Nota dell'autore

 

È stato un amico fotografo, Paolo Della Corte, a parlarmi per primo di Gheel, la città del Belgio dove dal Medioevo i matti vivono insieme agli altri abitanti, senza essere separati né internati. Era la fine del 2007 e da quel momento Gheel quel paese ha continuato a tornarmi in mente. Lì c'erano storie, Gheel stessa era una storia, una specie di Spoon River che chiedeva di essere raccontata: ho scoperto che è sconosciuta ai più (persino Foucault la cita appena), e ho provato l'emozione di farla mia. Nel corso delle ricerche, senza volerlo mi sono concentrato sulla seconda parte dell'Ottocento, l'epoca in cui è più forte e crudele la ospedalizzazione dei malati (e di quelli erroneamente considerati tali) e in cui Gheel rappresenta un'eccezione ancora più incredibile.

Vincent van Gogh l'ho incontrato più o meno alla fine del 2008.

Mi ha spiazzato all'improvviso. E stato quando mi sono reso conto che fino a ventisette anni - l'età che più o meno era, è la mia - non aveva dipinto un quadro, non aveva mai vissuto dentro i suoi colori, era stato tutt'altro. Ho conosciuto un ragazzo timido e sprezzante, egoista e profondo, che cercava Dio senza trovarlo, e cercava senza trovarlo anche il proprio destino. E l'ho visto simile a me, ai miei amici, a chi ha paura di essere incapace di futuro.

Ma soprattutto mi sono chiesto cos'è successo in quello spazio di quasi un anno, dal 14 agosto 1879 al 22 giugno 1880, nel quale Van Gogh non ha scritto nemmeno una lettera. Di quell'anno non si sa nulla, se non della fine dell'attività di predicatore e delle lunghe marce per il Belgio. Mi sorprendeva che i biografi non fossero incuriositi dal "miracolo" che lo ha trasformato in un pittore, senza accademie né maestri. Così, ho provato una nuova emozione, ritrarre Van Gogh in quel momento: le prime tele, il pellegrinaggio verso i colori.

E ho capito che è passato da Gheel e lì è diventato pittore.

Van Gogh parla di Gheel in alcune lettere al fratello Theo tra il novembre del 1881 e il luglio del 1882, accennando al proposito del padre di farlo trasferire lì. Non dice di esserci stato e sembra odiare la prospettiva di esserci mandato, ma questo è plausibile; è lì che ha scoperto cos'è la pazzia, e che la pazzia poteva essere la sua sorte. Non stupisce che volesse fuggirne.

Nel libro ci sono quadri e parole di Vincent van Gogh. Il primo schizzo che Teresa vede nella lettera che sottrae furtivamente a Vincent, per esempio, si ispira al disegno Inverno, anche nella vita del 1877, conservato in una collezione privata. La lettera e le parole di Van Gogh sono quasi tutte sue, e qualcuna delle sue espressioni è diventata anche di Icarus, e di Teresa; in particolare, penso alle lettere a Theo del 16 aprile 1879,14 agosto 1879,22-24 giugno 1880 e 24 settembre 1880.

Il "tradimento delle cose belle e desiderabili", che forse è la sintesi di questa storia, è un'espressione stupenda che Vincent van Gogh usa con Emile Bernard in una lettera del 19 aprile 1888.

Ma Tutti i colori del mondo è soprattutto Teresa Senzasogni.

Teresa è nata all'improvviso: dopo anni ad accatastare, a cercare frammenti di questo racconto, è stata lei la scintilla da cui si è sprigionato il fuoco. Il suo nome viene probabilmente da Tiresia. Il suo "cognome" l'ho saputo alle tre del mattino, svegliandomi e appuntandolo in fretta su una Moleskine blu del Van Gogh Museum. Senz'altro, Teresa è arrivata da me dopo la lettura di Michel Foucault, dopo averne inteso la dolcezza e il dramma.

Come tutti i personaggi, però, Teresa è lei e basta.