22 settembre. - Egli mi ha donato un suo libro di poesia, La Favola d`Ermafrodito, il ventunesimo dei venticinque soli esemplari, tirato su pergamena, con due prove del frontispizio avanti lettera. E' una singolare opera, ove si chiude un senso misterioso e profondo, sebbene l'elemento musicale prevalga trascinando lo spirito in una magia inaudita di suoni e avvolgendo i pensieri; che splendono come una polvere d'oro e di diamante in un fiume limpido. I cori dei Centauri, delle Sirene e delle Sfingi dànno un turbamento indefinibile, svegliano nell'orecchio e nell'anima una inquietudine e una curiosità non appagate, prodotte dal continuo contrasto d'un sentimento duplice, d'una aspirazione duplice, della natura umana e della natura bestiale. Ma con qual purezza, e come visibile, l'ideal forma dell'Androgine si delinea tra gli agitati cori dei mostri! Nessuna musica mi ha inebriata come questo poema e nessuna statua mi ha data della bellezza un'impressione più armonica. Certi versi mi perseguitano senza tregua e mi perseguiteranno per lunghissimo tempo, forse; tanto sono intensi.

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Egli mi conquista l'intelletto e l'anima, ogni giorno più, ogni ora più, senza tregua, contro la mia volontà, contro la mia resistenza. Le sue parole, i suoi sguardi, i suoi gesti, i suoi minimi moti entrano nel mio cuore.

23 settembre. - Quando parliamo insieme, talvolta io sento che la sua voce è come l'eco dell'anima mia. Accade talvolta che io mi senta spingere da un subitaneo fascino, da un'attrazione cieca, da una violenza irragionevole, verso una frase, verso una parola che potrebbe rivelare la mia debolezza. Mi salvo per prodigio; e viene allora un intervallo di silenzio, nel quale io sono agitata da un terribile tremito interiore. Se riprendo a parlare, io dico una cosa frivola e insignificante, con un tono leggero; ma mi pare che una fiamma mi corra sotto la pelle del viso, quasi ch'io sia per arrossire. S'egli cogliesse quell'attimo per guardarmi risolutamente negli occhi, sarei perduta.

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Ho suonato molta musica, di Sebastiano Bach e di Roberto Schumann. Egli stava seduto, come quella sera, alla mia destra, un poco indietro, su la poltrona di cuoio. Di tratto in tratto, alla fine d'ogni pezzo, egli si levava e, chino alle mie spalle, sfogliava il libro per indicarmi un'altra Fuga, un altro Intermezzo, un altro Improvviso. Quindi si metteva di nuovo a sedere; ed ascoltava, senza muoversi, profondamente assorto, con gli occhi fissi sopra di me, facendomi sentire la sua presenza. Intendeva egli quanto di mio, del mio pensiero, della mia tristezza, del mio essere intimo, passava nella musica altrui?

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« Musica, - chiave d'argento che apri la fontana delle lacrime, ove lo spirito beve finché la mente si smarrisce; soavissima tomba di mille timori, ove la loro madre, l'Inquietudine, simile a un fanciullo che dorma, giace sopita ne' fiori... » SHELLEY.

La notte è minacciosa. Un vento caldo e umido soffia nel giardino; e il fremito cupo si prolunga nell'oscurità, poi cade, poi ricomincia più forte. Le vette dei cipressi oscillano sotto un cielo quasi nero, dove le stelle appaiono semispente. Una striscia di nuvole attraversa lo spazio, dall'uno all'altro orizzonte, frastagliata, contorta, più nera del cielo, simile alla capigliatura tragica di una Medusa. Il mare nell'oscurità è invisibile; ma singhiozza, come un immenso e inconsolabile dolore, solo. Che è mai questo sbigottimento? Mi sembra che la notte mi ammonisca d'una sciagura prossima e che all'ammonizione risponda in fondo a me un rimorso indefinito. Il Preludio di Sebastiano Bach ancóra m'incalza; si mesce nell'anima mia con il fremito del vento e con il singhiozzo del mare. Non piangeva, dianzi, qualche cosa di me in quelle note? Qualcuno piangeva, gemeva, oppresso dall'angoscia; qualcuno piangeva, gemeva, chiamava Dio, domandava il perdono, implorava l'aiuto, pregava con una preghiera che saliva al cielo come una fiamma. Chiamava ed era ascoltato, pregava ed era esaudito; riceveva la luce dall'alto, gittava gridi d'allegrezza, stringeva alfine la Verità e la Pace, si riposava nella clemenza del Signore.

