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L'ORECCHIO DI JOSEPH MOERS

Il caldo era sempre canicolare. Ogni mattina i giornali facevano il resoconto dei danni provocati dai temporali che scoppiavano in diverse zone della Francia, ma a Sancerre e nei dintorni da almeno tre settimane non cadeva una sola goccia d'acqua.

Nel pomeriggio il sole batteva in pieno su quella che era stata la camera di Henry Callet, rendendola inabitabile.

Ciò nonostante quel sabato Moers si limitò ad abbassare la tenda di tela greggia davanti alla finestra aperta, e una mezz'oretta dopo aver pranzato era già chino sulle lastre di vetro e sui pezzetti di carta annerita, lavorando con la regolarità di un metronomo.

Per qualche minuto Maigret, che non sapeva bene cosa fare, gli girellò intorno, toccando tutto e strascicando i piedi. Infine sospirò:

«Stia a sentire, ragazzo mio! Non ne posso più! Io la ammiro, ma lei non pesa duecentodieci libbre come me! Bisogna che vada a prendere un po' di fresco...».

Dove rifugiarsi con quel caldo? Fuori, al caffè, c'era un po' d'aria, ma anche i pensionanti con i loro marmocchi.

Dentro era difficile riuscire a passare mezz'ora senza sentir cozzare fino all'esasperazione le palline del biliardo.

Maigret andò nel cortile, che per metà era in ombra, e chiamò una giovane cameriera che passava di lì.

«Mi porti una sdraio...».

«Si vuol mettere qui?... Sentirà tutto il rumore della cucina...».

Preferiva il rumore della cucina, e persino il chiocciare delle galline, alle chiacchiere della gente. Trascinò la sdraio vicino al pozzo, si stese un giornale sul viso per difendersi dalle mosche, e quasi subito si sentì invaso da una voluttuosa sonnolenza.

A poco a poco l'acciottolio dei piatti si faceva irreale e Maigret, intorpidito, sfuggiva alla presenza ossessiva del morto.

Quale fu il momento preciso in cui avvertì un rumore secco, come di due detonazioni? Che però non riuscirono a strapparlo del tutto al torpore, perché subito la sua mente architettò un sogno che spiegava quei suoni inopportuni.

... Era seduto a uno dei tavolini davanti all'albergo. Passava Tiburce de Saint-Hilaire con un vestito color verde bottiglia, e dietro di lui c'erano una dozzina di cani con delle lunghe orecchie...

«L'altro giorno mi chiedeva se nella regione c'è selvaggina?» diceva Saint-Hilaire.

...Imbracciava il fucile, sparava a casaccio, e si vedeva cadere un nugolo di pernici, simili a foglie morte...

«Commissario!... Presto!...».

Sussultò. Davanti a lui c'era una cameriera del ristorante.

«In camera... Degli spari...».

Il commissario si vergognò di sentirsi così pesante. C'era gente che già correva in albergo e lui non fu certo il primo a raggiungere la camera di Gallet, dove vide Moers in piedi vicino al tavolo, con le mani sul viso.

«Fuori tutti!» ordinò.

«Chiamo un medico?» chiese Tardivon. «C'è del sangue... Guardi!...».

«Sì... Vada!...».

Chiusa la porta, andò verso il giovane della Scientifica. Si sentiva rimordere la coscienza.

«Che è successo, ragazzo?...».

Lo vedeva bene, perdiana, che c'era del sangue! C'era sangue dappertutto! Sulle mani e le spalle di Moers, sulle lastre di vetro e per terra!

«Non è niente, commissario... L'orecchio, vede...».

Lasciò per un attimo il lobo dell'orecchio sinistro e immediatamente il sangue cominciò a schizzare. Moers era livido. Ciò nonostante si sforzava di sorridere e soprattutto di bloccare il movimento convulso delle mascelle.

Filtrato dalla tenda abbassata, il sole diffondeva nella stanza una luce arancione.

«Non è pericoloso, vero?... Le orecchie sanguinano sempre molto...».

«Si calmi!... Riprenda fiato...».

