un paese bigotto, pudico e pieno di tabù riguardo alla sessualità, esiste persino un'espressione creola per definire il nostro atteggiamento: siamo cartuchos. La morale cilena è duplice, perché la libertà sessuale maschile è tollerata, mentre le donne devono fingere di non essere interessate al sesso e far credere che per loro contino solo l'amore e i sentimenti, anche se in realtà godono della stessa libertà degli uomini, altrimenti questi con chi lo farebbero? Le ragazze non devono prendere parte attiva nel processo di seduzione, devono farlo di nascosto. Si pensa che se una ragazza fa la "preziosa" l'interesse da parte del pretendente si mantenga vivo e che questi la rispetti, mentre esistono una serie di epiteti poco eleganti per definire le fanciulle che si comportano altrimenti. Si tratta di un'ulteriore manifestazione della nostra ipocrisia, un altro dei nostri espedienti per salvare le apparenze, perché in realtà in Cile esistono adulteri, adolescenti incinte, figli concepiti al di fuori del matrimonio e aborti, come in qualunque altro paese. Un'amica ginecologa, specializzata nel seguire gravidanze di ragazze madri, assicura che questi casi sono rarissimi tra le universitarie. Sono cose che capitano nelle famiglie meno abbienti, dove i genitori si preoccupano di garantire un maggior livello di educazione e opportunità ai figli maschi piuttosto che alle femmine. Queste ragazze non hanno progetti, le attende un futuro nero, sono prive di cultura e di autostima; certe restano incinte per pura ignoranza. Si meravigliano quando si rendono conto del loro stato, perché hanno rispettato alla lettera l'indicazione di "non andare a letto con nessuno". Quello che fanno in piedi dietro una porta non conta.

Sono trascorsi più di trent'anni da quando la rivista "Paula" prese d'assalto la bigotta società cilena, e nessuno può negare che sortì l'effetto di un uragano. Ogni volta che sulla rivista appariva un servizio polemico, il nonno rischiava un attacco di cuore; discutevamo urlando, ma il giorno dopo tornavo a trovarlo e lui mi riceveva come se nulla fosse accaduto. A quei tempi il femminismo, che oggi diamo per scontato, era considerato una stravaganza, e la maggior parte delle cilene si domandava a cosa servisse, dato che loro si sentivano le regine della casa e trovavano logico che fuori fossero gli uomini a comandare, così come stabilito da Dio e dalla natura. Era dura convincerle che non erano regine di niente. Non erano molte le femministe conosciute, al massimo una mezza dozzina. Preferisco non ripensare a tutti gli attacchi che abbiamo dovuto sopportare! Capii che sperare di essere rispettata dalla gente per essere femminista è come sperare di non essere caricati da un toro perché si è vegetariani. Tornai anche in televisione, questa volta con un programma umoristico che mi rese abbastanza famosa, come capita a tutti quelli che appaiono con regolarità sullo schermo. Improvvisamente tutte le porte si aprirono, la gente mi salutava per strada e per la prima volta in vita mia mi sentii a mio agio in un posto.

13.

IL FASCINO DISCRETO DELLA BORGHESIA

Spesso mi domando in cosa consista esattamente la nostalgia. Per quanto mi riguarda, non si tratta tanto del desiderio di tornare in Cile, quanto di recuperare la sicurezza con cui mi muovevo nel mio territorio. Ogni popolo ha le sue abitudini, manie, complessi. Conosco come il palmo della mia mano le idiosincrasie dei cileni, nulla mi sorprende, sono in grado di prevedere le reazioni degli altri, conosco il significato dei gesti, dei silenzi, capisco quali sono le frasi di cortesia, gli atteggiamenti ambigui. Solo in Cile mi sento socialmente a mio agio – anche se di rado agisco come gli altri si aspettano – perché so come devo comportarmi e raramente mi vengono meno le buone maniere.

Quando a quarantacinque anni e con un recente divorzio alle spalle emigrai negli Stati Uniti seguendo il mio istinto, fui subito colpita dall'atteggiamento inequivocabilmente ottimista dei nordamericani, così diverso da quello della gente del Sud del continente, sempre in attesa che accada una disgrazia, che puntualmente accade. Negli Stati Uniti la Costituzione garantisce al cittadino il diritto alla felicità, cosa che in qualunque altro posto suonerebbe come una indisponente presunzione. Questo popolo crede anche di avere il diritto di divertirsi sempre e, se uno di questi diritti viene meno, si sente frustrato. Il resto del mondo, invece, sa che la vita è generalmente dura e noiosa, perciò si rallegra per i brevi attimi di felicità e per i momenti piacevoli, quando capitano.

In Cile è quasi scortese dichiararsi troppo soddisfatti, perché ciò potrebbe infastidire i meno fortunati, quindi da noi la risposta corretta alla domanda "come stai?" è "così così". Questo offre la base per simpatizzare con la situazione altrui. Per esempio, se l'interlocutore confida che gli è stata appena diagnosticata una malattia terminale, sarebbe di pessimo gusto sbandierare la propria felicità, no? Ma se questi racconta di avere appena sposato una ricca ereditiera, allora si è liberi di manifestare la propria gioia, senza pericolo di ferire nessuno. Ecco cosa significa quel "così così", che solitamente confonde un po' gli stranieri: serve a prendere tempo per tastare il terreno ed evitare passi falsi. I sociologi affermano che il quaranta per cento dei cileni soffre di depressione, soprattutto le donne, che devono sopportare gli uomini. Bisogna anche considerare – come ho detto prima – che nel nostro paese accadono enormi disgrazie e che gran parte della popolazione vive in povertà, perciò non è elegante ostentare la propria fortuna. Un mio parente aveva vinto due volte il primo premio alla lotteria, ma rispondeva sempre che stava "così così", per non offendere gli altri. Tanto per la cronaca, vale la pena raccontare come accadde quel miracolo. Quell'uomo era molto cattolico e quindi non aveva voluto mai sentir parlare di contraccettivi. Dopo la nascita del settimo figlio si recò in chiesa, si inginocchiò davanti all'altare e, in preda alla disperazione, si rivolse a Dio da pari a pari: "Signore, se mi hai mandato sette bambini, potresti anche darmi una mano a sfamarli!" esclamò, tirando subito fuori dalla tasca una lunga lista di spese che aveva annotato con cura. Dio ascoltò pazientemente le ragioni del suo servo fedele e di lì a poco gli rivelò in sogno il numero vincente della lotteria. Il denaro gli bastò per diversi anni, ma l'inflazione, che ai quei tempi in Cile era un. male endemico, ridusse il capitale nella stessa misura in cui crebbe la famiglia. Quando nacque l'ultimo dei suoi figli, l'undicesimo, l'uomo tornò in chiesa a esporre la situazione e Dio si impietosì ancora e gli inviò un altro sogno premonitore. La terza volta non funzionò.

Nella mia famiglia la felicità aveva poca importanza. I miei nonni, come la maggior parte dei cileni, si sarebbero meravigliati nel sapere che esiste gente disposta a spendere soldi in analisi per superare i momenti difficili. Per loro la vita era dura e tutto il resto erano sciocchezze. Motivo di soddisfazione erano la lealtà, la famiglia, l'onore, l'abnegazione, lo studio e la propria forza. La felicità era presente in diverse forme nelle nostre vite e credo che l'amore non fosse l'ultimo in ordine d'importanza; però non se ne parlava, potevamo morire dalla vergogna piuttosto che pronunciare quella parola. I sentimenti scivolavano silenziosi. Al contrario della maggior parte dei cileni, in casa nostra il contatto fisico era ridotto al minimo e nessuno coccolava i bambini. A quei tempi non esisteva la moderna abitudine di elogiare tutto quello che fanno i piccoli come se fosse una cosa meravigliosa e non si viveva con la preoccupazione di farli crescere senza traumi. Meno male, perché se fossi cresciuta protetta e felice ora non avrei nulla da raccontare. Per questo ho cercato di rendere il più difficile possibile l'infanzia dei miei nipoti, perché diventassero adulti creativi, ma i loro genitori non apprezzano minimamente i miei sforzi.

L'aspetto fisico nella mia famiglia non contava; mia madre giura di aver scoperto di essere carina solo dopo i quarant'anni, perché prima nessuno glielo aveva mai detto. Da questo punto di vista eravamo particolarmente originali, visto che in Cile l'immagine che si dà di se stessi è tutto. Il primo commento che si scambiano due donne appena s'incontrano riguarda l'abito, l'acconciatura o la dieta. Le uniche osservazioni che gli uomini esprimono sulle donne – alle loro spalle, ovviamente – riguardano l'aspetto fisico, e in linea generale avvengono in termini piuttosto pesanti, senza sospettare che le signore li ripagano con la stessa moneta. I commenti delle mie amiche sugli uomini farebbero arrossire anche un sasso. Nella mia famiglia era considerato di cattivo gusto anche parlare di religione e soprattutto di soldi, mentre le malattie erano praticamente l'unico argomento di conversazione; è il tema più in voga tra i cileni. Siamo esperti nello scambiarci medicine e consigli specialistici, in Cile tutti prescrivono. Diffidiamo dei medici, perché è evidente che a loro non conviene che una persona goda di buona salute, e ricorriamo a loro solo dopo aver provato tutte le medicine che ci hanno consigliato amici e conoscenti. Mettiamo il caso che un poveretto svenga davanti all'entrata del supermercato. In qualunque altro paese si chiamerebbe l'ambulanza, ma non in Cile, dove un paio di volontari lo sollevano di peso, lo sistemano dietro al bancone, gli versano acqua fredda in faccia e gli fanno ingurgitare grappa per farlo riprendere; poi lo costringono a inghiottire certe pastiglie che una signora ha tirato fuori dalla borsa, perché ha un'amica che "sviene sempre e questa medicina le fa benissimo". Ed ecco un coro di specialisti che formulano una diagnosi sul suo stato di salute con grande padronanza del linguaggio scientifico, perché ogni cittadino con un po' di cervello possiede una bella infarinatura di medicina. Uno degli specialisti dichiarerà, per esempio, che il paziente ha sofferto di un'ostruzione di una valvola cerebrale, ma subito si farà avanti un altro che sospetta una duplice torsione polmonare e un terzo che diagnosticherà lo spappolamento del pancreas. Nel giro di pochi minuti attorno al poveretto si creerà una confusione incredibile, e nel frattempo arriverà qualcuno che era andato in farmacia a comprare la penicillina per fargli un'iniezione, tanto per non correre rischi. Agli stranieri consiglio di non svenire in un supermercato cileno, potrebbe rivelarsi un'esperienza fatale.

L'abitudine di prescrivere medicamenti è tanto diffusa che durante una crociera nel Sud del paese, diretti verso la meravigliosa Laguna di San Rafael, ci somministrarono un sonnifero con il dolce. All'ora di cena il capitano annunciò che dovevamo affrontare un tratto di mare particolarmente agitato, poi sua moglie passò fra i tavoli a distribuire delle pastiglie sfuse delle quali nessuno osò chiedere il nome. Le inghiottimmo senza fiatare. Venti minuti dopo tutta la nave dormiva della grossa, come nella fiaba della Bella Addormentata. Secondo mio marito negli Stati Uniti avrebbero denunciato il capitano e la moglie con l'accusa di avere narcotizzato i passeggeri. In Cile gliene fummo grati.

Un tempo, appena due o tre persone si incontravano cominciavano immancabilmente a discutere di politica. Se in una stanza c'erano due cileni, di certo c'erano tre partiti. Per un certo periodo ci furono più di una dozzina di mini partiti socialisti; persino la destra, che nel resto del mondo è monolitica, da noi era divisa. Comunque sia, ora la politica non interessa più e se ne parla solo per lamentarsi del governo, una delle attività nazionali più diffuse. Ormai non si vota più con devozione, come ai tempi in cui arrivava anche (a gente moribonda in barella per adempiere al proprio dovere civico; non capitano nemmeno più, come prima, casi di donne che partoriscono nei seggi. I giovani non si iscrivono nei registri elettorali, l'84,3 per cento pensa che i partiti politici non rappresentino i loro interessi e una percentuale ancora maggiore si dichiara felice di non prendere assolutamente parte alla vita politica del paese. A quanto pare si tratta di un fenomeno tipico del mondo occidentale. Ai giovani non interessano le strategie politiche fossilizzate, che si trascinano dal XIX secolo; pensano a divertirsi e a prolungare l'adolescenza il più possibile, diciamo fino ai quaranta o cinquant'anni. Ma non siamo ingiusti, esiste anche una percentuale di militanti nel settore dell'ecologia, della scienza e della tecnologia e mi è persino giunta voce di qualcuno che svolge attività sociale tramite la Chiesa.

Gli argomenti che si sono sostituiti alla politica nei discorsi quotidiani dei cileni sono il denaro, che manca sempre, e il calcio, che serve per consolarsi. Anche l'ultimo degli analfabeti conosce i nomi di tutti i giocatori che hanno preso parte alla nostra storia calcistica e si è fatto un'opinione su ciascuno di loro. Questo sport è talmente seguito che durante una partita le strade sono deserte, perché l'intera popolazione si trova in stato catatonico davanti alla televisione. Il calcio è una delle poche attività umane che dimostrano la relatività del tempo: è possibile congelare il portiere in aria per mezzo minuto, ripetere diverse volte la stessa scena al rallentatore o mandarla indietro e, grazie al fuso orario, vedere a Santiago una partita tra ungheresi e tedeschi prima ancora che venga disputata.

In casa nostra, come nel resto del paese, non esisteva il dialogo; le riunioni consistevano in una serie di monologhi simultanei, in cui nessuno ascoltava nessuno, pura confusione priva di interscambio, come una trasmissione radio a onde corte. Niente importava, perché a nessuno interessava sapere cosa pensassero gli altri, ma solo raccontare la propria storia. Da anziano il nonno si era rifiutato di portare un apparecchio acustico, perché pensava che l'unica cosa positiva della vecchiaia fosse che non si è più costretti ad ascoltare le sciocchezze degli altri. Proprio come dichiarò in modo eloquente il generale César Mendoza nel 1983: "Stiamo abusando del dialogo. Ci sono casi in cui il dialogo non è necessario. È più utile un monologo, perché un dialogo non è altro che una conversazione tra due persone". La mia famiglia sarebbe stata pienamente d'accordo con lui.

