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Il giornale di Charles

Prese separatamente, potevano anche passare. Ma una accanto all’altra, ritte vicino all’ingresso della Polizia giudiziaria come all’uscita di una fabbrica, formavano una coppia grottesca e patetica. Gigi, appollaiata sulle lunghe gambe secche, con la pelliccia di coniglio spelacchiata, lanciava occhiate di sfida all’agente di guardia alla porta e al minimo rumore di passi si sporgeva con ansia febbrile per vedere chi stesse arrivando. La povera Charlotte non aveva trovato la forza di sistemarsi i capelli né di truccarsi e, dato che non aveva smesso un attimo di piangere, aveva il faccione di luna piena chiazzato di rosso e il naso paonazzo che spiccava come una pallina in mezzo al viso.

Indossava un cappotto dignitoso, di panno nero, con il collo e l’orlo bordati di astrakan. In mano stringeva una capace borsa di vitello glacé. Non fosse stato per quel corvaccio di Gigi e per quel nasetto rosso in mezzo alla faccia, avrebbero potuto scambiarla per una signora.

«Eccolo!...».

Charlotte rimase al suo posto, mentre Gigi cominciò a camminare avanti e indietro.

Maigret, che stava effettivamente arrivando assieme a un collega, vide troppo tardi le due donne. Sul lungosenna c’era il sole, e nell’aria come un profumo di primavera.

«Scusi, signor commissario...».

Maigret strinse la mano al collega...

«Buon appetito, vecchio mio...».

«Possiamo dirle una parola, commissario?...».

Charlotte ruppe in singhiozzi e si ficcò in bocca quasi tutto il fazzoletto appallottolato. Alcuni passanti si girarono. Il commissario attese pazientemente.

Quasi a voler scusare l’amica, Gigi spiegò:

«È appena uscita dall’ufficio del giudice che l’aveva convocata...».

«Guarda, guarda! Il giudice Bonneau! Ne aveva piena facoltà, certo!...

Comunque...».

«È vero, signor commissario, che Prosper ha... ha confessato tutto?...».

Questa volta Maigret sorrise apertamente. Ma come? Il giudice non era riuscito a trovare niente di meglio che quel vecchio trucco da principianti? E quell’oca di Charlotte se l’era bevuta!

«Non è vero, eh? Me lo immaginavo! Se sapesse cosa mi ha tirato fuori!... A sentir lui, sarei peggio di un verme...».

L’agente di guardia all’entrata li osservava con un certo divertimento. E lo spettacolo era buffo davvero: Maigret alle prese con le due donne, una che piangeva e l’altra che lo scrutava con palese diffidenza!

«Figuriamoci se scrivo una lettera anonima per accusare Prosper quando sono sicurissima che non ha ucciso nessuno!... Guardi, ci fosse stata di mezzo una pistola, magari ci credevo anche... Ma strangolare una donna... E il giorno dopo, come se niente fosse, far fuori un poveraccio che non ha nessuna colpa... No davvero!... E lei, commissario, ha scoperto qualcosa di nuovo? Pensa che lo terranno in prigione?...».

Maigret fece un cenno per fermare un taxi che gironzolava là attorno.

«Salite!» disse alle due donne. «Ho una faccenda da sbrigare e adesso voi mi accompagnate...».

Era vero: aveva finalmente ricevuto una telefonata di Lucas, che all’agenzia Jem non aveva concluso nulla, e gli aveva dato appuntamento in boulevard Haussmann. E

gli era appena venuto in mente che...

Le due volevano sistemarsi sullo strapuntino, ma il commissario le fece accomodare sul sedile e sedette con le spalle rivolte all’autista. Era una delle prime belle giornate dell’anno. Le strade di Parigi erano come in festa e i passanti parevano più allegri.

«Mi dica, Charlotte, Donge versa ancora i suoi risparmi in banca?...».

Maigret fu sul punto di perdere la pazienza: ogni volta che apriva bocca, Gigi aggrottava le sopracciglia come se fiutasse una trappola. Si capiva che le costava uno sforzo non dire all’amica:

«Stai attenta!... Pensaci prima di rispondere...».