Il fiammingo batteva i denti così forte che riusciva appena a parlare.

«Non dovrei lasciarmi andare così... Ma non ci sono abituato!... Mi ero appena alzato per prendere delle altre lastre...».

Si tamponava l'orecchio ferito con il fazzoletto insanguinato, e con l'altra mano si appoggiava al tavolo.

«Guardi! Ero proprio in questo punto... C'è stata una detonazione... Ho sentito, glielo giuro, lo spostamento d'aria di una pallottola. Mi è passata così vicino agli occhi che ho avuto l'impressione che mi strappasse il pince-nez... Mi sono buttato all'indietro... E nello stesso momento, insomma subito dopo il primo sparo, ce n'è stato un altro. Ho pensato che era finita... Avevo un gran frastuono in testa, come se il mio cervello si fosse messo a bollire...».

Sorrise con minore sforzo.

«Lo vede, non è niente!... Un pezzettino d'orecchio portato via... Sarei dovuto correre alla finestra... Ma non riuscivo a muovermi... Fra come se mi aspettassi delle altre pallottole... Prima, non sapevo che cosa fosse una pallottola...».

Fu costretto a sedersi. A posteriori, per una specie di contraccolpo, di paura retrospettiva, le gambe gli cedevano.

«Non si preoccupi per me... Lo cerchi!...».

Improvvisamente delle gocce di sudore gli imperlarono la fronte. Rendendosi conto che stava per svenire, Maigret corse alla porta.

«Tardivon!... Si occupi di lui... Il dottore...?».

«Non è in casa... Ma c'è uno dei miei pensionanti che è infermiere all'ospedale dell'Hôtel-Dieu...».

Maigret scostò la tenda e scavalcò il davanzale portandosi macchinalmente alla bocca la pipa vuota. Il sentiero delle ortiche era deserto, per metà in ombra, per metà vibrante di luce e di caldo. In fondo, il cancello Luigi XIV era chiuso.

Sul muro bianco, di fronte alla camera, il commissario non notò niente di anormale. Quanto alle tracce di passi, era inutile cercarle fra l'erba secca o su quella terra nuda e troppo sassosa, perché sicuramente non poteva rimanervi alcuna impronta.

Si diresse al lungofiume dove si erano radunati una ventina di curiosi.

«Qualcuno di voi era al caffè quando c'è stato lo sparo?».

Diverse voci fecero: «Io!». Alcuni, ben contenti, uscirono dal gruppo.

«Avete visto qualcuno che prendeva questo sentiero?».

«Nessuno! In ogni caso, non da un'ora a questa parte... Io non mi sono mosso!»

fece un ometto mingherlino con una maglietta colorata... «Vai dalla mamma, Charlot... Io ero qui, commissario... Se l'assassino avesse preso il sentiero delle ortiche, lo avrei visto per forza...».

«Avete sentito le detonazioni?».

«Come tutti quanti... Credevo che cacciassero nella proprietà vicina... Ho fatto comunque qualche passo...».

«E non ha visto nessuno sul sentiero?».

«Nessuno...».

«Naturalmente non ha guardato dietro ogni tronco d'albero!».

Per scrupolo di coscienza, fu Maigret a farlo rapidamente prima di dirigersi verso l'ingresso principale del piccolo castello. In uno dei vialetti, il giardiniere stava spingendo una carriola di ghiaia.

«Il tuo padrone non è in casa?».

«Dev'essere dal notaio... A quest'ora fanno la loro solita partita a carte...».

«L'hai visto andar via?».

«Proprio come vedo lei! Sarà già un'ora e mezzo!».

«E non hai incontrato nessuno nel parco?».

«Nessuno... Perché?».

«Dov'eri dieci minuti fa?».

«In riva al fiume. Caricavo la ghiaia...».

Maigret lo guardò negli occhi. L'uomo sembrava sincero, ed era anche troppo stupido per mentire in maniera convincente.

Senza curarsi di lui, il commissario andò a ispezionare la botte addossata al muro di cinta, ma non trovò alcun indizio che rivelasse il passaggio dell'assassino.