Noi cileni abbiamo la tendenza a parlare in falsetto. Mary Graham, un'inglese che visitò il paese nel 1822, nel suo libro Diario della mia permanenza in Cile scrisse che la gente è adorabile, ma ha una voce sgradevole, soprattutto le donne. Inoltre ci mangiamo metà delle parole, aspiriamo la "s" e cambiamo le vocali, così, per esempio, "¿Cómo estàs, pues?" diventa "com tai puh" e la parola "señor" può diventare "iñol". Esistono almeno tre registri linguistici: quello erudito, dei mezzi di comunicazione, degli affari ufficiali e adottato da certi membri della classe alta quando non sono in confidenza; quello colloquiale, diffuso tra il popolo, e il gergo dei giovani, indecifrabile e costantemente in evoluzione. I turisti non devono disperare perché, anche se non capiscono una parola, la gente farà di tutto per aiutarli. Inoltre noi cileni parliamo a bassa voce e sospiriamo continuamente. Quando vivevo in Venezuela, dove uomini e donne sono più sicuri di loro stessi e delle loro possibilità, mi bastava un'occhiata per riconoscere i miei compatrioti, che si muovevano come spie in incognito e parlavano come se dovessero sempre scusarsi. Tutte le mattine andavo nella panetteria di certi portoghesi per prendere il primo caffè della giornata. Nel locale c'era sempre una folla frettolosa di clienti che lottava per avvicinarsi al banco. I venezuelani gridavano dalla porta: "Un caffellatte, grazie!" e quasi subito il bicchiere di carta con il caffellatte arrivava, dopo essere passato di mano in mano. Noi cileni, che a quell'epoca eravamo parecchi perché il Venezuela è stato uno dei pochi paesi dell'America Latina ad accogliere rifugiati e immigranti, alzavamo timorosi l'indice e supplicavamo con un filo di voce: "Per favore, signore, mi preparerebbe gentilmente un cafferino?". Potevamo attendere invano per tutta la mattina. I venezuelani ci prendevano in giro per il nostro modo di fare da perditempo, mentre noi cileni eravamo intimoriti dalla loro rudezza. Chi di noi ha vissuto diversi anni in quel paese ha cambiato il suo carattere e ha imparato a gridare per chiedere il caffè.

Dopo aver messo in luce alcuni lati del carattere e delle abitudini dei cileni, è facile comprendere la perplessità di mia madre: non si capisce come io abbia fatto a nascere così. Non ho niente in comune con il decoro, la modestia o il pessimismo dei miei parenti, con il loro timore del giudizio altrui, degli sprechi e di Dio. Io non uso diminutivi, né quando parlo né quando scrivo, sono piuttosto magniloquente e mi piace farmi notare. O meglio, così sono adesso, dopo aver vissuto parecchio. Da bambina ero uno strano animaletto, da adolescente un timido roditore – per parecchi anni il mio soprannome è stato laucha, come definiamo gli insulsi topolini domestici –, in gioventù ero un po' tutto, da iraconda femminista a hippy figlia dei fiori. Il mio difetto più grave è che spiffero i segreti miei e altrui. Insomma, sono un disastro. Se vivessi in Cile nessuno mi rivolgerebbe la parola. Ma una cosa devo dirla, sono ospitale. Almeno questa virtù sono riusciti a inculcarmela da bambina. Se qualcuno bussa alla mia porta, a qualunque ora del giorno o della notte , io arrivo di corsa, anche se mi sono appena rotta una gamba, per accogliere l'ospite e offrirgli una "tazzina di tè". Per il resto sono l'opposto della signora che i miei genitori, con grandi sacrifici, hanno cercato di formare. Non è stata colpa loro, semplicemente mancava la materia prima, e inoltre il destino mi ha condotto altrove.

Se fossi rimasta in patria, come mi riproponevo sempre, e avessi sposato uno dei miei cugini di. secondo grado, ammesso e non concesso che uno di loro me lo avesse chiesto, forse oggi sarei fiera di sentirmi scorrere il sangue degli antenati nelle vene e magari lo stemma con i cani pulciosi di mio padre sarebbe appeso da qualche parte in casa mia. Devo dire, però, che per quanto ribelle, ho mantenuto le rigide buone maniere che mi sono state impresse a fuoco, come si conviene a una persona "perbene". Essere una persona perbene era fondamentale per la mia famiglia. Questo termine significava molto più di ciò che potrei spiegare in queste pagine, ma posso dire che le buone maniere giocavano senza dubbio un ruolo importante nel presunto decoro.

Mi sto perdendo e devo riprendere il filo, ammesso che un filo esista in questa divagazione. Così è la nostalgia: una lenta danza circolare. I ricordi non sono organizzati in ordine cronologico, sono come il fumo, così mutevoli ed effimeri che se non si scrivono si dimenticano. Cerco di ordinare queste pagine per argomento, o per epoca, però mi sembra quasi artificioso, perché la memoria va e viene, come un interminabile nastro di Möbius.

14.

UN SALTO NELLA STORIA

Visto che stiamo parlando di nostalgia, vi prego di essere pazienti, perché non posso prescindere dalla storia del Cile per narrare la mia vita. La mia esistenza è fatta di passioni, sorprese, successi e sconfitte; non è semplice condensarla in due o tre frasi. Penso che nella vita di ognuno capitino momenti in cui la fortuna ci volta le spalle o le cose cambiano e bisogna imboccare un altro cammino. In vita mia è capitato diverse volte, ma probabilmente uno degli episodi più decisivi è stato il golpe militare del 1973. Se non fosse stato per questo episodio, sicuramente non avrei mai lasciato il Cile, non sarei una scrittrice e non vivrei in California, sposata con un americano; non mi accompagnerebbe neppure questa grande nostalgia e oggi non scriverei queste pagine. Ciò mi conduce inevitabilmente alla politica. Per spiegare come avvenne il colpo di stato, devo accennare brevemente alla nostra storia, dal principio fino al governo del generale Augusto Pinochet, che oggi è un vecchio agli arresti domiciliari, ma la cui importanza non possiamo ignorare. Certi storici lo considerano la figura politica più singolare del secolo, anche se questo non è necessariamente un giudizio positivo.

In Cile il pendolo della politica è sempre oscillato da un estremo all'altro. Abbiamo sperimentato ogni possibile forma di governo e ne abbiamo pagato le conseguenze. Non è strano, quindi, che in Cile si concentrino più saggisti e storici per metro quadrato che in qualunque altro paese del mondo. Noi ci studiamo all'infinito; abbiamo il vizio di analizzare la nostra realtà come se fosse un problema permanente che richiede soluzioni urgenti. I cervelloni che si consumano gli occhi sui libri a forza di studiare sono degli ermetici noiosi e non si capisce neanche una parola di quello che dicono, perciò nessuno bada molto a loro. Ma questo non li scoraggia, anzi, ogni anno pubblicano centinaia di trattati accademici, tutti molto pessimisti. In Cile il pessimismo è di buon gusto, si pensa che solo gli idioti siano contenti. Siamo un paese in via di sviluppo, il più stabile, sicuro e prospero dell'America Latina, nonché uno dei più organizzati, ma ci irrita sentir dire che "il paese va benissimo". Chiunque osi affermare una cosa del genere sarà considerato un ignorante che non legge i giornali.

A partire dall'indipendenza del 1810, il Cile è sempre stato dominato dalla classe sociale che deteneva il potere economico. Un tempo erano proprietari terrieri, oggi sono imprenditori, industriali, banchieri. Allora appartenevano a una piccola oligarchia di discendenza europea, composta da una ristretta cerchia di famiglie; oggi la classe dirigente è più numerosa, è formata da diverse migliaia di persone. Nel corso dei primi cent'anni della repubblica i presidenti e i politici provenivano dalla classe alta, ma in seguito anche la classe media entrò a far parte del governo. Pochi, comunque, appartenevano al proletariato. I presidenti dotati di coscienza sociale furono uomini commossi dalle disuguaglianze, dalle ingiustizie e dalla miseria del popolo, anche se non le sperimentarono in prima persona.

Attualmente il presidente e la maggior parte dei politici, eccetto alcuni della destra, non appartengono al gruppo economico che controlla realmente il paese. In questo momento il paradosso consiste nel fatto che il Cile è governato da una coalizione di partiti di centro e di sinistra (Concertación), con un presidente socialista, ma è retto da un'economia di stampo neocapitalista.

L'oligarchia conservatrice governò il paese con mentalità feudale fino al 1920. Unica eccezione fu nel 1891 il presidente liberale José Manuel Balmaceda, il quale intuì quali fossero le necessità del popolo e cercò di varare alcune riforme che intaccassero gli interessi dei proprietari terrieri, nonostante lui stesso provenisse da una potente famiglia di latifondisti. Il parlamento conservatore si oppose con ferocia, scoppiò una profonda crisi sociale e politica, intervenne la Marina per appoggiare il parlamento e fu l'inizio di una cruenta guerra civile, che si concluse con la vittoria del parlamento e il suicidio di Balmaceda. Tuttavia, il germe dell'ideologia socialista si era ormai diffuso e nel corso degli anni successivi apparvero sulla scena il Partito radicale e quello comunista.

Nel 1920 fu eletto per la prima volta un Caudillo che predicava la giustizia sociale, Arturo Alessandri Palma, detto "il Leone", un immigrato italiano di seconda generazione che apparteneva alla classe media. Malgrado la sua famiglia non fosse ricca, grazie alla discendenza europea e al livello di cultura ed educazione rientrava a pieno titolo nella classe dirigente. Promulgò decreti di carattere sociale e, durante il suo governo, i lavoratori si organizzarono e furono ammessi nei partiti politici. Alessandri propose una modifica della Costituzione, allo scopo di instaurare una vera e propria democrazia, ma le forze conservatrici dell'opposizione glielo impedirono, nonostante la maggioranza dei cittadini, soprattutto quelli appartenenti alla classe media, lo appoggiasse. Il parlamento (ancora il parlamento!) gli rese la vita difficile, gli impose di rinunciare alla carica e lo condannò all'esilio in Europa. Successive giunte militari tentarono di assumere il controllo, ma il paese piombò nella confusione e la volontà popolare impose il rientro del Leone, che concluse il suo mandato promulgando una nuova Costituzione.

Le Forze Armate, che si sentivano escluse dal potere e che, dopo le vittorie conseguite nelle guerre del XIX secolo, pensavano che il paese fosse in debito nei loro confronti, imposero con la forza la presidenza del generale Carlos Ibáñez del Campo. Nel giro di poco tempo Ibáñez adottò misure dittatoriali fino ad allora sconosciute in Cile, e questo sollevò una tale opposizione civile che il paese restò paralizzato e il generale dovette rinunciare alla carica. Cominciò allora un periodo che potremmo definire di sana democrazia. Si formarono alleanze tra i partiti e la sinistra salì al potere con il presidente Pedro Aguirre Cerda del Frente Popular, formato dal Partito comunista e da quello radicale. Al termine del mandato di Pedro Aguirre Cerda, lo sconfitto Ibáñez si unì alle forze di sinistra, e al governo si succedettero tre presidenti radicali. (Anche se io a quei tempi ero una ragazzina, ricordo che quando Ibáñez fu eletto per la seconda volta la mia famiglia era afflitta. Dal mio nascondiglio sotto il pianoforte ascoltavo le previsioni apocalittiche del nonno e degli zii; trascorsi intere notti insonni, certa che l'esercito del nemico avrebbe raso al suolo la casa. Non accadde niente del genere. Il generale aveva imparato la lezione e si mantenne nei limiti della legge.) Per vent'anni si succedettero governi di centrosinistra, fino al 1958, con il trionfo della destra di Jorge Alessandri, figlio del Leone, ma totalmente diverso dal padre. Il Leone era populista, aveva idee all'avanguardia per i suoi tempi ed era dotato di enorme carisma; il figlio era conservatore e la sua immagine pubblica era piuttosto quella di un pusillanime.

Quando nella maggior parte degli altri paesi dell'America Latina scoppiavano le rivoluzioni e i caudillos salivano al potere con la forza, in Cile si consolidava una democrazia modello. Nella prima metà del XX secolo i progressi in campo sociale si concretarono. L'educazione statale gratuita e obbligatoria, il sistema sanitario alla portata di tutti e uno dei meccanismi di previdenza sociale più progrediti del continente rafforzarono una vasta classe media, educata e politicizzata, e un proletariato dotato di coscienza di classe. Si formarono sindacati di operai, impiegati e studenti. Le donne ottennero il diritto di voto e il sistema elettorale fu perfezionato. (In Cile un'elezione si svolge nello stesso clima di civiltà dell'ora del tè all'Hotel Savoy di Londra. I cittadini si mettono in coda per votare e, anche se gli animi sono accalorati, non si verifica mai il benché minimo alterco. Uomini e donne votano in locali separati, sotto il controllo dei militari, per evitare disordini e bustarelle. Dal giorno precedente è proibita la vendita di alcolici e i negozi e gli uffici restano chiusi. Quel giorno non si lavora.)

La preoccupazione per la giustizia sociale interessò anche la Chiesa cattolica – molto influente in Cile –, che sulla base delle nuove encicliche compì grandi sforzi per sostenere i cambiamenti che si erano verificati nel paese. Frattanto nel mondo si affermavano due sistemi politici opposti: capitalismo e socialismo. Per tenere testa al marxismo, in Europa si formò la Democrazia cristiana, un partito del centro che diffondeva un messaggio umanitario e sociale. In Cile, dove prometteva una "rivoluzione in libertà", la Democrazia cristiana stravinse le elezioni del 1964, sconfiggendo la destra conservatrice e i partiti di sinistra. La schiacciante vittoria di Eduardo Frei Montalva, con una maggioranza della Democrazia cristiana in parlamento, segnò una svolta; il paese era cambiato, si pensava che la destra sarebbe finita nel dimenticatoio, che la sinistra non avrebbe avuto altre possibilità e che la Democrazia cristiana avrebbe governato nei secoli dei secoli. Ma non fu così e, nel giro di pochi anni, il partito perse il consenso del popolo; la destra non era stata annientata, come dicevano le previsioni, e la sinistra, ripresasi dalla sconfitta, si riorganizzò. Le forze erano divise in tre settori: destra, centro e sinistra.

