Vorrei chiedervelo adesso
Vorrei chiedervelo adesso, che cosa è successo quella sera. Come siete uscito dalla casa dei Vanheim senza farvi vedere? È stato durante la cena?
Eravamo nella stanza da pranzo e nessuno ha mai guardato dalla parte dell'ingresso. È probabile che sia andata così.
Vi abbiamo cercato dappertutto.
Siamo andati dall'osteria al negozio del signor Zoek, dalla casa di Icarus alla canonica. Abbiamo domandato al signor Norrik e a Petite Colbert, ad Aaron e alla signora Russel. Non potevate essere lontano.
Ma eravate scomparso nel nulla. Non c'era traccia di voi in nessuna casa, stalla o fienile del paese.
Eppure io credo, signor Van Gogh, a quelli che raccontano di certi capelli rossi trovati il giorno successivo sulla veste di Hester Prynne.
Avete lasciato lì, tra quelle sottane, la vostra ragione? È stata lei la vostra prima donna? Lei, e non io?
C'era solo un foglio, nella stanza.
Sopra il tavolo, abbandonato in tutta fretta.
Ho fatto in tempo ad afferrarlo e a nascondermelo sotto il grembiule prima che mi raggiungesse il signor Vanheim; mi ha stretto il braccio e mi ha trascinata in camera. "Rimarrai qui dentro sino a quando te lo dico io!" mi ha gridato chiudendo la porta a chiave.
Mi hanno sempre fatto tanta compagnia, le parole scritte su quel foglietto. Forse, sono le uniche che avete scritto per me; in ogni caso, mi fa piacere pensarlo.
Cos'è la patria che cerchi, dirai tu? La patria è tutto ciò che ti circonda, tutto ciò che ti cresce, tutto ciò che ti ama e che tu ami, questa campagna che vedi, queste case, questi alberi, queste giovani che se ne vanno ridendo, le leggi che ti proteggono, il pane che paga il tuo lavoro, le parole che dici, la gioia e la tristezza che ti vengono dagli uomini e dalle cose in mezzo alle quali vivi, le persone che ti difendono, la piccola stanza dove qualche volta hai visto tua madre, i ricordi che lei ti ha lasciato, la terra dove riposa, i tuoi diritti e i tuoi doveri, gli affetti e i bisogni, la riconoscenza, le cose belle e desiderabili che non tradiscono, tutti riuniti sotto un solo nome, questo è la patria che cerco.
Non ho saputo più niente, di voi.
Per quasi dieci anni.
Ma ero certa, non so perché, che prima o poi vi avrei rivisto. Forse a Gheel, forse in qualche altro luogo, ma vi avrei rivisto. Avevamo un destino, insieme, signor Van Gogh. Ne ero certa.
E in fondo anche questa profezia si è avverata.
La mattina dopo, il signor Vanheim mi ha lasciato uscire. Lui e la moglie non hanno detto niente, e nemmeno io ho detto niente. I primi giorni sono stati insopportabili. Piangevo a dirotto, mentre mungevo le vacche, a tavola, quando andavo alle novene, quando rileggevo le vostre parole.
Piangevo perché non capivo.
Non sapevo il motivo per il quale ve n'eravate andato. Non sapevo come stavate. Eravate fuggito da me?
Ma ho capito tutto molto presto, dopo appena qualche giorno. Quando le lacrime sono rimaste, ma sono cambiate; non erano più per voi, erano per me.
Mi è capitato di crescere, signor Van Gogh. Sono diventata una donna, alla fine. Era inevitabile. Ma non con voi; in un altro modo, nel modo sbagliato.
È stato quando è arrivato il dottor Tarascon.
Il signor Vanheim ha levato il boccale di birra e ha presentato l'ospite, durante un pranzo di benvenuto a cui aveva invitato anche il dottor Shepper e il vicario: "Il mio amico è un professore francese peritissimo nell'arte medica, insegna all'Università Sorbona. Un esperto di malattie della mente che per curare i malati utilizza metodi innovativi come la catalogazione fotografica, la tecnica che permette di imprimere i volti, di paragonare espressioni e corpi diversi, di prevedere inclinazioni e perversioni di ogni individuo. L'ho convinto io a venire qui. Non sapeva neanche dell'esistenza di Gheel! I risultati di questa ricerca verranno pubblicati sui giornali di tutta la Francia. Pensate, sulle riviste di Parigi ci saranno la chiesa di Santa Dimfna,la nostra casa,il campo del signorBroot!".