E non ebbe maggior fortuna con il cancello arrugginito. Sembrava che nessuno l'avesse aperto da quando, la mattina, l'aveva richiuso lui stesso.

«Eppure hanno sparato due colpi!».

Nell'albergo la gente aveva finito per risedersi e tutti parlavano animatamente.

«Non è niente!» disse Tardivon andando incontro al commissario. «Ho saputo proprio adesso che il dottore è dal notaio Petit... Lo devo far chiamare?...».

«Dov'è la casa del notaio?».

«Sulla piazza, accanto all'Hôtel du Commerce...».

«Di chi è questa bicicletta?».

«Non lo so... La può prendere... Ci va di persona?».

Maigret inforcò la bicicletta troppo piccola per lui, facendo gemere le molle del sellino. Cinque minuti dopo scampanellava alla porta di una grande casa linda e fresca, finché una vecchia domestica con un grembiule a quadretti non lo guardò attraverso lo spioncino.

«È qui il dottore?».

«Chi lo vuole?».

Ma già un uomo dall'aspetto gioviale, con le carte in mano, si era affacciato a una finestra, prima socchiusa.

«È per la moglie della guardia?... Vado subito...».

«C'è un ferito, dottore! Dovrebbe venire subito all'Hôtel de la Loire».

«Non si tratterà mica di un altro delitto?».

Altri tre uomini, riuniti intorno a un tavolo su cui brillavano dei bicchieri di cristallo, si alzarono, e tra loro il commissario riconobbe Saint-Hilaire.

«Sì, hanno sparato di nuovo!... Faccia presto!...».

«C'è un morto?».

«No! Ma porti l'occorrente per una medicazione...».

Maigret non toglieva gli occhi di dosso a Saint-Hilaire, che sembrava profondamente sconvolto.

«Una domanda, signori...».

«Un momento!» intervenne il notaio. «Perché non l'hanno fatta entrare?...».

La domestica, che aveva sentito, si decise ad aprire la porta. Il commissario attraversò il corridoio ed entrò nel salotto dove regnava un buon odore di sigaro e di liquori.

«Ma che cosa è successo?» si informò il padrone di casa, che era un vecchio signore inappuntabile, con i capelli fini come seta e la pelle chiara come quella di un bambino.

Maigret finse di non aver sentito.

«Mi interesserebbe sapere da quanto tempo state giocando».

Il notaio lanciò un'occhiata alla pendola.

«Un'ora buona...».

«Nel frattempo, nessuno di voi è uscito da questa stanza?».

Si guardarono stupiti.

«Ma no! Siamo soltanto quattro... Il minimo indispensabile per giocare a bridge...».

«Ne è proprio sicuro?».

Saint-Hilaire era paonazzo.

«Chi è la vittima?» chiese con la gola secca.

«Un esperto della Scientifica che lavorava nella camera di Émile Gallet... In quel momento si stava occupando di un certo Jacob...».

«Jacob...» ripeté il notaio.

«Conosce qualcuno con questo nome?».

«Direi proprio di no!... Probabilmente si tratta di un ebreo...».

«Devo chiederle un favore, signor de Saint-Hilaire... Vorrei che facesse l'impossibile per ritrovare la chiave del cancello... Se è necessario, le presterò degli ispettori per frugare in tutta la villa...».

Il castellano mandò giù d'un fiato un bicchierino di liquore, e il suo gesto non sfuggì a Maigret.

«Chiedo scusa per avervi disturbato, signori...».

«Vuol bere qualcosa con noi, commissario?...».

«Grazie... Un'altra volta...».

Ripartì in bicicletta e svoltando a sinistra arrivò poco dopo davanti a una casa piuttosto malandata, con un cartello appena leggibile su cui era scritto: PENSIONE GERMAIN.

Era una casa povera e di dubbia pulizia, come il ragazzino che ciondolava sulla soglia, accanto a un cane che rosicchiava un osso raccattato nella polvere della strada.

«C'è la signorina Boursang?».

Una donna, con un bambino più piccolo in braccio, arrivò dal fondo di una stanza.

