L'anima ride li amor suoi lontani mentre fiso rimiro il Mal già vinto che in quei di foco intrichi aveami spinto come in boschi nudriti da vulcani.
Or nel gran cerchio de' dolori umani entra, novizia in veste di jacinto, dietro lasciando il falso laberinto ove i belli ruggìan mostri pagani.
Non più sfinge con unghie auree l'abbranca, non górgone la fa pietra restare, non sirena per lunga ode l'incanta.
Alta, in sommo del cerchio, un'assai bianca donna, con atto di comunicare, tien fra le pure dita l'Ostia santa.
III
Ella fuor de l'insidie e fuor de l'ire e fuor de' danni, sta pacata e forte come colei che può fino a la morte sapere il Male, senza quel soffrire.
- O voi che fate tutti i venti aulire, che d'avete in signorìa tutte le porte, io metto a' vostri piedi la mia sorte: Madonna me 'l vogliate consentire!
Folgora ne la pura mano vostra quell'Ostia desiata, come un sole. Non vedrò dunque il gesto che consente? -
Ed ella, ch'è benigna a chi si prostra, comunicando dice le parole: - Offerto t'è il tuo Ben, anzi è presente.
IV
Io - dice - son l'innaturale Rosa generata dal sen de la Bellezza. Io son che infondo la suprema ebrezza. Io son colei che esalta e che riposa.
Ara con pianti, anima dolorosa, per mietere con canti d'allegrezza. Dopo un lungo dolor, la mia dolcezza passerà di dolcezza ogni altra cosa. -
- Tal sia, Madonna; e dal mio cor disgorghi gran sangue, e i fiumi scorrano sul mondo, e il dolore immortal pur gli rinnovi,
e me stesso travolgano que'gorghi, me coprano; ma veda io dal profondo la luce che a la invitta anima piovi. -
DIE XII SEPTEMBRIS MDCCCLXXXVI.
II
Schifanoja sorgeva su la collina, nel punto in cui la catena dopo aver seguito il litorale ed abbracciato il mare come in un anfiteatro, piegava verso l'interno e declinava alla pianura. Sebbene edificata dal cardinale Alfonso Carafa d'Ateleta, nella seconda metà del XVIII secolo, la villa aveva nella sua architettura una certa purezza di stile. Formava un quadrilatero, alto di due piani, ove i portici si alternavano con gli appartamenti; e le aperture de' portici appunto davano all'edificio agilità ed eleganza, poiché le colonne e i pilastri ionici parevano disegnati e armonizzati dal Vignola. Era veramente un palazzo d'estate, aperto ai venti del mare. Dalla parte dei giardini, sul pendio, un vestibolo metteva su una bella scala a due rami discendente in un ripiano limitato da balaustri di pietra come un vasto terrazzo e ornato di due fontane. Altre scale dalle estremità del terrazzo si prolungavano giù per il pendio arrestandosi ad altri ripiani sinchè terminavano quasi sul mare e da questa inferiore area presentavano alla vista una specie di settemplice serpeggiamento tra la verdura superba e tra i foltissimi rosai. Le meraviglie di Schifanoja erano le rose e i cipressi. Le rose, di tutte le qualità, di tutte le stagioni, erano a bastanza pour en tirer neuf ou dix muytz d'eaue rose, come avrebbe detto il poeta del Vergier d'honneur. I cipressi, acuti ed oscuri, più ieratici delle piramidi, più enigmatici degli obelischi, non cedevano né a quelli della Villa d'Este né a quelli della Villa Mondragone né a quanti altri simili giganti grandeggiano nelle gloriate ville di Roma. La marchesa d'Ateleta soleva passare a Schifanoja l'estate e parte dell'autunno; poiché ella, pur essendo tra le dame una delle più mondane, amava la campagna e la libertà campestre ed ospitare amici. Ella aveva usato ad Andrea infinite cure e premure, durante la malattia, come una sorella maggiore, quasi come una madre, senza stancarsi. Una profonda affezione la legava al cugino. Ella era per lui piena d'indulgenze e di perdoni; era un'amica buona e franca, capace di comprendere molte cose, pronta, sempre gaia, sempre arguta, a un tempo spiritosa e spirituale. Pur avendo varcata da circa un anno la