Tarascon fingeva di non essere compiaciuto e si guardava intorno con occhi indagatori. Mi è sembrato subito pericoloso; era pignolo, circospetto, scrutava ogni cosa con attenzione. Passava lo sguardo da me alla libreria, dal boccale alla signora Vanheim, ma come se oggetti e persone avessero lo stesso valore, potessero suscitare in lui lo stesso interesse, la stessa morbosità.
Ricordo.
Una macchina per fare le fotografie.
Ecco cos'era quell'apparecchio montato davanti alla chiesa, sul sagrato. Tutto il villaggio era lì, a vedere quella meraviglia arrivata da Parigi. "Avanti il prossimo! " diceva con voce stentorea il dottor Tarascon. Si lisciava i baffi con le dita e si spolverava una giacca troppo larga. Era in piedi, e teneva un bastone nel palmo della mano. Quando pronunciava un nome, il nome di quello a cui toccava essere ritratto, dava un colpo per terra. "Halois Weert presso famiglia Zebark!" ha detto, e da quella massa di gente è venuto fuori Halois. Era lì dal mattino, aveva già osservato gli altri e non è stato necessario dargli alcuna istruzione. Si è seduto sullo sgabello davanti alla macchina.
"Mi raccomando, state fermo una trentina di secondi."
"Cos'è una trentina di secondi?"
"Il tempo in cui potete trattenere il respiro stando seduto e fermo."
Halois ha inspirato.
Allora sbucava un omino basso, con le bretelle, andava incontro al matto, gli appoggiava le mani sulle spalle, lo sistemava nella posizione giusta, poi correva alla macchina, si infilava sotto una specie di tendina nera, faceva muovere il muso dell'apparecchio per inquadrare il soggetto e scattava la foto.
"Avanti il prossimo."
Il dottor Shepper guardava Tarascon incantato dal modo meccanico e autorevole con cui ripeteva i gesti, come fosse un rito, una celebrazione. Icarus e il signor Vanheim parlavano tra loro di quella meraviglia della tecnica. Il vicario Torsten temeva che si trattasse di una diavoleria. Il signor Norrik spiegava che avrebbero raccolto le foto di tutti i matti del paese e che poi il dottor Tarascon avrebbe scelto quali visitare personalmente, i casi che gli parevano più importanti. Il signor Zoek diceva che se davvero quell'aggeggio funzionava bene non ci sarebbero stati mai più pittori, non sarebbe servito più nessuno che dipingesse. "Avanti il prossimo," continuava implacabile il dottor Tarascon. I paesani erano in visibilio; più per il pettegolezzo che per la scienza, a dire il vero. Per la prima volta, infatti, si sapevano con certezza i nomi di tutti i matti di Gheel. Anche Petite Colbert era stata chiamata davanti alla macchina fotografica. Era diventata rossa. "Ecco perché suona così male," mormoravano alcuni.
Nel frattempo, molti protestavano perché volevano essere ritratti anche loro con le famiglie, per incorniciare quell'immagine e metterla in bella mostra nel salotto. Alcuni giovani che partivano soldati chiedevano a gran voce di potersi portare al fronte il volto delle fidanzate. I contadini di Icarus proponevano di immortalare le vacche e il raccolto. Alcuni gridavano: "Io sono il più matto del paese! ", convinti così di finire sui giornali.
"Hester Prynne presso signor Norrik! "
E tutti sono ammutoliti, compreso il dottor Tarascon.
Lei ha camminato morbida e aggraziata come sempre, un cigno in un lago. Si è seduta, ha accavallato le gambe, si è sciolta i capelli. Ha socchiuso le labbra, come in un bacio che stava per scoccare.