«È uscita, come ogni pomeriggio... Ma la troverà di sicuro sulla collina, vicino al vecchio castello, perché si è portata un libro e quello è il suo posto preferito...».

«Ci si arriva per questo sentiero?».

«Giri a destra dopo l'ultima casa...».

A metà salita Maigret dovette scendere e spingere la bicicletta. Era più nervoso di quanto avrebbe voluto, forse perché aveva l'impressione di essere ancora una volta sulla pista sbagliata.

«Non è stato Saint-Hilaire a sparare, questo è certo! Eppure...».

Il sentiero che stava percorrendo attraversava un giardino pubblico. A sinistra, su un terreno in pendenza, c'era una bambina seduta accanto a tre capre legate a dei paletti.

Cento metri più sopra, dopo una curva ad angolo retto, Maigret vide Eléonore seduta su una panchina, con un libro in mano.

Chiamò la bambina, che doveva avere circa dodici anni.

«Conosci la signora che è seduta lassù?».

«Sì, signore!».

«Viene spesso a leggere su quella panchina?».

«Sì, signore!».

«Tutti i giorni?».

«Credo di sì! Ma quando vado a scuola non la vedo...».

«A che ora sei arrivata oggi?».

«Da parecchio! Sono uscita che avevo appena finito di mangiare...».

«E dove abiti?».

«In quella casa laggiù...».

Era una casa bassa, quasi una cascina, a circa mezzo chilometro.

«Quella signora c'era già?».

«No, signore!».

«Quando è passata?».

«Non lo so, ma saranno almeno due ore...».

«E non si è mossa?».

«No, signore!».

«Non è andata a passeggiare per la strada?».

«No, signore!».

«Ha una bicicletta?».

«No, signore!».

Maigret tirò fuori di tasca una moneta da due franchi e la mise nella mano della bambina che strinse le dita senza guardarla e, immobile in mezzo al sentiero, lo seguì con gli occhi mentre risaliva in bicicletta e si dirigeva verso il paese.

Dall'ufficio postale il commissario spedì un telegramma a Parigi:

«Urge sapere dove fosse Henry Gallet sabato ore quindici. Maigret. Sancerre».

«Lasci stare, ragazzo mio!».

«Ma lei mi ha detto che era urgente, commissario! E poi non sento più niente!».

Bravo Moers! Il medico gli aveva fatto una fasciatura complicata e voluminosa come se gli avessero sparato sei pallottole in testa. E il pince-nez con le lenti scintillanti faceva un curioso effetto in mezzo a tutte quelle bende bianche.

Fino alle sette di sera Maigret non si era preoccupato per lui, sapendo che la ferita non era grave, e ora lo ritrovava allo stesso posto del mattino davanti alle lastre di vetro, alla candela e al fornello ad alcol.

«Che strano! Non trovo più niente su Jacob. Ho ricostruito una lettera firmata Clément, indirizzata a non so chi, e che parla di un regalo da fare a un principe in esilio... C'è due volte la parola obolo e una volta la parola lealismo...».

«Non è particolarmente interessante...».

Era chiaro che la lettera aveva a che fare con i raggiri di Gallet. L'esame del fascicolo rosa e una serie di telefonate a castellani del Berry e dello Cher avevano fornito a Maigret utili ragguagli in materia.

In un'epoca imprecisata, probabilmente tre o quattro anni dopo il suo matrimonio, un anno o due dopo la morte del suocero, Émile Gallet aveva pensato bene di servirsi di quelle vecchie scartoffie del «Soleil» che aveva avuto in eredità.

Attraverso il suo giornale, stampato in un piccolo numero di esemplari e riservato quasi esclusivamente a rari abbonati, Préjean coltivava in alcuni nobilotti di campagna la speranza di veder risalire un Borbone sul trono di Francia.

Sfogliando la collezione del «Soleil», Maigret aveva notato che una mezza pagina era sempre riservata alle sottoscrizioni, destinate a qualche vecchia famiglia in miseria, o al fondo per la propaganda, o magari alla degna celebrazione di un anniversario.