Al termine del mandato di Frei Montalva il paese era in preda alla frenesia. La destra, espropriata dei suoi beni, temeva di perdere definitivamente il potere e voleva la rivincita; il proletariato, che non si sentiva rappresentato dalla Democrazia cristiana, covava un forte risentimento. Ogni settore presentò un candidato: Jorge Alessandri per la destra, Radomiro Tomic per la Democrazia cristiana e Salvador Allende per la sinistra.

I partiti della sinistra si coalizzarono nell'Unidad Popular, che comprendeva anche il Partito comunista. Questo fatto – nonostante i sondaggi prevedessero la vittoria della destra – destò la preoccupazione degli Usa, che investirono diversi milioni di dollari per organizzare l'opposizione ad Allende. Le forze politiche erano talmente divise che Allende, con il suo progetto della "via cilena al socialismo", vinse con un margine ristretto: il trentotto per cento dei voti. Visto che non aveva ottenuto la maggioranza assoluta, il parlamento dovette ratificare l'elezione. Per tradizione la vittoria andava al candidato che otteneva più voti. Allende fu il primo marxista eletto presidente con una votazione democratica. Gli occhi del mondo erano puntati sul Cile.

Salvador Allende Gossens era un medico di grande carisma. Era stato ministro della Sanità in gioventù, senatore per molti anni ed eterno candidato di sinistra alla presidenza. Lui stesso scherzava dicendo che sulla sua lapide avrebbero scritto: "Qui giace il prossimo presidente del Cile". Era coraggioso, leale con amici e collaboratori, magnanimo con gli avversari. Era considerato vanitoso per il suo abbigliamento e veniva criticato perché amava la bella vita e le belle donne, ma quanto alle sue convinzioni politiche era molto serio; a questo proposito non può essere accusato di frivolezza. I suoi nemici preferivano non trattare direttamente con lui, perché aveva fama di volgere ogni situazione a proprio vantaggio. Mirava a realizzare significative riforme economiche nell'ambito della Costituzione, a estendere la riforma agraria avviata dal precedente governo, a statalizzare le imprese private, le banche e le miniere di rame, che allora erano gestite da compagnie nordamericane. Allende si prefiggeva di arrivare al socialismo nel rispetto dei diritti e delle libertà dei cittadini, un esperimento fino ad allora mai tentato.

La rivoluzione cubana durava ormai da dieci anni – malgrado gli sforzi degli Stati Uniti per soffocarla – e in molti paesi dell'America Latina esistevano movimenti armati di sinistra. L'eroe indiscusso dei giovani era Che Guevara, assassinato in Bolivia, il cui ritratto, con il basco e il sigaro, era diventato il simbolo della lotta per la giustizia. Era l'epoca della guerra fredda, quando una psicosi irrazionale divise il mondo tra due ideologie e determinò la politica estera dell'Unione Sovietica e degli Stati Uniti per diversi decenni. Il Cile fu una delle pedine sacrificate in quella guerra fra titani. L'amministrazione di Nixon decise di intervenire direttamente nel processo elettorale cileno. Henry Kissinger, a capo della politica estera, ammetteva di non sapere niente dell'America Latina, da lui considerata come il cortile di servizio degli Usa, e dichiarò che "non era possibile stare a guardare un paese che diventa comunista a causa dell'incoscienza del suo popolo, senza fare qualcosa per evitarlo". (In Sud America circola questa barzelletta: "Sai perché negli Stati Uniti non avvengono i colpi di stato militari?". "Perché non esiste un'ambasciata statunitense.") A Kissinger la via democratica al socialismo di Salvador Allende sembrava più pericolosa della rivoluzione armata, perché poteva diffondersi nel resto del continente come un'epidemia.

La Cia studiò un piano per evitare che Allende fosse eletto presidente. In un primo tempo cercò di corrompere alcuni membri del parlamento affinché non lo votassero e indicessero una seconda elezione cui avrebbero partecipato solo due candidati, Allende e un esponente della Democrazia cristiana sostenuto dalla destra. Poiché il piano fallì, la Cia organizzò il sequestro del capo delle Forze Armate, il generale René Schneider – a opera di un presunto commando di sinistra che in realtà si rivelò neofascista –, con l'intenzione di creare il caos e di provocare un intervento armato. Il generale restò ucciso nello scontro e il piano ottenne l'effetto opposto: un'ondata d'orrore sconvolse il paese e il parlamento conferì all'unanimità la presidenza a Salvador Allende. Da quel momento la destra e la Cia complottarono per rovesciare il governo dell'Unidad Popular, anche a costo di danneggiare l'economia e di spezzare la lunga tradizione democratica del Cile. Attuarono il cosiddetto piano della "destabilizzazione", che consisteva nel taglio dei crediti internazionali, e avviarono una campagna di sabotaggio per provocare la rovina economica e la violenza sociale generalizzata. Contemporaneamente blandivano i militari che, tutto sommato, erano la carta migliore da giocare.

La destra, che in Cile controlla la stampa, organizzò una campagna del terrore, con manifesti di soldati sovietici che strappano i bambini dalle braccia delle madri per portarli nei gulag. Il giorno delle elezioni, nel 1970, quando il trionfo di Allende era ormai scontato, il popolo scese in strada a festeggiare; mai si era vista una manifestazione popolare di tale portata. La destra, vittima della sua stessa propaganda del terrore, si barricò in casa, convinta che i "pezzenti" esaltati avrebbero commesso soprusi di ogni tipo. L'euforia del popolo fu straordinaria – slogan, bandiere, abbracci – ma senza eccessi, e all'alba i manifestanti tornarono a casa senza voce a forza di cantare. Il giorno seguente, davanti alle banche e alle agenzie di viaggi dei quartieri alti, le code erano lunghissime: molta gente ritirava i suoi risparmi e comprava biglietti per fuggire all'estero, convinta che il paese avrebbe seguito il destino di Cuba.

Per esprimere la sua simpatia al governo socialista, giunse in visita Fidel Castro, avvenimento che accrebbe il panico dell'opposizione, soprattutto dopo l'accoglienza in pompa magna riservata al discusso comandante. Il popolo confluì sulla strada che dall'aeroporto conduce al centro di Santiago, organizzato da sindacati, scuole, associazioni di professionisti, partiti politici eccetera, con bandiere, stendardi e bande musicali, oltre all'enorme massa anonima che accorse a vedere lo spettacolo per pura curiosità, con lo stesso entusiasmo con cui, anni dopo, avrebbe ricevuto il papa. La visita del barbuto comandante cubano si prolungò oltre il dovuto: ventotto lunghi giorni, durante i quali visitò in lungo e in largo il paese, accompagnato da Salvador Allende. Credo che tirammo tutti un sospiro di sollievo quando partì; eravamo estenuati, ma non si poteva negare che il suo seguito aveva lasciato l'atmosfera satura di musica e risate; i cubani si rivelarono meravigliosi. Vent'anni dopo ebbi la fortuna di conoscere alcuni esiliati cubani a Miami e scoprii che sono simpatici come gli isolani. Noi cileni, sempre così seri e impettiti, restammo colpiti: non avevamo idea che la vita e la rivoluzione si potessero affrontare con tanta allegria.

L'Unidad Popular era popolare, ma non unita. I partiti della coalizione si contendevano come belve ogni boccone di potere e Allende si trovò ad affrontare non solo l'opposizione della destra, ma anche le critiche sollevate all'interno del suo schieramento da chi esigeva soluzioni più rapide e radicali. I lavoratori occupavano fabbriche e fondi, stanchi di attendere la statalizzazione delle imprese private e l'ampliamento della riforma agraria. Il sabotaggio da parte della destra, l'intervento degli Usa e gli errori del governo di Allende provocarono una grave crisi economica, politica e sociale. L'inflazione raggiunse la soglia ufficiale del trecentosessanta per cento l'anno – anche se l'opposizione assicurava ammontasse a più del mille per cento –, come dire che una massaia si svegliava al mattino senza sapere quanto avrebbe pagato il pane. Il governo bloccò i prezzi dei beni di largo consumo; industriali e agricoltori fallirono. Era tale la carestia che la gente trascorreva ore in fila per un pollo tutt'ossa o una tazza di olio, ma chi poteva permetterselo comprava tutto quello che voleva al mercato nero. I cileni, con la consueta aria sommessa, dicevano che c'era "un pochino di coda", anche se questa era lunga tre isolati, e si mettevano sempre in fila, anche senza sapere cosa si vendesse, per forza d'abitudine. Ben presto tutti furono colti dalla psicosi dell'esaurimento delle scorte e ogni volta che più di tre persone si trovavano insieme si mettevano automaticamente in fila. Fu così che comprai sigarette anche se non ho mai fumato in vita mia, dodici barattoli di lucido da scarpe incolore e un gallone di estratto di soia, che non so neanche a cosa serva. Esistevano professionisti della coda, che prendevano la mancia per tenere il posto; credo che i miei figli arrotondassero la paglietta con questo sistema.

Malgrado i problemi e il clima di perenne all'erta, il popolo era entusiasta, perché per la prima volta sentiva di avere in mano le redini del proprio destino. Si assistette a una vera e propria rinascita delle arti, del folclore, dei movimenti popolari e studenteschi. Masse di volontari si recarono nei posti più sperduti del Cile per insegnare alla gente a leggere e a scrivere; si pubblicavano libri che si vendevano al prezzo di un quotidiano, affinché ogni casa avesse la propria biblioteca. Dal canto suo, la destra del potere economico, la classe alta e parte della classe media, soprattutto le massaie, che soffrivano in prima persona gli effetti del razionamento dei viveri e del disordine, detestavano Allende e temevano che avrebbe governato a vita, come Fidel Castro a Cuba.

Salvador Allende era cugino di mio padre e fu l'unico membro della famiglia Allende che rimase in contatto con la mamma dopo che mio padre se n'era andato. Era molto amico del mio patrigno, perciò ebbi occasione di incontrarlo diverse volte durante la sua presidenza. Anche se non collaborai con il suo governo, quei tre anni dell'Unidad Popular furono indubbiamente i più interessanti della mia vita. Mai mi ero sentita tanto viva e mai, dopo di allora, presi parte così attivamente alla vita sociale o agli avvenimenti di un paese.

Nella prospettiva attuale si può affermare che il progetto economico marxista sia crollato, ma credo che alcuni postulati di Salvador Allende continuino a essere affascinanti, come la ricerca della giustizia e dell'uguaglianza. Si voleva organizzare un sistema che offrisse a tutti le stesse opportunità e creare "l'uomo nuovo", teso al raggiungimento non del profitto personale bensì del bene collettivo. Credevamo possibile cambiate la gente indottrinandola; ci rifiutavamo di vedere che in altri posti, dove si era cercato di imporre il sistema con pugno di ferro, i risultati ottenuti erano molto discutibili. Non si prevedeva ancora il crollo del mondo sovietico. La premessa che la natura umana possa essere suscettibile di cambiamenti tanto radicali ora pare ingenua, ma a quel tempo era la massima aspirazione di molti di noi. Queste idee attecchirono subito in Cile. Le caratteristiche tipiche dei cileni, come la sobrietà, l'avversione per ogni forma di ostentazione, la riluttanza a emergere dalla massa o a farsi notare, la generosità, la tendenza a scendere a patti piuttosto che confrontarsi, l'ossessione per la legalità, il rispetto per l'autorità, la rassegnazione di fronte alla burocrazia e la passione per il dibattito politico, facevano del Cile il luogo ideale per il progetto dell'Unidad Popular. Persino la moda fu influenzata. Nel corso di quei tre anni sulle riviste femminili apparvero modelle con abiti di ordinari tessuti artigianali e scarponcini da lavoro; le camicette si confezionavano con i sacchi della farina sbiancati con il cloro. Io allora curavo la rubrica di arredamento di una rivista e la mia sfida quotidiana era fotografare ambienti accoglienti e piacevoli che richiedevano una spesa minima: lampade ricavate da barattoli, tappeti di canovaccio, mobili di pino dipinti di scuro e invecchiati con il cannello. Li chiamavamo "mobili francescani". L'idea era che chiunque poteva costruirseli in casa con quattro assi e una sega. Erano gli anni d'oro del cosiddetto DFL2, che consentiva di comprarsi una casa di non oltre centoquaranta metri quadrati a un prezzo ridotto e godendo di sgravi fiscali. La maggior parte delle case e degli appartamenti era grande come un garage a due posti; la nostra misurava novanta metri quadrati e ci sembrava un palazzo. Mia madre, che curava la rubrica di cucina della rivista "Paula", doveva inventarsi ricette economiche che si potessero realizzare con i prodotti razionati; considerando che mancava tutto, non poteva di certo esprimere al meglio la sua inventiva. Un'artista peruviana, che visitò il paese durante quel periodo, domandò stupita per quale motivo le cilene si vestissero come lebbrose, vivessero in cucce per cani e mangiassero come fachiri.

Malgrado i molteplici problemi che la popolazione dovette affrontare in quel periodo, dal razionamento dei viveri alla violenza politica, tre anni più tardi, alle elezioni parlamentari del marzo 1973, i voti a favore dell'Unidad Popular aumentarono. Poiché erano falliti tutti i tentativi per rovesciare il governo con boicottaggi e propagande, l'opposizione giocò la carta della cospirazione e provocò il golpe militare. Noi cileni non avevamo idea di cosa significasse, perché avevamo goduto di una lunga e solida democrazia e ci vantavamo di essere diversi da altri paesi del continente – che chiamavamo con disprezzo "repubbliche delle banane" – dove un Caudillo dopo l'altro si impadroniva del potere con la forza. Sostenevamo che da noi questo non sarebbe mai accaduto, perché in Cile persino i soldati erano democratici e nessuno avrebbe mai osato violare la Costituzione. Era pura ignoranza, perché se avessimo dato un'occhiata alla nostra storia avremmo conosciuto più a fondo la mentalità militare.