"Avanti il prossimo!" ha detto ancora Tarascon, ed era sempre un'attesa febbrile il tempo tra questa frase e il nome del matto da ritrarre, perché nessuno sapeva chi sarebbe stato chiamato, non c'era una lista, e allora ognuno faceva previsioni, e intanto il numero dei matti ancora da fotografare diminuiva, e qualcuno cominciava a pensare che sarebbero stati chiamati tutti gli abitanti. Si aspettava con ansia il colpo di bastone; il nome, l'identità di chi doveva essere catalogato, consegnato alla scienza, reso immortale.
"Teresa Senzasogni! "
Non ci credete, signor Van Gogh?
È evidente, no? Nessuno aveva avvertito - né avrebbe potuto avvertire - Tarascon che io non ero matta, che era stato un trucco, che il mio certificato era falso, serviva solo per farmi avere una dote, e che io dalla miniera non ero rimasta traumatizzata, sconvolta, turbata. Non avevo spasmi, non avevo difficoltà di parola.
Ma ormai era troppo tardi, anche se ho indugiato, non sono stata veloce come gli altri, e allora Tarascon, per l'unica volta in tutta la giornata, ha dovuto ripetere il nome, "Teresa Senzasogni presso famiglia Vanheim!". La signora Vanheim mi ha afferrato un braccio, ma io mi sono scostata e sono avanzata in mezzo alla folla. La gente sembrava stupita, non pensavano che fossi una matta, andavo anch'io in chiesa ma non avevo mai fatto una novena per me, non avevo niente di strano io, non ero come Hester Prynne, e nemmeno come Halois o Petite Colbert. La signora Vanheim era imbarazzata, e anche il dottor Shepper. Qualcuno mormorava: "Anche lei?", "Non l'avrei mai detto", ma non Tarascon, che mi aspettava senza stupore. Nemmeno il fotografo si è meravigliato; mi si è avvicinato, mi ha sorriso per mettermi a mio agio, mi ha posato le mani sulle spalle e mi ha spiegato, lentamente, che dovevo stare ferma. Io per lui non ero normale, e quindi scandiva le parole, come faceva con gli altri. Poi ha mosso il muso dell'apparecchio e ha scattato la foto. Io ho sussultato. Ho capito che, anche se non ero matta davvero, il mio certificato e quella foto dimostravano il contrario, e Tarascon e il suo assistente lo credevano. Allora mi è venuto da pensare che in quel momento lo credevano tutti, "Matta come sua madre", e ho pensato a quando mi ero toccata, e mi sono domandata se erano davvero matti quelli che io avevo sempre considerato tali, quelli delle altre foto, se il confine era così sottile, una fotografia, un certificato, anche solo un insulto, fou rou, e in quel momento, mentre mi alzavo dallo sgabello, ho avuto la certezza che voi siete fuggito quando avete sentito le parole del dottor Shepper, i suoi dubbi sulla vostra salute, quando avete capito che aveva in animo di tenervi a Gheel, e sono certa che voi odiate Gheel ed evitate di parlarne per questo motivo, perché un medico vi ha detto per la prima volta che siete un matto, come il dottor Tarascon lo stava dicendo a me, e me lo stava ripetendo quell'apparecchio per fare le fotografie, quella pellicola che veniva impressionata con il mio volto, e da quel giorno, signor Van Gogh, so che è solo una parola, niente di più.
Io sono una pazza.
E voi siete un pazzo. Un povero pazzo.
Fanno male, le parole.
Certe volte sono così esatte che diventano lame, lame che tagliano, che fanno sanguinare, che si conficcano nella carne. Hanno la precisione di un macellaio che squarta un vitello, le parole.
Pazzo.
C'è sempre qualcuno che lo dice, prima che uno cominci a dirselo da solo.
