...per un motivo o per l'altro, sono un triste esiliato. In un modo o nell'altro, viaggio con la nostra terra e continuano a vivere con me, laggiù, lontano, le essenze longitudinali della mia patria.
PABLO NERUDA, 1972
1.
QUALCHE PAROLA PER COMINCIARE
Sono nata tra le nuvole di fumo e la carneficina della Seconda guerra mondiale e ho trascorso la maggior parte della mia giovinezza in attesa che qualcuno, premendo distrattamente un bottone, facesse esplodere le bombe atomiche e saltare in aria il pianeta. Nessuno sperava di vivere a lungo; andavamo di fretta, divorando ogni istante prima che ci sorprendesse l'apocalisse, perciò non c'era tempo di stare a guardarsi l'ombelico e prendere appunti, come si usa adesso. E per di più sono cresciuta a Santiago del Cile, dove qualunque naturale inclinazione autocontemplativa è stroncata sul nascere. Il motto per definire lo stile di vita di quella città è: "Chi dorme non piglia pesci". In altre società più raffinate, come quella di Buenos Aires o New York, andare dallo psicologo era una cosa normale; non andarci era considerato un segno di ignoranza o semplicioneria. In Cile, invece, ci andavano solo i pazzi pericolosi con la camicia di forza; ma questo cambiò negli anni settanta, con la rivoluzione sessuale. Chissà che le due cose non siano collegate... Nessuno della mia famiglia è mai stato in terapia, nonostante qualcuno di noi fosse un vero caso clinico, perché l'idea di fare le proprie confidenze a uno sconosciuto – e per giunta pagarlo perché ascoltasse – era considerata assurda; per questo c'erano i preti e le zie. Non indulgo spesso alla riflessione, ma nelle ultime settimane mi sono sorpresa a ripensare al passato con una frequenza che può spiegarsi solo come un segno di senilità precoce.
A scatenare questo turbine di ricordi sono stati due episodi avvenuti di recente. Il primo è stato un commento casuale di mio nipote Alejandro che, mentre scrutavo la carta geografica delle mie rughe davanti allo specchio, ha esclamato compassionevole: "Non preoccuparti, nonna, ti restano almeno altri tre anni!". Allora ho deciso che era giunto il momento di rivedere la mia vita, per cercare di capire come avrei desiderato trascorrere quei tre anni che tanto generosamente mi erano stati concessi. Il secondo episodio scatenante è stato la domanda di uno sconosciuto durante una conferenza di scrittori di viaggi che mi sono trovata a inaugurare. Premetto che non appartengo a quella strana categoria di gente che viaggia in luoghi lontani, sopravvive ai batteri e poi pubblica libri per convincere gli incauti a seguire le sue orme. Viaggiare è terribilmente faticoso, soprattutto dove non è previsto il servizio in camera. Le mie vacanze ideali le trascorrerei su una sdraio sotto un ombrellone nel mio giardino a leggere libri di viaggi avventurosi che non intraprenderei mai, se non per scappare da qualcosa. Provengo dal cosiddetto Terzo mondo (qual è il Secondo?) e ho dovuto accalappiare un marito per vivere legalmente nel Primo; non ho intenzione di tornare al sottosviluppo senza una valida ragione. Tuttavia, mio malgrado, ho peregrinato per cinque continenti e ho dovuto fare l'esiliata volontaria e l'immigrante. In materia di viaggi sono un'esperta e per questo mi hanno invitato a parlare in quella conferenza. Alla fine del mio breve discorso si è alzata una mano tra il pubblico e un giovanotto mi ha domandato che ruolo giocasse la nostalgia nei miei romanzi. Per un attimo sono rimasta in silenzio. Nostalgia... secondo il dizionario è "la tristezza di trovarsi lontano dalla propria terra, la malinconia causata dal ricordo di una gioia perduta". La domanda mi ha tolto il fiato, perché fino ad allora non mi ero resa conto che la scrittura rappresenta per me un esercizio costante della nostalgia. Sono stata forestiera per quasi tutta la vita, condizione che accetto perché non posso fare altrimenti. Diverse volte sono stata costretta a partire, sciogliendo legami e lasciandomi tutto alle spalle, per cominciare da zero in un altro posto; ho vagato per più luoghi di quanti possa ricordare. A forza di dire addio mi si sono seccate le radici e ho dovuto generarne altre che, in mancanza di un terreno in cui fissarsi, mi si sono piantate nella memoria; ma attenzione, la memoria è un labirinto dove i minotauri sono in agguato.
Se mi avessero chiesto di dove sono, fino a poco tempo fa avrei risposto, senza pensarci due volte, che non sono di nessuna parte, o che sono sudamericana, o cilena per affetto. Oggi, invece, dico che sono americana, non solo perché così è scritto sul mio passaporto, o perché questa definizione include l'America dal nord al sud, o perché mio marito, i miei figli, i miei nipoti, la maggior parte dei miei amici, i miei libri e la mia casa si trovano nel Nord della California, ma perché, non molto tempo fa, le torri gemelle del World Trade Center sono state distrutte da un attentato terroristico, e da quel momento qualcosa è cambiato. In una crisi non è possibile restare neutrali. Quella tragedia mi ha costretto a confrontarmi con il mio senso d'identità; ora sono consapevole di essere un membro in più della variopinta popolazione americana, tanto quanto prima ero cilena. Non mi sento più una straniera negli Stati Uniti. Mentre guardavo le torri che crollavano ho avuto la sensazione di aver già vissuto un incubo praticamente identico. Per una spaventosa coincidenza – karma storico – gli aerei dirottati negli Stati Uniti si sono schiantati contro i loro obiettivi un martedì 11 settembre, esattamente lo stesso giorno della settimana e del mese – e quasi alla stessa ora del mattino – in cui era avvenuto il golpe militare in Cile, nel 1973, un attentato terroristico organizzato dalla Cia contro una democrazia. Le immagini delle torri che bruciano, del fumo, delle fiamme e del panico, sono simili nelle due scene. Quel lontano martedì del 1973 la mia esistenza è andata in pezzi, niente è stato più come prima, avevo perso il mio paese. Anche quel fatidico martedì del 2001 ha rappresentato un momento decisivo, niente sarebbe più stato come prima, ma io ho guadagnato un paese.
L'osservazione di mio nipote e la domanda dello sconosciuto mi hanno dato lo spunto per questo libro, che ancora non so bene quale piega prenderà; per il momento divago, come sempre divagano i ricordi, quindi vi prego di pazientare ancora un po'.
Scrivo queste pagine dal cucuzzolo di un ripido colle, sotto lo sguardo vigile di un centinaio di querce nodose, mentre osservo la Baia di San Francisco. Ma io vengo da un'altra terra e ho il vizio della nostalgia. La nostalgia è un sentimento triste e un po' kitsch, come la dolcezza; è praticamente impossibile affrontare il tema senza cadere nel sentimentalismo, ma ci proverò lo stesso. Se dovessi scivolare nel patetico, prometto di rimettermi in piedi qualche riga più avanti. Alla mia età – ormai sono vecchia come la penicillina – si ricordano cose rimaste nel dimenticatoio per mezzo secolo. Per decenni non ho mai ripensato alla mia infanzia, né alla mia adolescenza; a essere sincera mi importavano poco quegli anni passati, e quando guardavo gli album di fotografie di mia madre non riconoscevo nessuno, salvo una femmina di bulldog che rispondeva all'assurdo nome di Pelvia López-Pun, e l'unica ragione per la quale mi era rimasta impressa è che ci assomigliavamo in maniera impressionante. C'è una fotografia, dove siamo ritratte insieme quando io avevo pochi mesi, sulla quale mia madre aveva dovuto indicare con una freccia chi ero io e chi era il cucciolo. Di certo la mia pessima memoria dipende dal fatto che quei tempi non sono stati particolarmente lieti, ma credo che ciò capiti alla maggior parte dei mortali. L'infanzia felice è un mito; per rendersene conto basta pensare alle fiabe, dove il lupo mangia la nonnina e poi arriva il cacciatore, che squarta la povera bestia con il coltello, tira fuori la vecchia viva e vegeta, riempie la pancia del lupo di sassi e gliela ricuce con ago e filo, facendogli venire una sete tale che il poveretto si precipita al fiume per bere e affoga per il peso delle pietre. Perché mai non lo uccide in un modo più semplice e meno crudele?, dico io. Certamente perché l'infanzia non è semplice ed è crudele. A quei tempi non esisteva la definizione di "abuso di minore", si pensava che il sistema migliore per educare i bambini fosse con la cinghia in una mano e la croce nell'altra, così come era scontato che l'uomo avesse il diritto di picchiare la moglie se gli serviva in tavola la minestra fredda. Prima che gli psicologi e le autorità intervenissero nella questione, nessuno aveva messo in dubbio i benefici effetti di una bella ripassata. Io non le prendevo quanto i miei fratelli, ma vivevo ugualmente nella paura, come tutti gli altri bambini che conoscevo.
Nel mio caso, la normale infelicità dell'infanzia fu aggravata da una moltitudine di complessi, così ingarbugliati che adesso non riesco neppure a enumerarli, ma per fortuna non hanno lasciato ferite che il tempo non abbia rimarginato.
Una volta una scrittrice americana di colore disse che fin da bambina si era sentita estranea in famiglia e in mezzo alla sua gente; spiegò che questa sensazione è comune a quasi tutti gli scrittori, compresi quelli che non lasciano mai la loro città natale, e che è una condizione legata alla professione, perché, senza il disagio del sentirsi diverso, non nascerebbe la necessità di scrivere. La scrittura, in fin dei conti, rappresenta un tentativo di comprendere se stessi e mettere ordine nella confusione della propria esistenza. Tutte inquietudini che non tormentano la gente normale, ma solo gli anticonformisti cronici, molti dei quali finiscono per fare gli scrittori dopo aver fallito in altri campi. Questa teoria mi ha tranquillizzata: non sono un mostro, esistono altre persone come me.
Io non mi sono mai sentita adeguata in alcun ruolo, né in famiglia, né nella classe sociale o nella religione che mi sono toccate in sorte; non facevo parte delle bande che scorrazzavano in bicicletta per strada; i cugini non mi facevano giocare con loro; da piccola ero la bambina meno popolare della scuola e in seguito sono stata per molto tempo quella che non ballava alle feste, più per timidezza che per il fatto di sentirmi brutta, almeno così preferisco pensare. Mi chiudevo orgogliosamente in me stessa, facendo finta che non mi importasse, ma in realtà avrei venduto l'anima al diavolo per far parte del gruppo, se per caso Satana mi avesse fatto una proposta così allettante. La causa del mio problema era sempre la stessa: l'incapacità di adeguarmi a ciò che gli altri considerano normale e un'irrefrenabile tendenza a emettere giudizi che nessuno desidera sentire, un'abitudine, questa, che fece scappare più di un potenziale pretendente. (Non voglio darmi delle arie, non sono mai stati molti.) Successivamente, negli anni in cui lavorai come giornalista, curiosità e sfacciataggine giocarono a mio favore. Per la prima volta facevo parte di un gruppo ed ero autorizzata a fare domande indiscrete e a divulgare le mie idee, ma questo finì improvvisamente con il golpe militare del 1973, che scatenò forze incontrollabili. Da un giorno all'altro divenni straniera nella mia terra, al punto di dover alla fine partire, perché non potevo vivere e crescere i miei figli in un paese dove regnava la paura e dove non c'era posto per i dissidenti come me. A quei tempi curiosità e sfacciataggine erano proibite dalla legge. Fuori dal Cile, attesi per molti anni che si instaurasse nuovamente la democrazia per rimpatriare, ma quando accadde non lo feci, perché ormai ero sposata con un nordamericano e abitavo vicino a San Francisco. Non sono più tornata a vivere in Cile, dove in realtà ho trascorso meno della metà della mia vita, anche se ci vado spesso; ma, per rispondere alla domanda di quello sconosciuto sulla nostalgia, sono costretta a prendere in considerazione quasi esclusivamente gli anni cileni. E per farlo devo rievocare la mia famiglia, perché nella mia mente patria e tribù si confondono.
2.
PAESE D'ESSENZE LONGITUDINALI
Cominciamo dal principio, dal Cile, quella terra remota che pochi sono in grado di localizzare sull'atlante, perché è il posto più lontano dove si possa andare senza cadere giù dal pianeta. "Perché non vendiamo il Cile e ci compriamo qualcosa più vicino a Parigi?" domandava uno dei nostri scrittori. Nessuno capita per caso da quelle parti, per quanto possa essersi perso, anche se molti visitatori decidono di rimanerci per sempre, affascinati dalla terra e dalla gente. È il punto finale di tutte le rotte, una lancia nel Sud del Sud America, quattromilatrecento chilometri di colline, vallate, laghi e mare. Così la descrive Neruda nella sua appassionata poesia:
Notte, neve e sabbia disegnano la forma
della mia patria sottile,
tutto il silenzio giace nella lunga linea,
tutta la spuma straripa dalla barba marina,
tutto il carbone la colma di misteriosi baci.
Questa terra affusolata è come un'isola, separata dal resto del continente, a nord dal Deserto di Atacama, il più arido del mondo, come amano dire i suoi abitanti, anche se probabilmente non è vero, perché in primavera una parte di questo calcinaccio lunare indossa un manto di fiori, come un meraviglioso dipinto di Monet; a est dalla Cordigliera delle Ande, imponente massiccio di rocce e nevi perenni; a ovest dalle coste scoscese dell'Oceano Pacifico; a sud dal solitario Antartico. Questo paese, dalla topografia drammatica e dai climi diversi, pieno di ostacoli capricciosi e scosso dai sospiri di centinaia di vulcani, che si estende come un miracolo geologico dai rilievi della cordigliera agli abissi del mare, è unito dal profondo senso di nazionalità dei suoi abitanti.
Noi cileni, da buoni contadini quali eravamo un tempo, siamo ancora legati alla terra. La maggior parte di noi sogna di possedere un orticello, anche solo per piantarci quattro cespi di lattuga striminzita. Il giornale più diffuso, "El Mercurio", pubblica un supplemento settimanale di agricoltura che aggiorna la popolazione sull'ultimo insignificante parassita che ha attaccato le patate, o sulla produzione di latte che si ottiene con un determinato foraggio. I lettori, che vivono tra cemento e asfalto, lo sfogliano con interesse, anche se non hanno mai visto una mucca in carne e ossa.
In linea generale, sono quattro i climi ben differenti del mio slanciato Cile. Il paese è suddiviso in province dai nomi meravigliosi, ai quali i militari, che forse facevano fatica a memorizzarli, hanno aggiunto un numero. Mi rifiuto di usarli, perché non è ammissibile che una nazione di poeti abbia una carta geografica costellata di cifre, come un delirio aritmetico. Vediamo le quattro regioni principali, cominciando dal Grande Nord, inospitale e impervio, protetto da alte montagne, che occupa un quarto del territorio e nasconde nelle sue viscere un tesoro inesauribile di minerali.
Sono stata nel Nord da bambina e non l'ho mai dimenticato, nonostante da allora sia trascorso mezzo secolo. In seguito, ho dovuto attraversare un paio di volte il Deserto di Atacama e, anche se l'esperienza è sempre straordinaria, le immagini più vive risalgono a quel primo viaggio. Nei miei ricordi, Antofagasta, che in quechua significa "paese della grande salina", non è l'attuale città moderna, ma un porto vecchio e povero, che odora di iodio, con barche da pesca, gabbiani e pellicani. Antofagasta è sorta nel XIX secolo come un miraggio nel deserto, grazie all'industria del salnitro, che per vari decenni rappresentò uno dei principali prodotti d'esportazione del paese. In seguito, quando fu inventato il nitrato, il porto non perse la sua importanza, perché adesso si esporta rame, ma le compagnie del salnitro chiusero una dopo l'altra e la pampa si popolò di villaggi fantasma. Quelle due parole, "villaggi fantasma", fecero volare la mia immaginazione durante quel primo viaggio.
Ricordo che io e la mia famiglia salimmo carichi di bagagli su un treno diretto in Bolivia, che attraversava a passo di lumaca l'implacabile Deserto di Atacama. Sole, pietre arroventate, chilometri e chilometri di spettrale desolazione, di tanto in tanto un cimitero abbandonato, qualche casa disabitata di legno o di mattoni. Faceva un caldo secco cui non sopravvivevano neanche le mosche. La sete era insopportabile; bevevamo acqua a litri, succhiavamo arance e ci difendevamo a fatica dalla polvere, che si insinuava in ogni fessura. Le labbra si tagliavano fino a sanguinare, le orecchie dolevano, eravamo disidratati. Di notte calava un freddo duro come cristallo, mentre la luna rischiarava il paesaggio con una luce azzurra. Molti anni dopo visitai Chuquicamata, la miniera di rame a cielo aperto più grande del mondo; un immenso anfiteatro dove migliaia di uomini color terra estraggono come formiche il minerale dalle pietre. Il treno salì a più di quattromila metri d'altezza e la temperatura scese tanto che l'acqua gelava nei bicchieri. Costeggiammo il deserto di sale di Uyuni, un mare candido dove regna un silenzio puro e dove non volano uccelli, e altre saline dove vedemmo eleganti fenicotteri. Sembravano pennellate di colore tra i cristalli che si erano formati, come pietre preziose, nel sale.
Il cosiddetto Piccolo Nord, che certi non considerano una regione vera e propria, separa l'arido Nord dalla fertile zona centrale. Qui si trova la Valle di Elqui, uno dei centri spirituali della Terra che, stando a quanto si dice, è un luogo magico. Le forze misteriose di Elqui attirano pellegrini che accorrono per entrare in contatto con l'energia cosmica dell'universo e molti si fermano a vivere in comunità esoteriche. Meditazione, religioni orientali, guru di diversa provenienza, a Elqui c'è di tutto; è come un angolo di California. Lì si produce anche il nostro pisco, un liquore di uva moscata, semitrasparente, virtuoso e sereno come la forza angelica emanata da questa terra. È l'ingrediente principale del pisco sour, la dolce e traditrice bevanda nazionale, che va giù come l'acqua, ma al secondo bicchiere sferra una botta che mette al tappeto anche il bevitore più incallito. Il nome di questo liquore l'abbiamo usurpato senza troppi complimenti alla città di Pisco, in Perú. Se qualunque vino frizzante si chiama champagne, anche se l'autentico è solo quello della Champagne, in Francia, immagino che anche il nostro pisco possa appropriarsi di un nome altrui. Nel Piccolo Nord è stata costruita La Silla, uno degli osservatori astronomici più importanti del mondo, perché l'aria è così tersa che nessuna stella – né morta né appena formata – sfugge all'occhio gigantesco del telescopio. Un tale che aveva lavorato lì per trent'anni mi raccontò che gli astronomi più famosi del mondo attendono per anni il loro turno per scrutare l'universo. Osservai che doveva essere meraviglioso lavorare con scienziati che fissano sempre l'infinito e vivono distaccati dalle miserie terrene; ma lui replicò che è vero il contrario: gli astronomi sono meschini quanto i poeti; a colazione arrivano a litigare per la marmellata. La natura umana è sorprendente.
La Valle Centrale è la zona più prospera del paese, terra di vigneti e alberi di mele, dove si concentrano le industrie e un terzo della popolazione, che vive nella capitale. Santiago è stata fondata in questo luogo da Pedro de Valdivia nel 1541, perché, dopo aver vagato per mesi nelle terre deserte del Nord, gli sembrò di essere arrivato nel paradiso terrestre. In Cile tutto si concentra nella capitale, nonostante lo sforzo di diversi governi che, per mezzo secolo, hanno cercato di decentrare il potere nelle province. Ciò che non avviene a Santiago pare non abbia importanza, anche se la vita nel resto del paese è mille volte più piacevole e tranquilla.
Il Grande Sud comincia a Puerto Montt, a quaranta gradi di latitudine sud. È una regione incantata, ricca di boschi, laghi, fiumi e vulcani. Piogge torrenziali mantengono rigogliosa l'intricata vegetazione della foresta fredda, dove crescono gli alberi autoctoni, antichi di millenni e ora minacciati dall'industria dei legnami. Verso sud si attraversano pampas fustigate da venti inclementi; poi il paese si sgrana in un rosario di isole disabitate e nebbie lattiginose, in un labirinto di fiordi, isolotti, canali, e ovunque acqua. L'ultima città all'estremo del continente è Punta Arenas, erosa da tutti i venti, aspra e orgogliosa, che si erge davanti a lande e ghiacciai.