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Sempre, mia figlia mi conforta; e mi guarisce da ogni febbre; come un balsamo sublime. Ella dorme, nell'ombra rischiarata dalla lampada che è mite come una luna. La sua faccia, bianca della fresca bianchezza d'una rosa bianca, quasi si sprofonda nell'abbondanza de' capelli oscuri. Pare che il fino tessuto delle sue palpebre appena appena riesca a nascondere nell'interno gli occhi luminosi. Io mi piego su lei, la riguardo; e tutte le voci della notte si estinguono, per me; e il silenzio per me non è misurato che dalla respirazione ritmica della sua vita. Ella sente la vicinanza della madre. Leva un braccio e lo lascia ricadere; sorride dalla bocca che si schiude come un fiore perlifero e per un istante tra i cigli appare uno splendore simile all'umido splendore argenteo della polpa d'un asfodelo. Come più la contemplo, diventa alla mia vista una creatura immateriale, un essere formato dell'elemento as dreams are made on. Perché, a dare un'idea della sua bellezza e della sua spiritualità, sorgono spontanee nella memoria imagini e parole di Guglielmo Shakespeare, di questo possente selvaggio atroce poeta che ha così melliflue labbra? Ella crescerà, nutrita e avvolta dalla fiamma del mio amore, mio grande unico amore... Oh Desdemona, Ofelia, Cordelia, Giulietta! Oh Titania! Oh Miranda!

24 settembre. - Io non so prendere una risoluzione, non so fare un proposito. Io mi abbandono un poco a questo nuovissimo sentimento, chiudendo gli occhi sul pericolo lontano, chiudendo gli orecchi alle ammonizioni savie della conscienza, con il trepidante ardire di chi, per cogliere le violette, s'avventura su l'orlo d'un abisso in fondo a cui rugge un fiume vorace. Egli non saprà nulla dalla mia bocca; io non saprò nulla dalla sua. Le Anime saliranno insieme, un breve tratto, su per le colline dell'Ideale, beveranno qualche sorso alle fonti perenni; quindi ciascuna riprenderà la sua via, con maggior confidenza, con minor sete.

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Che tranquillità nell'aria, dopo il mezzogiorno! Il mare ha il color bianco azzurrognolo latteo d'un opale, d'un vetro di Murano: ed è qua e là come un cristallo appannato da un alito.

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Leggo Percy Shelley, un poeta ch'egli ama, il divino Ariele che si nutre di luce e parla nella lingua degli Spiriti. E' notte. Questa allegoria mi si leva d'innanzi visibile. « Una porta di cupo diamante si spalanca sul gran cammino della vita da noi tutti esercitato, una caverna immensa e corrosa. Intorno imperversa una perpetua guerra di ombre, simili alle nuvole inquiete che s'affollano nella fenditura d'una qualche montagna scoscesa, perdendosi in alto fra i turbini del cielo superiore. E molti passano con passo incurante, d'innanzi a quel portico, non sapendo che un'ombra segue i vestigi d'ogni passeggero insino al luogo ove i morti aspettano in pace il lor compagno novello. Altri però, mossi da un pensier più curioso, si fermano a riguardare. Sono costoro in esilissimo numero; ed ivi ben poco apprendono, se non che ombre li seguono ovunque eglino vadano. » Dietro di me, così da presso che quasi mi tocca, è l'Ombra. Io la sento, che mi guarda; allo stesso modo che ieri sonando, sentivo lo sguardo di lui, senza vederlo.

25 settembre. - Mio Dio, mio Dio! Quando egli mi ha chiamata, con quella voce, con quel tremito, io ho creduto che il cuore mi si fosse disciolto nel petto e ch'io fossi per venir meno. - Voi non saprete mai - egli ha detto - non saprete mai fino a qual punto la mia anima è vostra. Eravamo nel viale delle fontane. Io ascoltavo le acque. Non ho visto più nulla; non ho udito più nulla; m'è parso che tutte le cose si allontanassero e che il suolo si affondasse e che si dileguasse con loro la mia vita. Ho fatto uno sforzo sovrumano; e m'è venuto alle labbra il nome di Delfina, e m'è venuto un impeto folle di correre a lei, di fuggire, di salvarmi. Ho gridato tre volte quel nome. Negli intervalli, il mio cuore non palpitava, i miei polsi non battevano, dalla mia bocca non usciva il respiro...