Facendo le ricerche per il romanzo Ritratto in seppia, scoprii che nel XIX secolo il nostro esercito fu coinvolto in diverse guerre, nelle quali si dimostrò tanto crudele quanto valoroso. Uno degli avvenimenti più famosi della nostra storia fu la presa del Colle di Arica (giugno 1880), durante la guerra del Pacifico contro Perú e Bolivia. Il colle era un alto promontorio inespugnabile – duecento metri di parete a picco sul mare – sul quale si trovavano appostate numerose truppe dell'artiglieria pesante peruviana, nascoste dietro una protezione di sacchi di sabbia lunga tre chilometri e circondate da un campo minato. I soldati cileni si lanciarono all'attacco con i coltelli curvi tra i denti e le baionette innestate nei fucili. Molti caddero sotto i colpi del nemico o saltarono in aria per aver calpestato una mina, ma niente fermò gli altri, che raggiunsero le fortificazioni e si arrampicarono, esaltati dal sangue. Sbudellarono i peruviani a colpi di coltello e baionetta e conquistarono il colle con una prova di coraggio durata solo cinquantacinque minuti; assassinarono gli sconfitti, diedero il colpo di grazia ai feriti e saccheggiarono la città di Arica. Uno dei comandanti peruviani si gettò in mare per non cadere nelle mani dei cileni. L'immagine del valoroso ufficiale che si lancia dalla scogliera in sella al suo destriero nero con i ferri d'oro fa parte della leggenda di quel sanguinoso episodio. La guerra si concluse in seguito con la vittoria cilena nella battaglia di Lima, che i peruviani ricordano come un massacro nonostante i libri di storia cilena affermino che le nostre truppe occuparono ordinatamente la città.

I vincitori scrivono la storia a modo loro. Ogni paese presenta i suoi soldati sotto la luce più favorevole, si tacciono gli errori, si minimizza la crudeltà e dopo la vittoria sono tutti eroi. Dato che siamo cresciuti con l'idea che l'esercito cileno fosse composto da soldati obbedienti agli ordini di ufficiali irreprensibili, fu una sorpresa enorme, quel martedì 11 settembre del 1973, vederli in azione. Agirono tanto selvaggiamente che si disse fossero drogati, proprio come si pensa che gli uomini che conquistarono il Colle di Arica fossero sotto l'effetto della chupilca del diablo, il sorso del diavolo, un esplosivo miscuglio di acquavite e polvere da sparo. Circondarono con i carri armati il Palacio de la Moneda, sede del governo e simbolo della democrazia, e poi lo bombardarono dal cielo. Allende morì all'interno del palazzo; secondo la versione ufficiale si sarebbe suicidato. Ci furono centinaia di morti e migliaia di prigionieri, tanto che gli stadi e persino qualche scuola furono trasformati in carceri, centri di tortura e campi di concentramento. Con il pretesto di liberare il paese da un'ipotetica dittatura comunista che si sarebbe potuta instaurare nel futuro, la democrazia fu rimpiazzata da un regime del terrore che sarebbe durato diciassette anni e avrebbe proiettato la sua ombra per ancora un quarto di secolo.

Sento ancora la paura come un persistente sapore di metallo in bocca.

15.

SANGUE E POLVERE DA SPARO

Per farsi un'idea di cosa sia stato il golpe militare, bisogna immaginare ciò che proverebbe un nordamericano o un inglese se i soldati del suo paese attaccassero in assetto da guerra la Casa Bianca o Buckingham Palace, provocassero la morte di migliaia di cittadini, tra cui il presidente degli Stati Uniti o la regina e il primo ministro britannico, dichiarassero sciolti il congresso o il parlamento per un tempo indefinito, destituissero la Corte Suprema, abolissero la libertà individuale e i partiti politici, sottoponessero a totale censura i mezzi di comunicazione e si prefiggessero di eliminare tutti i dissidenti. Ora immaginate che questi stessi soldati, in preda al fanatismo messianico, detenessero il potere per molto tempo, decisi a estirpare i loro avversari ideologici. Questo accadde in Cile.

L'avventura socialista si concluse tragicamente. La giunta militare presieduta dal generale Augusto Pinochet applicò la dottrina del capitalismo selvaggio, come fu definito l'esperimento neoliberale, ignorando che per funzionare in modo equilibrato è necessaria la presenza di una forza lavoro nel pieno possesso dei suoi diritti. Per sradicare l'ideologia di sinistra e instaurare un capitalismo spietato, si esercitò una feroce repressione. Il Cile non fu un caso isolato, la lunga notte delle dittature oscurò per oltre un decennio buona parte del continente. Nel 1975 la metà dei sudamericani viveva all'ombra di qualche tipo di governo repressivo, molti dei quali appoggiati dagli Usa, primi al mondo nel rovesciare governi eletti da altri popoli e nell'appoggiare dittature che a casa loro non sarebbero mai tollerate, come quella di Papa Doc a Haiti, di Trujillo nella Repubblica Dominicana, di Somoza in Nicaragua e altre ancora.

Mi rendo conto di non essere obiettiva nel descrivere questi avvenimenti. Dovrei esporli in maniera imparziale, ma ciò significherebbe tradire le mie convinzioni e i miei sentimenti. Questo libro non vuole essere un resoconto politico o storico, ma una raccolta di ricordi, che sono sempre selettivi e portano il segno dell'esperienza e delle ideologie personali.

La prima parte della mia vita si concluse quell'11 settembre del 1973. Non voglio dilungarmi troppo, perché ne ho già parlato negli ultimi capitoli del mio primo romanzo e in Paula. La famiglia Allende, o per meglio dire i membri della famiglia che non erano morti, prigionieri o passati alla clandestinità, partì per l'esilio. I miei fratelli, che si trovavano all'estero, non rientrarono. I miei genitori, allora ambasciatori in Argentina, si trattennero per qualche tempo a Buenos Aires, fino a quando furono minacciati di morte e dovettero fuggire. La famiglia di mia madre, invece, era per la maggior parte nemica acerrima dell'Unidad Popular e molti dei miei parenti brindarono al golpe militare con champagne. Il nonno detestava il socialismo e attendeva con ansia la caduta del governo di Allende, ma non avrebbe mai voluto che ciò accadesse a spese della democrazia. Rabbrividiva vedendo i militari al potere, li disprezzava, e mi ordinò di non mettermi nei guai; ma era impossibile non lasciarmi coinvolgere da quello che stava accadendo. Erano mesi che il nonno mi teneva d'occhio e mi rivolgeva domande insidiose, credo sospettasse che da un momento all'altro sua nipote si sarebbe dileguata. Quanto sapeva di ciò che accadeva attorno a lui? Viveva isolato, quasi non usciva di casa e il suo unico contatto con la realtà era la stampa, che occultava le notizie e mentiva. Forse l'unica che gli presentava l'altra faccia della medaglia ero io. All'inizio cercai di tenerlo informato, perché in qualità di giornalista avevo accesso alla rete clandestina di voci che durante quel periodo aveva rimpiazzato le fonti ufficiali di informazioni, ma in seguito smisi di dargli cattive notizie, per evitare di deprimerlo e farlo preoccupare. Cominciarono a sparire amici e conoscenti, talvolta alcuni di loro tornavano dopo settimane di assenza con gli occhi spiritati e i segni delle torture. Molti cercarono rifugio all'estero. In un primo momento Messico, Germania, Francia, Canada, Spagna e diversi altri paesi li accolsero, ma dopo qualche tempo chiusero le porte, perché all'ondata di cileni si sommavano migliaia di altri esiliati sudamericani.

In Cile, dove la famiglia e l'amicizia sono molto importanti, si verificò un fenomeno unicamente imputabile all'effetto provocato dal terrore sull'animo collettivo. Molte persone morirono a causa di tradimenti e denunce; bastava una telefonata anonima perché i cosiddetti servizi di sicurezza prelevassero l'accusato, del quale poi non si aveva spesso più notizia. La gente era divisa tra sostenitori del governo militare e oppositori; odio, diffidenza e paura minavano la convivenza. Ormai sono passati più di dieci anni da quando è stata ristabilita la democrazia, ma questa spaccatura si può ancora percepire, persino all'interno di molte famiglie.

I cileni impararono a tacere, a non sentire, a non vedere, perché se ignoravano i fatti non si sentivano complici. Conosco gente che considerava il governo di Allende come la disgrazia più abominevole e pericolosa che potesse capitare. Per queste persone, che si vantavano di condurre la propria vita secondo i rigidi precetti della religione cristiana, la necessità di annientarlo era tale da non mettere in discussione i metodi. Non lo fecero neanche quando un padre disperato, Sebastián Acevedo, si cosparse di benzina e si diede fuoco per protesta, immolandosi come un bonzo in plaza Concepción, perché stavano torturando i suoi figli. Per anni riuscirono a ignorare – o a far finta di ignorare – la violazione dei diritti umani e, con stupore, trovo ancora qualcuno che nega i fatti nonostante l'evidenza. Posso capirlo, perché è attaccato alle sue convinzioni come io lo sono alle mie. L'opinione di quella gente sul governo di Allende è quasi identica alla mia sulla dittatura di Pinochet, con la differenza che per me il fine non giustifica i mezzi. I crimini perpetrati nell'ombra durante quegli anni vennero inevitabilmente allo scoperto. Mettere in luce la verità è l'inizio della riconciliazione, anche se difficilmente le ferite si rimargineranno, perché i responsabili della repressione non hanno ammesso i loro errori e non sono disposti a chiedere perdono. Le azioni del regime militare rimarranno impunite, ma ormai non possono più restare nascoste né essere ignorate. Molti pensano, soprattutto i giovani, cresciuti senza spirito critico né coscienza politica, che sarebbe ora di smetterla di rivangare il passato, che dovremmo guardare avanti, ma le vittime e le loro famiglie non possono dimenticare. Forse dovremo aspettare la morte dell'ultimo testimone di quei fatti per riuscire a chiudere quel capitolo della nostra storia.

I militari che presero il potere non erano esempi di cultura. A distanza di anni le loro affermazioni fanno ridere, ma in quei momenti erano piuttosto terrificanti. L'esaltazione della patria, dei "valori cristiani occidentali" e del militarismo raggiunse livelli ridicoli. Il paese era governato come una caserma. Per anni avevo scritto una colonna umoristica per una rivista e avevo condotto un programma leggero alla televisione, ma in quell'ambiente sarebbe stato impossibile farlo, perché non c'era niente di cui ridere, a parte i governanti, ma questo poteva costare la vita. Forse l'unica parentesi divertente erano "i martedì con Merino". Uno dei generali della giunta, l'ammiraglio José Toribio Merino, incontrava la stampa tutte le settimane per trattare diversi argomenti. I giornalisti attendevano con ansia queste perle di lucidità e saggezza. Per esempio, riguardo alla modifica della Costituzione con cui si pensava di legalizzare l'attacco al potere da parte dei militari nel 1980, l'ammiraglio dichiarava con la massima serietà: "La prima trascendenza che ci vedo è che è trascendentale". E subito spiegava, perché potessero capire tutti: "Nell'elaborare questa Costituzione sono stati presi in considerazione due criteri, il criterio politico, diciamo platonico-aristotelico della filosofia classica, e quello puramente militare, che procede da Cartesio e che definiremmo cartesiano. Secondo la filosofia cartesiana tutto risiede nella Costituzione, tutte quelle definizioni straordinariamente positive che si basano sulla ricerca della verità senza alternative, dove uno più due fa tre e nient'altro che tre...". Caso mai a questo punto i giornalisti avessero perso il filo del discorso, Merino chiariva: "...e la verità cade in questa forma davanti alla verità aristotelica, o alla verità classica, per così dire, che fornisce spunti interessanti per ricercarla; riveste un'importanza enorme in un paese come il nostro, alla ricerca di nuove strade, alla ricerca di nuove forme di vita...".

Sempre lo stesso ammiraglio giustificò la decisione del governo di assegnargli la gestione del sistema economico dicendo che per hobby aveva studiato economia con i corsi dell'Enciclopedia britannica. E con lo stesso candore dichiarava: "La guerra è il mestiere più bello del mondo. Cos'è la guerra? Il proseguimento della pace, per realizzare tutto ciò che con la pace non è possibile ottenere, per condurre l'uomo alla dialettica perfetta, cioè all'eliminazione del nemico...'.

Quando la stampa pubblicava queste chicche, nel 1980, io ormai non vivevo più in Cile. Rimasi per qualche tempo, ma quando sentii che la minaccia della repressione mi si stringeva attorno al collo come un nodo scorsoio, me ne andai. Avevo visto cambiare il paese e la gente. Avevo cercato di adattarmi e di non farmi notare, come voleva il nonno, ma non era possibile, perché in qualità di giornalista avevo accesso a molte informazioni. In un primo tempo la paura fu qualcosa di vago e indefinibile, come un odore sgradevole. Non davo credito alle terribili voci che circolavano, dicevo che non esistevano prove e, quando me le trovavo davanti, affermavo che si trattava di eccezioni. Credevo di essere al sicuro perché "non prendevo parte attiva alla politica", ma ospitavo a casa mia fuggiaschi disperati o li aiutavo a scavalcare il muro di un'ambasciata per chiedere asilo. Pensavo che se mi avessero arrestata avrei potuto spiegare che lo facevo per ragioni umanitarie; vivevo su un altro pianeta, chiaramente. Mi coprii di macchie dalla testa ai piedi, non riuscivo a dormire, bastava il rumore di un'auto dopo il segnale del coprifuoco a farmi tremare per ore. Impiegai un anno e mezzo a rendermi conto del rischio che stavo correndo e alla fine, nel 1975, dopo una settimana particolarmente agitata e pericolosa, partii per il Venezuela, portando con me una manciata di terra cilena del mio giardino. Un mese dopo mio marito e i miei figli mi raggiunsero a Caracas. Penso di essere afflitta dallo stesso male di molti cileni che se ne andarono in quel periodo: mi sento in colpa per aver abbandonato il paese. Mi sono domandata mille volte cosa sarebbe successo se fossi rimasta, come molti che combatterono la dittatura dall'interno fino a quando riuscirono a sconfiggerla nel 1989. Non avrò mai una risposta, ma di una cosa sono certa: non sarei una scrittrice se non avessi provato l'esilio.