Al Cile appartiene una parte dell'ignoto continente antartico, un mondo di gelo e solitudine, di candore infinito, dove nascono le fiabe e gli uomini non sopravvivono; al Polo Sud abbiamo piantato la nostra bandiera. Per molto tempo nessuno attribuì valore all'Antartide, ma ora tutti sanno che oltre a essere un paradiso di fauna marina nasconde un'immensa ricchezza minerale, e perciò non esiste paese che non ci abbia messo sopra gli occhi. Con una nave da crociera è possibile visitarlo abbastanza comodamente durante l'estate, ma il viaggio costa caro e per il momento ci vanno solo i turisti ricchi e gli ecologi poveri, ma determinati.
Nel 1888 abbiamo conquistato la misteriosa Isola di Pasqua, "l'ombelico del mondo", o Rapa Nui, come si chiama nella lingua locale; persa nella vastità dell'Oceano Pacifico, a duemilacinquecento miglia dalla terraferma, più o meno a sei ore di volo da Valparaíso o Tahiti. Non sono sicura del perché ci appartenga. A quei tempi bastava che il capitano di una nave piantasse una bandiera per impossessarsi legalmente di una fetta del pianeta, anche se gli abitanti, in questo caso pacifici polinesiani, non erano d'accordo. Le nazioni europee facevano così; il Cile non poteva essere da meno. Il contatto con l'America Latina si rivelò devastante per gli abitanti dell'Isola di Pasqua. A metà del XIX secolo la maggior parte della popolazione di sesso maschile fu deportata in Perú e ridotta in schiavitù nelle guaniere, e il Cile chiuse gli occhi davanti al destino di quei cittadini dimenticati. Quella povera gente subì tali maltrattamenti che in Europa si sollevò una protesta internazionale e, al termine di una lunga battaglia diplomatica, gli ultimi quindici indigeni sopravvissuti furono restituiti alle loro famiglie. Erano affetti da vaiolo e in poco tempo la malattia sterminò l'ottanta per cento degli abitanti che restavano nell'isola. Il destino degli altri non fu migliore. Le pecore distrussero la vegetazione, trasformando il territorio in una distesa brulla di lava riarsa, e la negligenza delle autorità – in questo caso la Marina cilena – fece sprofondare gli indigeni nella miseria. Durante gli ultimi due decenni Rapa Nui è stata riscattata dal turismo e dall'interesse scientifico.
Sull'isola si trovano gigantesche statue di pietra vulcanica, alcune delle quali pesano più di venti tonnellate. Questi moai da secoli incuriosiscono gli studiosi. Scolpirle nelle pareti dei vulcani e poi trascinarle su un terreno sconnesso, issarle su una piattaforma spesso inaccessibile e collocare sulla loro cima un cappello di pietra rossa è un'impresa titanica. Come sarà stato possibile? Non esistono tracce di una civiltà tanto avanzata da spiegare una simile prodezza. L'isola fu popolata da due razze diverse, una delle quali, gli arikis, era dotata, secondo la leggenda, di poteri soprannaturali, grazie ai quali gli uomini facevano levitare i moai e li sistemavano senza il minimo sforzo fisico in cima agli altissimi altari. È un peccato che questa tecnica sia andata perduta. Nel 1940, l'antropologo norvegese Thor Heyerdahl costruì una zattera chiamata Kon-Tiki, con la quale navigò dal Sud America all'Isola di Pasqua, per provare che era esistito un contatto tra gli inca e gli abitanti dell'isola.
Visitai l'Isola di Pasqua nell'estate del 1974, quando c'era solo un volo settimanale e il turismo era praticamente inesistente. Affascinata dal luogo, mi trattenni tre settimane più del previsto e così mi trovavo lì sia quando fu inaugurata la televisione che durante una visita del generale Pinochet, capo della giunta militare che aveva rovesciato la democrazia qualche mese prima. La televisione fu accolta con più entusiasmo del nuovo dittatore. Il soggiorno del generale fu molto pittoresco, ma non voglio scendere in dettagli. Basti dire che una nuvola dispettosa si posizionava sulla sua testa tutte le volte che cercava di parlare in pubblico, e lui si ritrovava sempre bagnato fradicio. Il generale era arrivato con il proposito di assegnare titoli di proprietà agli abitanti dell'isola, ma nessuno si dimostrò particolarmente interessato. Fin dai tempi remoti, infatti, gli indigeni sapevano a chi apparteneva questa o quella terra, e perciò temevano, a ragione, che quel pezzo di carta sarebbe servito solo a complicare loro la vita.
Al Cile appartiene anche l'Isola di Juan Fernández dove, nel 1704, fu abbandonato il marinaio scozzese Alexander Selkirk, cui si ispirò Daniel Defoe per il suo romanzo Robinson Crusoe. Selkirk visse sull'isola per più di quattro anni, senza un pappagallo addomesticato e un indigeno di nome Venerdì, fino a quando fu recuperato da una nave che lo riportò in Inghilterra, dove non si può dire lo attendesse un destino migliore. Se siete viaggiatori particolarmente ostinati, dopo un turbolento volo con un aereo da turismo o un'interminabile traversata in barca, potrete visitare la caverna dove visse lo scozzese nutrendosi di verdure e pesce.
A causa della lontananza, noi cileni abbiamo una mentalità da isolani, e la bellezza portentosa della nostra terra ci rende superbi. Ci crediamo il centro dell'universo – per noi Greenwich dovrebbe essere a Santiago – e voltiamo le spalle all'America Latina, paragonandoci sempre all'Europa. Siamo egocentrici: il resto del mondo esiste solo per bere il nostro vino e allenare squadre di calcio che noi si possa battere.
Ai visitatori consiglio di non mettere in discussione le meraviglie che sentono sul paese, sul vino e sulle donne, perché agli stranieri non è permesso criticare: esistono già più di quindici milioni di nativi che non fanno altro dalla mattina alla sera. Se Marco Polo fosse approdato sulle nostre coste dopo trent'anni di avventure in Asia, sarebbe stato subito accolto con la notizia che le nostre empanadas – deliziosi panzerotti con ripieno di carne, pesce e formaggio – sono molto più saporite di qualunque piatto del Celeste Impero. (A proposito, ecco un'altra caratteristica che ci contraddistingue: noi cileni esprimiamo giudizi senza cognizione di causa, ma con un tono talmente deciso che nessuno osa discutere.) Confesso di essere anch'io vittima di questo spaventoso sciovinismo. Quando visitai per la prima volta San Francisco, ed ebbi davanti agli occhi lo spettacolo delle dolci colline dorate, delle maestose foreste e dello specchio verde della baia, mi limitai a osservare che somigliava alla costa cilena. Più tardi scoprii che la frutta più saporita, i vini più delicati e il pesce migliore sono importati dal Cile, ovviamente.
Per vedere il mio paese con gli occhi del cuore bisogna leggere Pablo Neruda, il poeta nazionale, che ha immortalato nei suoi versi i paesaggi superbi, i profumi e le albe, la pioggia insistente e la dignitosa povertà, lo stoicismo e l'ospitalità. Quello è il paese che rimpiango e invoco in solitudine, lo scenario di tante mie storie, che appare nei miei sogni. Esistono altre facce del Cile, naturalmente: una materialista e arrogante, muso di tigre, che passa il tempo a contarsi le strisce e a lisciarsi i baffi; un'altra depressa, sfregiata dalle terribili ferite del passato; una che si mostra sorridente a turisti e banchieri; un'altra che attende rassegnata il prossimo cataclisma geologico o politico. C'è un Cile per tutti i gusti.
3.
DOLCE DI LATTE, ORGANETTI E GITANE
La mia famiglia è di Santiago, ma questo non giustifica i miei traumi, sulla terra esistono posti peggiori. Sono cresciuta in quella città, anche se ora la riconosco appena e mi perdo per le strade. La capitale è stata fondata dai soldati con la spada e con la pala, secondo la classica planimetria delle antiche città spagnole: una piazza d'armi centrale dalla quale partono strade parallele e perpendicolari. Di tutto ciò ormai resta appena il ricordo. Santiago si è estesa come un polipo impazzito, che allunga i suoi tentacoli in tutte le direzioni. Oggi ospita cinque milioni e mezzo di abitanti, che sopravvivono come meglio possono. Sarebbe una città piacevole, perché è pulita e non mancano i parchi, se solo non indossasse una cappa scura d'inquinamento, che durante la stagione invernale uccide i neonati nelle culle, gli anziani nelle case di riposo e gli uccelli nel cielo. Gli abitanti di Santiago hanno l'abitudine di controllare i tassi quotidiani di smog come seguono gli indici della borsa e i risultati delle partite. Nei giorni in cui il livello supera il limite di guardia, la circolazione dei veicoli è consentita a targhe alterne, i bambini non fanno sport a scuola e il resto dei cittadini cerca di respirare il meno possibile. La prima pioggia dell'anno ripulisce il sudiciume dell'atmosfera e cade come un acido sopra la città: passeggiando per strada senza ombrello si ha la sensazione di ricevere succo di limone negli occhi, ma niente paura, non è ancora rimasto cieco nessuno. Non è così tutti giorni, talvolta all'alba il cielo è terso ed è possibile godersi il magnifico spettacolo delle montagne innevate.
Ci sono città, come Caracas o Città del Messico, dove poveri e ricchi si mescolano, ma a Santiago i confini sono ben definiti. La differenza tra le dimore dei ricchi ai piedi della cordigliera, con le guardie al cancello e quattro garage, e le baracche dei proletari, dove vivono quindici persone ammucchiate in due locali senza il bagno, è esorbitante. Tutte le volte che vado a Santiago mi accorgo che una parte della città è in bianco e nero, e l'altra è in technicolor. Nel centro e nei quartieri proletari tutto è grigio, i pochi alberi sono stremati, i muri scoloriti, la gente spossata. Perfino i cani, che gironzolano in mezzo ai bidoni dell'immondizia, sono randagi pulciosi dal colore indefinito. Nei quartieri dove vive la classe media gli alberi sono pieni di fronde e le case modeste, ma ben tenute. Nelle zone ricche si vede solo la vegetazione: le ville sono nascoste da insormontabili muri di cinta, nessuno cammina per strada e i cani, liberi solo di notte per fare la guardia alle proprietà, sono mastini.
L'estate nella capitale è lunga, secca e calda. In questa stagione la città è coperta da un pulviscolo giallastro e il sole scioglie l'asfalto e influisce sull'umore degli abitanti. Per questo, chi può preferisce andarsene. Quando ero bambina partivo con la mia famiglia per trascorrere due mesi al mare. Si trattava di un vero e proprio safari con l'auto del nonno, una tonnellata di bagagli sul portapacchi e tre ragazzini con la nausea. A quei tempi le strade erano bruttissime ed eravamo costretti a serpeggiare su e giù per le colline, con la macchina che arrancava. C'erano sempre almeno una o due gomme da cambiare, e per farlo bisognava scaricare tutta la roba. Il nonno teneva sulle ginocchia un'enorme pistola, di quelle che si usavano un tempo per i duelli, perché credeva che sul pendio di Curacaví, non per niente chiamato La Sepoltura, si appostassero i banditi. Se mai ci fosse stato qualcuno, si sarebbe trattato al massimo di qualche vagabondo, che se la sarebbe data a gambe al primo colpo sparato in aria. Comunque, a scanso d'equivoci, affrontavamo il colle pregando; un sistema infallibile contro gli assalti, visto che non abbiamo mai incontrato i pericolosi fuorilegge. Oggi tutto è cambiato. Le stazioni balneari si raggiungono in meno di due ore viaggiando su splendide strade. Fino a poco tempo fa gli unici percorsi dissestati erano quelli che conducevano alle località dove villeggiavano i ricchi, che facevano di tutto per mantenere esclusive le loro spiagge. Sbiancavano nel vedere la marmaglia che scendeva dagli autobus il fine settimana, con i bambini meticci, i cocomeri, il pollo arrosto e le radio che diffondevano musica popolare, e lasciavano apposta le strade sterrate nel peggiore stato possibile. Come dichiarò un senatore di destra: "Quando la democrazia è democratica, non serve". Non è più così. Il paese e servito da una lunga arteria, la Panamericana, che si congiunge con l'Austral, e da un'estesa rete di strade sicure e ben asfaltate. Niente guerriglieri a caccia di qualcuno da sequestrare, né bande di narcotrafficanti che difendono il loro territorio, né poliziotti corrotti in cerca di bustarelle, come in altri paesi sudamericani un po' più interessanti del nostro. È molto più facile essere aggrediti in pieno centro che su uno sperduto sentiero di campagna.
Appena fuori Santiago il paesaggio diventa bucolico: pascoli costeggiati da file di pioppi, colline e vigneti. Vi consiglio di fermarvi a comprare frutta e verdura nelle bancarelle lungo la strada, o di fare una piccola deviazione per entrare nei villaggi e cercare la casa dove sventola un panno bianco: lì si vendono pane fatto in casa, miele e uova dorate.
Lungo la costa si incontrano spiagge, pittoreschi villaggi e calette con le reti e le barche dei pescatori. Da qui provengono i favolosi tesori della nostra cucina, come il grongo, re del mare, con il suo giubbetto di squame ingioiellate, e la corvina, dalla gustosa carne bianca, seguita da un corteo di centinaia di altri pesci, più umili ma altrettanto saporiti. Infine, la carrellata dei frutti di mare: granseole, ostriche, cozze, capesante, abaloni, gamberetti, ricci di mare e altri ancora, compresi alcuni dall'aria tanto sospetta che nessuno straniero si azzarda ad assaggiarli, come il riccio o il balano, iodio e sale, pura essenza marina. Il nostro pesce è talmente saporito che non è necessario essere dei cuochi per cucinarlo. Disponete un letto di cipolla tritata in un recipiente di terracotta o di pyrex, adagiateci sopra il vostro bel pesce condito con succo di limone, qualche pezzetto di burro, sale e pepe, infilate il tutto nel forno ben caldo fino a quando non sarà cotto, ma non troppo, per evitare che si asciughi, quindi servitelo accompagnato da uno dei nostri vini bianchi, bello fresco, e mangiatelo con i vostri amici più cari.
Ogni anno, a dicembre, andavamo con il nonno a comprare il tacchino di Natale, che i contadini allevavano per le feste. Mi sembra di vederlo, quel vecchio, che si trascinava dietro la gamba storpia mentre correva nel recinto per acchiappare il pennuto. Doveva spiccare un salto in modo da atterrargli sopra, schiacciarlo a terra e bloccarlo, mentre uno di noi cercava di legargli le zampe con uno spago.
Poi bisognava dare una mancia al contadino, per fargli ammazzare il tacchino lontano dallo sguardo di noi bambini, che altrimenti ci saremmo rifiutati di mangiarlo una volta cucinato. È molto difficile tirare il collo a una creatura con la quale si è allacciato un rapporto di amicizia; ce ne rendemmo conto quella volta che il nonno portò a casa una capra per ingrassarla in cortile e farla arrosto il giorno del suo compleanno. La capra morì di vecchiaia. E per di più scoprimmo che non si trattava di una femmina, bensì di un maschio, e appena gli spuntarono le corna non perse occasione per attaccarci a tradimento.
La Santiago della mia infanzia aveva ambizioni da grande città, ma il cuore di un paesello. Si sapeva tutto di tutti. Se alla messa della domenica mancava qualcuno, la notizia circolava alla svelta, e prima di mercoledì il parroco bussava alla porta del peccatore per chiederne conto. Gli uomini andavano in giro pieni di brillantina, amido e vanità; le donne portavano spilloni nel cappello e indossavano guanti di capretto. L'eleganza era un requisito indispensabile per passeggiare in centro o andare al cinema, che a quei tempi si chiamava biógrafo. Erano poche le case che disponevano di un frigorifero – in questo senso quella del nonno era molto all'avanguardia – e tutti i giorni passava un tizio con la gobba a distribuire ghiaccio e sale grosso per le ghiacciaie. Il nostro frigorifero, che durò quarant'anni senza mai aver bisogno di una riparazione, era dotato di un potente motore da sottomarino, che di tanto in tanto faceva tremare la casa a colpi di tosse. La cuoca tirava fuori con la scopa i cadaveri dei gattini che si infilavano sotto il frigo in cerca di calore e restavano fulminati. In fondo si trattava di un buon sistema di decimazione, perché nel sottotetto nascevano dozzine di gatti che altrimenti avrebbero invaso la casa.
Da noi, come in tutte le dimore cilene, c'erano animali. I cani si "acquisivano" in diversi modi: si ereditavano, si ricevevano in dono, si trovavano in giro investiti da una macchina, ma ancora in vita, o seguivano il bambino all'uscita della scuola e non si riusciva più a liberarsene. È sempre stato così e spero non cambi mai. Non conosco nessun cileno sano di mente che si sia comprato un cane; gli unici sono i cinofili fanatici del Kennel Club, ma a dire il vero nessuno li prende sul serio. La maggior parte dei cani cileni si chiama Negro, anche se è di un altro colore, e i gatti si chiamano Micifú o Cucho. Tuttavia, i nostri cuccioli portavano nomi biblici: Barabba, Salomè, Caino, fatta eccezione per un cane di dubbio lignaggio, che chiamammo Morbillo perché era sbucato durante un'epidemia di quella malattia. In Cile, nelle città e nei paesi scorrazzano branchi di cani randagi, ma non si tratta di bestie affamate e tristi come quelle che si vedono da altre parti, bensì di comunità organizzate. Sono animali mansueti, soddisfatti del proprio status e un po' sonnolenti. Una volta ho letto una relazione in cui l'autore sosteneva che se tutte le razze di cane esistenti al mondo si incrociassero liberamente, in poche generazioni ne risulterebbe un solo tipo: un animale forte e astuto, di taglia media, pelo corto e ispido, muso appuntito e coda instancabile, in altre parole, il tipico cagnetto cileno. Immagino che accadrà. Anche dalla fusione di tutte le razze umane risulterebbe un soggetto piuttosto basso, dal colore indefinito, adattabile, forte e rassegnato alle vicissitudini della vita, come noi cileni.
A quei tempi il pane si andava a comprare due volte al giorno nella panetteria dell'angolo e si portava a casa avvolto in un panno bianco. Il profumo di quel pane appena sfornato e ancora caldo è uno dei ricordi più vivi della mia infanzia.
Il latte era una crema spumosa che si vendeva sfusa. Una campanella che pendeva dal collo del cavallo e l'odore di stalla che invadeva la strada annunciavano l'arrivo del carretto del latte. Le massaie si mettevano in fila con i loro recipienti e lo compravano a tazze, che il lattaio riempiva infilando fino all'ascella il braccio peloso nelle enormi taniche sempre piene di mosche. Alcune volte se ne compravano diversi litri in più per preparare quella leccornia che chiamiamo dolce di latte e che dura parecchi mesi, conservato nella fresca penombra della cantina, dove si teneva anche il vino, imbottigliato in casa. Si cominciava a preparare il fuoco nel cortile, con legna e carbone. In cima, appeso a un treppiede, si collocava un paiolo di ferro, annerito dall'uso, dove si mettevano gli ingredienti – quattro tazze di latte per una di zucchero, due stecche di vaniglia e la scorza di un limone per aromatizzare – che poi si lasciavano pazientemente bollire per ore, mescolando di tanto in tanto con un lunghissimo cucchiaio di legno. I bambini osservavano da lontano, attendendo che il lavoro terminasse e che il dolce si raffreddasse per ripulire il recipiente. Non ci lasciavano avvicinare, e tutte le volte ci ripetevano la triste storia di quel bambino goloso che cadde nel paiolo e che, stando a quanto raccontavano, "si sciolse completamente nel dolce bollente, tanto che di lui non rimasero neanche le ossa". Quando fu inventato il latte pastorizzato in bottiglia, le massaie indossavano il vestito della festa per farsi fotografare, come nei film di Hollywood, accanto al camioncino bianco che aveva preso il posto del lurido carretto. Oggi, non solo esistono il latte intero, quello scremato e quello aromatizzato con gusti diversi, ma il dolce di latte si compra in scatola; ormai più nessuno lo prepara in casa.