26 settembre.- E vero? Non è un inganno del mio spirito fuorviato? Ma perché l'ora di ieri mi par così lontana, così irreale? Egli parlò, di nuovo, a lungo, standomi vicino, mentre io camminava sotto gli alberi, trasognata. Sotto quali alberi? Era come s'io camminassi nelle vie segrete dell'anima mia, tra fiori nati dall'anima mia, ascoltando le parole d'uno Spirito invisibile che un tempo si fosse nutrito dell'anima mia. Odo ancóra le parole soavi e tremende. Egli diceva: - Io rinunzierei a tutte le promesse della vita per vivere in una piccola parte del vostro cuore... Diceva: - ... fuor del mondo, interamente perduto nel vostro essere, per sempre, fino alla morte... Diceva: - La pietà che mi venisse da voi mi sarebbe più cara della passione di qualunque altra... - La sola presenza vostra visibile bastava a darmi l'ebrezza; e io la sentiva fluire nelle mie vene, come un sangue, e invadere il mio spirito, come un sentimento sovrumano...

27 settembre. - Quando, sul limite del bosco, egli colse questo fiore e me l'offerse, non lo chiamai Vita della mia vita? Quando ripassammo pel viale delle fontane, d'innanzi a quella fontana, dove egli prima aveva parlato, non lo chiamai Vita della mia vita? Quando tolse la ghirlanda dall'Erma e la rese a mia figlia, non mi fece intendere che la Donna inalzata ne' versi era già decaduta e che io sola, io sola ero la sua speranza? Ed io non lo chiamai Vita della mia vita?

28 settembre. - Com'è stato lungo a venire, il raccoglimento! In tante ore, dopo quell'ora, ho lottato, ho penato per rientrar nella mia vera conscienza, per veder le cose nella vera luce, per giudicare l'accaduto con fermo e calmo giudizio, per risolvere, per decidere, per riconoscere il dovere. Io sfuggivo a me stessa; la mente si smarriva; la volontà si ripiegava; ogni sforzo era vano. Quasi per istinto, evitavo di rimaner sola con lui, mi tenevo sempre vicina a Francesca e a mia figlia, o rimanevo qui nella stanza, come in un rifugio. Quando i miei occhi s'incontravano con i suoi, mi pareva di legger ne' suoi una profonda e supplichevole tristezza. Non sa egli quanto, quanto, quanto io l'ami? Non lo sa; non lo saprà mai. Così voglio. Debbo così. Coraggio ! Mio Signore, aiutatemi voi.

29 settembre. - Perché ha parlato? Perché ha voluto rompere l'incanto del silenzio ove l'anima mia si cullava senza quasi rimorso e senza quasi paura? Perché ha voluto strappare i veli vaghi dell'incertezza e mettermi in conspetto del suo amore svelato? Ormai non posso più indugiare, non posso più illudermi, né concedermi una mollezza, né abbandonarmi a un languore. Il pericolo è là, certo, aperto, manifesto; e m'attira con la vertigine, come un abisso. Un attimo di languore, di mollezza, e io sono perduta.

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Io mi domando: - E' un dolor sincero il mio, è un sincero rammarico, per quella rivelazione inattesa? Perché penso sempre a quelle parole? E perché, quando le ripeto in me stessa, un'onda ineffabile di voluttà mi attraversa? E perché un brivido mi corre per tutte le midolle, se imagino che potrei udire altre parole, altre parole ancóra?

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Un verso di Guglielmo Shakespeare, nel As you like it:

« Who ever lov'd, that lov'd not at first sight? »

Notte. - I moti del mio spirito prendono forma d'interrogazioni, di enigmi. Io interrogo di continuo me stessa e non rispondo mai. Non ho avuto il coraggio di guardar proprio in fondo, di conoscere con esattezza il mio stato, di prendere una risoluzione veramente forte e leale. Io sono pusillanime, io sono vile; ho paura del dolore, voglio soffrire il meno possibile; voglio ancóra ondeggiare, temporeggiare, palliare, salvarmi con sotterfugi, nascondermi, invece d'affrontare a viso aperto la battaglia decisiva. Il fatto è questo: che io temo di rimaner sola con lui, d'aver con lui un colloquio grave, e che la mia vita qui è ridotta una continuazione di piccole astuzie, di piccoli ripieghi, di piccoli pretesti per evitare la sua compagnia. L'artificio è indegno di me. O voglio assolutamente rinunziare a questo amore; ed egli udrà la mia parola triste ma ferma. O voglio accettarlo, nella sua purità; ed egli avrà il mio consenso spirituale. Ora, io mi domando: - Che voglio? Quale scelgo delle due vie? Rinunziare? Accettare? Mio Dio, mio Dio, rispondete voi per me, illuminatemi voi! Rinunziare è omai come strappar con le mie unghie una parte viva del mio cuore. L'angoscia sarà suprema, lo spasimo passerà i limiti d'ogni sofferenza; ma l'eroismo, per la grazia di Dio, verrà coronato dalla rassegnazione, verrà premiato dalla divina dolcezza che segue ogni forte elevazion morale, ogni trionfo dell'anima su la paura di soffrire. Rinunzierò. Mia figlia manterrà il possesso di tutto tutto il mio essere, di tutta tutta la mia vita. Questo è il dovere.