Ecco cosa doveva aver suggerito a Gallet l'idea di raggirare i legittimisti. Aveva i loro indirizzi, e grazie a quelle liste sapeva per di più in che misura poteva batter cassa e a quale sentimento doveva fare appello in ogni singolo caso.

«È la stessa scrittura degli altri fogli?».

«La stessa... Il mio maestro, il professor Locard, le saprebbe dire di più... Grafia calma, diligente, e tuttavia con segnali di ansia febbrile e scoraggiamento alla fine delle parole... Un grafologo affermerebbe senza esitare che l'uomo che ha scritto quelle lettere era malato e lo sapeva...».

«Perbacco!... Basta così, Moers!... Ora si può riposare...».

Maigret fissava nella tenda di tela i due fori delle pallottole.

«Si rimetta un attimo dove era quando è stato colpito...».

Non gli fu difficile ricostruire la traiettoria.

«Lo stesso angolo» concluse. «Hanno sparato dallo stesso posto, in cima al muro...

Ma che cos'è questo rumore?...».

Alzò la tenda e vide il giardiniere che passava il rastrello fra l'erba e le ortiche del sentiero.

«Che stai facendo?» chiese Maigret.

«Il padrone mi ha detto di...».

«Di cercare la chiave?».

«Proprio così!».

«È stato lui a farti venire qui?».

«Anche lui sta cercando, nel parco... La cuoca e la cameriera frugano in casa...».

Maigret abbassò la tenda con un gesto brusco, e ritrovandosi di nuovo solo con Moers sibilò:

«Senti, senti... Vogliamo scommettere che la chiave la ritroverà lui?...».

«Quale chiave?».

«Lasciamo stare... Sarebbe troppo lungo da spiegare... A che ora lei ha abbassato la tenda?».

«Appena arrivato, verso l'una e mezzo...».

«E non ha sentito un rumore di passi sul sentiero?...».

«Non ci ho fatto caso... Ero tutto preso dalle mie ricerche... Sembra una cosa idiota, ma in realtà quello che stavo facendo è un lavoro molto delicato...».

«Lo so! Lo so! A proposito, a chi ho parlato di Jacob?... Al giardiniere, credo... E

Saint-Hilaire, che era a pesca, è tornato per pranzo, poi si è vestito ed è andato a giocare a carte... È sicuro che tutti gli altri scritti carbonizzati siano di Clément?...».

«Sicurissimo!».

«Insomma, di nessun interesse... La sola cosa che conti è la lettera di Jacob, che parla di contanti e di lunedì, giorno in cui, a quanto pare, il destinatario avrebbe dovuto pagare ventimila franchi, se non voleva finire in prigione. Il delitto è avvenuto sabato...».

Ogni tanto si sentiva il rastrello che urtava contro un sasso.

«Non sono stati né Eléonore né Saint-Hilaire a sparare ma...».

«Questa poi!» fece improvvisamente la voce del giardiniere.

Sorridendo d'orgoglio, Maigret andò a sollevare la tenda.

«Dammela!» disse tendendo la mano.

«Parola mia, non mi sarei mai aspettato di trovarla qui...».

«Dammela!».

Era la chiave, un'enorme chiave di un modello introvabile se non dagli antiquari.

Era arrugginita e con qualche graffio, come la serratura.

«Di' al tuo padrone che l'hai consegnata a me... Ora vai!...».

«Ma...».

«Vai!...».

Maigret richiuse la tenda e buttò la chiave sul tavolo.

«A parte il suo orecchio, si direbbe una giornata magnifica, non le pare, Moers?...

Jacob!... La chiave... I due spari e tutto il resto!... Be'...».

«Un telegramma!» annunciò Tardivon.

«Cosa le dicevo, ragazzo mio?» concluse il commissario dopo averlo scorso velocemente. «Invece di andare avanti, si va indietro. Stia a sentire: “Alle tre, Henry Gallet era dalla madre, a Saint-Fargeau, dove si trovava ancora alle sei”».

«Allora?...».

«Allora niente! L'unico che potrebbe averle sparato rimane Jacob. E finora questo Jacob non è più consistente di una bolla di sapone».