Durante l'estate, nei quartieri poveri passavano bambini con ceste di more e sacchi di mele cotogne per i dolci. Compariva anche il muscoloso Gervasio Lonquimay, che sistemava le molle dei letti e lavava la lana dei materassi, un lavoro che poteva durare tre o quattro giorni, perché la lana andava lasciata asciugare al sole e poi bisognava cardarla a mano prima di rimetterla nelle fodere. Stando a quanto si diceva, Gervasio Lonquimay era stato in prigione per aver tagliato la gola a un rivale, un pettegolezzo che gli conferiva un'aura di indiscutibile fascino. Le massaie gli portavano orzata da bere e salviette per asciugarsi il sudore.
Per le strade passava sempre lo stesso suonatore di organetto, fino a quando uno dei miei zii gli comprò lo strumento e cominciò a girare con un patetico pappagallo, suonando e distribuendo biglietti della fortuna, con orrore di mio nonno e degli altri membri della famiglia. Penso che mio zio lo facesse per cercare di conquistare una cugina, ma il piano non sortì l'effetto sperato: la ragazza si sposò in fretta e furia e fuggì il più lontano possibile. Alla fine mio zio regalò lo strumento, ma il pappagallo rimase in casa. Aveva un caratteraccio, e alla prima disattenzione era capace di staccare un dito con una beccata a chiunque si avvicinasse, però al nonno piaceva, perché imprecava come uno scaricatore di porto. Quell'uccellaccio rimase con lui per vent'anni, e chissà quanto tempo era già vissuto prima; era un Matusalemme con le piume. Nel quartiere passavano anche le gitane, che abbindolavano gli incauti con il loro spagnolo confuso e quegli occhi irresistibili che avevano visto tanti paesi; giravano sempre in coppia, o in gruppi di tre, con mezza dozzina di creature con il moccio al naso, attaccate alle sottane. Ci incutevano timore, perché si diceva che rapissero i bambini e li rinchiudessero nelle gabbie per farli crescere deformi e poi venderli come fenomeni da baraccone nei circhi. Se non si dava loro l'elemosina, lanciavano il malocchio. Pare che possedessero poteri magici: potevano far sparire gioielli senza toccarli e scatenare epidemie di pidocchi, verruche, calvizie e denti marci. Nonostante tutto, non resistevamo alla tentazione di farci leggere la mano. A me dicevano sempre la stessa cosa: un uomo bruno con i baffi mi avrebbe condotta molto lontano. Dato che non ricordo di aver mai avuto un innamorato con queste caratteristiche, suppongo si riferissero al mio patrigno, che aveva un paio di baffi da tricheco e che ho seguito per mezzo mondo nella sua carriera di diplomatico.
4.
UN'ANTICA CASA INCANTATA
Il mio primo ricordo del Cile è legato a una casa che non ho mai visto. È la protagonista del mio primo romanzo, La casa degli spiriti, la dimora che ospita la stirpe dei Trueba. Quella famiglia immaginaria assomiglia in maniera impressionante a quella di mia madre. Non avrei mai potuto inventare di sana pianta personaggi del genere e, d'altra parte, non era necessario, perché con una famiglia come la mia l'immaginazione non serve. L'idea della "grande casa dell'angolo", come appare nel libro, è nata dall'antica residenza di via Cueto, dove nacque mia madre, tanto evocata dal nonno che mi sembra di esserci vissuta. A Santiago ormai non si vedono più case del genere – sono state inghiottite dal progresso e dall'incremento demografico –, ma esistono ancora in provincia. Mi pare di vederla: enorme e sonnolenta, decrepita per l'uso e per l'abuso, con i soffitti alti e le finestre anguste, con tre cortili, il primo con aranci e gelsomini, dove zampillava una fontana; il secondo con un orto incolto e il terzo con una confusione di catini per il bucato, canili, pollai e insalubri stanze per la servitù simili a celle di una prigione. Per andare in bagno di notte bisognava uscire con una lampada, sfidando le correnti d'aria e i ragni, non badando agli scricchiolii del legno e al tramestio dei topi. La grande casa, con l'entrata su due strade, era composta da un piano e da una mansarda, e ospitava una tribù di bisnonni, zie zitelle, cugini, persone di servizio, parenti poveri e amici che piantavano le tende per sempre, senza che nessuno si azzardasse a metterli alla porta, perché in Cile l'ospite è sacro. C'era anche qualche fantasma di dubbia autenticità, di quelli che non sono mai mancati nella mia famiglia. Qualcuno assicura che le anime pativano tra quelle pareti, ma uno dei miei anziani parenti mi ha confessato che da bambino indossava un'antica uniforme militare per spaventare la zia Cupertina. La povera zitella non dubitò mai che quel visitatore notturno fosse lo spirito di don José Miguel Carrera, uno dei padri della patria, che veniva a chiedere l'elemosina per le messe di suffragio per la sua intrepida anima.
I miei zii materni, i Barros, furono dodici fratelli piuttosto eccentrici, ma nessuno matto da legare. Man mano che si sposavano, alcuni di loro si stabilivano con moglie e figli nella casa di via Cueto. Così fece nonna Isabel, dopo il matrimonio con nonno Agustín. Non solo i due vissero in mezzo a quella folla di parenti strampalati, ma alla morte dei bisnonni comprarono la casa e per diversi anni abitarono lì con i quattro figli. Il nonno apportò delle migliorie, ma sua moglie soffriva lo stesso d'asma a causa dell'umidità. Inoltre, il circondario si era riempito di poveri, e la "gente bene" aveva cominciato a emigrare in massa verso la zona est della città. Anche il nonno fu costretto a costruire una casa moderna nel quartiere di Providencia, che allora era periferico, ma si pensava avesse ottime prospettive. Si rivelò una scelta azzeccata, perché nel giro di pochi anni Providencia divenne la zona residenziale più elegante della capitale, anche se ha ormai smesso di esserlo molto tempo fa, da quando la borghesia ha cominciato ad arrampicarsi sulle pendici dei colli e i veri ricchi si sono rifugiati in cima alla montagna, dove fanno il nido i condor. Oggi Providencia è un caos di traffico, negozi, uffici e ristoranti, dove vivono solo gli anziani, in appartamenti di vecchi edifici, ma a quei tempi confinava con la campagna, dove si trovavano le residenze estive delle famiglie facoltose, dove l'aria era limpida e l'esistenza sana. Di questa casa racconterò in seguito, per il momento torniamo alla mia famiglia.
Il Cile è un paese moderno con quindici milioni di abitanti, ma il suo retaggio è tribale. Nonostante l'esplosione demografica, nulla è cambiato, soprattutto nelle province, dove ogni famiglia è ancora chiusa nel suo gruppo, grande o piccolo che sia. Noi cileni siamo divisi in clan, accomunati da un interesse o da un'ideologia. I membri si assomigliano, si vestono allo stesso modo, pensano e si comportano come cloni e, ovviamente, si proteggono tra loro, escludendo gli altri. Esistono, per esempio, il clan degli agricoltori (mi riferisco ai proprietari terrieri e non agli umili contadini), dei medici, dei politici (non importa a quale partito appartengano), degli imprenditori, dei militari, dei camionisti e poi tutti gli altri. Prima del clan viene la famiglia, inviolabile e sacra, nei confronti della quale nessuno si sottrae ai propri doveri. Per esempio, lo zio Ramón, il mio patrigno, mi ha telefonato in California, dove vivo, per comunicarmi che era morto uno zio di terzo grado che non ho mai conosciuto, e che il poveretto aveva lasciato una figlia in una brutta situazione. La ragazza avrebbe voluto studiare da infermiera, ma non ne aveva i mezzi. Zio Ramón, in qualità di membro più anziano del clan, aveva il dovere di mettersi in contatto con chiunque avesse legami di sangue con il defunto, dai parenti prossimi ai più lontani, per finanziare gli studi della aspirante infermiera. Non farlo avrebbe rappresentato un atto vile, che sarebbe stato ricordato per diverse generazioni.
Vista l'importanza che riveste per noi la famiglia, ho scelto la mia come filo conduttore di questo libro, quindi, se mi dilungherò nella descrizione di qualche componente è per una valida ragione, anche se talvolta questa risponde al puro desiderio di non perdere quei vincoli di sangue che mi legano anche alla mia terra. La descrizione dei miei parenti mi aiuterà a tratteggiare vizi e virtù del carattere cileno. Come metodo scientifico sarà anche opinabile, ma dal punto di vista letterario offre alcuni vantaggi.
Mio nonno, che proveniva da una famiglia poco numerosa e caduta in disgrazia a causa della morte prematura del padre, si innamorò di una ragazza di nome Rosa Barros, molto popolare per la sua bellezza, ma che morì misteriosamente prima del matrimonio. Della fanciulla restano solo alcuni ritratti in seppia, scoloriti dal tempo, dove i lineamenti si distinguono appena. Anni dopo il nonno sposò Isabel, sorella minore di Rosa. A quell'epoca, a Santiago, tutti gli appartenenti alla stessa classe sociale si conoscevano, perciò i matrimoni, pur non essendo combinati come in India, erano pur sempre affari di famiglia. A mio nonno parve logico che, essendo stato accettato dalla famiglia Barros come fidanzato di una delle figlie, non ci fosse ragione per non esserlo come promesso sposo di un'altra.
Da giovane nonno Agustín era snello, naso aquilino, sempre vestito di nero, con l'abito risistemato del padre defunto, serio e orgoglioso. Proveniva da un'antica famiglia di origini spagnole ma, a differenza dei suoi parenti, era povero. Gli altri componenti della famiglia non facevano parlare di sé, fatta eccezione per lo zio Jorge, un bravo ragazzo, elegante come un principe, con un futuro brillante davanti a sé e ambito da diverse fanciulle in età da marito, che aveva commesso la debolezza di innamorarsi di una donna di famiglia molto più modesta della sua, proveniate dalla volenterosa classe medio-bassa. Forse in un altro paese si sarebbero potuti amare senza tante tragedie, ma nell'ambiente in cui vivevano erano condannati all'ostracismo. Lei amò perdutamente lo zio Jorge per cinquant'anni. Però indossava una stola di volpe piena di tarme, si tingeva i capelli di rosso carota, fumava con disinvoltura e beveva la birra a canna, ragioni più che sufficienti perché la bisnonna Ester le dichiarasse guerra e proibisse al figlio di nominarla in sua presenza. Lui obbedì senza replicare, ma il giorno dopo la morte della madre sposò l'amata, ormai matura e con i polmoni malandati, anche se pur sempre affascinante. Si amarono nella miseria e nulla riuscì a separarli. Due giorni dopo la scomparsa di lui per un attacco di cuore, trovarono lei morta nel letto, avvolta nella vecchia vestaglia del marito.
Vorrei spendere due parole anche sulla bisnonna Ester, perché credo che il suo forte ascendente sia all'origine di alcuni aspetti del carattere dei suoi figli, e perché, in un certo modo, rappresenta la figura della matriarca intransigente, tanto comune a quei tempi come adesso. La figura materna assume dimensioni mitiche nel nostro paese, perciò l'atteggiamento sottomesso dello zio Jorge non mi stupisce affatto. Le famose madri ebree e italiane sono dilettanti al confronto delle cilene. Per caso, solo recentemente ho scoperto che il marito della bisnonna Ester non era tagliato per gli affari e che, a causa di ciò, perse la terra e la fortuna che aveva ereditato. A quanto pare i creditori erano i suoi stessi fratelli. Vedendosi rovinato, il poveretto si recò nella casa di campagna e si sparò una fucilata nel petto. Dico che ho appena scoperto questo fatto perché la famiglia lo ha tenuto segreto per cent'anni, e ancora oggi se ne parla solo a bassa voce. Il suicidio era considerato un peccato particolarmente abominevole, in quanto il corpo non poteva essere sepolto nella terra consacrata di un cimitero cattolico. Per sfuggire alla vergogna, i parenti vestirono il cadavere con finanziera e cappello a cilindro, lo sistemarono su una carrozza e lo portarono a Santiago, dove poterono dargli degna sepoltura perché tutti, prete compreso, chiusero un occhio. Questo episodio divise la famiglia tra i suoi diretti discendenti, i quali assicuravano che la storia del suicidio era una calunnia, e i fratelli del morto, che finalmente misero le mani sull'eredità. Comunque sia, la vedova sprofondò nella depressione e nella miseria. Era stata una donna vivace e graziosa, un'ottima pianista, ma alla morte del marito portò un lutto rigoroso, mise il piano sotto chiave e, a partire da quel giorno, uscì di casa solo per recarsi tutti i giorni a messa. Con gli anni l'artrite e l'obesità la trasformarono in un'orrenda creatura rinchiusa tra quattro pareti. Una volta alla settimana il parroco andava a casa sua per darle la comunione. Quella vedova inconsolabile inculcò nei figli l'idea che il mondo è una valle di lacrime e che siamo nati solo per soffrire. Prigioniera di una sedia a rotelle, giudicava la vita degli altri; nulla sfuggiva al suo occhio di falco e alla sua lingua profetica. Per le riprese del film tratto da La casa degli spiriti dovettero trasportare dall'Inghilterra agli studi di Copenaghen un'attrice grossa come una balena per interpretare quel ruolo, e fu necessario eliminare diverse poltrone dall'aereo per fare spazio alla sua stazza inaudita. Compare sullo schermo solo per pochi istanti, ma l'effetto che produce è memorabile.
Al contrario della bisnonna Ester e dei suoi discendenti, gente solenne e seria, i miei zii materni erano tipi allegri, esuberanti, dall'innamoramento facile, grandi scialacquatori, esperti giocatori di cavalli e ottimi musicisti e ballerini di polca. Quest'ultima qualità è poco comune tra i cileni, che in linea generale sono dotati di scarso senso del ritmo. Una delle grandi scoperte che ho fatto in Venezuela, dove mi sono trasferita nel 1975, riguarda il potere terapeutico del ballo. Quando tre venezuelani s'incontrano, uno di loro comincia a battere un ritmo sul tavolo o a suonare la chitarra e gli altri due ballano. Non esiste pena che resista a questa cura. Le nostre feste, invece, sembrano funerali: gli uomini si appartano per parlare d'affari e le donne si annoiano. In Cile ballano solo i giovani, sedotti dalla musica nordamericana, ma appena si sposano diventano seri come i loro padri.
La maggior parte degli aneddoti e dei personaggi dei miei libri sono ispirati alla vera famiglia Barros. Le donne erano dolci, spirituali e divertenti. Gli uomini erano alti, belli, sempre pronti a fare a cazzotti; erano anche chineros, come a quei tempi si definivano gli ospiti fissi dei bordelli, e più di uno contrasse qualche malattia misteriosa. Credo che la cultura del postribolo abbia un certo peso in Cile, perché in letteratura s'incontra spesso, come se i nostri autori ne fossero ossessionati. Malgrado non mi consideri un'esperta in materia, anch'io, nel mio primo romanzo, ho creato il personaggio di una prostituta dal cuore d'oro, Tránsito Soto.
La grande aspirazione di una mia prozia centenaria è quella di essere santificata e il suo unico desiderio è quello di entrare in convento, ma nessuna congregazione, nemmeno le Suore della Carità, l'ha mai sopportata per più di un paio di settimane, quindi la mia famiglia ha dovuto farsene carico. Credetemi, non esiste niente di più insopportabile di un santo, non lo auguro neanche al mio peggior nemico. Durante i pranzi domenicali a casa del nonno, gli zii escogitavano piani per eliminarla, ma lei ne usciva sempre illesa ed è ancora viva. Da giovane indossava un abito ecclesiastico che lei stessa aveva confezionato, cantava inni religiosi con voce angelica dalla mattina alla sera e, appena ci si distraeva un attimo, scappava per andare in via Maipú a catechizzare con veemenza le signorine di facili costumi, che la accoglievano con una pioggia di verdure marce. Nella stessa strada, lo zio Jaime, cugino di mia madre, si pagava gli studi di medicina strimpellando una fisarmonica nelle case di malaffare. Cantava tutta la notte a squarciagola una canzone che s'intitolava Voglio una donna nuda, e faceva un tale baccano che le beghine uscivano a protestare. A quei tempi la chiesa cattolica aveva messo all'indice libri come Il conte di Montecristo, figuratevi l'orrore provocato dallo zio che strillava "Voglio una donna nuda!". Jaime diventò il pediatra più famoso e amato del paese, il politico più pittoresco – capace di recitare in rima i suoi discorsi in senato – e senza dubbio il più radicale dei miei parenti, comunista più a sinistra di Mao quando Mao era ancora in fasce. Oggi è un anziano signore, affascinante e ancora lucido, che indossa calzini rosso vivo a simbolo delle sue idee politiche. Un altro dei miei parenti si toglieva i pantaloni per strada per donarli ai poveri e una sua fotografia, in mutande ma con cappello, giacca e cravatta, appariva sempre sui giornali. Possedeva una così alta considerazione di sé, che nel suo testamento lasciò istruzioni per essere sepolto in piedi, in modo da poter guardare Dio dritto negli occhi quando avrebbe bussato alla porta del cielo.
Sono nata a Lima, dove mio padre era segretario d'ambasciata. La ragione per cui sono cresciuta a casa del nonno, a Santiago, è che il matrimonio dei miei genitori si rivelò un disastro fin dall'inizio. Un giorno, quando avevo su per giù quattro anni, mio padre uscì a comprare le sigarette e non tornò più. In realtà non era andato a comprare le sigarette, come hanno sempre raccontato, ma a fare baldoria, vestito da peruviana, gonna variopinta e parrucca con le trecce. Lasciò mia madre a Lima, con un mucchio di conti da pagare e tre bambini, il più piccolo dei quali appena nato. Immagino che questo trauma abbia lasciato qualche traccia nella mia psiche, perché nei miei romanzi appaiono tante creature abbandonate che potrei mettere su un orfanotrofio; i padri dei miei personaggi sono morti, scomparsi, o così autoritari e distanti che è come se vivessero su un altro pianeta. Trovandosi senza marito, e alla deriva in un paese straniero, mia madre dovette ingoiare il colossale orgoglio con cui era stata cresciuta e tornare a casa del nonno. I miei primi anni a Lima sono stati cancellati dalla nebbia dell'oblio. Tutti i ricordi della mia infanzia sono legati al Cile.
Sono cresciuta in una famiglia patriarcale, dove il nonno era come Dio: infallibile, onnipresente e onnipotente. La sua casa, nel quartiere di Providencia, non era neanche l'ombra della sontuosa dimora dei bisnonni in via Cueto, ma durante i miei primi anni fu tutto il mio universo. Non molto tempo fa un giornalista giapponese si recò a Santiago per fotografare la presunta "grande casa dell'angolo" che appare nel mio primo romanzo. Fu inutile spiegargli che era frutto della mia immaginazione. Dopo un viaggio tanto lungo il poveretto restò enormemente deluso perché, da allora, a Santiago è stato tutto demolito e ricostruito diverse volte. Niente dura, in questa città. La casa costruita dal nonno adesso è una discoteca di terz'ordine, uno squallido aborto di plastica nera e luci psichedeliche. La residenza di via Cueto, che apparteneva ai miei bisnonni, è sparita molti anni fa. Al suo posto si ergono oggi due moderne torri, con appartamenti modesti, che è impossibile distinguere tra dozzine di costruzioni uguali.
Concedetemi un commento su quella demolizione, come capriccio sentimentale. Un giorno le macchine del progresso arrivarono per demolire la dimora dei miei antenati e, per settimane, gli implacabili dinosauri di ferro spianarono il suolo con le loro zampe cingolate. Quando finalmente la tempesta di sabbia si placò, i passanti notarono con stupore che sullo spiazzo diverse palme si ergevano ancora intatte. Solitarie, spoglie, con le chiome avvizzite e l'aria da povere cenerentole, attendevano l'ora della fine ma, invece del temuto boia, sbucarono alcuni operai tutti sudati che, come formichine operose, scavarono intorno alle piante fino a sradicarle dal suolo. Gli esili alberi trattenevano manciate di terra secca con le radici sottili. Poi alcuni camion trasportarono le palme ferite in un altro luogo, dove i giardinieri avevano già preparato delle buche, e lì furono piantate. I tronchi emisero gemiti soffocati, le foglie caddero, fili gialli e sottili, e per qualche tempo si credette che nulla le avrebbe salvate da quell'agonia. Ma le palme sono creature forti. Una lenta lotta sotterranea diffuse la vita, i tentacoli vegetali si fecero strada, mescolando i resti della terra di via Cueto con la nuova. All'alba di un'immancabile primavera le palme risorsero, ancheggiando e scuotendo le chiome, vive e rinvigorite, malgrado tutto. L'immagine di quegli alberi della casa dei miei antenati mi torna spesso in mente quando penso alla mia sorte di esiliata. Sono destinata a vagare da un posto all'altro, adattandomi a nuovi terreni. Credo che ciò sia possibile perché nelle radici conservo manciate della mia terra, che porto sempre con me. E comunque, quel giornalista giapponese che andò in capo al mondo per fotografare la sontuosa dimora del romanzo, tornò a casa a bocca asciutta.