« Ara con pianti, anima dolorosa, per mietere con canti d'allegrezza! »

30 settembre. - Scrivendo queste pagine, mi sento un poco più calma: riacquisto, almeno momentaneamente, un poco di equilibrio e considero con maggior lucidità il mio infortunio e mi par che il cuore si alleggerisca come dopo una confessione. Oh, s'io potessi confessarmi! S'io potessi chiedere consiglio e aiuto al mio vecchio amico, al mio vecchio consolatore! In queste turbolenze, mi sostiene più d'ogni altra cosa il pensiero ch'io rivedrò fra pochi giorni Don Luigi e che gli parlerò e che gli mostrerò tutte le mie piaghe, e gli scoprirò tutte le mie paure e gli chiederò un balsamo per tutti i miei mali, come un tempo; come quando la sua parola mite e profonda chiamava lacrime di tenerezza su' miei occhi che ancóra non conoscevano il sale amaro d'altre lacrime o l'arsione, ben più terribile, dell'aridità. Mi comprenderà egli ancóra? Comprenderà le oscure angosce della donna allo stesso modo che comprendeva le malinconie della fanciulla indefinite e fugaci? Rivedrò inchinarsi verso di me, in atto di misericordia e di compatimento, la sua bella fronte incoronata di capelli bianchi, illuminata di santità, pura come l'ostia nel ciborio, benedetta dalla mano del Signore?

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Ho sonato, su l'organo della cappella, musica di Sebastiano Bach e del Cherubini, dopo la messa. Ho sonato il Preludio dell'altra sera. Qualcuno piangeva, gemeva, oppresso dall'angoscia; qualcuno piangeva, gemeva, chiamava Dio, domandava il perdono, implorava l'aiuto, pregava con una preghiera che saliva al cielo come una fiamma. Chiamava ed era ascoltato, pregava ed era esaudito; riceveva la luce dall'alto, gittava gridi d'allegrezza, stringeva alfine la Verità e la Pace, si riposava nella clemenza del Signore. Quest'organo non è grande, la cappella non è grande; eppure la mia anima s'è dilatata come in una basilica, s'è inalzata come in una cupola immensa, ha toccato il culmine dell'aguglia ideale ove splende il segno dei segni, nell'azzurro paradisiaco, nell'etere sublime. Io penso ai massimi organi delle cattedrali massime, a quelli di Amburgo, di Strasburgo, di Siviglia, della badia di Weingarten, della badia di Subiaco, dei Benedettini in Catania, di Montecassino, di San Dionigi. Qual voce, qual coro di voci, qual moltitudine di grida e di preghiere, qual canto e qual pianto di popoli eguaglia la terribilità e la soavità di questo prodigioso istrumento cristiano che può riunire in se tutte le intonazioni da orecchio umano percettibili e le impercettibili ancóra? Io sogno: - un Duomo solitario, immerso nell'ombra, misterioso, nudo, simile alla profondità d'un cratere spento che riceva dall'alto una luce siderale; e un'Anima ebra d'amore, ardente come quella di san Paolo, dolce come quella di san Giovanni, molteplice come mille anime in una, bisognosa d'esalar la sua ebrietà in una voce sopraumana; e un organo vasto come una foresta di legno e di metallo, che, come quel di San Sulpizio, abbia cinque tastiere, venti pedali, cento otto registri, più di settemila canne, tutti i suoni.