Ma Charlotte aveva già esclamato:

«I suoi risparmi, poveretto!... È da un pezzo che non mettiamo da parte un soldo!...

Con la casa ci siamo tirati addosso una valanga di guai, guai seri... Secondo i preventivi doveva costarci al massimo quarantamila franchi... Prima le fondamenta ci costano il triplo perché viene trovata una vena d’acqua sotterranea... Poi, quando hanno cominciato a tirar su i muri, uno sciopero dell’edilizia ha bloccato i lavori proprio all’inizio dell’inverno... Cinquemila franchi di qua... Tremila di là... Una banda di ladri, mi creda!... Se le dicessi quanto ci è costata la casa fino a oggi!... Non so la cifra esatta, ma saranno più di ottantamila franchi, questo è sicuro, e ancora non abbiamo finito di pagare...».

«Allora Donge soldi in banca non ne ha più?».

«Non ha neanche più il conto... Aspetti!... Da... da circa tre anni... Me lo ricordo perché un giorno il postino è venuto a pagare un vaglia di ottocento franchi e rotti...

Non sapevo che cos’era... Al ritorno Prosper mi ha spiegato che aveva scritto alla banca di chiudergli il conto...».

«Non ricorda la data?».

«Che gliene importa a lei?» fece Gigi con il solito tono acido.

«So che era d’inverno perché quando è arrivato il postino stavo rompendo il ghiaccio attorno alla pompa... Mi faccia pensare... Quel giorno ero stata al mercato di Saint-Cloud... Avevo comprato un’oca... Quindi doveva mancare poco a Natale...».

«Dove stiamo andando?» chiese Gigi che guardava dal finestrino.

Proprio in quel momento il taxi si fermò in boulevard Haussmann, un po’ prima di faubourg Saint-Honoré. Lucas, che aspettava sul marciapiede, sgranò gli occhi vedendo Maigret scendere dall’auto dopo le due donne.

«Un attimo...» disse loro il commissario.

Tirò Lucas in disparte.

«Allora?...».

«Guardi... Lo vede quel bugigattolo tra la valigeria e il parrucchiere per signora?...

È l’agenzia Jem... La tiene un vecchio ripugnante... Non sono riuscito a cavargli un bel niente... Voleva chiudere bottega perché dice che a quest’ora stacca per il pranzo... L’ho costretto a restare... È furibondo... Dice che senza un mandato non posso...».

Maigret entrò nel negozio male illuminato e diviso in due da un bancone di legno nero. Dei casellari dello stesso legno, pieni di lettere, coprivano le pareti.

«Mi piacerebbe sapere...» esordì il vecchio.

«Se non le dispiace», bofonchiò Maigret «le domande le faccio io. Mi risulta che lei riceve lettere con le sole iniziali del destinatario, cosa non consentita in fermo posta. Immagino quindi che la sua sia una clientela scelta...».

«Ho la licenza e pago le tasse!» si limitò a replicare il vecchio.

Portava spesse lenti dietro cui s’imboscavano gli occhi lacrimosi. La giacca era lercia, il collo della camicia liso e unto. Un odore di rancido si sprigionava dalla sua persona e si trasmetteva al locale.

«Voglio sapere se tiene un registro in cui annota i nomi dei clienti corrispondenti alle iniziali...».

Il vecchio sogghignò.

«Crede che continuerebbero a venire qui se dovessero darmi nome e cognome?... E

perché non chiedere anche i documenti, già che ci siamo?».

Veniva il voltastomaco al pensiero che delle belle donne potessero entrare furtivamente in quel bugigattolo dove si tramavano adulteri e altri loschi maneggi.

«Ieri mattina ha ricevuto una lettera indirizzata a un certo J.M.D...».

«Può darsi. L’ho già detto al suo collega. Ha voluto anche controllare di persona che non fosse più qui...».

«Allora qualcuno è venuto a ritirarla. Quando con esattezza?».

«Non ne ho la più pallida idea, e anche se lo sapessi non credo che le risponderei...».

«Lo sa che un giorno o l’altro potrei farle chiudere bottega?».

«Me l’hanno detto in molti e la mia bottega, come la chiama lei, è al suo posto da quarantadue anni... Se dovessi dare ascolto a tutti i mariti che vengono qui a strepitare e perfino a minacciarmi col bastone...».