trentina, conservava una mirabile vivacità giovenile e una grande piacenza, poiché possedeva il segreto della signora di Pompadour, quella beauté sans traits che può avvivarsi d'inaspettate grazie. Anche possedeva una virtù rara, quella che comunemente si chiama « il tatto ». Un delicato genio feminile erale di guida infallibile. Nelle sue relazioni con innumerevoli conoscenti d'ambo i sessi, ella sapeva sempre, in ogni circostanza, come contenersi; e non commetteva mai errori, non pesava mai su la vita altrui, non veniva mai inopportuna né diveniva mai importuna, faceva sempre a tempo ogni suo atto e diceva a tempo ogni sua parola. Il suo contegno verso Andrea, in questo periodo di convalescenza un po' strano e ineguale, non poteva essere, in verità, più squisito. Ella cercava in tutti i modi di non disturbarlo e di ottenere che nessuno lo disturbasse; gli lasciava pienissima libertà; mostrava di non accorgersi delle bizzarrie e delle malinconie; non l'infastidiva mai con domande indiscrete; faceva sì che la sua compagnia gli fosse leggera nelle ore obbligatorie; rinunziava perfino ai motti, in presenza di lui, per evitargli la fatica d'un sorriso forzato. Andrea. che comprendeva quella finezza, era riconoscente. Il 12 di settembre, dopo i sonetti dell'Erma, egli tornò a Schifanoja con una insolita letizia; incontrò Donna Francesca su la scala e le baciò le mani, dicendole con un tono di gioco: - Cugina, ho trovato la Verità e la Via. - Alleluia! - fece Donna Francesca, levando le belle braccia rotonde. - Alleluia! Ed ella discese nei giardini e Andrea salì alle sue stanze, col cuor sollevato. Dopo poco, egli udì battere leggermente all'uscio e la voce di Donna Francesca chiedere: - Posso entrare? Ella entrò portando nella sopravveste e tra le braccia un gran fascio di rose rosee, bianche, gialle, vermiglie, brune. Alcune larghe e chiare, come quelle della Villa Pamphily, freschissime e tutte imperlate, avevano non so che di vitreo tra foglia e foglia; altre avevano petali densi e una dovizia di colore che faceva pensare alla celebrata magnificenza delle porpore d'Elisa e di Tiro; altre parevano pezzi di neve odorante e facevano venire una strana voglia di morderle e d'ingoiarle; altre erano di carne, veramente di carne, voluttuose come le più voluttuose forme d'un corpo di donna, con qualche sottile venatura. Le infinite gradazioni del rosso, dal cremisi violento al color disfatto della fragola matura, si mescevano alle più fini e quasi insensibili variazioni del bianco, dal candore della neve immacolata al colore indefinibile del latte appena munto, dell'ostia, della midolla d'una canna, dell'argento opaco, dell'alabastro, dell'opale. - Oggi è festa - ella disse, ridendo; e i fiori le coprivano il petto fin quasi alla gola. - Grazie! Grazie! Grazie! - ripeteva Andrea aiutandola a deporre il fascio sul tavolo, su i libri, su gli albi, su le custodie de' disegni. - Rosa rosarum! Ella, poi che fu libera, adunò tutti i vasi sparsi per le stanze e si mise a riempirli di rose, componendo tanti singoli mazzi con una scelta che rivelava in lei un gusto raro, il gusto della gran convivatrice. Scegliendo e componendo, parlava di mille cose con quella sua gaia volubilità, quasi volesse compensarsi della parsimonia di parole e di risa usata fin allora con Andrea per riguardo alla malinconia taciturna di lui. Tra le altre cose, disse: - Il 15 avremo una bella ospite: Donna Maria Ferres y Capdevila, la moglie del ministro plenipotenziario di Guatemala. La Conosci? - Non mi pare. - Infatti, non la puoi conoscere. E' tornata in Italia da pochi mesi; ma passerà l'inverno prossimo a Roma, perché il marito è destinato a quel posto. E' una mia amica d'infanzia, molto cara. Siamo state insieme a Firenze, tre anni, all'Annunziata; ma è più giovine di me. - Americana? - No; italiana