Notte. - Invano! Invano! Nessuna cosa mi calma; nessuna cosa mi dà un'ora, un minuto, un attimo di oblio; nessuna cosa mai mi guarirà; nessun sogno della mia mente cancellerà il sogno del mio cuore. Invano! La mia angoscia è mortale. Io sento che il mio male è incurabile; il cuore mi duole come se proprio me l'avessero stretto, me l'avessero premuto, me l'avessero guasto per sempre; il dolore morale è così intenso che si cangia in dolore fisico, in uno spasimo atroce, insostenibile. Io sono esaltata, lo so; io sono in preda a una specie di follia; e non posso vincermi, non posso contenermi, non posso riprendere la mia ragione; non posso, non posso. Questo è dunque l'amore? Egli e partito stamani, a cavallo, con un servo, senza ch'io l'abbia veduto. La mia mattina è passata quasi tutta nella cappella. Per l'ora della colazione egli non è ritornato. La sua assenza mi faceva soffrire così ch'io era stupita dell'acutezza di quel soffrire. Son venuta qui nella stanza; per diminuir la pena, ho scritta una pagina del Giornale, una pagina religiosa, riscaldandomi al ricordo della mia fede matutina; poi ho letto qualche brano dell'Epipsychidion di Percy Shelley; poi son discesa nel parco a cercar di mia figlia. In tutti questi atti, il pensiero vivo di lui mi teneva, mi occupava, mi tormentava senza tregua. Quando ho riudita la sua voce, io era sulla prima terrazza. Egli parlava con Francesca, sul vestibolo. Francesca s'è affacciata, chiamandomi dall'alto: - Vieni su. Risalendo la scala, sentivo che le ginocchia mi si piegavano. Salutandomi, egli mi ha tesa la mano; e deve aver notato il tremito della mia perché ho visto qualche cosa passargli nello sguardo, rapidamente. Ci siamo seduti su le lunghe sedie di paglia, nel vestibolo, rivolti al mare. Egli ha detto d'essere molto stanco; e s'è messo a fumare, raccontando la sua cavalcata. Era giunto sino a Vicomìle, dove aveva fatto una sosta. - Vicomìle - ha detto - possiede tre meraviglie: una pineta, una torre, e un ostensorio del Quattrocento. Figuratevi una pineta tra il mare e il colle, tutta piena di stagni che moltiplicano il bosco all'infinito; un campanile di stil lombardo barbaro, che risale certo al XI secolo, uno stelo di pietra carico di sirene, di paoni, di serpenti, di Chimere, d'ippogrifi, di mille mostri e di mille fiori; e un ostensorio d'argento dorato, smaltato, intagliato e cesellato, di foggia gotico-bizantina con un presentimento della Rinascenza, opera del Gallucci, artefice quasi ignoto, ch'è un gran precursore di Benvenuto... Egli si rivolgeva a me, parlando. E' strano come io ricordo esattamente tutte le sue parole. Potrei scrivere per intera la sua conversazione, con le particolarità più insignificanti e minute; se ci fosse un mezzo, potrei riprodurre ogni modulazione della sua voce. Egli ci ha mostrato due o tre piccoli disegni a matita, sul suo taccuino. Poi ha seguitato a parlare delle meraviglie di Vicomìle, con quel calore ch'egli ha quando parla di cose belle, con quell'entusiasmo d'arte, ch'è una delle sue più alte seduzioni. - Ho promesso al Canonico che sarei tornato domenica. Andremo; è vero, Francesca? Bisogna che Donna Maria conosca Vicomìle. Oh, il mio nome su la sua bocca! Se ci fosse un modo, potrei riprodurre esattamente l'attitudine, l'apertura delle sue labbra nel profferire ciascuna sillaba delle due parole: - Donna Maria. - Ma non mai potrei esprimere la mia sensazione; non potrei mai ridire tutto ciò che di sconosciuto, d'inopinato, d'insospettato si va risvegliando nel mio essere alla presenza di quell'uomo. Siamo rimasti là seduti, fino all'ora del pranzo. Francesca pareva, contro il suo solito, un poco malinconica. A un certo punto, il silenzio è caduto su noi, gravemente. Ma tra lui e me è incominciato un di que' colloqui di silenzio, ove l'anima esala l'Ineffabile e intende il murmure dei pensieri. Egli mi diceva cose che mi facevano languir di dolcezza sopra il cuscino: cose che la sua bocca non potrà mai ripetermi e il mio orecchio non potrà mai udire. D'innanzi, i cipressi immobili, leggeri alla vista quasi fossero immersi in un etere sublimante, accesi dal sole, parevano portare una fiamma alla sommità, come i torchi votivi. Il mare aveva il color verde d'una foglia d'aloe, e qua e là il color mavì d'una turchina liquefatta: una indescrivibile delicatezza di pallori, una diffusion di luce angelicata, ove ogni vela dava imagine d'un angelo che nuotasse. E la concordia dei profumi illanguiditi dall'Autunno era come lo spirito e il sentimento di quello spettacolo pomeridiano. Oh morte serena di settembre! Anche questo mese è finito, è perduto, è caduto nell'abisso. Addio. Una tristezza immensa mi opprime. Quanta parte di me porta seco questa parte di tempo! Ho vissuto più in quindici giorni che in quindici anni; e mi sembra che nessuna delle mie lunghe settimane di dolore eguagli in acutezza di spasimo questa breve settimana di passione. Il cuore mi duole; la testa mi si perde; una cosa oscura e bruciante è in fondo a me, una cosa ch'è apparsa d'improvviso come un'infezione di morbo e che incomincia a contaminarmi il sangue e l'anima, contro ogni volontà, contro ogni rimedio: il Desiderio. Io n'ho vergogna e raccapriccio, come d'un disonore, come d'un sacrilegio, come d'una violazione; io n'ho una paura disperata e folle, come d'un nemico fraudolento che a penetrar nella cittadella conosca vie da me stessa non conosciute. E intanto io veglio, nella notte; e, scrivendo questa pagina nell'orgasmo in cui gli amanti scrivono le loro lettere d'amore, non odo il respiro di mia figlia che dorme. Ella dorme in pace; ella non sa quanto l'anima della madre sia lontana...