Lucas non aveva esagerato definendolo ripugnante.

«Adesso, se non le dispiace, chiudo i battenti e vado a mangiare...».

Ma dove poteva andare quel verme? Aveva una famiglia, moglie, dei figli? No, più probabilmente era scapolo e aveva un posto fisso a tavola segnato dal suo bravo portatovagliolo in qualche bettola lì vicino.

«Ha già visto quest’uomo?».

Senza lasciarsi impressionare, Maigret mostrò per l’ennesima volta la fotografia di Donge. La curiosità ebbe il sopravvento sul malumore del vecchio, che si chinò a osservarla avvicinandola a meno di venti centimetri dal viso. Il suo volto rimase immobile. Poi alzò le spalle.

«Non mi dice niente...» mormorò quasi con rammarico.

Le due donne erano rimaste fuori, davanti alla stretta vetrina. Maigret chiamò Charlotte.

«E questa signora la riconosce?».

Se Charlotte stava recitando, era di una bravura mostruosa: si guardava attorno con un’aria fra lo stupito e l’imbarazzato, due reazioni che quel posto poteva ben suscitare.

«Cosa...?» balbettò la poveretta.

Era già tutta agitata. Si domandava perché l’avessero portata là. Istintivamente cercò l’aiuto di Gigi che entrò di sua iniziativa.

«Per caso c’è altra gente che deve arrivare?».

«Non riconosce né l’una né l’altra?... Sa dirmi almeno se è venuto un uomo o una donna a ritirare la lettera indirizzata a J.M.D., e quando...».

Senza rispondere, il vecchio afferrò un’anta di legno e andò ad attaccarla davanti alla porta. Non restava che battere in ritirata. Maigret, Lucas e le due donne si ritrovarono sul marciapiede, sotto gli ippocastani i cui germogli non avrebbero tardato a schiudersi.

«Voi due potete andare!...».

Le guardò mentre si allontanavano. Gigi non aveva fatto neanche dieci metri e già parlava con foga, trascinando l’amica ad un’andatura che Charlotte, grassottella com’era, faticava a tenere.

«Novità, capo?».

Che cosa avrebbe potuto rispondergli Maigret? Era preoccupato, di cattivo umore: pareva quasi che la primavera lo infastidisse anziché rallegrarlo.

«Non so... Senti... Va’ a mangiare... Nel pomeriggio non muoverti dall’ufficio...

Avverti le banche, sia in Francia sia a Bruxelles, che se venisse presentato un assegno di duecentottantamila franchi...».

Era a due passi dal Majestic. Tagliò per rue de Ponthieu ed entrò nel bar vicino alla porta di servizio dell’Hôtel. Visto che si poteva anche mangiare un boccone, ordinò del maiale in umido con fagioli. Sempre cupo in volto, consumò il pasto seduto da solo a un tavolino in fondo alla sala, accanto a due clienti che parlavano di cavalli e trangugiavano qualcosa prima di andare alle corse.

Se quel pomeriggio qualcuno avesse seguito Maigret per riferirne le mosse, si sarebbe trovato in serie difficoltà. Finito di pranzare, il commissario bevve un caffè e comprò del tabacco con cui riempì la borsa. Poi uscì dal bar e rimase per un bel po’

sul marciapiede a guardarsi attorno.

Non doveva avere le idee molto chiare. Imboccò pigramente il corridoio del Majestic e si fermò davanti alla macchina per timbrare i cartellini. Sembrava un viaggiatore che, bloccato per qualche ora in una stazione, si mette ad armeggiare con un distributore di caramelle.

Dietro di lui un gran viavai di dipendenti dell’hôtel, soprattutto cuochi che, con il tovagliolo annodato intorno al collo, correvano a farsi un bicchierino nel bar accanto.

Man mano che proseguiva nel corridoio, il caldo diventava più pesante ed a folate era investito in faccia dagli odori della cucina.

Lo spogliatoio era vuoto. Il commissario si lavò le mani, così, tanto per ingannare il tempo, e passò dieci minuti buoni a pulirsi le unghie. Poi, quando il caldo divenne insopportabile, si levò il cappotto e lo appese nell’armadio 89.