Sono tornata in mezzo alla gente. "Ginevra Russel presso Jos Sturla! " ha chiamato Tarascon. E in quel momento non volevo più un fiorino della mia dote, volevo soltanto piangere, stracciare il certificato inviato a Bruxelles, avevo il terrore di essere confusa in mezzo agli altri. Mi facevano orrore, tutti. Io non ero pazza. Ho odiato Gheel. Sì, come l'avete odiata voi. Anche di più. Non era un posto diverso, ma un recinto per metterci i matti, un recinto come gli altri, una gabbia orribile, orribile, terribilmente orribile.
***
Io sottoscritto, Alphonse Tarascon, dottore di medicina, professore
di anatomia all'Università Sorbona di Parigi, residente in Parigi,
espongo quanto segue. Ho personalmente proceduto, nella città di
Gheel, in Belgio, a una visita medica sulla signorina Teresa
Senzasogni, di anni quindici circa, alta 1 metro e 58 centimetri.
La paziente non lamentava alcun disturbo particolare e la visita è
stata effettuata su espressa richiesta del tutore di quest'ultima,
signor H. Vanheim, in occasione di una serie di esami sugli
individui del paese affetti da disturbi di natura nervosa.
Il caso in esame è il più straordinario al quale mi è stato dato di dedicarmi nella mia intera esperienza professionale.
Cominciava così, il mio nuovo certificato, quello scritto dal dottor Tarascon.
Sì, signor Van Gogh: è stata la signora a volere che venissi visitata. Era diventata accorta e preoccupata. Mi vedeva triste per la vostra partenza, mi sentiva lamentarmi e intuiva che era un segno d'affetto e di cura, ma sospettava sempre che tra me e voi fosse successo l'irreparabile. Era stata un'imprudenza, lasciarmi sola con voi. Era arrabbiata con me, ma anche con se stessa. Temeva che non fossi stata capace di controllarmi o che, peggio, voi foste un vagabondo, uno spostato, che aveva abusato di me. Si spiegava solo così il mio contegno, il nostro pomeriggio insieme, la vostra improvvisa partenza.
E per avere conferma delle sue ipotesi non aveva altra scelta che sottopormi a un esame che avrebbe fugato ogni dubbio. Aveva bisogno che qualcuno le dicesse che ero ancora vergine, che non portavo dentro un bambino con i capelli rossi. Io, che non avevo ancora sangue! Ma chi poteva visitarmi? Non il dottor Shepper, che era pur sempre l'ispettore generale del paese, e avrebbe dovuto prendere provvedimenti. Se la visita l'avesse fatta lui, la signora Vanheim non avrebbe potuto portarmi dalle zingare come avevano fatto con la vecchia Senzasogni. Il dottor Tarascon, invece, sarebbe ripartito dopo qualche giorno, senza curarsi del mio destino. Sì, Tarascon era l'ideale, e la signora Vanheim ringraziava Dio che si trovasse in quei giorni a Gheel. Lui non sapeva che a combinare quel pasticcio era stato un ospite dei Vanheim. Si sarebbe limitato a constatare che cose del genere succedono spesso; gli occhi non sono mai abbastanza per controllare le ragazze viziose.
E se il sospetto fosse stato infondato? Tanto meglio. Il problema era essere sicuri, vivere senza l'incubo di vedere la mia pancia crescere, o, peggio, di attirare l'ira di Icarus dopo la prima notte di nozze, quando avrebbe scoperto l'inganno, che non lasciavo sangue sulle lenzuola. Bisognava convincere Tarascon a visitarmi senza che pensasse che c'era sotto qualcosa, ma bisognava essere chiari, fargli capire che il controllo era da fare lì, in mezzo alle gambe. Non viene forse da lì la follia? Il signor Vanheim doveva fare da tramite; era lui che, con parole suggestive, doveva spiegare all'amico proprio il minimo indispensabile per fargli capire - tra uomini ci si capisce, no? - che doveva guardare lì, addentrarsi con i suoi occhi nella peluria, osservare il luogo che nessuno aveva mai visto, prendere campioni di liquidi, toccare e sentire il calore, fare tutte le ispezioni, trarre le conclusioni necessarie. Perché gli uomini guardano solo a quello che c'è in mezzo alle gambe, perché è il luogo da dove il mondo si giudica, si spia, si...
Piango, signor Van Gogh.