1 ottobre. - I miei occhi vedono in lui quel che prima non vedevano. Quando egli parla, io guardo la sua bocca; e l'attitudine e il colore delle labbra mi occupano più che il suono e il significato delle parole.

2 ottobre. - Oggi è sabato: oggi è l'ottavo giorno dal giorno indimenticabile: - 25 SETTEMBRE I886.

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Per un caso singolare, sebbene io ora non eviti di trovarmi sola con lui, sebbene anzi io desideri che venga il momento terribile ed eroico; per un caso singolare, il momento non è venuto. Francesca è rimasta sempre con me, oggi. Stamani abbiamo fatto una cavalcata per la via di Rovigliano. E abbiamo passato il pomeriggio quasi tutto al pianoforte. Ella ha voluto ch'io le sonassi alcune danze del XVI secolo, poi la Sonata in fa diesis minore e la celebre Toccata di Muzio Clementi, poi due o tre Capricci di Domenico Scarlatti; e ha voluto ch'io le cantassi alcune parti dei Frauenliebe di Roberto Schumann. Che contrasti! Francesca non è più gaia, come una volta, com'era anche ai primi giorni della mia dimora qui. Spesso, ella è pensosa; quando ride, quando scherza, la sua gaiezza mi sembra artificiale. Le ho chiesto: - Hai qualche pensiero che ti tormenta? - Ella mi ha risposto, mostrando di meravigliarsi: - Perché? Io ho soggiunto: - Ti vedo un po' triste. - Ed ella: - Triste? Oh no; t'inganni. - Ed ha riso, ma d'un riso involontariamente amaro. Questa cosa mi affligge e mi dà una inquietudine vaga.

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Andremo dunque domani a Vicomìle, dopo mezzogiorno. Egli mi ha domandato: - Avreste forza di venire a cavallo? A cavallo potremmo traversare tutta la pineta... Poi anche mi ha detto: - Rileggete, tra le liriche dello Shelley a Jane, la Recollection. Dunque andremo a cavallo; verrà a cavallo anche Francesca. Gli altri, compresa Delfina, verranno in mail-coach. In che disposizion di spirito strana mi trovo io stasera! Ho come un'ira sorda e acre in fondo al cuore, e non so perché; ho come una insofferenza di me e della mia vita e di tutto. L'eccitazion nervosa è così forte che mi prende di tratto in tratto un pazzo impeto di gridare, di ficcarmi le unghie nella carne, di rompermi le dita contro la parete, di provocare un qualunque spasimo materiale per sottrarmi a questo insopportabile malessere interiore, a questo insopportabile affanno. Mi par d'avere un nodo di fuoco a sommo del petto, la gola chiusa da un singhiozzo che non vuole uscire, la testa vacua, ora fredda ora ardente; e di tratto in tratto mi sento attraversare da una specie d'ansietà subitanea, da uno sbigottimento irragionevole che non riesco a respingere mai né a reprimere. E, a volte, a traverso il mio cervello guizzano imagini e pensieri involontarii che sorgono chi sa da quali profondità dell'essere: imagini e pensieri indegni. E languo e vengo meno, come una che sia immersa in un amore allacciante; e pur tuttavia non è un piacere, non è un piacere!