Dal momento in cui sorvolai la Cordigliera delle Ande, in un piovoso mattino d'inverno, cominciai inconsciamente a inventare il mio paese. Ho volato sulla cordigliera molte altre volte e mi emoziono sempre, perché quando osservo dall'alto il maestoso spettacolo delle montagne il ricordo di quel mattino mi assale intatto. La solitudine infinita di quelle cime immacolate, di quei precipizi vertiginosi, di quel cielo azzurro intenso, sono il simbolo del mio addio al Cile. Non avrei mai pensato di restare lontana per tanto tempo. Come tutti i cileni – a parte i militari – ero convinta, vista la nostra tradizione, che i soldati sarebbero presto rientrati nelle caserme, che ci sarebbero state altre elezioni e che avremmo avuto un governo democratico, come era sempre stato. Comunque qualcosa dovevo aver intuito, perché trascorsi la mia prima notte a Caracas piangendo disperata in un letto che non era mio. Dentro di me sentivo che qualcosa era cambiato per sempre e che la mia vita stava improvvisamente imboccando un'altra direzione. La nostalgia mi assalì fin da quella prima notte e non mi lasciò per molti anni, fino a quando cadde la dittatura e tornai nel mio paese. Nel frattempo vivevo guardando verso sud, con il fiato sospeso in attesa di notizie, aspettando il momento in cui sarei tornata, mentre selezionavo i ricordi, modificavo alcuni episodi, ne esageravo o ne ignoravo altri, affinavo le emozioni e costruivo così, a poco a poco, quel paese immaginario dove avevo piantato le radici.

Ci sono esili che mordono e altri

sono come il fuoco che consuma.

Ci sono dolori della patria morta

che van salendo dal basso,

dai piedi e dalle radici

e improvvisamente l'uomo affoga,

non più campi di grano,

non più suono di chitarra,

non più aria per quella bocca,

non più vita senza terra

e quindi cade bocconi,

non nella terra, ma nella morte.

PABLO NERUDA, Esili da Canti cerimoniali

Tra i cambiamenti di rilievo prodotti dal sistema economico e dai nuovi valori imposti dalla dittatura, si affermò la moda dell'ostentazione; se non sei ricco devi indebitarti per sembrarlo, a costo di andare in giro con le calze bucate. Oggi l'ideologia del consumismo è dominante in Cile, come nella maggior parte del mondo. La politica economica, gli affari illeciti e la corruzione, che raggiunsero livelli mai toccati nel paese, diedero vita a una nuova casta di milionari. Uno dei lati positivi fu l'abbattimento della barriera che divideva le classi sociali; i cognomi illustri non rappresentavano più l'unico passaporto per essere accettati in società. I vecchi aristocratici furono spazzati via da giovani imprenditori e tecnocrati, con le loro moto cromate e le loro Mercedes Benz, e da alcuni militari che si erano arricchiti occupando posti chiave nel governo, nelle industrie e nelle banche. Per la prima volta si vedevano ovunque uomini in uniforme: nei ministeri, nelle università, nelle aziende, nei salotti, nei club eccetera.

C'è da domandarsi perché almeno un terzo della popolazione abbia appoggiato la dittatura, nonostante la maggioranza non avesse vita facile e persino chi appoggiava il governo militare vivesse nella paura. La repressione fu generale, anche se di certo colpì maggiormente quelli di sinistra e i poveri. Tutti si sentivano controllati, nessuno poteva dire di essere davvero al sicuro dagli artigli dello stato. È vero che l'informazione era sottoposta a censura e che era stato attivato un sistema di propaganda che faceva un vero e proprio lavaggio dei cervelli; è anche vero che l'opposizione impiegò parecchi anni e sacrificò molte vite per riorganizzarsi; ma tutto questo non basta a spiegare la popolarità del dittatore. Chi lo approvava non lo faceva solo per paura; i cileni amano l'autoritarismo. Erano convinti che i militari avrebbero "ripulito" il paese. "È finita la delinquenza, non ci sono muri imbrattati con i graffiti, è tutto pulito, e grazie al coprifuoco i mariti tornano a casa presto" mi aveva confidato un'amica. Per lei questo compensava la perdita dei diritti civili, poiché questa perdita non la colpiva direttamente: per sua fortuna nessuno dei suoi figli era stato licenziato senza indennizzo oppure arrestato. Capisco che la destra – che storicamente non si è mai schierata dalla parte della democrazia e che durante quegli anni si arricchì come non mai – appoggiasse la dittatura, ma gli altri? Non ho mai trovato una risposta soddisfacente a questo interrogativo, solo ipotesi.

Pinochet rappresentò la figura del padre intransigente, in grado di imporre la disciplina. I tre anni dell'Unidad Popular erano trascorsi all'insegna della sperimentazione, del cambiamento e del disordine; il paese era stanco. La repressione mise fine alle discussioni politiche, e il neoliberalismo costrinse i cileni a lavorare con la bocca chiusa e a essere produttivi, affinché le imprese potessero essere competitive sui mercati internazionali. Si privatizzò quasi tutto, compresi il sistema sanitario, la pubblica istruzione e la previdenza sociale. L'istinto di sopravvivenza stimolò l'iniziativa privata. Oggi il Cile non solo esporta più salmone dell'Alaska, ma anche cosce di rana, piume d'oca e aglio affumicato, per fare qualche esempio delle centinaia di prodotti non tradizionali. La stampa statunitense brindava al trionfo del sistema economico e attribuiva a Pinochet il merito di aver trasformato quel paese sottosviluppato nel fiore all'occhiello dell'America Latina; ma gli indici non mostravano la distribuzione del capitale; nulla si sapeva dello stato di indigenza e precarietà che affliggeva diversi milioni di persone. Non si parlava delle mense collettive che sfamavano migliaia di famiglie nelle baraccopoli – solo a Santiago si arrivò a contarne più di cinquecento –, né del fatto che le opere di carità private ed ecclesiastiche cercavano di far fronte all'impegno sociale che competeva allo stato. Non esistevano commissioni pubbliche per discutere le azioni del governo o degli imprenditori, così fu impunemente assegnata ad aziende private la gestione dei servizi pubblici e a compagnie straniere quella delle risorse naturali, come foreste e mari, che furono sfruttati con ben poca coscienza ecologica. Si creò una società spietata, per la quale il profitto era sacro: chi era povero poteva incolpare solo se stesso e se si lamentava era sicuramente comunista. La libertà consisteva nel poter scegliere fra tante marche differenti un prodotto da comprare a credito.

Le cifre relative alla crescita economica elogiate dal "Wall Street Journal" non erano indice di sviluppo, visto che la metà del capitale apparteneva al dieci per cento della popolazione e che un centinaio di persone guadagnava più di quello che lo stato destinava ai servizi sociali. Secondo la Banca Mondiale il Cile è tra i paesi con la distribuzione delle entrate meno equilibrata, insieme al Kenya e allo Zimbabwe. In Cile l'amministratore di un'azienda guadagna la stessa cifra, o addirittura più di quello che prenderebbe negli Stati Uniti, mentre lo stipendio di un operaio cileno è circa quindici volte inferiore a quello di un nordamericano. Ancora oggi, dopo oltre un decennio di democrazia, il dislivello è spaventoso, perché il modello economico non è cambiato. I tre presidenti succeduti a Pinochet hanno avuto le mani legate, perché la destra controlla l'economia, il parlamento e la stampa. Nonostante ciò, il Cile si è riproposto di diventare un paese sviluppato nel giro di un decennio, progetto realizzabile se solo si ridistribuissero i capitali in maniera equilibrata.

Ma chi era realmente Pinochet, quel militare che ha tanto segnato il Cile con la sua rivoluzione capitalista e due decenni di repressione? (Uso il passato anche se lui è ancora vivo, perché è agli arresti e il paese cerca di dimenticare la sua esistenza. Appartiene al passato, nonostante la sua ombra continui a incombere.) Perché era tanto temuto? Perché era ammirato? Non l'ho conosciuto personalmente e durante la maggior parte del suo governo non sono vissuta in Cile, quindi posso basarmi solo sui fatti e su ciò che altri hanno scritto di lui. Penso che per farsi un'idea convenga leggere romanzi come La festa del caprone, di Mario Vargas Llosa o L'autunno del patriarca, di Gabriel García Márquez, perché Pinochet aveva parecchio in comune con la figura del tipico Caudillo sudamericano così perfettamente descritta da questi autori. Era un uomo rude, freddo, sfuggente e autoritario, privo di scrupoli e spirito di lealtà – tranne che verso l'esercito come istituzione – nei confronti dei suoi compagni d'arme, come il generale Carlos Prats e altri, che fece assassinare secondo i suoi interessi. Si credeva prescelto da Dio e dalla storia per salvare la patria. Amava le decorazioni e le parate militari. Era un egocentrico, creò persino una fondazione con il suo nome, destinata a promuovere e preservare la sua immagine. Era astuto e diffidente, aveva un modo di fare cordiale e sapeva essere simpatico. Ammirato da alcuni, odiato da altri, temuto da tutti, forse è stato il personaggio della storia cilena che ha tenuto nelle sue mani il maggior potere e per il tempo più lungo.

16.

IL CILE NEL CUORE

In Cile si evita di parlare del passato. Le generazioni più giovani pensano che il mondo sia cominciato con loro; quello che è accaduto prima non interessa. Sugli altri mi sembra che pesi una vergogna collettiva per ciò che è successo durante la dittatura, come deve essere capitato in Germania dopo Hitler. Sia i giovani che gli anziani cercano di evitare il conflitto. Nessuno vuole lasciarsi coinvolgere in polemiche che causino ulteriori fratture. D'altro canto, la maggior parte della gente è troppo occupata a cercare di arrivare alla fine del mese con uno stipendio inadeguato e a fare il proprio dovere in silenzio per non essere licenziata; non ha il tempo di preoccuparsi della politica. Si pensa che troppe indagini sul passato possano "destabilizzare" la democrazia e provocare i militari, un timore infondato perché negli ultimi anni – dal 1989 – la democrazia si è consolidata e i militari hanno perso potere. Inoltre, i tempi dei colpi di stato sono finiti. Nonostante i numerosi problemi – miseria, disuguaglianza, criminalità, droga, guerriglia –, l'America Latina ha optato per la democrazia e gli Stati Uniti, dal canto loro, cominciano a rendersi conto che la politica di appoggiare le dittature non serve a risolvere i problemi, anzi, ne crea altri.

Il golpe militare non è sorto dal nulla; le forze che appoggiarono la dittatura esistevano già, ma non ce n'eravamo accorti. Certi difetti dei cileni, prima nascosti, emersero in tutto il loro splendore durante quel periodo. Non è possibile organizzare da un momento all'altro una repressione di questa portata se l'inclinazione al totalitarismo non è presente in una parte della società; a quanto pare non eravamo tanto democratici come pensavamo. Da parte sua, il governo di Salvador Allende non era esente da colpe, come mi piace pensare; c'erano inettitudine, corruzione e superbia. Nella vita reale eroi e mascalzoni spesso si confondono, ma posso garantire che durante gli ultimi governi democratici, compreso quello dell'Unidad Popular, non si verificarono mai crudeltà come quelle perpetrate dai governi militari.

Come migliaia di altre famiglie cilene, io e Miguel ce ne andammo con i nostri figli, perché non volevamo continuare a vivere sotto una dittatura. Era il 1975. Decidemmo di emigrare in Venezuela perché era una delle ultime democrazie esistenti nell'America Latina – ormai sconvolta dai golpe militari – e uno dei pochi paesi dove avremmo potuto ottenere un visto e un lavoro. Scrive Neruda:

Come posso vivere tanto lontano

da ciò che ho amato, da ciò che amo?

Dalle stagioni avvolte

da vapore e fumo freddo?

(Curiosamente, ciò che più mi mancò durante quegli anni di esilio volontario furono le stagioni della mia patria. Nel verde eterno dei Tropici mi sentivo profondamente straniera.)

Negli anni settanta il Venezuela viveva il boom del petrolio: l'oro nero sgorgava dal suolo come un fiume inesauribile. Tutto sembrava facile, bastava avere un lavoro e qualche conoscenza per vivere meglio che in qualunque altro luogo; circolava molto denaro e si spendeva senza pudore in una baldoria senza fine. I venezuelani erano i maggiori consumatori di champagne al mondo. Noi, che avevamo attraversato la crisi economica con il governo dell'Unidad Popular, quando anche la carta igienica era un lusso, e che stavamo fuggendo da una terribile repressione, ne fummo sbalorditi. Non potevamo assimilare l'ozio, lo spreco e la libertà di quel paese. Noi cileni, così seri, sobri, prudenti e amanti delle regole, non capivamo l'allegria sfacciata né l'indisciplina. Abituati agli eufemismi, ci sentivamo offesi dalla franchezza. Eravamo diverse migliaia e ben presto si aggiunsero quelli che scappavano dalla "guerra sporca" in Argentina e in Uruguay. Certi portavano i segni recenti di una prigionia, tutti avevano l'aria distrutta.

Miguel trovò lavoro in una provincia dell'interno del paese e io rimasi a Caracas con i bambini, che tutti i giorni mi supplicavano di tornare in Cile, dove avevano lasciato i nonni, gli amici, la scuola; insomma, tutto il loro mondo. La lontananza da mio marito fu terribile, penso che abbia segnato l'inizio della fine della nostra storia. Non fummo un'eccezione, perché la maggior parte delle coppie che avevano lasciato il Cile finirono per separarsi. Lontani dalla terra e dalla famiglia ci si ritrova uno davanti all'altra, nudi e vulnerabili, senza le relazioni familiari e il contesto di convenzioni e abitudini socialmente accettate che sostengono la coppia nel suo ambiente. Le circostanze non aiutano: fatica, paura, insicurezza, povertà, confusione; se per di più si è separati anche geograficamente, come accadde a noi, la situazione peggiora ulteriormente. A meno che non si abbia fortuna e la relazione non sia molto solida, l'amore finisce.