La casa del nonno era identica a quella degli zii e a quella di qualunque altra famiglia dalle equivalenti possibilità economiche. I cileni non brillano per originalità, gli interni delle case sono tutti simili. Mi raccontano che ora i ricchi assumono arredatori e comprano all'estero persino la rubinetteria del bagno, ma a quei tempi nessuno aveva sentito parlare di architettura d'interni. Nel salone, spazzato da misteriose correnti d'aria, spiccavano tende rosso sangue, lampadari di cristallo, un pianoforte a coda scordato e un enorme orologio a muro, scuro come una bara, che batteva le ore con rintocchi funebri. C'erano anche due orrende statuine di porcellana francese, una damigella dalla parrucca incipriata e un cavaliere con i tacchi alti. I miei zii le usavano per allenare i riflessi: se le tiravano lanciandole per la testa, nella vana speranza che finissero per terra e andassero in frantumi. In casa vivevano eccentrici personaggi, animali mezzo selvatici e alcuni fantasmi amici della nonna, che l'avevano seguita dalla casa di via Cue-to e che rimasero con noi anche dopo la sua morte.
Nonno Agustín era un uomo solido e forte come un guerriero, anche se era nato con una gamba più corta dell'altra. Non gli passò mai per la testa l'idea di consultare un medico, preferiva affidarsi a un "aggiustaossa". Questo tizio era un cieco che sistemava le zampe dei cavalli infortunati nel Centro Ippico, e di ossa ne sapeva più di qualunque traumatologo. Con il passare degli anni la gamba del nonno peggiorò, gli venne l'artrite e gli si deformò la colonna vertebrale, quindi per lui compiere qualunque movimento era un supplizio, ma non lo sentii mai lamentarsi dei suoi dolori o dei suoi problemi, anche se, da buon cileno, si lagnava di tutto il resto. Alleviava il tormento delle sue povere ossa con manciate di aspirine e lunghe sorsate d'acqua. Tempo dopo scoprii che non si trattava di semplice acqua, ma di gin, che beveva come una spugna senza che influisse sulla sua condotta né sulla sua salute. Il nonno visse per quasi un secolo con tutte le rotelle a posto. La sofferenza non lo esentava dagli oneri di buon cavaliere e, sino alla fine dei suoi giorni, quando ormai era solo un sacco di pelle e ossa, si alzava faticosamente dalla sedia per ricevere e accomiatarsi dalle signore.
Sulla scrivania ho una sua fotografia. Sembra un contadino dei Paesi Baschi. È ritratto di profilo, con in testa un basco nero che accentua il naso aquilino e l'espressione severa del volto rugoso. È invecchiato sostenuto dall'intelligenza e rafforzato dall'esperienza. È morto con i capelli bianchi e lo sguardo celeste, vispo come quando era un giovanotto. Com'è difficile morire!, mi confidò un giorno, quando era già molto provato dai dolori alle ossa. Il nonno parlava per proverbi, conosceva centinaia di racconti popolari e recitava a memoria lunghe poesie. Quell'uomo formidabile mi trasmise il dono della disciplina e la passione per la lingua, senza le quali oggi non potrei dedicarmi alla scrittura. Mi insegnò anche a osservare la natura e ad amare il paesaggio cileno. Diceva che se i romani vivono tra statue e fontane senza neanche accorgersene, noi cileni abitiamo nel paese più sorprendente del pianeta senza apprezzarlo; non percepiamo la quieta presenza delle montagne innevate, dei vulcani assopiti e delle sterminate colline che ci proteggono in un monumentale abbraccio; non siamo sorpresi dalla furia spumosa del Pacifico, che si schianta sulle coste, né dai quieti laghi del Sud o dalle loro rumorose cascate; non veneriamo come pellegrini la natura millenaria delle foreste, i paesaggi lunari del Nord, i fecondi fiumi araucani, o i ghiacciai celesti dove il tempo si è fermato.
Stiamo parlando degli anni quaranta e cinquanta... quanto tempo ho vissuto, Dio mio! Invecchiare è un processo lento e subdolo. A volte mi dimentico che il tempo passa – dentro di me non ho ancora compiuto trent'anni – ma, immancabilmente, i nipoti mi fanno scontrare con la dura realtà, quando mi domandano se "ai miei tempi" c'era l'elettricità. Gli stessi nipoti sostengono che nella mia mente esiste un paese dove i personaggi dei miei romanzi vivono le loro avventure. Quando racconto storie del Cile credono mi riferisca a questo paese inventato.
5.
UN DOLCE MILLEFOGLIE
Chi sono i cileni? Mi risulta difficile descriverli a parole, ma mi basta un'occhiata per riconoscere un compatriota a cinquanta metri di distanza. E inoltre li trovo dappertutto: in un tempio sacro del Nepal, nella foresta amazzonica, a un carnevale di New Orleans, sugli scintillanti ghiacciai islandesi. Provate a pensare un posto e lì ci sarà qualche cileno, con la sua andatura inconfondibile e il suo accento cantilenante. Malgrado nel nostro lungo e sottile paese ci separino migliaia di chilometri, la somiglianza tra noi è forte; siamo accomunati dalla lingua e da tradizioni simili. L'unica eccezione è rappresentata dalla classe alta, che discende quasi completamente dagli europei, e dagli indigeni – ayamara e alcuni quechua nel Nord e mapuche nel Sud – che lottano per mantenere la propria identità in un mondo dove sono sempre più emarginati.
Sono cresciuta con la favola che in Cile non esistono problemi razziali. Non capisco come si possa affermare un'ipocrisia del genere. Non si tratta di razzismo, ma di "sistema di classi" (in Cile amiamo gli eufemismi), ma praticamente è la stessa cosa. Non solo esiste il razzismo e/o classismo, ma ha radici profonde come quelle di un molare. Chi pensa che ciò appartenga al passato si sbaglia in pieno, e l'ho constatato durante la mia ultima visita, quando ho scoperto che uno degli studenti più brillanti della facoltà di Giurisprudenza dell'Università del Cile era stato respinto da un famoso studio legale perché non era "in linea con il profilo societario". In altre parole: era meticcio e aveva un cognome mapuche. I clienti dello studio non si sarebbero fidati a farsi rappresentare da lui; come non avrebbero permesso che uscisse con una delle loro figlie. In Cile, come nel resto dell'America Latina, la classe alta è relativamente bianca, e più si scende la ripida scala sociale, più accentuati sono i tratti indigeni. Malgrado ciò, non avendo punti di riferimento, la maggior parte dei cileni si considera bianca. Per me è stata una sorpresa scoprire che negli Stari Uniti sono "di colore". (Una volta, mentre compilavo un modulo per l'immigrazione, mi sono sbottonata la camicetta per mostrare il colore della mia pelle a un funzionario afroamericano che sembrava intenzionato a inserirmi nell'ultima categoria razziale della sua lista: "Altro". Il tipo non l'ha trovato divertente.)
Anche se non restano molti indios puri – più o meno il dieci per cento della popolazione –, il loro sangue scorre nelle vene del nostro popolo meticcio. I mapuche sono in generale bassi di statura, gambe corte, busto lungo, pelle scura, capelli e occhi castani, zigomi sporgenti. Provano una diffidenza atavica – e giustificata – nei confronti dei non indios, che chiamano huincas, termine che non significa "bianchi", bensì "ladri di terra". Questi indios, divisi in varie tribù, hanno contribuito in modo rilevante a forgiare il carattere nazionale, anche se, un tempo, nessuno che si rispettasse avrebbe mai ammesso di essere accomunato a loro, perché avevano fama di essere ubriaconi, pigri e ladri. Non la pensava così don Alonso de Ercilia y Zúñiga, valoroso soldato e scrittore spagnolo, che si recò in Cile a metà del XVI secolo e compose La Araucana, un lungo poema epico sulla conquista spagnola e sulla feroce resistenza indigena. Nell'epilogo rivolto al re, suo signore, a proposito degli araucani dichiara: "...con grande coraggio e ostinata determinazione riscattarono e difesero la loro libertà e per questo versarono molto sangue, loro e spagnolo, tanto che ora restano pochi luoghi non bagnati di sangue e cosparsi di ossa... E tale è la mancanza di uomini, poiché molti sono caduti in questa impresa, che per far numero e rimpinguare le squadre anche le donne vanno in guerra e, battendosi talvolta alla stregua di uomini, affrontano la morte con grande valore".
In questi ultimi anni alcune tribù mapuche sono insorte e il paese non può continuare a ignorarli. In realtà gli indios sono di moda. Intellettuali ed ecologi sono alla ricerca di un antenato con la lancia per abbellire il proprio albero genealogico, perché un intrepido indigeno è decisamente molto più chic di un marchese malaticcio e stremato dalla vita di corte. Confesso che ho cercato di acquistare un cognome mapuche per vantarmi di un bisnonno cacicco, proprio come prima si compravano titoli nobiliari europei, ma per il momento non ci sono ancora riuscita. Sospetto che mio padre abbia ottenuto così il suo blasone: tre cani famelici in campo blu, se ricordo bene. Lo stemma in questione rimase nascosto in cantina e non fu mai menzionato, perché i titoli nobiliari erano stati aboliti con la dichiarazione d'indipendenza dalla Spagna e, inoltre, in Cile niente è più ridicolo che cercare di farsi passare per nobile. Quando lavoravo alle Nazioni Unite ho avuto come superiore un vero conte italiano, che dovette cambiare i biglietti da visita perché gli stemmi provocavano una valanga di sghignazzate.
I capi indigeni diventavano tali dopo aver superato prove sovrumane di forza e coraggio. Si caricavano sulle spalle un tronco di quei boschi inviolati dalla spada e chi di loro resisteva più a lungo sotto il peso diventava toqui, cioè capo. Come se non bastasse, dovevano recitare un discorso improvvisato, senza fare pause né prendere fiato, perché, oltre a dimostrare la propria prestanza fisica, dovevano convincere con la coerenza e la bellezza delle loro parole. Forse la nostra antica fissazione per la poesia ha origine da lì... L'autorità del vincitore non veniva messa in discussione fino al torneo successivo. Nessuna tortura architettata dagli ingegnosi conquistatori spagnoli, per quanto spaventosa, metteva in crisi quegli oscuri eroi, che morivano, senza un lamento, trafitti da una lancia, squartati da quattro cavalli o carbonizzati lentamente sulle braci ardenti. I nostri indios non appartenevano a una cultura prestigiosa come gli aztechi, i maya o gli inca: erano esseri scontrosi, rozzi, irascibili e poco numerosi, ma tanto coraggiosi che rimasero sul piede di guerra per trecento anni, prima contro i coloni spagnoli e poi contro la re pubblica. Furono pacificati nel 1880 e per più di un secolo nessuno sentì parlare molto di loro, ma ora i mapuche, "gente della terra", hanno ripreso a lottare per difendere quei pochi appezzamenti che restano loro e che sono minacciati dalla costruzione di una diga sul fiume Bío Bío. Le espressioni artistiche e culturali degli indios sono sobrie, come tutto ciò che si produce nel paese. Gli indigeni tingono i tessuti con colori naturali: marrone, nero, grigio, bianco; il suono dei loro strumenti è lugubre come il canto delle balene; le loro danze sono goffe, monotone e tanto tenaci che alla lunga fanno piovere; il loro artigianato è bellissimo, ma non è caratterizzato dall'esuberanza e dalla varietà di quello messicano, peruviano o guatemalteco.
Gli ayamara, "figli del sole", molto diversi dai mapuche, sono gli stessi della Bolivia, che vanno e vengono ignorando le frontiere, perché questa regione è sempre appartenuta a loro. Sono gente affabile e, anche se mantengono i loro costumi, la loro lingua e le loro credenze si sono fuse con la cultura dei bianchi, soprattutto per quanto riguarda il commercio. In questo si distinguono da alcuni gruppi di quechua, che vivono nelle zone più isolate delle montagne peruviane e considerano il governo un nemico, proprio come ai tempi della colonia; la guerra d'indipendenza e la nascita della Repubblica del Perú non hanno cambiato le loro vite.
Gli sfortunati indios della Terra del Fuoco, all'estremo Sud del Cile, furono pressoché sterminati da fucilate ed epidemie molto tempo fa; di quelle tribù resta solo un pugno di alacalufe. Anticamente i cacciatori ricevevano una ricompensa per ogni paio d'orecchie che portavano come prova di aver ucciso un indio. Così i coloni ripulirono la regione. Gli indigeni erano dei giganti che vivevano, praticamente nudi, su una terra coperta da ghiacci inclementi, dove solo le foche si sentono a loro agio.
In Cile non giunse mai sangue africano, con il suo ritmo e il suo colore; né si verificò, come in Argentina, una forte immigrazione italiana, che forse ci avrebbe resi estroversi, vanitosi e allegri; non arrivarono neanche abbastanza orientali, come in Perú, a compensare la nostra austerità e a insaporire la nostra cucina; ma sono certa che, se dai quattro angoli del mondo fossero giunti entusiasti avventurieri a popolare il nostro paese, le presuntuose famiglie spagnole avrebbero fatto in modo di confondersi con loro il meno possibile, a meno che non provenissero dall'Europa del nord. Bisogna riconoscerlo: la nostra politica d'immigrazione è stata apertamente razzista. Per molto tempo in Cile non sono stati accettati orientali, negri e gente dalla pelle molto scura. Nel XIX secolo, un presidente ebbe l'idea di attirare tedeschi della Selva Nera assegnando loro terre nel Sud: le terre, ovviamente, non gli appartenevano, perché erano dei mapuche, ma nessuno, eccetto i legittimi proprietari, badò a quel dettaglio. L'obiettivo era di migliorare con il sangue teutonico il nostro popolo meticcio, infondendogli dedizione al lavoro, disciplina, puntualità e organizzazione. La pelle giallastra e i capelli lisci degli indios erano malvisti; le autorità del tempo pensavano che una buona dose di geni germanici avrebbe di certo giovato. Si sperava che gli immigrati si sposassero con i cileni e che dall'unione gli umili nativi uscissero sconfitti, come effettivamente è accaduto a Valdivia e Osorno, province che oggi possono vantare uomini alti, donne prosperose, bambini con gli occhi azzurri e un ottimo strudel di mele. Il pregiudizio riguardo il colore della pelle è ancora tanto radicato che a una donna basta avere i capelli biondi e tutti in strada si voltano a guardarla, anche se assomiglia a un'iguana. A me hanno cominciato a schiarire i capelli fin da bambina, con una lozione dall'odore dolciastro che si chiamava Bayrum; non ho altra spiegazione per giustificare il fatto che la mia chioma, nera alla nascita, si sia tramutata, in capo a sei mesi, in una massa di angelici boccoli d'oro. Con i miei fratelli non è stato necessario ricorrere a tali estremi rimedi, perché uno aveva i capelli ricci e l'altro era biondo. Comunque sia, gli abitanti della Selva Nera hanno esercitato un influsso enorme in Cile e, secondo un parere diffuso, hanno riscattato il Sud dalla barbarie trasformandolo nell'attuale splendido paradiso. Al termine della Seconda guerra mondiale un'altra ondata di tedeschi venne a rifugiarsi in Cile, dove erano così ben visti che il governo non si schierò con gli Alleati fino all'ultimo, quando ormai era impossibile restare neutrali. Durante la guerra, il partito nazista cileno sfilava con le uniformi brune, le bandiere con le svastiche e il braccio alzato. La nonna correva accanto ai soldati e lanciava pomodori. Quella donna rappresentava un'eccezione, perché in Cile la gente era talmente antisemita che il termine "giudeo" era considerato volgare; i genitori di alcuni miei amici lavavano loro la bocca con il sapone se si azzardavano a pronunciarlo. Per menzionarli si diceva "israeliti" o "ebrei", e quasi sempre sottovoce. Ancora oggi esiste la misteriosa Colonia Dignidad, un campo nazista completamente chiuso, come una specie di nazione indipendente, che nessun governo è mai riuscito a smantellare, probabilmente perché conta sulla protezione non dichiarata delle Forze Armate. Ai tempi della dittatura (1973–1989) è stato utilizzato dai servizi segreti come centro di tortura. Ora l'ex comandante è latitante, con l'accusa di abuso di minore e altri delitti. Malgrado ciò, i contadini dei paraggi portano in palmo di mano questi presunti nazisti, dato che il loro efficiente ospedale è aperto a tutti. All'entrata della colonia c'è un ristorante tedesco dove si mangiano i migliori dolci della zona, serviti da strani individui biondi, pieni di tic facciali e con gli occhi da lucertola, che rispondono a monosillabi. Personalmente non ci sono mai stata, me lo hanno raccontato.
Nel XIX secolo in Cile sbarcarono parecchi inglesi, che assunsero il controllo dei trasporti marittimi e ferroviari e dell'import-export. Alcuni dei loro discendenti di terza o quarta generazione, che non avevano mai messo piede in Inghilterra ma la chiamavano "home", erano molto fieri di parlare spagnolo con accento straniero e di leggere le notizie del Regno Unito su giornali che arrivavano da là con grande ritardo. Il nonno, che fece molti affari con le compagnie che allevavano pecore in Patagonia per l'industria tessile britannica, raccontava di non aver mai firmato un contratto: la parola data e una stretta di mano bastavano e avanzavano. Gli inglesi – i gringos, come definiamo genericamente tutti i biondi che sono di madrelingua inglese – aprirono scuole, club e ci insegnarono vari giochi terribilmente noiosi, tra cui il bridge.
Noi cileni amiamo i tedeschi per i wurstel, la birra e l'elmo prussiano, oltre che per il passo dell'oca che i nostri militari hanno adottato nelle parate, ma in realtà cerchiamo di imitare gli inglesi. Li ammiriamo al punto che ci crediamo gli inglesi dell'America Latina, proprio come consideriamo gli inglesi i cileni d'Europa. Nell'assurda guerra delle Malvine (1982), invece di appoggiare gli argentini, nostri vicini, ci siamo schierati con i britannici, e da quel momento il primo ministro Margaret Thatcher è diventata l'amica del cuore del losco generale Pinochet. L'America Latina non ci perdonerà mai un simile passo falso. Tuttavia, qualcosa in comune con i figli della bionda Albione ce l'abbiamo: individualismo, buone maniere, senso del fair play, classismo, austerità e brutti denti. (L'austerità britannica non include, ovviamente, la famiglia reale, che c'entra con lo spirito inglese come Las Vegas con il Deserto del Mojave.) La stravaganza inglese ci affascina, ma non riusciamo a imitarla perché abbiamo troppa paura di renderci ridicoli; piuttosto cerchiamo di emulare l'apparente autocontrollo. Dico apparente perché in certe occasioni, per esempio durante una partita di calcio, inglesi e cileni perdono la testa allo stesso modo e sono in grado di fare a pezzi i loro avversari. Così come, nonostante siano noti per il loro equilibrio, entrambi i popoli sono capaci di una crudeltà feroce. Le atrocità commesse dagli inglesi nel corso della storia hanno molto in comune con quelle che commettono i cileni appena hanno un buon pretesto e sono sicuri di farla franca. La nostra storia è costellata da dimostrazioni di barbarie. Non a caso il motto nazionale è "con la ragione o con la forza", una frase che ho sempre trovato particolarmente stupida. Nel corso della rivoluzione del 1891, che durò nove mesi, persero la vita più cileni di quelli caduti in quattro anni di guerra contro Perú e Bolivia (1879–1883); molti di loro furono colpiti alle spalle o torturati, altri gettati in mare con una zavorra attaccata ai piedi. L'abitudine di far sparire i nemici ideologici, tanto praticata durante le varie dittature sudamericane negli anni settanta e ottanta del XX secolo, in Cile era già diffusa da quasi cent'anni. Ciò non toglie che la nostra democrazia fosse la più solida e antica del continente. Andavamo fieri dell'efficienza delle nostre istituzioni, degli incorruttibili carabineros, dei giudici severi e del fatto che nessun presidente si sia mai arricchito con il potere ma, anzi, spesso abbia lasciato il Palacio de la Moneda più povero di quando vi era entrato. A partire dal 1973 abbiamo smesso di vantarci.