Jean Ramuel troneggiava nel suo gabbiotto di vetro. Di fronte a lui, nella caffetteria, le tre donne si muovevano a un ritmo convulso, e lo stesso faceva l’uomo in giacca bianca che sostituiva Prosper.

«Chi è?» domandò Maigret a Ramuel.

«Un tizio assunto provvisoriamente finché non si trova qualcuno... Un certo Charles... Allora, commissario, è venuto a fare un giretto da queste parti?... Mi scusi...».

A quell’ora erano tutti sommersi dal lavoro. La clientela di lusso pranza tardi, e le schede si accumulavano davanti a Ramuel, i camerieri correvano su e giù, i telefoni squillavano tutti insieme, i montavivande funzionavano a pieno ritmo.

Maigret, che non si era tolto il cappello, gironzolava con le mani in tasca. Ora si fermava dietro un cuoco che mescolava una salsa, come se la cosa lo interessasse moltissimo, ora si avvicinava agli acquai o incollava il viso ai vetri della sala dei servitori.

Come aveva fatto durante la prima inchiesta, prese la scala di servizio e questa volta salì fino all’ultimo piano, senza fretta e sempre con l’aria torva. Mentre stava scendendo, lo raggiunse il direttore col fiatone.

«Mi hanno appena avvertito della sua presenza, commissario... Suppongo che non abbia ancora pranzato... Se permette...».

«Ho già mangiato, grazie...».

«Posso chiederle se ci sono novità? L’arresto di Prosper Donge mi ha colto talmente di sorpresa... Ma davvero non vuole prendere nulla?... Neanche un bicchierino di acquavite?...».

Ciò che metteva più a disagio il direttore era trovarsi su quella scala stretta con un Maigret dall’espressione impenetrabile. In simili momenti il commissario aveva l’inerzia di un pachiderma.

«Speravo che la stampa non si impadronisse della notizia... Lei sa che per un Hôtel... Quanto a Donge».

C’era di che scoraggiarsi. Maigret non offriva appigli. Aveva cominciato a scendere la scala che portava nei sotterranei.

«Un uomo che soltanto pochi giorni fa avrei citato ad esempio... Del resto lei sa benissimo che in grandi alberghi come questo passa gente di ogni tipo...».

Maigret andava con lo sguardo da una vetrata all’altra, da un acquario all’altro, come diceva lui. Arrivò quindi nello spogliatoio, all’ormai famoso armadio 89 dove erano finite, alla lettera, due vite umane.

«Quanto al povero Colleboeuf... Non vorrei abusare della sua pazienza... Ho pensato questo... Non crede che ci voglia una forza straordinaria per strangolare un uomo in pieno giorno, con tante persone a pochi metri, insomma senza che la vittima riesca ad attirare l’attenzione urlando o dibattendosi?... Fosse successo a quest’ora, potrei anche capire... Sono tutti indaffarati e c’è una gran confusione... Ma verso le quattro e mezzo, cinque del pomeriggio...».

«Lei era a tavola, suppongo...» mormorò Maigret.

«Non ha importanza... Siamo abituati a mangiare quando capita...».

«E allora, la prego, vada a finire il suo pranzo... Io faccio un giretto qua attorno...

Voglia scusarmi...».

Riprese a camminare lungo i corridoi, aprì e chiuse delle porte, si accese una pipa e lasciò che si spegnesse subito.

Il più delle volte i suoi passi lo riconducevano alla caffetteria. Cominciava a conoscere ogni gesto del personale e borbottava fra i denti frasi smozzicate.

«Dunque... Donge è qui... È qui ogni giorno dalle sei del mattino... Bene... A casa ha bevuto una tazza di caffè, gliel’ha riscaldato Charlotte quando è tornata...

Vediamo... Immagino che qui se ne versi subito un’altra... Bene...».

Dove voleva andare a parare?

«Porta sempre su una tazza di caffè al portiere di notte... Bene... Ora che ci penso, quel giorno Justin Colleboeuf dev’essere sceso proprio perché erano già le sei e dieci passate e Donge non era ancora salito... Bene... Insomma... È un’ipotesi come un’altra... Uhm!».