3 ottobre. Com'è debole e misera l'anima nostra, senza difesa contro i risvegli e gli assalti di quanto men nobile e men puro dorme nella oscurità della nostra vita inconsciente, nell'abisso inesplorato ove i ciechi sogni nascono dalle cieche sensazioni! Un sogno può avvelenare un'anima; un sol pensiero involontario può corrompere una volontà.

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Andiamo a Vicomìle. Delfina è in letizia. La giornata è religiosa. Oggi è la festa di Maria Vergine del Rosario. Coraggio, anima mia!

4 ottobre. - Nessun coraggio. La giornata di ieri fu per me così piena di piccoli episodii e di grandi commozioni, così lieta e così triste, così stranamente agitata che io mi smarrisco nel ricordarla. E già tutti tutti gli altri ricordi impallidiscono e si dileguano innanzi ad un solo. Dopo aver visitata la torre ed avere ammirato l'ostensorio, ci accingemmo a ripartir da Vicomìle verso le cinque e mezzo. Francesca era stanca; e le piacque, piuttosto che rimontare a cavallo, tornar col mail-coach. Noi seguimmo per un tratto, cavalcando ora indietro ora ai lati. Di sul legno, Delfina e Muriella agitavano verso noi lunghe canne fiorite e ridevano minacciandoci con i bei pennacchi violacei. Era una sera tranquillissima, senza vento. Il sole stava per cadere dietro il colle di Rovigliano, in un cielo tutto rosato come un cielo dell'Estremo Oriente. Rose rose rose piovevano da per tutto, lente, spesse, molli, a simiglianza d'una nevata in un'aurora. Quando il sole scomparve, le rose si moltiplicarono, si diffusero fin quasi all'orizzonte opposto, perdendosi, sciogliendosi in un azzurro chiarissimo, in un azzurro argentino, indefinibile, simile a quello che s'incurva su le cime delle montagne coperte di ghiacci. Era egli che di tratto in tratto mi diceva: - Guardate la torre di Vicomìle. Guardate la cupola di San Consalvo... Quando la pineta fu in vista, egli mi chiese: - Attraversiamo? La strada maestra costeggiava il bosco, descrivendo una larga curva e avvicinandosi al mare, fin quasi sul lido, nella sommità dell'arco. Il bosco appariva già tutto cupo, d'un verde tenebroso, come se l'ombra si fosse accumulata su le chiome degli alberi lasciando ancor limpida l'aria superiore; ma, per entro, gli stagni risplendevano d'una luce intensa e profonda, come frammenti d'un cielo assai più puro di quello che si diffondeva sul nostro capo. Senza aspettare la mia risposta, egli disse a Francesca: - Noi attraversiamo la pineta. Ci ritroveremo su la strada, al ponte del Convito, dall'altra parte. E trattenne il cavallo. Perché acconsentii? Perché entrai con lui? Io aveva negli occhi una specie di abbagliamento; mi pareva d'essere sotto l'influenza d'una fascinazione confusa; mi pareva che quel paesaggio, quella luce, quel fatto, tutta quella combinazione di circostanze non fossero per me nuovi ma già un tempo esistiti, quasi direi in una mia esistenza anteriore, ed ora riesistenti... L'impressione è inesprimibile. Mi pareva dunque che quell'ora, che quei momenti, essendo stati già da me vissuti, non si svolgessero, fuori di me, indipendenti da me, ma mi appartenessero, ma avessero con la mia persona un legame naturale e indissolubile così ch'io non potessi sottrarmi a riviverli in quel dato modo ma dovessi anzi necessariamente riviverli. Io aveva chiarissimo il sentimento di questa necessità. L'inerzia della mia volontà era assoluta. Era come quando un fatto della vita ritorna in un sogno con qualche cosa di più della verità, e di diverso dalla verità. Non riesco nemmeno a rendere una minima parte di quel fenomeno straordinario. E una segreta rispondenza, un'affinità misteriosa era tra l'anima mia e il paesaggio. L'imagine del bosco nelle acque degli stagni pareva infatti l'imagine sognata della scena reale. Come nella poesia di Percy Shelley ciascuno stagno pareva essere un breve cielo che s'ingolfasse in un mondo sotterraneo; un firmamento di luce rosea, disteso su la terra oscura, più infinito dell'infinita notte e più puro del giorno; dove gli alberi si sviluppavano allo