Oltre a inglesi, tedeschi, arabi, ebrei, spagnoli e italiani, approdarono sulle nostre coste immigranti dell'Europa centrale – scienziati, inventori, accademici, qualche autentico genio – che noi definiamo, senza alcuna distinzione, "iugoslavi".
Al termine della Guerra civile spagnola giunsero i rifugiati in fuga dopo la sconfitta. Nel 1939, per incarico del governo cileno, il poeta Pablo Neruda noleggiò una nave, la Winnipeg, che salpò da Marsiglia con un carico di intellettuali, scrittori, artisti, medici, ingegneri e fini artigiani. Le famiglie benestanti di Santiago accorsero a Valparaíso per accogliere i rifugiati e offrire ospitalità. Il nonno era tra loro: alla sua tavola c'era sempre un posto per gli amici spagnoli che capitavano all'improvviso. Io allora non ero ancora nata, ma sono cresciuta ascoltando i racconti della Guerra civile spagnola e le canzoni piene di parolacce che cantavano quegli appassionati anarchici e repubblicani. Quella gente scrollò il paese dal torpore coloniale con la forza delle sue idee, abilità artistiche e professionali, sofferenze, passioni e stravaganze. Uno dei rifugiati, un catalano amico di famiglia, un giorno mi portò a visitare una linotipia. Era un giovane secco, nervoso, con un profilo da uccello rapace; non mangiava verdure, perché secondo lui erano cibo per asini, e viveva ossessionato dall'idea di tornare in Spagna non appena fosse morto Franco, senza neanche immaginare che quell'uomo sarebbe vissuto altri quarant'anni. Di mestiere faceva il tipografo e odorava di un misto d'aglio e inchiostro. Seduta al lato opposto del tavolo, lo osservavo mentre mangiava senza appetito e inveiva contro Franco, le monarchie e i preti. Non mi degnava mai di uno sguardo, perché detestava con la stessa intensità bambini e cani. Inaspettatamente, un giorno d'inverno il catalano annunciò che mi avrebbe portata a fare quattro passi, si annodò al collo la lunga sciarpa e ci incamminammo in silenzio. Raggiungemmo un edificio grigio, entrammo da una porta di ferro e percorremmo corridoi con montagne di enormi rotoli di carta. Un rumore assordante faceva tremare le pareti. In quel preciso istante lui si trasformò, il suo passo divenne leggero, i suoi occhi brillavano, sorrideva. Per la prima volta mi toccò. Mi condusse per mano davanti a una macchina portentosa, una specie di locomotiva nera con tutti gli ingranaggi a vista, sventrata e rabbiosa. Abbassò le leve e, con un frastuono bestiale, caddero le matrici che formavano le linee di un testo.
"Un maledetto orologiaio tedesco emigrato negli Stati Uniti brevettò questa meraviglia nel 1884" mi strillò all'orecchio. "Si chiama linotipia, line of types. Prima bisognava comporre il testo sistemando i caratteri a mano, lettera per lettera."
"Perché maledetto?" domandai, gridando anch'io.
"Perché mio padre inventò la stessa macchina dodici anni prima e la fece funzionare in cortile, ma a nessuno importò un accidente" replicò.
Il tipografo non tornò mai in Spagna, rimase a far funzionare la macchina delle parole. Si sposò, ebbe una valanga di bambini, imparò a mangiare le verdure e adottò diverse generazioni di cani randagi. Mi lasciò il ricordo indelebile della linotipia e la passione per l'odore della carta e dell'inchiostro.
Negli anni quaranta in Cile le classi sociali erano separate da barriere insormontabili. Quelle barriere oggi sono più sottili, ma esistono ancora, incrollabili come la Grande Muraglia. Un tempo era impossibile risalire la scala sociale, mentre scendere era più facile: a volte bastava cambiare quartiere o sposare "la persona sbagliata", che non significava un mascalzone o una snaturata, bensì qualcuno appartenente a una classe inferiore. I soldi contavano poco. Così come diventando povero non si scendeva di livello nella scala sociale, allo stesso modo era impossibile salire ammassando una fortuna; lo constatarono arabi ed ebrei che, per quanto ricchi, non furono mai accettati nei circoli esclusivi della "gente bene". Con questo termine, invece, si autodefinivano quelli che appartenevano al vertice della piramide sociale (dando per scontato, immagino, che gli altri fossero "gente male").
Difficilmente gli stranieri si rendono conto di come funziona questo stupefacente sistema delle classi, perché in qualsiasi ambiente tutti si dimostrano gentili e affabili. Il peggiore insulto appioppato ai militari che rovesciarono il governo negli anni settanta fu "pezzenti ribelli". Le mie zie affermavano che niente era più kitsch del dichiararsi fautori di Pinochet. Non lo dicevano per criticare la dittatura, che di per sé appoggiavano pienamente, ma per ragioni di classe. Adesso sono pochi quelli che si azzardano a pronunciare la parola "pezzente" in pubblico, perché suona malissimo, anche se quasi tutti ce l'hanno sulla punta della lingua.
La società cilena è come un millefoglie: ogni essere umano al suo posto e nella sua classe, segnato dalla nascita. Un tempo la gente si presentava con due cognomi – e nel ceto alto questa abitudine esiste ancora – per attestare la propria identità e origine. Noi cileni abbiamo l'occhio allenato per stabilire la classe di provenienza di qualcuno, a seconda dell'aspetto fisico, del colore della pelle, del modo di fare e, soprattutto, di parlare. In altri paesi l'accento varia da un posto all'altro, in Cile, invece, cambia a seconda del ceto sociale. Normalmente possiamo indovinare subito anche la sottoclasse. Di sottoclassi ne esistono una trentina, in base al grado di villania, arrivismo, volgarità, ricchezza recentemente acquisita eccetera. Per esempio, si capisce subito a che classe appartiene una persona dalla località balneare che frequenta. Il processo di classificazione automatica che noi cileni mettiamo in atto quando ci conosciamo ha un nome: "collocarsi", ed equivale a quello che fanno i cani quando si annusano il fondoschiena a vicenda. A partire dal 1973, anno del golpe militare che cambiò tante cose nel paese, "collocarsi" è diventato un po' più difficile, perché adesso bisogna anche indovinare nei primi tre minuti di conversazione se l'interlocutore si era schierato a favore o contro la dittatura. Attualmente sono pochissimi quelli che si dichiarano a favore, ma è comunque buona norma scoprire la posizione politica di ciascuno prima di emettere un giudizio offensivo. Lo stesso capita tra i cileni residenti all'estero, dove la domanda di rigore è "Quando hai lasciato il paese?". Se l'interlocutore ha abbandonato il Cile prima del 1973, significa che è di destra ed è scappato dal socialismo di Salvador Allende; se invece se n'è andato tra il 1973 e il 1978, sicuramente si tratta di un rifugiato politico; ma se ha lasciato il paese dopo quest'ultima data è possibile che sia un "esiliato economico", come vengono definiti quelli che sono emigrati in cerca di lavoro. Più difficile è determinare la posizione politica di chi è rimasto in Cile, perché è abituato a non esprimere le proprie opinioni.
6.
SIRENE CHE GUARDANO IL MARE
Al compatriota che torna a casa nessuno domanda dove è stato o cosa ha visto; invece lo straniero è subito informato che le donne cilene sono le più belle del mondo, che la nostra bandiera ha vinto un misterioso concorso internazionale e che il clima da noi è paradisiaco. Giudicate voi: la nostra bandiera assomiglia molto a quella del Texas e, se c'è qualcosa di particolare nel clima, è che quando il Nord è afflitto da un periodo di siccità, sicuramente il Sud è colpito da un'inondazione. E quando dico inondazione, intendo un diluvio biblico, con un bilancio di centinaia di morti e danni tali da ridurre il paese sul lastrico, ma che rimette in moto la macchina della solidarietà, solitamente inceppata in tempi normali. I cileni adorano le situazioni di emergenza. A Santiago la temperatura è peggiore che a Madrid, d'estate si soffoca per il caldo e d'inverno si muore dal freddo, ma nessuno possiede un condizionatore o un impianto di riscaldamento decente, perché non può permetterselo, e inoltre sarebbe come ammettere che il clima non è poi così mite. Se si alza una brezza piacevole, è segno sicuro di imminente terremoto. In Cile esistono più di seicento vulcani, alcuni dei quali conservano ancora tiepida la lava di antiche eruzioni, altri portano poetici nomi mapuche, come Pirepillán, il "demonio delle nevi", o Petrohué, "covo delle nebbie". Di tanto in tanto questi giganti addormentati sobbalzano nel sonno ed emettono un lungo bramito, e allora sembra prossima la fine del mondo. I sismologi concordano nell'affermare che prima o poi o Cile scomparirà, sepolto dalla lava o trascinato in fondo al mare da un'onda furiosa dei Pacifico, ma spero che questo non scoraggi i potenziali turisti, perché la possibilità che capiti proprio durante il loro soggiorno è piuttosto remota.
Per quanto riguarda la bellezza femminile, è necessario aprire un capitolo a parte. Si tratta di un commovente apprezzamento diffuso in tutto il paese. A essere sincera, all'estero non ho mai sentito dire che le cilene siano straordinarie come affermano i miei gentili compatrioti. Non sono meglio delle venezuelane, che vincono tutti i concorsi internazionali di bellezza, o delle brasiliane, che esibiscono sulle spiagge le loro curve color cioccolato, e questo per menzionare solo un paio di categorie nostre rivali. Ma, secondo la mitologia popolare, fin dai tempi remoti i marinai abbandonano le navi, stregati dalle sirene dalle lunghe chiome che guardano il mare dalle spiagge. Questa lusinga esagerata dei nostri uomini è così appagante che in cambio noi donne siamo disposte a perdonare molte cose. Come possiamo negare loro qualcosa, se ci trovano belle? Se in tutto questo esiste un briciolo di verità, allora forse il fascino consiste in una miscela di forza e civetteria cui, a quanto pare, pochi uomini sanno resistere, anche se questo non è stato assolutamente il mio caso. Gli amici mi spiegano che il gioco amoroso, fatto di sguardi, di sottintesi, dell'astuzia di dar corda per poi tirare il freno, è quello che fa innamorare; ma penso che non sia stato inventato in Cile, lo abbiamo importato dall'Andalusia.
Ho lavorato per diversi anni in una rivista femminile dove circolavano le modelle più pagate e le candidate al concorso di Miss Cile. Le modelle di solito erano talmente anoressiche che restavano quasi tutto il tempo immobili e con lo sguardo fisso, come tartarughe, particolare che le rendeva molto seducenti perché, qualunque uomo avessero davanti, questi poteva immaginare che fossero lì imbambolate a guardare lui. Queste bellezze sembravano turiste; nelle loro vene scorreva senza dubbio sangue europeo: alte, magre, pelle e capelli chiari. Ben diversa è la tipica donna cilena, quella che si vede in strada, meticcia, scura e piuttosto bassa, anche se devo riconoscere che la statura delle nuove generazioni si è elevata. I giovani d'oggi mi sembrano altissimi (logico, visto che io sono un metro e cinquanta). Quasi tutti i personaggi femminili dei miei romanzi s'ispirano alle donne cilene, che conosco bene perché ho lavorato per diversi anni con loro e per loro. Più che le signorine del ceto alto, con le gambe lunghe e i capelli biondi, mi colpiscono le donne del popolo: responsabili, forti, lavoratrici, terrigne. Amanti appassionate nella giovinezza, diventano poi il pilastro della famiglia, ottime madri e generose compagne di uomini che spesso non le meritano. Sotto le ali accolgono figli propri e altrui, amici, parenti e persino ospiti che rimangono per un tempo indefinito. Le donne cilene non riposano mai e vivono al servizio degli altri, sono sempre in secondo piano, ultime tra gli ultimi; lavorano senza tregua e invecchiano prima del tempo, ma non perdono mai la capacità di ridere di se stesse, né la romantica abitudine di sognare che il loro compagno sia un altro, né la piccola fiamma di ribellione che arde nel loro cuore. La maggior parte di queste donne ha vocazione per il martirio: sono le prime ad alzarsi per servire la famiglia e le ultime a coricarsi; sono orgogliose di soffrire e sacrificarsi. Con quanta soddisfazione sospirano e piangono, confidandosi l'un l'altra i soprusi subiti da parte del marito e dei figli!
Le cilene vestono in modo semplice, indossano quasi sempre i pantaloni, portano i capelli sciolti e usano solo un filo di trucco. Quando sono in spiaggia, o a una festa, sono tutte uguali, sembrano cloni. Ho sfogliato vecchie riviste, dalla fine degli anni sessanta a oggi, e noto che lo stile non è cambiato molto in quarant'anni; credo che l'unica differenza sia il volume dell'acconciatura. Tutte possiedono un "vestitino nero", sinonimo d'eleganza, che con pochi ritocchi le accompagna dalla pubertà alla tomba. Una delle ragioni per cui non vivo in Cile è che non avrei niente da mettermi. Nel mio guardaroba ci sono abbastanza veli, piume e strass da vestire l'intera compagnia del Lago dei cigni; inoltre non esiste colore chimicamente testato con cui non mi sia tinta i capelli e in vita mia non sono mai uscita dal bagno con gli occhi non truccati. Essere costantemente a dieta rappresenta un simbolo di status sociale per le cilene, anche se in varie interviste gli uomini definiscono la loro donna ideale "morbida, piena di curve e che abbia qualcosa da toccare". Non ci crediamo: lo dicono solo per consolarci... Perciò nascondiamo le curve con cardigan e camicette inamidate, al contrario delle donne dei Caraibi, che mostrano con orgoglio l'equipaggiamento anteriore nelle scollature e quello posteriore foderato da stretch fluorescenti. Più soldi ha una donna e meno mangia: quelle della classe alta si riconoscono perché sono magre. In ogni caso, la bellezza è una questione di stile. Come nel caso di una signora con un naso alla Cirano de Bergerac che, prevedendo lo scarso successo che avrebbe riscosso a Santiago, partì per Parigi. Poco tempo dopo apparve su otto pagine a colori della rivista di moda più chic, ritratta con un turbante in testa e... di profilo! Da allora, quella donna appiccicata a un naso è passata alla storia come il simbolo della tanto decantata bellezza cilena.
Alcuni superficiali pensano che in Cile viga il matriarcato, forse tratti in inganno dalla grande personalità delle donne, che sembrano reggere le fila della società. Sono indipendenti e organizzate, conservano il nome da nubile quando si sposano, competono al pari degli uomini nel mondo del lavoro e non solo amministrano la famiglia, ma spesso addirittura la mantengono. Sono più interessanti della maggior parte degli uomini, ma ciò non toglie che vivano in un patriarcato senza attenuanti. Quando una donna è all'inizio della carriera, il suo lavoro e la sua intelligenza non vengono presi in considerazione; noi dobbiamo faticare il doppio di un uomo per ottenere la metà del riconoscimento. Per non parlare di ciò che accade nel campo della letteratura! Ma lasciamo stare questo argomento, perché mi sale la pressione. Gli uomini detengono il potere economico e politico, e se lo passano l'un l'altro come in una staffetta, mentre le donne, salvo rare eccezioni, restano escluse. Il Cile è un paese maschilista: l'aria è talmente densa di testosterone che è un miracolo se alle donne non spuntano i peli in faccia.
In Messico il maschilismo si urla persino nelle rancheras, le canzoni popolari, in Cile è più dissimulato, ma non per questo meno deleterio. I sociologi ne attribuiscono le cause alla Conquista ma, visto che si tratta di un problema mondiale, credo che le radici affondino in tempi più remoti. Non è giusto incolpare di tutto gli spagnoli. Vorrei comunque riportare quello che ho letto.
Gli araucani erano poligami e trattavano le donne abbastanza duramente; normalmente le lasciavano con i bambini e partivano in gruppo, alla ricerca di altri terreni di caccia. Qui trovavano una nuova compagna e con lei mettevano al mondo altri figli, che ancora una volta abbandonavano. Le madri si occupavano dei bambini come meglio potevano, usanza che in un certo senso persiste nella psicologia del nostro popolo. Le cilene tendono ad accettare – anche se non a perdonare – l'abbandono da parte dell'uomo. Pensano si tratti di una tara endemica, tipica della natura maschile. D'altra parte quasi tutti i conquistatori spagnoli non portarono con sé la moglie, ma presero una donna india, che per loro valeva molto meno di un cavallo. Il frutto di queste unioni non paritarie erano figlie umiliate, che a loro volta sarebbero state vittime di abusi, e figli, che temevano e ammiravano il padre soldato, irascibile, volubile, detentore di tutti i diritti, incluso quello di decidere della vita e della morte. Crescendo, i ragazzi si identificavano con lui, mai con la razza sconfitta della madre. Certi conquistatori avevano addirittura una trentina di concubine, senza contare le donne che violentavano e abbandonavano senza tante cerimonie. L'Inquisizione si accaniva contro i mapuche, perché erano poligami, ma chiudeva un occhio sugli harem di indie prigioniere degli spagnoli, perché, aumentando i meticci, cresceva il numero di sudditi per la corona spagnola e quello di anime per la chiesa. Da quegli abbracci violenti è nato il nostro popolo, i cui uomini si comportano ancora come cavalieri che dominano il mondo dall'alto del loro destriero, che dettano legge, che conquistano.
Come teoria non è male, vero?
Le cilene sono complici di questo sistema: educano le figlie femmine a servire e i maschi a essere serviti. Se da una parte lottano per i loro diritti e lavorano senza sosta, dall'altra sono schiave del marito e dei figli maschi, con la collaborazione delle femmine, alle quali inculcano, fin da bambine, il rispetto dei loro doveri. Le ragazze moderne si ribellano, ovviamente, ma appena s'innamorano ricadono nella spirale e confondono l'amore con la servitù. Mi rattrista vedere queste splendide fanciulle che accudiscono i loro fidanzati come se fossero invalidi. Non solo servono loro la cena, ma si offrono anche di tagliare loro la bistecca. Provo compassione perché anch'io ero così. Poco tempo fa un comico della televisione riscosse un grande successo: un uomo, travestito da donna, si cimentava nella caricatura della moglie perfetta. La povera Elvira – così si chiamava – stirava camicie, preparava manicaretti complicatissimi, aiutava i bambini con i compiti, passava la cera a mano sui pavimenti, e poi correva a rinfrescarsi prima che arrivasse il marito, per farsi trovare in ordine. Non aveva mai un attimo di riposo e la colpa di tutto era sempre sua. Correva persino la maratona dietro all'autobus del marito, per portargli la valigetta che aveva dimenticato a casa. Gli uomini si sbellicavano dalle risate, ma le donne erano talmente seccate che dovettero sospendere il programma: a loro non piaceva affatto vedersi così fedelmente ritratte nei panni dell'ineffabile Elvira. Willie, il mio marito americano, con il quale divido equamente i lavori di casa, è scandalizzato dal maschilismo cileno. Da noi, se un uomo lava il piatto in cui ha mangiato è perché "sta aiutando" la moglie o la madre, e quindi si aspetta di essere ringraziato. Tra i nostri amici cileni c'è sempre una donna che porta la colazione a letto ai figli adolescenti, fa il bucato, rifà i letti. Se non esiste una domestica, tocca alla madre o alla sorella, cosa che non accadrebbe mai negli Stati Uniti. Anche a Willie dà fastidio l'istituzione della domestica. Preferisco non raccontargli che, anni addietro, i doveri di queste donne erano di solito abbastanza intimi, nonostante non se ne parlasse. Le madri facevano finta di non sapere, mentre i padri si vantavano delle prodezze del figlio nella stanza di servizio. È il "figlio della tigre" , dicevano, ripensando alle loro passate esperienze. Si credeva che, sfogandosi con la cameriera, il ragazzo non avrebbe poi mancato di rispetto a qualche fanciulla del suo livello e che, comunque, era più sicuro con lei che con qualche prostituta. Nelle campagne esisteva una versione creola dello ius primæ noctis, che ai tempi del feudalesimo concedeva al signore di violentare le spose prima della notte di nozze. Tra noi la cosa non era tanto organizzata: il padrone andava a letto con chi voleva e quando ne aveva voglia. In questo modo i signori hanno seminato le loro terre di bastardi; esistono regioni dove praticamente tutti hanno lo stesso cognome. (Uno dei miei antenati, tutte le volte che violentava una donna si metteva in ginocchio e pregava: "Signore, non fornico per piacere o perversione, ma per mettere figli al tuo servizio...".) Al giorno d'oggi le cameriere si sono emancipate, tanto che la padrona di casa preferisce prendere a servizio immigranti illegali peruviane, che è ancora possibile maltrattare come un tempo si faceva con le cilene.