Non gli sfuggì un particolare: le caffettiere che in quel momento stavano riempiendo non erano d’argento come quelle della prima colazione, ma più piccole, di ceramica smaltata, ognuna provvista di un minuscolo filtro.

«... Per tutta la mattina gli ordini si susseguono a un ritmo crescente... Bene... Poi Donge mangia un boccone... Gli portano qualcosa su un vassoio...».

«Potrebbe spostarsi un po’ di lato, commissario?... Non riesco a contare le tazze...».

Era Ramuel, che dal suo gabbiotto doveva tenere tutto sotto controllo. Incredibile!

Contava perfino le tazze della caffetteria.

«Mi scusi se mi sono permesso...».

«Si figuri! Ci mancherebbe!...».

Le tre. Il ritmo rallentò. Uno chef si era già vestito per uscire.

«Se mi cercano, Ramuel, sarò qui per le cinque... Devo andare a pagare le tasse».

Le piccole caffettiere scure erano quasi tutte tornate giù. Charles uscì dalla stanza e si incamminò lungo il corridoio che portava in strada, osservando con una certa curiosità il commissario: le donne dovevano avergli parlato di lui.

Un attimo dopo era già di ritorno con il giornale del pomeriggio. Erano passate da poco le tre. Le sguattere lavavano le stoviglie, le braccia immerse fino al gomito nell’acqua calda.

Charles, invece, si sedette al suo tavolino e si mise comodo. Spiegato il giornale davanti a sé, inforcò gli occhiali, si accese una sigaretta e cominciò a leggere.

Niente di straordinario in tutto questo, eppure Maigret sgranò gli occhi.

«Finalmente» disse poi sorridendo a Ramuel che stava riordinando le schede

«potete prendere fiato, eh?».

«Abbiamo un po’ di tregua fino alle quattro e mezzo, poi c’è il tè danzante e si ricomincia...».

Trascorsero ancora alcuni minuti. Maigret non si decideva a lasciare il corridoio.

D’un tratto nella caffetteria squillò il telefono: Charles si alzò, rispose brevemente, depose a malincuore il giornale e si dileguò verso lontani corridoi.

«Dove va?» chiese il commissario a Ramuel.

«Che ore sono? Le tre e mezzo? L’avrà chiamato l’economo per consegnargli le scorte di tè e di caffè».

«Lo chiama a quest’ora tutti i giorni?».

«Tutti i giorni...».

Ramuel seguì con lo sguardo il commissario che entrava nella caffetteria con la sua solita calma. Maigret fece un gesto del tutto banale: si limitò ad aprire il cassetto del tavolo, un comunissimo tavolo di legno bianco. Dentro trovò una boccetta di inchiostro, un portapenne ed una grossa busta di carta da lettere. C’erano anche dei mozziconi di matita e due o tre moduli per vaglia postale.

Stava chiudendo il cassetto quando Charles tornò carico di pacchi. L’uomo vide Maigret chino sul tavolo e pensò che leggesse il giornale.

«Lo prenda pure...» disse indicandolo. «Per quel che c’è scritto!... Io leggo soltanto le puntate del romanzo e gli annunci economici».

Adesso sì che aveva in mano il bandolo della matassa!

«Ecco!... Prosper Donge se ne sta seduto tranquillamente a questo tavolo...

Accanto a lui le tre donne trafficano in una nuvola di vapore... E...».

Il commissario si era riscosso all’istante dal suo greve torpore, come se si fosse ricordato all’improvviso di un lavoro urgente da sbrigare. Senza salutare nessuno, si diresse a passi rapidi verso lo spogliatoio, afferrò il cappotto e lo infilò continuando a camminare. Un attimo dopo si lasciava cadere sul sedile di un taxi.

«Alla Sezione finanziaria della Procura!» fece al conducente.

Le quattro meno un quarto. Forse c’era ancora qualcuno. Se tutto filava liscio, prima di sera poteva sperare di...

Si voltò: il taxi aveva appena incrociato Edgar Fagonet, in arte Zebio, che si dirigeva a piedi verso il Majestic.