Non trovai lavoro come giornalista. L'esperienza maturata in Cile non serviva a molto, anche perché gli esiliati di solito gonfiavano il loro curriculum e alla fine nessuno prestava loro molto credito; c'erano falsi medici che avevano a malapena finito il liceo e medici autentici che finivano a guidare un taxi. Io non conoscevo nessuno e lì, come nel resto dell'America Latina, senza agganci non si ottiene niente. Dovetti guadagnarmi da vivere con lavoretti insignificanti che non vale neanche la pena menzionare. Non capivo il carattere dei venezuelani, scambiavo il loro profondo senso dell'uguaglianza con maleducazione, la generosità con pedanteria, l'emotività con immaturità. Venivo da un paese dove la violenza era istituzionalizzata, e malgrado ciò mi colpiva la rapidità con cui i venezuelani perdevano il controllo e arrivavano alle mani. (Una volta, al cinema, una signora aveva estratto la pistola dalla borsa perché senza saperlo mi ero seduta nel posto che lei aveva prenotato.) Non conoscevo le abitudini; non sapevo, per esempio, che i venezuelani non dicono quasi mai di no, perché lo considerano sgarbato, e preferiscono dire "ripassi domani". Uscivo a cercare lavoro, mi facevano un colloquio con estrema cortesia, mi offrivano un caffè e mi salutavano con una bella stretta di mano dicendomi "ripassi domani'. Tornavo il giorno dopo e la scena si ripeteva, fino a quando mi davo per vinta. Sentivo che la mia vita era un fallimento; avevo trentacinque anni e mi sembrava che non mi restasse niente davanti, a parte invecchiare e morire di noia. Adesso, a ripensarci, mi rendo conto che esistevano molte opportunità, ma allora non me ne accorgevo; ero incapace di ballare al ritmo degli altri, ero confusa e spaventata. Invece di fare uno sforzo per conoscere e imparare ad amare la terra che mi aveva generosamente accolta, ero ossessionata dall'idea di tornare in Cile. Se confronto quell'esperienza di esilio con la mia attuale condizione di immigrante, mi accorgo che il mio stato d'animo ora è diverso. Nel primo caso si è costretti ad andarsene – non importa se per fuggire o perché si è stati espulsi – e ci si sente come vittime cui hanno rubato mezza vita; nel secondo caso si parte alla ventura, di propria volontà, e ci si sente padroni del proprio destino. L'esiliato guarda al passato leccandosi le ferite; l'immigrante guarda al futuro, pronto a cogliere le occasioni che gli si presentano.

A Caracas noi cileni ci riunivamo per ascoltare dischi di Violeta Parrà e Víctor Jara, scambiarci poster di Allende e di Che Guevara e per raccontarci mille volte le stesse cose sulla patria lontana. In ogni riunione mangiavamo empanadas; alla fine hanno cominciato a nausearmi e non sono più riuscita a toccarne una. Ogni giorno arrivavano nuovi compatrioti, che raccontavano storie terribili e assicuravano che la dittatura era sul punto di cadere, ma i mesi passavano e, invece di cadere, sembrava sempre più forte, nonostante le proteste interne e l'enorme movimento internazionale di solidarietà. Ormai nessuno confondeva più il Cile con la Cina, nessuno domandava perché non portavamo il cappello con gli ananas; la figura di Salvador Allende e gli avvenimenti politici avevano collocato il paese sulla carta geografica. Circolava una fotografia, diventata famosa, con Pinochet al centro della giunta militare, le braccia incrociate, gli occhiali scuri e la mandibola prominente da bulldog: la tipica immagine del tiranno sudamericano. La forte censura cui era sottoposta la stampa impedì alla maggior parte dei cileni che si trovavano nel paese di rendersi conto che quel movimento di solidarietà esisteva. Io stessa ero stata vittima di quella censura per un anno e mezzo e non sapevo che fuori dal Cile il nome di Allende era diventato un simbolo; per questo, quando lasciai il paese, fui sorpresa dal rispetto reverenziale ispirato dal mio cognome. Sfortunatamente, tutta questa considerazione non mi servì per trovare un lavoro, di cui avevo tanto bisogno.

Da Caracas scrivevo al nonno, che non avevo avuto il coraggio di salutare, perché non avrei potuto spiegargli come mai scappavo senza ammettere di non aver seguito il suo consiglio di non mettermi nei guai. Nelle mie lettere dipingevo un quadro idilliaco delle nostre vite, ma non ci voleva molta acutezza per leggere l'angoscia tra le righe e il nonno deve aver intuito la verità. Ben presto questa corrispondenza si trasformò in pura nostalgia, in un paziente esercizio di memoria per ricordare il passato e la terra che avevo lasciato. Avevo riletto Neruda e lo citavo nelle lettere al nonno, certe volte lui mi rispondeva con versi di altri poeti meno recenti.

Non vale la pena di scendere nei particolari di quegli anni, di parlare delle cose belle e di quelle brutte, come amori frustrati, sacrifici e sofferenze, perché ho già raccontato tutto prima. Basti dire che quel senso di solitudine e quella sensazione di essere sempre forestiera provata fin dall'infanzia si erano acutizzati. Vivevo isolata dalla realtà, immersa in un mondo immaginario, mentre i miei figli crescevano e il mio matrimonio andava a rotoli. Cercavo di scrivere, ma non facevo altro che girare e rigirare le stesse idee. Di notte, quando i miei andavano a dormire, mi chiudevo in cucina e passavo le ore a battere sui tasti di una Underwood, riempivo fogli e fogli con le stesse frasi e poi li strappavo, come Jack Nicholson in quel film agghiacciante che per mesi ha fatto venire gli incubi a mezzo mondo, Shining. Di quei tentativi non è rimasto niente, solo cartaccia. E così trascorsero sette anni.

L'8 gennaio del 1981 cominciai a scrivere un'altra lettera al nonno, che allora aveva quasi cent'anni e stava morendo. Fin dalla prima frase capii che non sarebbe stata una lettera come le altre e che forse non sarebbe mai giunta a destinazione. Scrissi per sfogare la mia angoscia, perché quel vecchio, depositario dei miei lontani ricordi, stava per andarsene. Senza di lui, unico vincolo con la terra della mia infanzia, l'esilio mi sembrava definitivo. Naturalmente scrissi del Cile e della mia famiglia lontana. Le centinaia di aneddoti che il nonno mi aveva raccontato per anni costituivano materiale in abbondanza: i maschi che fondarono la nostra stirpe; la nonna, che spostava la zuccheriera con la forza del pensiero; la zia Rosa, morta alla fine dell'Ottocento e il cui spirito tornava di notte per suonare il piano; lo zio, che voleva sorvolare la cordigliera con un dirigibile, e tanti altri personaggi che non dovevano essere dimenticati. Quando raccontavo queste storie ai miei figli, loro mi guardavano con aria compassionevole e alzavano gli occhi al cielo. Dopo aver pianto tanto per tornare, Paula e Nicolas si erano finalmente ambientati in Venezuela e non volevano più sentir parlare del Cile, men che meno dei loro parenti strampalati. Non prendevano parte alle conversazioni nostalgiche degli esiliati, né si cimentavano in vani tentativi di preparare piatti cileni con ingredienti dei Caraibi, né partecipavano alle patetiche feste che improvvisavamo in Venezuela per celebrare le nostre festività nazionali. I miei figli si vergognavano di essere stranieri.

Ben presto persi il filo di quella strana lettera, ma continuai a scrivere senza sosta per un anno, al termine del quale il nonno era morto e io avevo sul tavolo della cucina il mio primo romanzo, La casa degli spiriti. Se allora mi avessero chiesto di darne una definizione, avrei detto che si trattava del tentativo di recuperare il mio paese perduto, di riunire i dispersi, di resuscitare i morti e di conservare i ricordi che cominciavano a svanire nel vortice dell'esilio. Non era una pretesa da poco... Adesso ho una spiegazione più semplice: morivo dalla voglia di raccontare quella storia.

Mi sono creata un'immagine romantica di un Cile congelato all'inizio degli anni settanta. Per anni ho pensato che con la democrazia tutto sarebbe tornato come prima, ma anche quell'immagine congelata era illusoria. Forse il luogo che rimpiango non è mai esistito. Tutte le volte che vado in Cile devo fare i conti con l'immagine romantica che mi sono portata appresso per venticinque anni. Poiché sono stata lontana per tanto tempo, tendo a ingigantire le virtù e a tralasciare i lati spiacevoli del carattere nazionale. Dimentico il classismo e l'ipocrisia della classe alta; dimentico quanto sia conservatrice e maschilista la maggior parte della società; dimentico l'umiliante autorità della Chiesa cattolica. Mi spaventano il rancore e la violenza fomentati dalla disuguaglianza; ma sono anche commossa dalle cose belle che, malgrado tutto, non sono scomparse, come la familiarità immediata con cui stabiliamo rapporti, il modo affettuoso di salutarci con un bacio, l'umorismo contorto che mi fa sempre ridere, l'amicizia, la speranza, la semplicità, la solidarietà nelle disgrazie, la simpatia, l'indomito coraggio delle madri, la tenacia dei poveri. Ho assemblato l'immagine del mio paese come un rompicapo, scegliendo i pezzi che s'incastrano nel mio disegno e scartando gli altri. Il mio Cile è poetico e povero, perciò non tengo conto delle certezze di quella società moderna e materialista, dove il valore delle persone si misura in base ai beni accumulati, e mi ostino a riconoscere dappertutto le tracce del mio paese di una volta. Ho anche creato una versione di me stessa senza nazionalità o, per meglio dire, con molteplici nazionalità. Non appartengo a una terra, bensì a diverse, o forse solo al contesto della storia che scrivo. Non voglio sapere quanti miei ricordi siano reali e quanti inventati, perché il tentativo di tracciare una linea per dividerli va oltre le mie capacità. La mia nipotina Andrea in un tema a scuola ha scritto: "Mi piace l'immaginazione della nonna". Le ho chiesto a cosa si riferisse e lei, senza esitare, mi ha risposto: "Tu ricordi cose che non sono mai successe". Non lo facciamo tutti? Si dice che il processo mentale dell'immaginazione e quello della memoria siano talmente simili da essere quasi inscindibili. Chi può dire cosa sia la realtà? Non è tutto soggettivo? Se io e voi assistiamo allo stesso avvenimento, poi lo ricorderemo e lo racconteremo in modo diverso. Stando alla versione della nostra infanzia fornita dai miei fratelli, sembra che ognuno di noi abbia vissuto su un pianeta diverso. La memoria è condizionata dall'emozione; ricordiamo meglio e più chiaramente gli eventi che ci commuovono, come la gioia di una nascita, il piacere di una notte d'amore, il dolore di una perdita, il trauma di una ferita. Quando raccontiamo il passato ci riferiamo ai momenti salienti – belli o brutti – e omettiamo l'immensa zona grigia del quotidiano. Se non avessi viaggiato, se fossi rimasta ancorata e protetta nella mia famiglia, se avessi accettato la visione del nonno e le sue regole, non avrei potuto ricreare la mia stessa esistenza e ricamarci sopra, perché altri l'avrebbero determinata e io sarei stata solo un anello in più di una lunga catena familiare. L'essermi spostata in luoghi diversi mi ha costretta a ritoccare varie volte la mia storia e io l'ho fatto distrattamente, senza accorgermene, perché ero troppo occupata a sopravvivere. Quasi tutte le vite si assomigliano e si possono raccontare con lo stesso tono con cui si legge la guida del telefono, a meno che non si decida di aggiungere enfasi e colore. Nel mio caso ho cercato di rifinire i dettagli per creare la mia leggenda privata, cosicché, quando sarò in una casa di riposo, in attesa della morte, avrò abbastanza materiale per far divertire altri anziani. Ho scritto il mio primo romanzo lasciando correre le dita sui tasti, proprio come ora sto scrivendo questo libro, senza un piano preciso. Mi sono bastate poche ricerche, perché lo avevo già completo, non in testa, ma in qualche angolo del cuore, dove mi opprimeva costantemente togliendomi il fiato. Ho narrato di Santiago ai tempi in cui il nonno era giovane come se io fossi vissuta allora; sapevo perfettamente come si accendeva una lanterna a cherosene quando in città non c'era ancora l'elettricità, così come conoscevo la sorte riservata a centinaia di prigionieri in Cile in quel periodo. Ho scritto in trance, come sotto dettatura, e ho sempre pensato che fosse il fantasma di mia nonna a sussurrarmi all'orecchio. Solo una seconda volta ho ricevuto in dono la dettatura di un libro da un'altra dimensione, quando nel 1993 ho scritto Paula. In quell'occasione mi ha sicuramente aiutato lo spirito benigno di mia figlia. Chi sono in realtà questi e altri fantasmi che vivono con me? Non li ho mai visti vagare per i corridoi di casa avvolti da lenzuola, niente di tanto interessante. Sono solo ricordi che mi assalgono e che, a forza di essere accarezzati, vanno assumendo consistenza materiale. Mi accade con la gente, e anche con il Cile, quel paese mitico che, tanto rimpianto, ha preso il posto di quello reale. "Quel paese nella mia mente", come dicono i miei nipoti, è uno scenario dove metto e tolgo a mio piacere cose, personaggi, situazioni. Solo il paesaggio resta autentico e immutabile, quel maestoso paesaggio cileno nel quale non sono forestiera. Questa tendenza a trasformare la realtà, a inventare la memoria, mi preoccupa, perché non so quanto lontano mi possa condurre. Mi capita lo stesso anche con le persone? Se potessi rivedere per un istante i nonni o mia figlia, li riconoscerei? Probabilmente no, perché a forza di cercare il modo per mantenerli vivi, ricordandoli fin nei minimi particolari, li ho cambiati e ho attribuito loro virtù che forse non hanno mai avuto; ho assegnato loro un destino più complicato che nella realtà. Comunque sono stata molto fortunata, perché quella lettera scritta al nonno morente mi ha salvato dalla disperazione. Grazie a essa ho trovato una voce e un mezzo per sconfiggere l'oblio, la maledizione che perseguita i vagabondi come me. Ho imboccato il cammino senza ritorno della scrittura, che ho percorso incespicando durante questi ultimi vent'anni e che non penso di abbandonare, almeno fino a quando i miei pazienti lettori mi sopporteranno.

Anche se, grazie al mio primo romanzo, mi ero costruita una patria immaginaria, continuavo a rimpiangere l'altra, quella che avevo lasciato. In Cile il governo militare era diventato solido come una roccia e Pinochet governava con potere assoluto. La politica economica dei Chicago boys – come allora si definivano i discepoli di Milton Freeman – fu imposta con la forza, poiché sarebbe stato impossibile altrimenti. Gli imprenditori godevano di enormi privilegi, mentre i lavoratori avevano perso la maggior parte dei loro diritti. Fuori dal Cile pensavamo che la dittatura fosse inamovibile, ma in realtà all'interno del paese si stava sviluppando una coraggiosa opposizione, che alla fine avrebbe ristabilito la democrazia. Per riuscirci fu necessario mettere fine agli innumerevoli conflitti tra i partiti e unirsi nella cosiddetta Concertación, ma ciò avvenne solo sette anni dopo. Nel 1981 pochi immaginavano che sarebbe potuto accadere.