Nell'ambito dell'istruzione e della sanità, le donne hanno raggiunto o addirittura superato gli uomini, ma non è così per quanto riguarda le opportunità di carriera e il potere politico. Sul lavoro è consuetudine che le donne svolgano le mansioni pesanti e che gli uomini dettino legge. Sono poche le donne che rivestono alti incarichi nel governo, nell'industria e nell'impresa privata o pubblica: c'è sempre un ostacolo che sbarra loro la strada impedendo di raggiungere la vetta. Quando una donna arriva a occupare una posizione di prestigio, per esempio diventa membro del governo o direttore di banca, desta stupore e ammirazione. Negli ultimi dieci anni, comunque, il ruolo della donna come leader politico è stato recepito positivamente dall'opinione pubblica. Le donne rappresentano una possibile alternativa agli uomini, perché hanno dimostrato di essere più oneste, efficienti e attive. Bella scoperta! Quando si organizzano, riescono a esercitare una grande influenza, ma sembra che non si rendano conto delle loro potenzialità. Durante il governo di Salvador Attende le donne della destra scesero in piazza a battere le pentole per protestare contro l'esaurimento delle scorte e lanciarono piume di gallina nell'Accademia Militare per incitare i soldati all'insurrezione. In questo modo contribuirono a provocare il golpe militare. Anni dopo, furono altre donne le prime a scendere in piazza per denunciare la repressione da parte dei soldati, affrontando getti d'acqua, manganellate e colpi d'arma da fuoco. Formarono un potente movimento chiamato Mujeres por la Vida, Donne per la Vita, che svolse un ruolo fondamentale nella caduta della dittatura, ma dopo le elezioni decisero di scioglierlo. Ancora una volta cedettero il potere agli uomini.
Devo premettere che le cilene, così poco risolute quando si tratta di lottare per il potere politico, si dimostrano vere e proprie guerriere in campo amoroso. Quando s'innamorano sono pericolosissime. E, bisogna dirlo, s'innamorano molto spesso. Secondo le statistiche, il cinquantotto per cento delle donne sposate è infedele. Ora che ci penso, spesso le coppie si scambiano: mentre l'uomo seduce la moglie del suo migliore amico, la sua consorte si sollazza con quest'ultimo nello stesso motel. Nell'epoca coloniale, quando il Cile dipendeva dal vicereame di Lima, arrivò dal Perú un prete domenicano inviato dall'Inquisizione per processare alcune signore accusate di praticare sesso orale con i loro mariti (come avrà fatto a controllare?). La causa finì in una nuvola di fumo, perché le signore in questione non si lasciarono umiliare. Quella notte spedirono i loro consorti – che bene o male si erano macchiati dello stesso peccato, anche se loro, ovviamente, non li giudicava nessuno – a dissuadere l'inquisitore. I mariti lo sorpresero in un vicolo buio e, senza pensarci due volte, lo castrarono come un torello. Il povero domenicano se ne tornò a Lima senza testicoli e nessuno si occupò più della questione.
Senza arrivare a tali estremi, un mio amico che non riusciva a liberarsi di un'amante appassionata, un giorno se la diede a gambe mentre lei schiacciava un pisolino. Aveva ficcato le sue cose in uno zaino e stava correndo dietro a un taxi, quando una belva gli piombò addosso e lo fece cadere a terra, schiacciandolo come uno scarafaggio: era l'amante, che si era lanciata gridando all'inseguimento, completamente nuda. Dalle case del quartiere sbucarono dei curiosi, per godersi lo spettacolo. Gli uomini osservavano divertiti, ma le donne, appena capirono di cosa si trattava, si intromisero per trattenere il mio amico fuggitivo. Alla fine lo sollevarono tutte insieme di peso e lo riportarono nel letto che aveva abbandonato durante la siesta.
Potrei citarvi infiniti esempi, ma credo che questo sia sufficiente.
7.
PREGANDO DIO
L'episodio che ho appena raccontato su quelle dame che sfidarono l'Inquisizione all'epoca della colonia è un momento eccezionale della nostra storia, perché in realtà il potere della Chiesa cattolica è indiscutibile e adesso, con il boom dei movimenti fondamentalisti cattolici, come l'Opus Dei e i Legionari di Cristo, le cose sono molto peggiorate.
I cileni sono credenti, anche se la loro pratica religiosa è decisamente più vicina al feticismo e alla superstizione di quanto sia legata all'inquietudine spirituale o alla conoscenza teologica. Nessuno si dichiara ateo, nemmeno il comunista più radicale, perché questo termine è considerato offensivo, si preferisce la parola "agnostico". In linea generale anche i più scettici si convertono sul letto di morte, perché altrimenti rischierebbero troppo e anche perché una confessione all'ultimo minuto non ha mai fatto male a nessuno. Questa inclinazione spirituale deriva dalla terra stessa: quando un popolo vive tra le montagne è normale che volga gli occhi al cielo. In Cile le manifestazioni di fede sono impressionanti. Convocati dalla chiesa, migliaia e migliaia di giovani sfilano in lunghe processioni, con candele e fiori, e lodano la Vergine Maria o implorano la pace a squarciagola con la stessa foga con cui, in altri paesi, i ragazzi si sgolano ai concerti rock. Un tempo la recita del rosario in casa e il mese dedicato alla Madonna riscuotevano un enorme successo, ma ora le telenovelas hanno conquistato più seguaci.
Nella mia famiglia, naturalmente, non sono mancati gli esoterici. Uno dei miei zii ha trascorso settant'anni della sua vita a predicare l'incontro con il nulla, seguito da una numerosa schiera di discepoli. Se in gioventù gli avessi dato retta, ora non studierei il buddhismo e non cercherei invano di fare la candela alle lezioni di yoga. Quella pazza zia centenaria travestita da suora, che cercava di redimere le prostitute di via Maipú, in quanto a santità non era niente al confronto di una sorella della nonna, alla quale erano spuntate le ali. Non erano ali con le piume d'oro, come quelle degli angeli rinascimentali, che si sarebbero notate, ma timidi moncherini sulle spalle, erroneamente diagnosticati dai medici come una deformazione ossea. A volte, a seconda della luce, potevamo vedere l'aureola, che le fluttuava sulla testa come un disco luminoso. Ho narrato la sua storia in Eva Luna racconta e non è il caso di ripeterla; basti dire che, contrariamente alla tendenza generale di lamentarsi di tutto, tipica dei cileni, lei era sempre contenta, malgrado il suo tragico destino. In un'altra persona quell'aria eternamente felice sarebbe risultata insopportabile, ma in quella donna trasparente si poteva benissimo tollerare. Ho sempre tenuto una fotografia della zia sulla scrivania, per riconoscere il suo fantasma quando si infila di nascosto tra le pagine di un libro o quando appare in qualche angolo della casa.
In Cile abbondano santi di tutti i tipi, e questo non deve stupire, perché è il paese più cattolico del mondo, più dell'Irlanda e certamente molto più del Vaticano. Qualche anno fa una fanciulla, molto somigliante alla statua di san Sebastiano martire, operava stupefacenti guarigioni. Stampa, televisione e una moltitudine di pellegrini la assediavano giorno e notte. Dopo un attento esame si scoprì che era un travestito, ma non per questo perse il suo prestigio, o i suoi poteri, anzi. Ogni tanto si diffonde la notizia che è apparso un nuovo santo o un nuovo Messia, e questo attira folle piene di speranze. Negli anni settanta, quando facevo la giornalista, mi fu affidato un servizio sul caso di una ragazza che, a quanto dicevano, prevedeva il futuro ed era in grado di guarire gli animali e di aggiustare, senza toccarli, i motori rotti. Ogni giorno, alla stessa ora, la sua umile baracca si riempiva di contadini che venivano ad assistere a quei piccoli miracoli. Tutti giuravano che una pioggia invisibile di pietre si abbatteva sul tetto con un rumore assordante, che la terra tremava e la giovane cadeva in trance. Ebbi occasione di assistere a un paio di questi eventi e potei verificare la trance, durante la quale la santa diventava forte come un gladiatore, ma non ricordo le pietre che cadevano dal cielo, né il pavimento che traballava. È probabile, come mi spiegò un predicatore evangelico del posto, che ciò non si verificasse a causa della mia presenza: ero una miscredente capace di far fallire il più autentico dei miracoli. Comunque sia, la storia finì sui giornali e l'interesse popolare nei confronti della santa crebbe fino a quando arrivarono i militari, che chiusero la questione a modo loro. Recuperai questa storia dieci anni dopo, per includerla in uno dei miei romanzi.
La maggior parte del paese è cattolica, anche se esistono sempre più evangelici e pentecostali, che indispettiscono tutti perché comunicano direttamente con Dio, mentre gli altri devono passare attraverso la burocrazia sacerdotale. I mormoni, che sono numerosi e molto influenti, sostengono i loro adepti come un vero e proprio ufficio di collocamento, come prima facevano i membri del Partito radicale. I rimanenti sono ebrei, qualche musulmano e, tra quelli della mia generazione, gli spiritualisti della Nuova Era, un cocktail di ecologismo, cristianesimo, pratiche buddhiste, qualche rito recentemente recuperato dalle riserve indigene e il solito contorno di guru, astrologi, esperti del paranormale e altre guide di anime. Da quando il sistema sanitario è stato privatizzato e i farmaci sono diventati un affare immondo, la medicina popolare e orientale, le machis o meicas, cioè le guaritrici mapuche, gli sciamani indigeni, l'erboristeria autoctona e le guarigioni miracolose hanno in parte rimpiazzato, con analoghi risultati, la medicina tradizionale. Molti miei amici si sono affidati a qualche esperto del paranormale, che ne influenza la vita e li mantiene in salute ripulendo loro l'aura, imponendo le mani o accompagnandoli in viaggi astrali. L'ultima volta che sono andata in Cile, un amico che sta studiando da guaritore mi ha ipnotizzato facendomi retrocedere di diverse reincarnazioni. Non è stato semplice tornare al presente, perché il mio amico non aveva ancora terminato il corso, ma ne è valsa la pena, perché ho scoperto che nelle vite precedenti non sono stata Gengis Khan, come pensa mia madre.
Non sono mai riuscita a liberarmi completamente della religione e, qualunque guaio mi capiti, la prima cosa che mi viene in mente di fare è pregare, giusto per stare tranquilla, come fanno tutti i cileni, compresi gli atei, chiedo scusa, gli agnostici. Supponiamo che mi serva un taxi: ho imparato per esperienza che basta un padrenostro per farlo arrivare. C'è stato un tempo, tra l'infanzia e l'adolescenza, durante il quale ho coltivato la fantasia di farmi suora, per nascondere la paura di non riuscire a trovare marito. Non ho mai scartato questa idea; mi assale ancora la tentazione di concludere i miei giorni in povertà, silenzio e solitudine, in un convento benedettino o in un monastero buddhista. Non importano le finezze teologiche, ciò che mi piace è lo stile di vita. Nonostante la mia invincibile civetteria, la vita monastica mi affascina. A quindici anni ho abbandonato per sempre la Chiesa e ho sviluppato una tremenda repulsione per le religioni in generale e per quelle monoteiste in particolare. Non sono l'unica a pensarla così, molte donne della mia età, attive sul fronte dell'emancipazione femminile, non si sentono a loro agio con le religioni patriarcali – ne esiste una che non lo sia? – e si sono dovute inventare culti propri, anche se in Cile hanno sempre un'impronta cristiana. Da noi per quanto una persona si dichiari animista, in casa ha sempre una croce, e se non ce l'ha se la porta appesa al collo. La mia religione, ammesso che interessi a qualcuno, si riduce a una semplice domanda: "Qual è la cosa più generosa che posso fare?". Se la domanda non è adatta al caso, ne ho pronta un'altra: "Cosa ne penserebbe il nonno?". Ciò nonostante, in caso di bisogno mi faccio il segno della croce.
Ho sempre ripetuto che il Cile è un paese fondamentalista ma, dopo aver assistito agli eccessi dei talebani, devo ridimensionare il mio giudizio. Non siamo fondamentalisti, anche se ci andiamo vicino. Abbiamo avuto la fortuna, a differenza di quanto accade negli altri paesi dell'America Latina, che, salvo poche riprovevoli eccezioni, la Chiesa cattolica si è sempre prodigata per aiutare i poveri, un atteggiamento che le ha fatto guadagnare enorme rispetto e simpatia. Ai tempi della dittatura molti preti e suore aiutarono le vittime della repressione e la pagarono cara. Come dichiarò Pinochet nel 1979: "Gli unici che si disperano per restaurare la democrazia sono i politici e uno o due sacerdoti". (Quella era l'epoca in cui, secondo i generali, il Cile godeva di una "democrazia totalitaria".)
La domenica le chiese sono affollate, e tutti venerano il papa, anche se quasi nessuno lo ascolta in materia di anticoncezionali, perché si parte dal concetto che un anziano celibe, senza preoccupazioni di carattere pratico, non può essere un esperto di quel delicato argomento. La religione è vivace e ritualistica. Non esistono carnevali, ma abbiamo le processioni. Ogni santo si distingue per la sua specialità, come gli dèi dell'Olimpo: restituire la vista ai ciechi, punire mariti infedeli, trovare un fidanzato, proteggere gli automobilisti. Il più popolare è senza dubbio padre Hurtado, che non è ancora santo, ma speriamo tutti che lo diventi presto, anche se il Vaticano non brilla per celerità nelle sue decisioni. Questo straordinario sacerdote ha fondato un'istituzione chiamata La Casa di Cristo, che oggi è un'impresa miliardaria completamente al servizio dei poveri. Padre Hurtado è talmente miracoloso che poche volte non si è avverato qualcosa che gli avevo chiesto, tramite la donazione di una giusta somma a favore delle sue opere di carità o il compimento di qualche grosso sacrificio. Devo essere una delle poche persone al mondo che hanno letto i tre tomi completi dell'infinita epopea La Araucana, in versi rimati e in spagnolo classico. Non l'ho fatto per curiosità, né per darmi arie da intellettuale, ma per mantenere una promessa fatta a padre Hurtado. Quell'uomo dall'animo puro sosteneva che la crisi morale nasce dal fatto che i cattolici che vivono nel lusso vanno a messa e poi negano ai loro dipendenti uno stipendio adeguato. Queste parole andrebbero stampate sui biglietti da mille pesos, per non dimenticarle mai.
Esistono anche diverse rappresentazioni della Vergine Maria, in competizione tra di loro. I seguaci della Vergine del Carmen, protettrice delle Forze Armate, considerano inferiore la Madonna di Lourdes o la Tirana, e i devoti di queste ultime rispondono per le rime. A proposito della Tirana, vale la pena ricordare che la sua festa si celebra in estate, in un santuario nei pressi della città di Iquique, nel Nord, dove i devoti danzano in suo onore. Ricorda un po' il carnevale brasiliano, ma in formato ridotto, perché, come ho già detto, noi cileni non siamo gente estroversa. Gli allievi delle scuole di ballo si preparano tutto l'anno, provano le coreografie e confezionano i costumi, e il giorno designato si esibiscono davanti alla Tirana travestiti, per esempio, da Batman. Le ragazze indossano abiti con audaci scollature, minigonne che arrivano appena a coprire il fondoschiena e stivali con i tacchi alti. Non è strano, quindi, che la Chiesa non veda di buon occhio queste manifestazioni popolari di fede.
Come se la vasta e variopinta agiografia non bastasse, abbiamo anche una ricca tradizione orale di spiriti maligni, interventi demoniaci, morti che si alzano dalle tombe. Il nonno giurava che una volta sull'autobus gli era apparso il diavolo, e che lui lo aveva riconosciuto perché aveva zoccoli verdi da caprone.
A Chiloé, un arcipelago di isole a sud del paese, davanti a Puerto Montt, si narrano storie di fattucchiere e mostri malvagi; si racconta della Pincoya, una splendida fanciulla che esce dall'acqua per irretire gli uomini sprovveduti; del Caleuche, una nave incantata che si porta via i morti. Nelle notti di luna piena splendono luci che indicano i luoghi dove sono sepolti tesori. Si narra che a Chiloé è esistita per molto tempo una comunità chiamata la Recta Provincia, formata da stregoni che si riunivano di notte nelle caverne. I guardiani di quelle grotte erano gli imbunches, spaventose creature che si nutrivano di sangue, alle quali gli stregoni avevano spezzato le ossa e cucito le palpebre e l'ano. La spietata fantasia cilena non finisce mai di inorridirmi...
A Chiloé la cultura è differente dal resto del paese e la gente è così orgogliosa del proprio isolamento che si oppone alla costruzione di un ponte per collegare l'isola principale con Puerto Montt. È un luogo talmente straordinario che tutti i cileni e i turisti dovrebbero visitarlo almeno una volta, anche a rischio di restarci per sempre. Gli abitanti di Chiloé sono rimasti indietro di cent'anni, ancora dediti all'agricoltura, alla pesca e al commercio del salmone. Le costruzioni sono completamente di legno e in ogni casa una grande stufa a legna resta accesa giorno e notte, per cucinare e scaldare la famiglia, gli amici e i nemici riuniti intorno a essa. L'odore di queste case, in inverno, è un ricordo indelebile: legna profumata nel fuoco, lana umida, zuppa nel paiolo... Gli abitanti di Chiloé sono stati gli ultimi a cedere alla repubblica quando il Cile dichiarò la sua indipendenza dalla Spagna e nel 1826 manifestarono l'intenzione di unirsi alla corona d'Inghilterra. Pare che la Recta Provincia, attribuita agli stregoni, sia stato in realtà un governo parallelo, ai tempi in cui gli abitanti si rifiutavano di sottostare all'autorità della Repubblica del Cile.
Nonna Isabel non credeva alle streghe, ma non mi stupirei che qualche volta abbia tentato di volare con la scopa, perché era sempre stata affascinata dal paranormale e trascorse la vita tentando di comunicare con l'aldilà, faccende che la Chiesa cattolica non vedeva affatto di buon occhio nemmeno a quei tempi. In un modo o nell'altro quella santa donna riusciva ad attirare forze misteriose che spostavano il tavolo durante le sue sedute spiritiche. Quel tavolo oggi si trova in casa mia, dopo aver fatto il giro del mondo diverse volte durante la carriera diplomatica del mio patrigno, ed essere andato poi perso negli anni dell'esilio. Mia madre lo recuperò con un'abile mossa d'ingegno e me lo spedì in aereo in California. Sarebbe stato meno costoso mandarmi un elefante, dato che si tratta di un antico mobile spagnolo di legno intagliato, con un bellissimo supporto centrale formato da quattro leoni feroci. Occorrono quattro uomini per sollevarlo. Non so con quale trucco la nonna riuscisse a farlo spostare per la stanza, sfiorandolo appena con l'indice. Quella donna aveva convinto i suoi nipoti che, dopo la sua morte, sarebbe accorsa quando l'avessero chiamata, e immagino abbia mantenuto la promessa. Non credo che il suo fantasma, né quello di qualcun altro, vegli su me tutti i giorni – penso abbiano cose più importanti da fare – ma mi piace l'idea che sia pronto ad accorrere in caso di estremo bisogno.