stesso modo che nell'aria superiore ma di forme e di tinte più perfetti che qualunque altro di quelli in quel luogo ondeggianti. E vedute soavi, quali non mai si videro nel nostro mondo di sopra, v'eran dipinte dall'amor dell'acque per la bella foresta; e tutta la lor profondità era penetrata d'un chiarore elisio, d'un'atmosfera senza mutamento, d'un vespro più dolce che quel di sopra. Da che lontananza del tempo era venuta a noi quell'ora? Andavamo al passo, nel silenzio. I rari gridi delle gazze, l'andatura e il respiro dei cavalli non turbavano la tranquillità che pareva di minuto in minuto farsi più grande e più magica. Perché volle egli rompere la magia da noi stessi generata? Egli parlò; egli mi versò sul cuore un'onda di parole ardenti, folli, quasi insensate, che in quel silenzio degli alberi mi sbigottivano poiché prendevano qualche cosa di non umano, qualche cosa d'indefinibilmente strano e affascinante. Non fu umile e sommesso come nel parco; non mi disse le sue speranze timide e scorate, le sue aspirazioni quasi mistiche, le sue tristezze incurabili; non pregò, non implorò. Egli aveva la voce della passione, audace e forte; una voce ch'io non gli conosceva. - Voi mi amate, voi mi amate; voi non potete non amarmi! Ditemi che mi amate! Il suo cavallo camminava rasente al mio. Ed io mi sentivo da lui sfiorare; e credevo anche di sentire su la guancia il suo alito, l'ardore delle sue parole; e credevo di venir meno per il grande orgasmo e di cadergli fra le braccia. - Ditemi che mi amate! - egli ripeteva, ostinatamente, senza pietà. - Ditemi che mi amate! Nella terribile esasperazione datami dalla sua voce incalzante, io credo che dissi, non so se con un grido o con un singulto, fuori di me: - Vi amo, vi amo, vi amo! E spinsi il cavallo di carriera per la via appena tracciata nella densità de' tronchi, non sapendo che facessi. Egli mi seguiva gridandomi: - Maria, Maria, fermatevi! Vi farete male... Non mi fermai; non so come il mio cavallo evitò i tronchi; non so come non caddi. Io non so ridire l'impressione che mi dava nella corsa la foresta cupa interrotta dalle larghe macchie lucenti degli stagni. Quando infine uscii su la strada, alla parte opposta, presso il ponte del Convito, mi sembrò escire da un'allucinazione. Egli mi disse, con un po' di violenza: - Volevate uccidervi? Udimmo il romore della carrozza avvicinarsi; e movemmo incontro. Egli voleva ancóra parlarmi. - Tacete, vi prego; per pietà! - implorai, poiché sentivo che non avrei potuto regger più oltre. Egli tacque. Poi, con una sicurezza che mi stupì, disse a Francesca: - Peccato che tu non sia venuta! Era un incanto... E seguitò a parlare, francamente, semplicemente, come se nulla fosse accaduto; anzi con una certa gaiezza. E io gli ero grata della dissimulazione che pareva mi salvasse, poiché certo, se avessi dovuto io parlare, mi sarei tradita; e il silenzio d'ambedue sarebbe stato forse per Francesca sospetto. Incominciò, dopo qualche tempo, la salita verso Schifanoja. Nella sera, che immensa malinconia! Il primo quarto della luna brillava in un ciel delicato, un po' verde, ove i miei occhi, forse i miei occhi soltanto, vedevano ancóra una lieve apparenza di roseo, del roseo che illuminava gli stagni, là giù, nella foresta.

5 ottobre. - Egli ora sa che io l'amo; lo sa dalla mia bocca. Io non ho più scampo che nella fuga. Ecco, dove son giunta. Quando mi guarda, ha in fondo agli occhi un luccicore singolare che prima non aveva. Oggi, in un minuto in cui Francesca non era presente, mi ha presa la mano facendo l'atto di baciarmela. Io son riuscita a ritrarla; ed ho visto le sue labbra agitate da un piccolo tremito; ho sorpreso su le sue labbra, in un attimo, quasi direi la figura del bacio non iscoccato, un'attitudine che m'è rimasta nella memoria e non mi va più via, non mi va più via!

6 ottobre. - Il 25 di settembre, sul sedile di marmo, nel bosco degli àlbatri, egli mi disse: - Io so che voi non mi amate e che non potete amarmi. - E il 3 di ottobre: - Voi mi amate, voi mi amate, voi non potete non amarmi.