Fino ad allora la mia esistenza a Caracas, dove abbiamo vissuto per dieci anni, si era svolta nel completo anonimato, ma i libri mi procurarono un po' di attenzione. Alla fine rinunciai alla scuola dove lavoravo e mi lanciai nell'incertezza della scrittura. Avevo in mente un altro romanzo, questa volta ambientato da qualche parte nei Caraibi; pensai che non avrei più scritto del Cile e che ormai era tempo di integrarmi nella terra che a poco a poco stava diventando la mia patria adottiva. Prima di cominciare Eva Luna dovetti condurre una ricerca meticolosa. Per descrivere il profumo di un mango o la forma di una palma dovevo andare al mercato per sentire l'odore della frutta o in piazza a guardare gli alberi, cosa che non avevo bisogno di fare per una pesca o un salice. Il Cile fa parte di me al punto che mi sembra di conoscerlo alla perfezione, ma se voglio descrivere qualche altro luogo, devo studiarlo.

In Venezuela, terra meravigliosa di uomini positivi e donne bellissime, mi liberai finalmente della disciplina inculcatami nelle scuole inglesi, del rigore del nonno, della modestia cilena e delle ultime tracce di quella formalità alla quale, da brava figlia di diplomatico, ero abituata fin da bambina. Per la prima volta mi sentii bene con me stessa e smisi di preoccuparmi di quello che pensavano gli altri. Nel frattempo il mio matrimonio si era irrimediabilmente compromesso e quando i figli lasciarono il nido per andare all'università, non ci furono più motivi per restare insieme. Io e Miguel divorziammo da buoni amici. Ci sentivamo tanto sollevati, dopo questa decisione, che al momento di salutarci per cinque minuti continuammo a inchinarci come i giapponesi. Avevo quarantacinque anni, ma non mi vedevo poi così male per la mia età, almeno così pensavo, fino a quando mia madre, ottimista come sempre, mi fece notare che avrei passato il resto della mia vita da sola. Ma, tre mesi dopo, in occasione di un lungo giro di presentazioni negli Stati Uniti, conobbi William Gordon, "l'uomo del mio destino", come avrebbe detto la mia nonna chiaroveggente.

17.

QUEL PAESE NELLA MIA MENTE

Prima che mi domandiate com'è possibile che una di sinistra con un cognome come il mio abbia scelto di vivere nell'impero yankee, vi dirò che non l'ho affatto pianificato, né niente del genere. Come quasi tutte le cose essenziali della mia vita, è successo per caso. Se Willie avesse abitato in Nuova Guinea, adesso mi troverei sicuramente là, vestita di piume. Immagino ci siano persone che programmano la loro vita, personalmente ho smesso di farlo da molto tempo, perché i miei progetti non si realizzano mai. Più o meno ogni dieci anni do un'occhiata al passato e riesco a vedere la mappa del mio percorso, ammesso che si possa definire mappa, perché è più ingarbugliata di un piatto di tagliatelle. Se si vive abbastanza a lungo e si guarda al passato, ci si rende conto che non si è fatto altro che girare in tondo. Non mi è mai passata per la testa l'idea di stabilirmi negli Stati Uniti, pensavo che la Cia avesse provocato il golpe militare in Cile con il solo proposito di rovinarmi la vita. Invecchiando sono diventata più modesta. L'unica ragione che mi ha spinta a diventare una in più fra i milioni di immigrati che rincorrono l'American dream è stato un colpo di fulmine erotico.

Willie aveva due divorzi alle spalle e una collezione tale di avventure che faceva fatica a ricordarsele, era single da otto anni, la sua vita era un disastro e stava ancora aspettando la stangona bionda dei suoi sogni, quando comparvi io. Non appena guardò in basso e mi notò sul disegno del tappeto, lo informai che da giovane ero stata una stangona bionda e riuscii così ad attirare la sua attenzione. Cosa mi piacque di lui? Capii che era una persona forte, di quelle che cadono in ginocchio, ma poi si rimettono in piedi. Era diverso dal cileno medio: non si lamentava, non incolpava gli altri dei suoi problemi, si faceva carico del suo karma, non era in cerca di una mamma ed era chiaro che non gli serviva una geisha che gli portasse la colazione a letto e alla sera gli preparasse su una sedia i vestiti per il giorno dopo. Non apparteneva alla scuola spartana, come mio nonno, perché era evidente che si godeva la vita, ma del nonno possedeva la stessa solidità stoica. Inoltre aveva viaggiato molto, cosa che affascina sempre noi cileni, popolo insulare. A vent'anni aveva fatto il giro del mondo in autostop, dormendo nei cimiteri perché, come mi spiegò, sono luoghi molto sicuri: di notte non ci entra nessuno. Era venuto in contatto con culture diverse, era di larghe vedute, tollerante e curioso. Inoltre parlava spagnolo con accento da bandito messicano ed era tatuato. In Cile solo i delinquenti sfoggiano tatuaggi, quindi lo trovavo molto sexy. Era capace di ordinare la cena in francese, italiano e portoghese, masticava qualche parola di russo, tagal, giapponese e cinese mandarino. Anni dopo scoprii che se le inventava, ma ormai era troppo tardi. Sapeva persino parlare inglese, nella misura in cui un nordamericano riesce a dominare la lingua di Shakespeare.

Trascorremmo due giorni insieme e poi dovetti ripartire per continuare la mia serie di presentazioni. Appena terminai, visto che non me lo toglievo dalla testa, decisi di tornare a San Francisco per una settimana, per vedere cosa ne veniva fuori. Questo è un atteggiamento tipicamente cileno, qualunque mia compatriota avrebbe fatto lo stesso. Come ho già avuto modo di dire, in due cose noi cilene siamo ferocemente determinate: nel difendere i piccoli e quando si tratta di accalappiare un uomo. Il nostro senso del nido è molto sviluppato, non ci basta un'avventura, vogliamo mettere su famiglia e possibilmente avere dei figli, che orrore! Vedendomi comparire a casa sua senza invito, Willie fu colto da un attacco di panico e cercò di darsela a gambe, ma non sapeva con chi aveva a che fare. Gli feci uno sgambetto e lo placcai come un giocatore di football americano. Alla fine fu costretto ad ammettere a malincuore che io ero la cosa più simile alla stangona bionda che poteva incontrare, così ci sposammo. Era il 1987.

Per restare accanto a Willie ero disposta a rinunciare a molto, ma non ai miei figli o alla scrittura, così, appena riuscii a ottenere i documenti di residenza, avviai la trafila per trasferire Paula e Nicolas in California. Nel frattempo mi ero innamorata di San Francisco, una città allegra, tollerante, aperta, cosmopolita e così diversa da Santiago! San Francisco fu fondata da avventurieri, prostitute, mercanti e predicatori che giunsero nel 1849, attratti dalla febbre dell'oro. Decisi di scrivere di quel periodo stupendo di avidità, violenza, eroismo e conquista, perfetto per un romanzo. A metà del XIX secolo il tragitto più sicuro per raggiungere la California dalla costa orientale degli Stati Uniti o dall'Europa passava per il Cile. Le navi dovevano attraversare lo Stretto di Magellano o circumnavigare Capo Horn. Erano vere odissee, ma sarebbe stato peggio affrontare il continente nordamericano con le carovane o avventurarsi nelle foreste malariche dell'Istmo di Panama. I cileni fiutarono l'affare dell'oro prima che la notizia si diffondesse negli Stati Uniti, e accorsero in massa, perché contavano su una lunga tradizione di minatori e amavano partire alla ventura. Abbiamo un nome per la nostra propensione a metterci in cammino, diciamo che siamo patiperros, perché vaghiamo come cani che seguono una pista, senza una direzione precisa. Abbiamo bisogno di fuggire, ma appena superata la cordigliera cominciamo a sentire la mancanza del nostro paese e alla fine torniamo sempre. Siamo buoni viaggiatori e pessimi emigranti: la nostalgia non ci dà tregua.

La vita e la famiglia di Willie erano caotiche, ma invece di tagliare la corda, come avrebbe fatto una persona sensata, mi ci buttai "a capofitto e alla cilena", come i soldati che presero il Colle di Arica nel XIX secolo. Ero intenzionata a conquistarmi uno spazio in California e nel cuore di quell'uomo, a qualunque costo. Negli Stati Uniti, tranne gli indiani, discendono tutti da gente arrivata da fuori; io non rappresento certo un'eccezione. Il XIX fu il secolo degli immigrati e dei rifugiati, mai prima di allora simili masse avevano abbandonato il loro paese d'origine per trasferirsi da un'altra parte, per fuggire dalla violenza o dalla povertà. Io e la mia famiglia prendemmo parte a quella diaspora; non fu poi male come sembra. Sapevo che non sarei riuscita a integrarmi completamente, ero troppo avanti negli anni per fondermi nel famoso crogiolo yankee. Si nota che sono cilena: dormo, cucino, faccio l'amore e scrivo in spagnolo; la maggior parte dei miei romanzi ha un gusto decisamente sudamericano. Ero certa che non mi sarei mai sentita californiana, ma non lo pretendevo nemmeno, al massimo aspiravo a prendere la patente e a imparare quel tanto di inglese necessario a ordinare la cena al ristorante. Non immaginavo che avrei ottenuto molto di più.

Impiegai diversi anni ad adattarmi alla California, ma il processo si rivelò divertente. Mi aiutò molto scrivere un libro sulla vita di Willie, Il piano infinito, perché fui costretta a visitare lo stato e a studiarne la storia. Ricordo quanto al principio mi offendeva il linguaggio schietto dei gringos, ma ben presto mi resi conto che la maggior parte di loro è in realtà tollerante e cortese. Non riuscivo a credere quanto fossero edonisti i nordamericani, ma poi l'ambiente mi contagiò e finii per immergermi in una Jacuzzi, circondata da candele profumate. Il nonno si sarebbe rivoltato nella tomba di fronte a questo lusso sfrenato. Mi integrai a tal punto nella cultura californiana che ora faccio meditazione e sono in analisi, anche se baro sempre: durante le meditazioni invento storie per non annoiarmi e durante l'analisi ne invento altre per non annoiare lo psicologo. Mi sono adattata al ritmo di questo paese straordinario. Ho luoghi preferiti dove passo il tempo a sfogliare libri, passeggiare e conversare con gli amici; amo le mie abitudini, le stagioni, le querce secolari che circondano la casa, il profumo della mia tazza di tè, il lungo lamento notturno della sirena che segnala alle navi la nebbia nella baia. Attendo con ansia il tacchino del Giorno del Ringraziamento e lo splendore kitsch del Natale. Partecipo persino all'inevitabile picnic del 4 luglio. A proposito, quel picnic è organizzato alla perfezione, come tutto il resto da queste parti: si guida in fretta, ci si sistema nel posto che si è riservato, si aprono i cestini, si ingurgita il pranzo, si tirano due calci al pallone e si rientra in fretta per evitare il traffico. In Cile impiegheremmo tre giorni per organizzare una simile impresa.

Il senso del tempo dei nordamericani è molto particolare, questo popolo non conosce la pazienza. Si deve fare tutto in fretta, compresi pranzi e sesso, che nel resto del mondo sono cerimonie. I gringos hanno coniato due termini impossibili da tradurre: snack e quickie, per definire il pasto in piedi e le sveltine... che spesso pure avvengono in piedi. I libri più venduti negli Stati Uniti sono i manuali: come diventare milionario in dieci facili lezioni, come perdere quindici chili in una settimana, come superare un divorzio e così via. La gente è sempre in cerca di scorciatoie e costantemente in fuga da ciò che considera spiacevole: bruttezza, vecchiaia, grasso, malattie, povertà e ogni tipo di fallimento.

Il fascino esercitato su questo popolo dalla violenza non ha mai smesso di stupirmi. Si potrebbe dire che ho vissuto in circostanze stimolanti: ho assistito a rivoluzioni, guerre e criminalità urbana, per non parlare della ferocia del golpe militare in Cile. La nostra casa di Caracas fu svaligiata diciassette volte; ci rubarono quasi tutto, dall'apriscatole a tre automobili, due le portarono via dalla strada e la terza dopo aver abbattuto la saracinesca del garage. Per fortuna nessun ladro ebbe mai cattive intenzioni, una volta lasciarono persino un biglietto di ringraziamento appiccicato all'anta del frigorifero. In confronto ad altri paesi del mondo, dove un bambino può calpestare una mina andando a scuola e perdere le gambe, gli Stati Uniti sono sicuri come un convento, ma la cultura è incline alla violenza. Lo dimostrano gli sport, i giochi, l'arte, per non parlare del cinema, che è terrificante. I nordamericani non ammettono la violenza nella loro vita, ma hanno bisogno di sperimentarla di riflesso. Amano la guerra, basta che non si combatta a casa loro.

Il razzismo, invece, non mi ha colpito in maniera particolare, nonostante Willie sostenga che rappresenti il problema più grave del paese, perché ho sopportato per quarantacinque anni il sistema delle classi sociali del Sud America, dove i poveri e la popolazione meticcia, africana o indigena, vivono inesorabilmente emarginati, quasi fosse la cosa più naturale del mondo. Se non altro, negli Stati Uniti i cittadini sono coscienti del conflitto e la maggior parte di loro lotta di solito contro il razzismo.