La nonna sosteneva che siamo tutti dotati di poteri paranormali ma, siccome non li esercitiamo, si atrofizzano – come i muscoli – e alla fine si dissolvono. Devo premettere che i suoi esperimenti paranormali non furono mai pratiche macabre: niente stanze buie, candelabri funebri né musica d'organo, come in Transilvania. La telepatia, il potere di spostare gli oggetti senza toccarli, la chiaroveggenza o la comunicazione con le anime dell'aldilà avvenivano a qualunque ora del giorno e nella maniera più inaspettata. Per esempio, la nonna non si fidava dei telefoni, che in Cile hanno funzionato malissimo fino a quando è stato inventato il cellulare, e usava la telepatia per dettare la ricetta della torta di mele alle tre sorelle Morla, sue amiche della Confraternita Bianca, che vivevano dall'altra parte della città. Non abbiamo mai potuto verificare se il metodo funzionasse, perché erano tutte e quattro pessime cuoche. La Confraternita Bianca era formata da queste eccentriche signore e dal nonno, che non credeva a niente, ma accompagnava sempre la moglie per proteggerla in caso di pericolo. Era un uomo scettico per natura, e non accettò mai l'idea che le anime dei morti spostassero il tavolo. Quando sua moglie ipotizzò che forse non si trattava di anime ma di extraterrestri, lui abbracciò la tesi con entusiasmo, perché gli sembrò una spiegazione più scientifica.
In Cile niente di tutto ciò è strano. Mezzo paese si lascia influenzare da oroscopi, veggenti o da vaghi pronostici come l'I–ching, e l'altra metà gira con cristalli appesi al collo o studia il Feng Shui. In un programma televisivo leggono i tarocchi per rispondere ai quesiti di telespettatori con problemi di cuore. La maggior parte dei vecchi rivoluzionari della sinistra militante si dedica ora a pratiche spiritualiste. (Tra la guerriglia e l'esoterismo esiste un'inafferrabile connessione.) Le sedute della nonna mi sembrano comunque più ragionevoli delle offerte ai santi, dell'acquisto di indulgenze per guadagnarsi un posto in cielo e dei pellegrinaggi delle beghine locali in autobus affollati. Ho sentito raccontare molte volte che la nonna spostava la zuccheriera senza toccarla, con la sola forza del pensiero. Non so dire con precisione se qualche volta ho assistito a questa prodezza o se, a forza di sentirlo, ho finito per convincermi che fosse vero. Non ricordo la zuccheriera, ma mi pare che ci fosse una campanella d'argento con in cima un principe effeminato, che si usava in sala da pranzo per chiamare i camerieri tra una portata e l'altra. Non saprei dire se ho sognato l'episodio, se me lo sono inventato o se è successo davvero: vedo la campanella che scivola silenziosa sulla tovaglia, come se il principe acquistasse vita propria, fa un bel giro sotto lo sguardo stupito dei commensali e torna a capotavola, accanto alla nonna. Mi capita con molti episodi e aneddoti della mia vita: mi sembra di averli vissuti, ma al momento di metterli sulla carta e analizzarli razionalmente mi sembrano poco attendibili. Il problema, comunque, non mi turba. Cosa importa se sono successi davvero o se me li sono immaginati? In ogni caso, la vita è sogno.
Non ho ereditato i poteri paranormali della nonna, ma lei mi ha aperto gli occhi sui misteri del mondo. Accetto l'idea che qualunque cosa sia possibile. Lei sosteneva che esistono molteplici dimensioni della realtà e che per comprendere la vita non è prudente affidarsi solo alla ragione e ai nostri sensi limitati; esistono anche altri strumenti di percezione, come l'istinto, l'immaginazione, i sogni, le emozioni, le intuizioni. Mi iniziò al realismo magico molto prima che diventasse una moda durante il cosiddetto boom della letteratura sudamericana. Ciò si è rivelato utile per il mio lavoro, perché affronto ogni libro con lo stesso criterio con cui la nonna conduceva le sue sedute, e cioè convoco gli spiriti con dolcezza, per farmi raccontare le loro storie. I personaggi dei romanzi, come i fantasmi, sono esseri fragili e timorosi; bisogna trattarli con cautela perché si sentano a loro agio nelle pagine.
Fantasmi, tavoli che si spostano da soli, santi prodigiosi e diavoli con gli zoccoli verdi sull'autobus rendono la vita e la morte più interessanti. Le anime in pena non conoscono ostacoli. Un mio amico, in Cile, si sveglia di notte perché certi africani, alti e slanciati, vestiti con tuniche e armati di lance, che solo lui può vedere, vengono a fargli visita. Sua moglie, che gli dorme accanto, non ha mai visto gli africani, ma solo due signore inglesi del XIX secolo che passano attraverso le porte. Un'altra mia amica – nella cui casa di Santiago i lampadari cadevano misteriosamente e le sedie si rovesciavano – scoprì che la causa di tutto erano le ossa di un geografo danese dissotterrate in cortile, insieme alle carte geografiche e al taccuino degli appunti. Come aveva fatto a spingersi tanto lontano, il povero morto? Non lo sapremo mai. Comunque, dopo che gli ebbero recitato qualche novena e fatto dire un po' di messe, lo sventurato geografo se ne andò. A quanto pare in vita era stato calvinista o luterano e non apprezzava i riti papisti.
La nonna sosteneva che lo spazio è pieno di presenze, morte e vive, che si mescolano insieme. È un'idea meravigliosa. Per questo io e mio marito abbiamo costruito, nel Nord della California, una grande casa con soffitti alti, archi e travi, che attirasse i fantasmi di diverse epoche e latitudini, specialmente quelli del Sud. Per farla assomigliare alla casa dei miei bisnonni decidemmo di danneggiarla e ci dedicammo al coraggioso e costoso compito di prendere le porte a martellate, macchiare i muri con la vernice, ossidare il ferro battuto con l'acido e calpestare i cespugli del giardino. Il risultato è stato piuttosto convincente. Penso che più di un'anima distratta, ingannata dall'aspetto della proprietà, possa stabilirsi da noi. Durante il processo di invecchiamento, i vicini ci osservavano dalla strada a bocca aperta, senza capire perché avevamo costruito una casa nuova se ne volevamo una vecchia. La ragione è che in California non esiste nessuna abitazione che risale all'epoca coloniale cilena e, comunque, niente qui è davvero antico. Non dimentichiamo che, prima del 1849, San Francisco non esisteva e che al suo posto si trovava un villaggio chiamato Yerba Buena, dove vivevano un pugno di messicani e mormoni e dal quale passavano solo i trafficanti di pelli. Fu la febbre dell'oro ad attirare le folle. Una casa come la nostra, da queste parti, rappresenta una contraddizione storica.
8.
IL PAESAGGIO DELL'INFANZIA
È molto difficile descrivere una caratteristica famiglia cilena, ma posso affermare, senza ombra di dubbio, che la mia non lo era. Neanch'io sono stata una tipica signorina dell'ambiente in cui sono cresciuta; mi sono salvata per miracolo, come si suol dire. Vi racconterò qualcosa della mia giovinezza, per cercare di illustrare alcuni aspetti della società cilena, che a quei tempi era molto meno tollerante di oggi, il che è tutto dire. La Seconda guerra mondiale fu un cataclisma che sconvolse il mondo e rivoluzionò tutto, dalla geopolitica alla scienza, persino i costumi, la cultura e l'arte. Nuove idee rimpiazzarono inesorabilmente quelle che avevano sostenuto la società nei secoli precedenti, ma alle innovazioni occorreva parecchio tempo per attraversare due oceani o superare la barriera invalicabile delle Ande. In Cile tutto arrivava con diversi anni di ritardo.
La nonna chiaroveggente morì all'improvviso di leucemia. Non lottò per vivere, ma si abbandonò alla morte con entusiasmo, perché era molto curiosa di vedere il cielo. Durante la sua vita ebbe la fortuna di essere amata e protetta da un marito che aveva accettato di buon grado le sue stravaganze, altrimenti, forse, sarebbe finita in un ospedale psichiatrico. Ho letto alcune lettere scritte di suo pugno in cui appare come una donna malinconica, morbosamente attratta dalla morte; malgrado ciò la ricordo come una presenza solare, ironica e piena di voglia di vivere. La sua assenza pesò su di noi come una catastrofe, la famiglia entrò in lutto e io scoprii cosa significhi avere paura. Avevo paura del diavolo che appare negli specchi, dei fantasmi che vagano per casa, dei topi in cantina. Avevo paura che mia madre morisse e a me toccasse andare in un orfanotrofio, o che tornasse mio padre – quell'uomo il cui nome non si poteva pronunciare – per portarmi lontano. Avevo paura di commettere peccati e finire all'inferno, temevo le gitane e i babau di cui parlava la tata per minacciarci. Insomma, la lista era interminabile, bastava e avanzava per vivere nel terrore.
Il nonno, pieno di rabbia perché l'amore della sua vita lo aveva abbandonato, si vestì di nero dalla testa ai piedi, fece dipingere i mobili dello stesso colore e proibì feste, musica, fiori e dolci. Trascorreva la giornata in ufficio, pranzava in centro, cenava al club de la Unión, e il fine settimana giocava a golf e alla pelota basca o andava in montagna a sciare. Il nonno era tra quelli che cominciarono a praticare questo sport quando risalire le piste era come scalare l'Everest; non avrebbe mai immaginato che un giorno il Cile sarebbe diventato il paradiso degli sport invernali, dove si allenano le squadre olimpiche di tutto il mondo. Noi bambini vedevamo il nonno solo per qualche minuto, al mattino presto, ma ciò nonostante la sua figura fu determinante per la mia formazione. Prima di andare a scuola, io e i miei fratelli passavamo a salutarlo; ci riceveva nella sua stanza tetra, che profumava di sapone inglese Lifebuoy. Per noi non ebbe mai un gesto affettuoso – lo considerava nocivo –, ma una sua parola di approvazione bastava a ripagarci di qualunque fatica. Tempo dopo, verso i sette anni, quando cominciai a leggere il giornale e a fare domande, si accorse di me, e allora nacque un legame che sarebbe durato ben oltre la sua morte, perché ancora oggi porto la sua impronta nel carattere e vivo degli aneddoti che mi ha raccontato.
La mia infanzia non fu felice, ma in compenso fu interessante. Non mi annoiavo grazie ai libri dello zio Pablo, che allora non si era ancora sposato e viveva con noi. Era un accanito lettore; il pavimento della sua stanza era coperto di libri, pieni di polvere e ragnatele. Lo zio rubava i libri nei negozi e li sottraeva ai suoi amici senza alcun rimorso, perché pensava che tutta la carta stampata – eccetto quella che gli apparteneva – fosse patrimonio comune dell'umanità. Mi permetteva di leggerli perché si era fermamente riproposto di trasmettermi la sua mania per la lettura: mi regalò una bambola quando terminai Guerra e pace, un librone stampato con caratteri piccolissimi. In quella casa non esisteva censura, ma il nonno non mi permetteva di tenere la luce accesa in camera mia dopo le nove, quindi lo zio Pablo mi regalò una torcia elettrica. I ricordi più belli che conservo di quegli anni sono i momenti passati a leggere libri sotto le lenzuola, con la mia torcia. I bambini cileni leggevano i romanzi di Emilio Salgari e Jules Verne, il Tesoro della gioventù e raccolte di romanzetti educativi che proponevano obbedienza e innocenza come massime virtù, o anche la rivista "El Peneca", che usciva ogni mercoledì. Dal martedì attendevo il fattorino sulla porta, per evitare che il giornale cadesse nelle mani dei miei fratelli prima che nelle mie. Me lo divoravo come aperitivo, poi mi rimpinzavo di piatti più succulenti, come Anna Karenina e I miserabili. Come dessert assaporavo fiabe. Quei libri meravigliosi mi permisero di evadere dalla squallida realtà di quella casa in lutto, dove i bambini, come i gatti, davano fastidio.
Mia madre, giovane e di nuovo nubile grazie all'annullamento del suo matrimonio, viveva all'ombra del padre e aveva qualche ammiratore, diciamo una o due dozzine. Oltre a essere bella, era dotata di quell'aria eterea e fragile delle fanciulle d'altri tempi che si è completamente perduta al giorno d'oggi, cioè da quando le ragazze hanno cominciato a sollevare pesi. Gli uomini erano molto attratti dalla sua fragilità: accanto a lei, anche il più mingherlino si sentiva un colosso. Era una di quelle donne che risvegliano l'istinto di protezione, esattamente l'opposto di me, che sono un carro armato all'attacco. Invece di vestirsi di nero e piangere per essere stata abbandonata dal quel farfallone di suo marito, come tutti si sarebbero aspettati, lei cercava di divertirsi, nei limiti del consentito, che non era molto, perché allora le donne non potevano frequentare le sale da tè e meno che mai andare al cinema da sole. Tutti i film di qualche interesse erano classificati dalla censura come "non raccomandabili per le signorine", e questo significava che le ragazze potevano vederli solo se accompagnate da un uomo della famiglia, che si assumeva la responsabilità dell'eventuale danno morale che lo spettacolo avrebbe potuto causare alla fragile psiche femminile. Sono rimaste alcune fotografie di quegli anni, in cui mia madre sembra la sorella minore di Ava Gardner. Era una bellezza acqua e sapone: pelle luminosa, risata facile, lineamenti classici e una notevole eleganza innata; bastava e avanzava perché le malelingue non le dessero tregua. Se la bigotta società di Santiago era seccata dai suoi innamorati platonici, immaginatevi lo scandalo che scoppiò quando si seppe della sua relazione con un uomo sposato, padre di quattro figli e nipote di un vescovo.
Tra molti pretendenti mia madre scelse il più brutto. Ramón Huidobro sembrava un rospo, ma un bacio d'amore lo tramutò in principe, come nella fiaba, e ora posso giurare che è bello. Le relazioni clandestine sono sempre esistite, in questo campo noi cileni siamo degli esperti, ma questa storia non aveva niente di clandestino, e ben presto finì sulla bocca di tutti. Non riuscendo a dissuadere la figlia né a evitare lo scandalo, mio nonno decise di prendere il toro per le corna e accolse in casa l'amante, sfidando la società intera e la Chiesa. Il vescovo in persona venne a casa nostra per sistemare le cose, ma il nonno lo prese gentilmente per un braccio e lo accompagnò alla porta, dicendogli che si sarebbe fatto carico di tutti i suoi peccati e anche di quelli della figlia. Con il tempo, quell'amante sarebbe diventato il mio patrigno, l'impareggiabile zio Ramón, amico, confidente, mio unico e vero padre; ma quando si trasferì da noi lo considerai un nemico e mi riproposi di rendergli la vita impossibile. Cinquant'anni dopo lui giura che non è vero, e che non gli ho mai fatto la guerra; ma lo dice per pura generosità, per alleggerirmi la coscienza, perché ricordo benissimo i miei piani per procurargli una morte lenta e dolorosa.
Il Cile è forse l'unico paese della galassia dove non esiste il divorzio perché, nonostante il settantun per cento della popolazione lo reclami da anni, nessuno osa sfidare i preti. Nessun parlamentare, neanche quelli che si sono separati dalla moglie e hanno avuto una serie di altre donne in rapida successione, affronta i preti. Come conseguenza, la legge sul divorzio giace nell'archivio delle pratiche in attesa di esame, anno dopo anno, e quando finalmente verrà approvata imporrà una tale serie di condizioni e restrizioni da rendere più semplice l'assassinio del coniuge che la richiesta di separazione. La mia migliore amica, esasperata dall'attesa dell'annullamento del suo matrimonio, leggeva tutti i giorni i necrologi sul giornale, con la speranza di vedere il nome del marito. Non si azzardò mai a pregare affinché l'uomo ricevesse la morte che si meritava, ma se lo avesse chiesto a padre Hurtado, lui l'avrebbe senz'altro accontentata.
È ormai da più di cent'anni che migliaia di coppie riescono a ottenere l'annullamento del loro matrimonio grazie a scappatoie legali. Così fecero anche i miei genitori. Bastarono la determinazione del nonno e le sue conoscenze perché mio padre svanisse come per incanto e mia madre fosse dichiarata nubile con tre figli illegittimi, che la nostra legislazione definisce "putativi". Mio padre, appena gli fu garantito che non avrebbe dovuto mantenere i bambini, firmò i documenti senza protestare. Durante la causa di annullamento una serie di testimoni giura il falso davanti a un giudice, che finge di credere alla testimonianza. Per ottenere un annullamento è necessario almeno un legale, il quale, essendo pagato a ore, non ha alcun interesse ad accorciare i tempi. L'unica condizione necessaria affinché l'avvocato ottenga l'annullamento è che la coppia sia d'accordo, perché se uno dei due si rifiuta di partecipare alla truffa – come fece la prima moglie del mio patrigno – non c'è niente da fare. Come conseguenza, in Cile le coppie si formano e si sciolgono senza alcun tipo di documento. Così ha fatto quasi tutta la gente che conosco. Mentre sto scrivendo, nel terzo millennio, la legge sul divorzio è ancora in attesa di esame, malgrado il presidente della repubblica abbia ottenuto l'annullamento del suo primo matrimonio e si sia risposato. Di questo passo mia madre e lo zio Ramón, che ormai hanno ottant'anni e vivono insieme da più di mezzo secolo, moriranno senza poter legalizzare la loro unione. Ormai non importa più a nessuno dei due e, anche se potessero, non si sposerebbero, perché preferiscono passare alla storia come due leggendari amanti.
Lo zio Ramón, come mio padre, lavorava al ministero degli Affari Esteri e, poco tempo dopo essere stato accolto sotto il tetto del nonno in qualità di genero illegittimo, fu inviato in missione diplomatica in Bolivia. Erano gli inizi degli anni cinquanta. Io, mia madre e i miei fratelli partimmo con lui.
Prima di cominciare a viaggiare ero convinta che tutte le famiglie fossero come la mia, che il Cile fosse il centro del mondo e che tutta l'umanità ci assomigliasse e parlasse lo spagnolo come prima lingua; l'inglese e il francese erano materie di studio, come la geometria. Appena attraversammo la frontiera ebbi il primo sospetto riguardo il mio concetto di vastità della terra e mi resi conto che nessuno, assolutamente nessuno, era al corrente di quanto speciale fosse la mia famiglia. Imparai alla svelta come ci si sente a essere rifiutati. Dal momento in cui lasciammo il Cile e cominciammo a spostarci da un paese all'altro, diventai la bambina nuova del quartiere, la straniera a scuola, che si vestiva in modo diverso e non riusciva neanche a parlare come gli altri. Non vedevo l'ora di tornare alla terra conosciuta di Santiago, ma quando finalmente accadde, diversi anni dopo, non mi sentii a casa neppure lì, perché ero stata lontana per troppo tempo. Essere straniera, come sono stata quasi sempre, significa faticare il doppio della gente del posto, una cosa che mi ha mantenuta sempre vigile e mi ha costretta a sviluppare la flessibilità necessaria per adattarmi a diversi contesti. Questa condizione offre alcuni vantaggi a chi si guadagna da vivere osservando le cose: io non do mai niente per scontato, tutto mi sorprende. Faccio domande assurde, ma qualche volta interrogo la gente giusta e ricavo materiale per i miei romanzi. Francamente, una delle cose che più mi affascinano di Willie, mio marito, è il suo atteggiamento sicuro e fiducioso. Lui non dubita mai di sé, né del terreno su cui si muove. Ha sempre vissuto nello stesso paese, è capace di ordinare la spesa su un catalogo, votare per posta, aprire il flacone dell'aspirina e sa chi chiamare quando si allaga la cucina. Invidio la sua sicurezza; lui si sente completamente a proprio agio con se stesso e padrone della sua lingua, del suo paese, della sua vita. Noto una certa serenità e innocenza nella gente che ha vissuto sempre nello stesso posto e che dispone di testimoni del proprio passaggio sulla terra. Chi invece, come me, si è dovuto spostare parecchio, sviluppa per forza una dura corteccia. Non avendo radici solide, né testimoni del passato, dobbiamo affidarci alla memoria per conferire continuità alle nostre vite; ma la memoria è sempre confusa, non ci si può fare affidamento. I ricordi del mio passato non hanno un contorno preciso, sono sfumati, quasi che la mia vita sia stata solo una successione d'illusioni, immagini fugaci, episodi che non riesco a spiegarmi o che mi spiego solo in parte. Non ho alcun tipo di certezza. E non riesco neanche a immaginare il Cile come un luogo geografico con delle caratteristiche precise, come un posto definito e reale. Mi appare come i sentieri di campagna all'imbrunire, quando le ombre dei pioppi confondono lo sguardo e il paesaggio sembra solo un sogno.
9.
GENTE SUPERBA E SERIA
Una mia amica dice che noi cileni, pur essendo poveri, siamo permalosi. Si riferisce, ovviamente, alla nostra ingiustificata suscettibilità, sempre a fior di pelle, all'orgoglio esagerato, alla tendenza a reputarci offesi per un'inezia. Da chi abbiamo ereditato queste caratteristiche? Immagino che in parte siano riconducibili alla madrepatria, la Spagna, che ci ha trasmesso un misto di passione e intransigenza; altrettanto lo dobbiamo al sangue del rassegnato popolo araucano, e per il resto possiamo incolpare la sorte.
Nelle mie vene scorre sangue francese da parte di padre, e sicuramente sangue indigeno, basta guardarmi per capirlo, ma le mie origini sono principalmente spagnole. I capostipiti di famiglie come la mia cercarono di fondare dinastie e perciò alcuni di loro si attribuirono un passato aristocratico, anche se in realtà erano contadini e avventurieri spagnoli, giunti secoli addietro alla punta estrema dell'America con una mano davanti e una dietro. Di sangue blu, come si suol dire, non ne avevano neanche una goccia. Erano uomini ambiziosi e lavoratori, si impossessarono delle terre più fertili nei pressi di Santiago e si rimboccarono le maniche per diventare gente importante. Siccome furono i primi ad arrivare e fecero rapidamente fortuna, si concessero il lusso di guardare dall'alto in basso chi arrivò dopo. Si sposavano tra di loro e, da bravi cattolici, mettevano al mondo una numerosa discendenza. I figli normalmente dotati erano destinati alla terra, ai ministeri e alla gerarchia ecclesiastica, mai al commercio, che era riservato a un'altra categoria di gente; quelli meno intelligenti finivano in Marina. Spesso rimaneva anche qualche figlio per la presidenza della repubblica. Nella nostra storia annoveriamo stirpi di presidenti, quasi la carica fosse ereditaria, perché i cileni votano solo un nome conosciuto. La famiglia Errázuriz, per esempio, enumera tre presidenti, più di trenta senatori e non so quanti deputati, oltre a diverse alte cariche della Chiesa. Le figlie virtuose delle famiglie "bene" sposavano i cugini o diventavano beghine dai dubbi poteri miracolosi; delle ragazze difficili si occupavano le suore. La società di un tempo era conservatrice, devota, stimata, superba e avara, ma in generale di buon cuore, non tanto per inclinazione, quanto per il desiderio di guadagnarsi un posto in cielo. Si viveva nel timore di Dio. Sono cresciuta con la convinzione che tutti i privilegi comportano, come logica conseguenza, una lunga lista di responsabilità. In Cile la classe alta manteneva sempre una certa distanza dai suoi simili, perché era stata messa sulla terra per dare l'esempio, un pesante fardello di cui si faceva carico con devozione cristiana. Tuttavia, devo premettere che, nonostante le origini e i cognomi, il ramo della famiglia del nonno non apparteneva a questa oligarchia; era benestante, ma non possedeva patrimonio né terre.
Una delle caratteristiche dei cileni in generale, e dei discendenti degli spagnoli in particolare, è l'austerità, che contrasta con il temperamento esuberante tipico del resto dell'America Latina. Sono cresciuta circondata da zie milionarie, cugine del nonno e della mamma, che indossavano abiti neri lunghi fino ai piedi e si vantavano di "rivoltare" i completi dei mariti, un noioso processo che consisteva nello scucire l'abito, stirare i pezzi e ricucirli al rovescio, in modo da rimetterlo a nuovo. Era facile riconoscere le vittime, perché avevano il taschino della giacca a destra invece che a sinistra. Il risultato era sempre patetico, ma lo sforzo dimostrava quanto parsimoniose e zelanti fossero le sante donne. Essere operosi è una caratteristica essenziale nel mio paese, dove la pigrizia è una prerogativa maschile. Agli uomini la flemma si perdona, come si tollera in loro l'alcolismo, perché questi difetti si considerano inevitabili caratteristiche genetiche: chi nasce così, nasce così... Questo non vale per le donne, ovviamente. Le cilene, comprese quelle benestanti, non usano smalto per le unghie, perché starebbe a indicare che non lavorano con le mani e per una donna, nel mio paese, non esiste niente di peggio che essere considerata una scansafatiche. Un tempo tutte le donne ricamavano sull'autobus, ma ora non più, perché dagli Stati Uniti arrivano tonnellate di capi di seconda mano e da Taiwan robaccia sintetica, quindi il ricamo appartiene ormai al passato.
Si è ipotizzato che la nostra ponderata sobrietà derivi dai conquistatori spagnoli, che giungevano in Sud America mezzo morti di fame e di sete, sostenuti più dalla disperazione che dalla cupidigia. Quei valorosi capitani – ultimi della lista al momento della spartizione del bottino della Conquista – dovevano valicare la Cordigliera delle Ande transitando per passi insidiosi, o attraversare il Deserto di Atacama sotto un sole infuocato, o sfidare le onde e i fatidici venti di Capo Horn. Il gioco valeva appena la candela, perché il Cile non offriva, come altre regioni del continente, enormi opportunità di ricchezza. Le miniere d'oro e d'argento si contavano sulle dita di una mano e le si poteva sfruttare solo con uno sforzo sovrumano. Per quanto riguarda il clima, invece, non era certo favorevole per avviare prospere piantagioni di tabacco, caffè o cotone. Il nostro è sempre stato un paese piuttosto povero; il massimo a cui il colono poteva aspirare era un'esistenza tranquilla, dedita all'agricoltura.
Come ho già detto, un tempo la superbia non era tollerabile, ma purtroppo non è più così, almeno per quanto riguarda gli abitanti di Santiago. Sono diventati tanto vanitosi che la domenica mattina vanno al supermercato, riempiono il carrello con i prodotti più costosi – caviale, champagne, filetto –, fanno un bel giro per mostrare a tutti la loro spesa e poi la abbandonano in una corsia ed escono a mani vuote, cercando di non farsi notare. Ho anche sentito che buona parte dei telefoni cellulari sono di legno, servono solo per mettersi in mostra. Tempo fa tutto ciò sarebbe stato impensabile. Solo gli arabi arricchiti vivevano in dimore sontuose e neanche con un freddo polare un cileno sano di mente avrebbe indossato un cappotto di pelle.
Il lato positivo di tanta modestia – vera o falsa – era, chiaramente, la semplicità. Niente compleanni di quindicenni con cigni dipinti di rosa, niente matrimoni principeschi con torte a quattro piani, niente feste con l'orchestra per cani da compagnia, come accadeva in altre capitali del nostro esuberante continente. L'austerità nazionale era una pregevole qualità, purtroppo scomparsa a causa dell'esagerato capitalismo imposto negli ultimi due decenni, quando essere ricco e ostentarlo è diventato di moda. Mi auguro che si torni presto alla normalità. L'indole dei popoli è dura a morire. Ricardo Lagos, l'attuale presidente della repubblica, vive con la sua famiglia in una casa in affitto in un quartiere senza pretese. Quando i dignitari di altri paesi giungono in visita restano sbalorditi dalla modestia dell'abitazione, e il loro stupore aumenta vedendo il presidente che prepara personalmente i drink e la moglie che aiuta a servire in tavola. Anche se la destra non perdona a Lagos di non essere "uno come loro", ammira la sua semplicità. Questa coppia rappresenta il tipico esempio della classe media vecchio stampo, educata presso scuole e università statali, gratuite, laiche e umanitarie. I Lagos sono cileni cresciuti nel rispetto dei valori d'uguaglianza e giustizia sociale, e l'attuale ossessione materialista sembra non averli neanche sfiorati. Ci si augura che il loro esempio serva a mettere fine, una volta per tutte, ai carrelli abbandonati e ai telefonini di legno.
Mi viene da pensare che questa austerità, tanto radicata nella mia famiglia – come la tendenza a nascondere i momenti di gioia e di benessere –, derivasse dalla vergogna che provavamo nei confronti della miseria che ci circondava. Ci pareva che avere più degli altri non solo rappresentasse un'ingiustizia divina, ma anche una specie di peccato individuale, e quindi ci imponevamo di compiere penitenze e opere di carità per pareggiare i conti. La penitenza consisteva nel mangiare tutti i giorni fagioli, lenticchie e ceci, e nel soffrire il freddo durante l'inverno. Le opere di carità erano un impegno familiare che competeva quasi esclusivamente alle donne. Fin da piccolissime la mamma o le zie ci portavano per mano a distribuire indumenti e cibo ai poveri. Quest'usanza è scomparsa più o meno una cinquantina d'anni fa, ma i cileni hanno sempre considerato la solidarietà come un dovere da compiere con gioia, soprattutto perché vivono in un paese in cui non mancano le occasioni per farlo. In Cile povertà e solidarietà vanno in coppia.
Indubbiamente esiste un enorme divario tra ricchi e poveri, come in quasi tutto il resto dell'America Latina. Il popolo cileno, per quanto povero, è piuttosto educato, si mantiene aggiornato e conosce i propri diritti, anche se spesso non può farli valere. Tuttavia, la miseria mostra continuamente il suo ghigno orrendo, specialmente nei momenti di crisi. Per rendere un'idea della solidarietà nazionale, non trovo di meglio che alcuni paragrafi di una lettera che la mamma mi scrisse dal Cile quando, nell'inverno del 2002, un'alluvione sommerse mezzo paese con un mare di acqua sporca e fango.
È piovuto per diversi giorni di seguito. Improvvisamente ha smesso e ora scende solo una pioggerella sottile che continua a inzupparci gli abiti, ma quando il ministro degli Interni ha annunciato che il tempo stava migliorando è venuto già un altro acquazzone che gli ha fatto volare via il cappello. Per la gente è stata un'altra dura prova. Abbiamo visto la vera faccia della miseria in Cile, la reale povertà della classe medio-bassa, quella che soffre di più, perché nutre delle speranze. Questa gente lavora tutta la vita per comprarsi una casa decente e le imprese la truffano: dipingono bene le facciate, però gli scarichi non sono previsti e con la pioggia le case non solo si allagano, ma cominciano a sgretolarsi come briciole di pane. L'unico pensiero che distoglie la popolazione dal disastro sono i Mondiali di calcio. Ivan Zamorano, il nostro campione, ha comprato una tonnellata di provviste per gli alluvionati e trascorre le giornate nei villaggi a far giocare i bambini e a distribuire palloni. Non puoi immaginarti le scene di dolore. Le calamità naturali colpiscono sempre i più poveri. Il futuro non riserva niente di buono, perché la pioggia ha sommerso le coltivazioni e il vento ha distrutto interi frutteti. A Magallanes muoiono migliaia di pecore, prigioniere della neve, alla mercé dei lupi Naturalmente la solidarietà dei cileni si manifesta ovunque. Uomini, donne e ragazzi, con l'acqua fino alle ginocchia e coperti di fango, si occupano dei bambini, distribuiscono indumenti, puntellano interi paesi che l'acqua sta trascinando verso le scarpate. In plaza Italia hanno montato un tendone enorme; dalle automobili lanciano pacchi di coperte e viveri agli studenti, che aspettano con le braccia tese. La Stazione Mopocho è stata adibita a grande rifugio per gli alluvionati e sul palcoscenico si alternano artisti di Santiago, gruppi rock e persino l'orchestra sinfonica, per rallegrare le giornate e obbligare a ballare la gente intorpidita dal freddo, che così dimentica la sua disgrazia almeno per qualche istante. Si tratta di una grande manifestazione di umiltà. Il presidente, accompagnato dalla moglie e dai ministri, visita i rifugiati per offrire conforto. Ma il bello è che il ministro della Difesa, Michelle Bachelet, figlia di una vittima della dittatura, ha inviato l'esercito in soccorso degli alluvionati e gira giorno e notte su un blindato, seduta accanto al comandante in capo, per portare aiuto. Insomma, ognuno fa quello che può. Staremo a vedere come si comporteranno le banche, che in questo paese sono corrotte in modo vergognoso.
Il cileno appare infastidito dal successo altrui, ma si dimostra solidale con chi ha bisogno; allora mette da parte la meschinità e si trasforma immediatamente nella persona più altruista e generosa di questa terra. Ogni anno in televisione vengono presentate diverse maratone di beneficenza e tutti, specialmente i più poveri, fanno a gara per vedere chi offre di più. Le occasioni per appellarsi alla generosità pubblica non mancano in una nazione costantemente colpita da avversità che minano le fondamenta stesse della vita, da diluvi che distruggono interi villaggi, da onde gigantesche che scaraventano le barche in mezzo alle piazze. Noi cileni siamo abituati all'idea che la vita non offra certezze e siamo sempre in attesa di essere colpiti da nuove disgrazie. Mio marito – che è alto un metro e ottanta e fa fatica a piegarsi – non ha capito perché ripongo i bicchieri e i piatti sulle mensole più basse della cucina, dove per prenderli è costretto a sdraiarsi sul pavimento, fino a quando il terremoto di San Francisco del 1988 ha distrutto le stoviglie dei vicini, ma non le nostre.
I cileni, però, non passano tutto il tempo a battersi il petto in segno di colpa e a fare la carità per rimediare all'ingiustizia economica. Niente affatto. La nostra austerità è ampiamente compensata dalla golosità: in Cile si passa la vita a tavola. La maggior parte degli imprenditori che conosco ha il diabete, perché le riunioni d'affari includono la colazione, il pranzo o la cena. Nessuno firma un documento senza prendersi almeno un caffè con i biscottini o berci sopra qualcosa.
È vero che in casa mangiavamo legumi tutti i giorni, ma la domenica il menu cambiava. Un tipico pranzo domenicale a casa del nonno si apriva con pesantissime empanadas e tortini salati con carne e cipolla che avrebbero provocato l'acidità anche allo stomaco più forte. Poi si serviva la cazuela, un piatto a base di carne, mais, patate e verdure che avrebbe resuscitato un morto, seguita da una ricca zuppa di pesce, il cui profumo delizioso si diffondeva per tutta la casa e, per terminare, da una carrellata di dolci irresistibili, tra cui non mancava mai il dolce di latte, antica ricetta della zia Cupertina. Tutto era abbondantemente innaffiato con il nostro fatidico pisco sour e con parecchie bottiglie di buon vino rosso, invecchiato per anni nella cantina di casa. Prima di uscire ci davano un cucchiaino di magnesia. Questo si ripeteva, ma all'ennesima potenza, quando si festeggiava il compleanno di un adulto; noi bambini non eravamo degni di tanta considerazione. Non ho mai sentito nominare la parola "colesterolo". I miei genitori, che hanno più di ottant'anni, consumano novanta uova, un litro di panna, mezzo chilo di burro e due chili di formaggio alla settimana. E sono sani e arzilli come due ragazzini.
Quelle riunioni familiari non solo rappresentavano una buona occasione per mangiare e bere a quattro palmenti, ma anche per litigare astiosamente. Al secondo bicchiere di pisco sour le urla e gli insulti dei miei parenti si sentivano in tutto il quartiere. Poi ognuno se ne andava giurando che non avrebbe mai più rivolto la parola agli altri, ma la domenica successiva nessuno si azzardava a mancare, perché il nonno non lo avrebbe perdonato. Penso che questa deleteria abitudine si sia conservata in Cile, anche se adesso sotto molti altri aspetti il paese è progredito. Non mi sono mai piaciute queste riunioni forzate, ma ora, in età matura, le ripropongo in California. Il mio fine settimana ideale prevede la casa piena di gente, cucinare per un reggimento e tirar tardi in animate discussioni.
I litigi tra parenti proseguivano in privato. La privacy è una prerogativa delle classi abbienti, perché la maggior parte dei cileni non sa nemmeno cosa sia. Le famiglie dalla classe media in giù vivono in ambienti promiscui e spesso diverse persone dormono nello stesso letto. Se esiste più di una stanza, le pareti divisorie sono così sottili che si sente respirare nel locale accanto. Per fare l'amore bisogna nascondersi in posti assurdi: nei bagni pubblici, sotto i ponti, al giardino zoologico e così via. Dato che prima di risolvere questo problema potrebbero trascorrere anni e anni, se si è fortunati, credo che il governo dovrebbe offrire gratuitamente una camera in un motel alle coppie disperate. In questo modo si eviterebbe l'insorgere di parecchi disturbi psichici.
In ogni famiglia c'è sempre uno svitato, ma la regola d'oro è serrare i ranghi attorno alla pecora nera ed evitare lo scandalo. Fin dalla culla noi cileni impariamo che "i panni sporchi si lavano in casa" e che non si parla in giro dei parenti alcolizzati, di quelli che s'indebitano, che picchiano la moglie o che sono stati in carcere. Si nasconde tutto, dalla zia cleptomane al cugino che seduce le vecchiette per derubarle dei loro miseri risparmi e, soprattutto, non si accenna al cugino che canta nei cabaret vestito da Liza Minnelli, perché non è tollerata la benché minima deviazione in materia di preferenze sessuali. Si è dovuto lottare affinché il problema dell'Aids diventasse argomento di pubblico dominio, perche nessuno era disposto a parlare delle cause. In Cile non si è mai promulgata una legge sull'aborto, uno dei problemi sanitari più gravi del paese, con la speranza che, non menzionando la questione, questa svanisca come per incanto. Mia madre conserva una cassetta dove ha registrato aneddoti piccanti e scandali di famiglia, ma non vuole che l'ascolti perché teme che possa divulgarne il contenuto. Ha promesso che alla sua morte, una volta al sicuro dalla vendetta apocalittica dei parenti, quella cassetta diventerà mia. Sono cresciuta circondata da segreti, misteri, mormorii, proibizioni, questioni delle quali non si poteva parlare. Devo molto a tutti quegli scheletri nell'armadio, perché mi hanno instillato il seme della scrittura. Ogni mia storia rappresenta il tentativo di esorcizzarne qualcuno.
Nella mia famiglia i pettegolezzi non erano ammessi. In questo senso eravamo un po' diversi dal comune Homo cilensis, perché in Cile lo sport nazionale è parlare alle spalle di chi ha appena lasciato la stanza. Anche in questo i cileni si distinguono dai loro idoli, gli inglesi, per i quali la regola d'oro è non esprimere commenti personali. (Conosco un ex soldato dell'esercito britannico, sposato, padre di quattro figli e nonno di diversi nipoti, che aveva deciso di cambiare sesso. Un giorno apparve all'improvviso vestito da donna e nessuno, nel villaggio di campagna dove era vissuto per quarant'anni, fece il minimo commento.) In Cile per definire l'abitudine di sparlare del prossimo esiste persino un vocabolo: pelar, che deriva sicuramente dallo spennare i polli, o strappare le penne di chi non è presente. Da noi nessuno vuole andarsene per primo e quindi i nostri commiati si prolungano in eterno sulla porta. A casa nostra, al contrario, la regola che proibiva di parlare male del prossimo, imposta dal nonno, era rispettata al punto che lui non rivelò mai a mia madre perché si opponesse al matrimonio con l'uomo che poi sarebbe diventato mio padre. Il nonno, non avendone le prove, si rifiutò di dar credito alle chiacchiere che circolavano sulla condotta e sul carattere del ragazzo e, piuttosto che macchiare il nome del pretendente con una calunnia, preferì mettere a repentaglio il futuro della figlia che, all'oscuro di tutto, finì per sposare un uomo che non la meritava. Con gli anni sono riuscita a liberarmi da questa consuetudine familiare. Non mi faccio scrupoli a riportare pettegolezzi, a sparlare del prossimo o a divulgare i segreti altrui nei miei libri, e per questo la metà dei miei parenti non mi rivolge più la parola.
Che la famiglia di uno scrittore smetta di parlargli è piuttosto frequente. A causa della pressione familiare il grande romanziere José Donoso dovette eliminare dalle sue memorie il capitolo dedicato a una straordinaria bisnonna che, rimasta vedova, aveva aperto una casa da gioco clandestina gestita da seducenti fanciulle. A quanto pare l'onta che pesava sul cognome precluse al figlio della donna la nomina a presidente e tutt'oggi, più di un secolo dopo, i discendenti cercano ancora di nasconderla. Peccato che quella bisnonna non appartenesse alla mia tribù, perché io avrei divulgato la sua storia ai quattro venti, con il dovuto orgoglio. Quanti romanzi interessanti si potrebbero scrivere con una bisnonna così!
10.