In Cile Willie risveglia la curiosità dei miei amici e dei bambini che incontra per strada, per la sua indiscutibile aria da straniero, che accentua con un cappello australiano e gli stivali da cow-boy. Gli piace il mio paese, dice che sembra la California di quarant'anni fa, ma si sente forestiero, proprio come mi sento io negli Stati Uniti. Capisco la lingua, però mi manca qualcosa. Quando ci riuniamo con gli amici, non riesco a partecipare molto alla conversazione, perché non sono al corrente dei fatti o non conosco la gente di cui parlano, non ho visto gli stessi film quand'ero giovane, non ho ballato al ritmo della chitarra epilettica di Elvis, non ho fumato marijuana e non sono scesa in piazza a protestare contro la guerra del Vietnam. Non seguo i pettegolezzi politici, perché non noto una grande differenza tra democratici e repubblicani. Forse perché sono straniera, non mi sono lasciata coinvolgere dall'entusiasmo collettivo scatenato dallo scandalo sentimentale del presidente Clinton. Dopo aver visto per quattordici volte le mutande della signorina Lewinsky in televisione mi sono stufata. Persino il baseball per me rappresenta un mistero; non capisco perché ci si debba scaldare tanto per quattro grassoni in attesa di una palla che non arriva mai. Non sono integrata nella società: indosso abiti di seta quando il resto della popolazione va in giro con le scarpe da ginnastica, e ordino una bistecca quando gli altri seguono la moda del tofu e del tè verde.

Ciò che amo di più della mia condizione di immigrata è la stupenda sensazione di libertà. Provengo da una cultura conservatrice, da una società chiusa, dove ognuno si fa carico sin dalla nascita del karma dei suoi antenati e dove ci si sente sempre osservati, giudicati, controllati. L'onore macchiato non si può lavare. In Cile un bambino che ruba matite colorate all'asilo nido resta marchiato come ladruncolo per il resto della sua vita, mentre negli Stati Uniti il passato non ha importanza, nessuno domanda il cognome, il figlio di un assassino può diventare presidente... purché sia bianco. Si possono commettere errori, perché esiste sempre un'altra chance: per cominciare una nuova vita basta trasferirsi in un altro stato e cambiare nome. Gli spazi sono così sconfinati che le strade sono infinite.

Willie, condannato a vivere con me, all'inizio si sentiva a disagio a causa delle mie idee e abitudini cilene, esattamente come io lo ero a causa delle sue. Avevamo problemi più gravi, come il fatto che io cercassi di imporre le mie antiquate norme di convivenza ai suoi figli e che lui non avesse la benché minima idea di cosa fosse il romanticismo; e problemi meno gravi, come il fatto che io non fossi capace di usare gli elettrodomestici e che lui russa; ma a poco a poco li abbiamo superati. Forse questo è il matrimonio, e niente di più: essere elastici. Come immigrata ho cercato di conservare le qualità cilene che amo e di rinunciare ai pregiudizi che mi costringevano in una camicia di forza. Ho accettato questo paese. Per amare un posto bisogna far parte della comunità e dare qualcosa in cambio per ciò che si riceve; io penso di averlo fatto. Ci sono molte cose degli Stati Uniti che ammiro e altre che desidererei cambiare, ma non è sempre così? Un paese, come un marito, è sempre suscettibile di miglioramento.

Un anno dopo essermi trasferita in California, nel 1988, la situazione in Cile cambiò, perché Pìnochet aveva perso il plebiscito e il paese si stava preparando alla restaurazione della democrazia. Perciò tornai. Partii preoccupata, perché non sapevo cosa avrei trovato, e quasi non riconobbi Santiago e la gente, perché in quegli anni tutto era cambiato. La città era piena di giardini e di edifici moderni, invasa dal traffico e dal commercio, energica, velocizzata e progressista; ma restavano tracce feudali, come le domestiche con i grembiuli blu che portavano a spasso gli anziani nel quartiere alto e i mendicanti a ogni semaforo. I cileni erano prudenti, rispettavano le gerarchie e si vestivano in modo molto conservatore, gli uomini con la cravatta, le donne con la gonna, e in molti uffici del governo e delle aziende private gli impiegati portavano l'uniforme, come gli assistenti di volo. Mi resi conto che molti di coloro che erano rimasti in Cile e se l'erano passata male consideravano traditori quelli che avevano lasciato il paese e pensavano che fuori la vita fosse più facile. D'altra parte, c'erano esiliati che accusavano la gente rimasta in Cile di aver collaborato con la dittatura. Il candidato della Concertación, Patricio Aylwin, aveva vinto le elezioni con un margine ristretto, la presenza dei militari era ancora opprimente e la gente aveva paura. La stampa era ancora sottoposta a censura; i giornalisti che mi intervistarono, abituati a essere prudenti, mi rivolsero domande caute e sciocche, e poi non pubblicarono le mie risposte. La dittatura aveva fatto l'impossibile per cancellare la storia recente e il nome di Salvador Allende. Mentre tornavo in aereo tirai un sospiro di sollievo quando vidi dall'alto la Baia di San Francisco e, senza pensarci, esclamai: "Finalmente a casa!". Era la prima volta da quando avevo lasciato il Cile nel 1975 che mi consideravo "a casa".

Non so dire se la mia casa sia il luogo dove vivo, o semplicemente Willie. Viviamo insieme da diversi anni e mi sembra che lui sia l'unica terra a cui appartengo, dove non mi sento forestiera. Insieme abbiamo superato parecchi alti e bassi, abbiamo conosciuto grandi successi e grandi sconfitte. Il dolore più profondo è stata la tragedia delle nostre figlie: nel giro di un anno Jennifer morì di overdose e Paula di una strana malattia genetica, chiamata porfiria, che la fece sprofondare in un lungo coma e infine la condusse alla morte. Io e Willie siamo forti e testardi, ci è costato ammettere di avere il cuore spezzato. Ci è voluto tempo e terapia per riuscire finalmente ad abbracciarci e piangere insieme. Il lutto è stato un lungo viaggio all'inferno, ma sono riuscita a sopravvivere grazie a Willie e alla scrittura.

Nel 1994 tornai in Cile in cerca d'ispirazione e da allora lo faccio tutti gli anni. Trovai i miei compatrioti più rilassati e la democrazia più solida, ma sempre condizionata dalla presenza dei militari, ancora influenti, e dai senatori a vita nominati da Pinochet per controllare il parlamento. Il governo si manteneva in precario equilibrio tra le forze politiche e sociali. Visitai le baraccopoli, dove un tempo la gente era combattiva e organizzata. I preti e le suore progressisti, che durante quegli anni avevano vissuto in mezzo ai bisognosi, mi raccontarono che la miseria era sempre la stessa, ma la solidarietà era scomparsa e ora all'alcolismo, alla violenza nelle famiglie e alla disoccupazione, si aggiungevano la criminalità e la droga, il problema più grave tra i giovani.

La regola d'oro per i cileni era mettere a tacere le voci del passato, lavorare per il futuro e non provocare i militari per nessun motivo. Rispetto al resto dell'America Latina, il Cile viveva un buon momento di stabilità politica ed economica, nonostante si contassero ancora cinque milioni di indigenti. Eccetto le vittime della repressione, le loro famiglie e alcune organizzazioni che si occupavano dei diritti umani, nessuno pronunciava ad alta voce le parole "desaparecidos" o "tortura" . La situazione cambiò quando Pinochet fu arrestato a Londra – dove si era recato per una visita di controllo e per riscuotere la sua provvigione per una compravendita di armi –, accusato dell'assassinio di cittadini spagnoli da parte di un giudice che ne aveva chiesto l'estradizione in Spagna. Il generale, che contava ancora sull'appoggio incondizionato delle Forze Armate, aveva vissuto per venticinque anni isolato dagli adulatori che circondano sempre i potenti e, nonostante l'avessero avvertito dei rischi che correva, era partito, sicuro della propria impunità. La sua sorpresa, quando fu arrestato dagli inglesi, è paragonabile solo a quella del resto dei cileni, abituati all'idea che il generale fosse intoccabile. Quando accadde mi trovavo per caso a Santiago. Notai che nel giro di una settimana il vaso di Pandora era stato scoperchiato: ciò che fino ad allora era rimasto sepolto sotto una cappa di omertà cominciava a venire a galla. Nei primi giorni si verificarono furibonde manifestazioni di piazza organizzate dai sostenitori di Pinochet, i quali minacciavano niente meno che di dichiarare guerra all'Inghilterra o di inviare un commando militare per liberare il prigioniero. La stampa cilena parlava con preoccupazione dell'affronto all'illustrissimo senatore a vita e all'onore e all'autorità suprema della patria; ma la settimana successiva le manifestazioni di piazza diminuirono, i militari tacquero e il tono dei mezzi di comunicazione – che ormai parlavano dell'"ex dittatore arrestato a Londra" – cambiò. Nessuno pensava che gli inglesi avrebbero consegnato Pinochet a un tribunale spagnolo, cosa che di fatto non accadde, ma la paura che in Cile aleggiava nell'aria svanì rapidamente. Nel giro di pochi giorni i militari persero prestigio e potere. Grazie all'intervento di quel giudice spagnolo la verità non doveva più restare nascosta.

Durante quel viaggio visitai il Sud, mi abbandonai nuovamente alla natura prodigiosa del mio paese e rividi i miei amici fedeli, ai quali sono legata più che ai miei fratelli, perché in Cile l'amicizia dura per sempre. Tornai in California ricaricata, pronta per rimettermi al lavoro. Scelsi un tema che si allontanasse il più possibile dalla morte e scrissi Afrodita, alcune divagazioni sulla gola e la lussuria, gli unici peccati capitali per i quali vale la pena di rischiare. Comprai un sacco di libri di cucina e altrettanti sull'erotismo e partii alla scoperta del quartiere gay di San Francisco, dove trascorsi settimane passando da un sexy shop all'altro. (In Cile non avrei potuto affrontare una ricerca del genere: ammesso che il materiale esistesse, non avrei mai osato procurarmelo, perché avrei messo a repentaglio l'onore della mia famiglia.) Imparai molto. È un peccato che abbia acquisito queste conoscenze così tardi, quando ormai non ho nessuno con cui metterle in pratica: Willie ha dichiarato di non essere disposto ad appendere un trapezio al soffitto.

Quel libro mi ha aiutata a uscire dalla depressione che mi aveva colpita dopo la morte di mia figlia. Da allora ho scritto un libro all'anno. A dire la verità le idee non mi mancano, quello che mi manca è il tempo. Pensando al Cile e alla California, ho scritto La figlia della fortuna e Ritratto in seppia, dove i personaggi vanno e vengono tra le mie due patrie.

Per concludere, desidero aggiungere che gli Stati Uniti mi hanno trattata molto bene, mi hanno permesso di essere me stessa o qualunque versione di me voglia inventarmi. Da San Francisco passa il mondo intero, ognuno con il suo fardello di ricordi e speranze; questa città è piena di stranieri, non sono un'eccezione. Per le strade si sentono mille lingue, si erigono templi di tutte le religioni, si sente l'odore del cibo dei paesi più lontani. Pochi nascono qui, la maggior parte sono stranieri in paradiso, come me. A nessuno importa chi sono o cosa faccio, nessuno mi osserva o mi giudica, mi lasciano in pace, con la contropartita che se cado morta per la strada nessuno se ne accorge, ma in fondo è un prezzo basso da pagare per la libertà. In Cile mi costerebbe molto di più, perché lì le differenze non sono ancora apprezzate. In California l'unica cosa che non si tollera è l'intolleranza.

L'osservazione di mio nipote Alejandro sui tre anni di vita che mi restano mi costringe a chiedermi se preferisco viverli negli Stati Uniti o tornare in Cile. Non lo so. Francamente dubito che lascerei la mia casa. Vado in Cile una o due volte all'anno, e quando arrivo molte persone sembrano felici di vedermi, ma penso siano più contente quando me ne vado, compresa mia madre, che vive angosciata all'idea che sua figlia commetta qualche follia, come apparire in televisione a parlare dell'aborto, per esempio. Sto bene per qualche giorno, ma dopo due o tre settimane comincio a sentire la mancanza del tofu e del tè verde.

Questo libro mi ha aiutata a capire che non sono obbligata a prendere una decisione: posso tenere un piede qui e uno là, gli aerei esistono per questo, e io non sono tra quelli che rinunciano a volare per paura del terrorismo. Sono fatalista: nessuno muore un minuto prima né uno dopo la sua ora. Per il momento la California è la mia casa e il Cile è la terra della mia nostalgia. Il mio cuore non è diviso, anzi, si è ingrandito. Posso vivere e scrivere quasi dappertutto. Ogni libro contribuisce a completare quel "paese nella mia mente", come lo chiamano i miei nipoti. Nel lento esercizio della scrittura ho combattuto con i miei demoni e le mie ossessioni, ho esplorato gli anfratti della memoria, ho riscattato storie e personaggi dimenticati, ho rubato vite altrui, e con tutta questa materia prima ho costruito un luogo che chiamo la mia patria. È da lì che vengo.

Spero che questa lunga diatriba risponda alla domanda di quello sconosciuto sulla nostalgia. Non credete a tutto ciò che dico, perché tendo a esagerare e, come vi ho detto all'inizio, non riesco a essere obiettiva quando si parla del Cile; o, per meglio dire, non riesco quasi mai a essere obiettiva. Comunque, le cose più importanti del mio viaggio in questo mondo non compaiono nella mia biografia o nei miei libri, sono accadute in modo quasi impercettibile nelle stanze segrete del cuore. Sono una scrittrice perché sono nata con un buon orecchio per le storie e ho avuto la fortuna di appartenere a una famiglia eccentrica e di vivere un'esistenza errabonda. Il mestiere della scrittura mi ha definita: parola dopo parola ho creato la persona che sono e il paese inventato in cui vivo.

Ringraziamenti

Materia di questo libro sono i miei ricordi, oltre alle utili osservazioni degli amici Delia Vergara, Malú Sierra, Vittorio Cintolessi, Josefina Rossetti, Agustín Huneeus, Cristián Toloza e altri ancora. Ho attinto anche dalle opere di Alonso de Ercilla y Zúñiga, Eduardo Blanco Amor, Benjamín Subercaseaux, Leopoldo Castedo, Pablo Neruda, Alfredo Jocelyn-Holt, Jorge Larraín, Luis Alejandro Salinas, María Luisa Cordero, Pablo Huneeus e altri ancora. Ringrazio, come sempre, mia madre Francisca Llona e il mio patrigno, Ramón Huidobro, che mi hanno aiutata a reperire diverse informazioni e a correggere il testo definitivo. Grazie anche ai miei fedeli agenti, Carmen Balcells e Gloria Gutiérrez, al mio correttore spagnolo Jorge Manzanilla e al mio editor, l'americana Terry Karten.