e di Siena, per giunta. Nasce di casa Bandinelli, battezzata con l'acqua della Fonte Gaia. Ma è piuttosto malinconica, di natura; e tanto dolce. La storia del suo matrimonio, anche, è poco allegra. Quel Ferres non è simpatico punto. Hanno però una bambina ch'è un amore. Vedrai; pallida pallida con tanti capelli, con due occhi smisurati. Somiglia molto alla madre... Guarda, Andrea, questa rosa, se non pare di velluto! E quest'altra? Me la mangerei. Ma guarda, proprio, se non pare una crema ideale. Che delizia! Ella seguitava a scegliere le rose e a parlare amabilmente. Un profumo pieno, inebriante come un vino di cent'anni, saliva dal mucchio; alcune corolle si sfogliavano e si fermavano tra le pieghe della gonna di Donna Francesca; innanzi alla finestra, nel sole biondissimo, la punta cupa d'un cipresso accennava appena. E nella memoria di Andrea cantava con insistenza, come una frase musicale, un verso del Petrarca:
« Così partìa le rose e le parole. »
Due mattine dopo, egli offerì in compenso alla marchesa d'Ateleta un sonetto curiosamente foggiato all'antica e manoscritto in una pergamena ornata con fregi in sul gusto di quelli che ridono nei messali d'Attavante e di Liberale da Verona.
Schifanoja in Ferrara (oh gloria d'Este!), ove il Cossa emulò Cosimo Tura in trionfi d'iddii su per le mura, non vide mai tanto gioconde feste.
Tante rose portò ne la sua veste Monna Francesca all'ospite in pastura quante mai n'ebbe il Ciel per avventura, bianche angelelle, a cingervi le teste.
Ella parlava ed iscegliea que'fiori con tal vaghezza ch'io pensai: - Non forse venne una Grazia per le vie del Sole? -
Travidi, inebriato dalli odori. Un verso del Petrarca a l'aria sorse: « Così partìa le rose e le parole. »
Così Andrea cominciava a riavvicinarsi all'Arte, curiosamente esperimentandosi in piccoli esercizii e in piccoli giuochi, ma ben meditando opere meno lievi. Molte ambizioni, che già un tempo l'avevano incitato, tornarono ad incitarlo; molti progetti d'un tempo gli si riaffacciarono nello spirito modificati o completi; molte antiche idee gli si ripresentarono sotto una luce nuova o più giusta; molte imagini, una volta appena intraviste, gli brillarono chiare e nitide, senza ch'egli potesse rendersi conto di quel loro svolgimento. Pensieri subitanei insorgevano dalle profondità misteriose della conscienza e lo sorprendevano. Pareva che tutti i confusi elementi accumulati in fondo a lui, ora combinati con la disposizion particolare della volontà, si transformassero in pensieri con lo stesso processo per cui la digestione stomacale elabora i cibi e li cangia in sostanza del corpo. Egli intendeva trovare una forma di Poema moderno, questo inarrivabile sogno di molti poeti; e intendeva fare una lirica veramente moderna nel contenuto ma vestita di tutte le antiche eleganze, profonda e limpida, appassionata e pura, forte e composta. Inoltre vagheggiava un libro d'arte su i Primitivi, su gli artisti che precorrono la Rinascenza, e un libro d'analisi psicologica e letteraria su i poeti del Dugento in gran parte ignorati. Un terzo libro avrebbe egli voluto scrivere sul Bernini, un grande studio di decadenza, aggruppando intorno a quest'uomo straordinario che fu il favorito di sei papi non soltanto tutta l'arte ma anche tutta la vita del suo secolo. Per ognuna di tali opere bisognavano naturalmente, molti mesi, molte ricerche, molte fatiche, un alto calore d'ingegno, una vasta capacità di coordinazione. In materia di disegno, egli intendeva illustrare con acque forti la terza e la quarta giornata del Decamerone, prendendo ad esempio quella Istoria di Nastagio degli Onesti ove Sandro Botticelli rivela tanta raffinatezza di gusto nella scienza del gruppo e dell'espressione. Inoltre vagheggiava una serie di Sogni, di Capricci, di Grotteschi, di Costumi, di Favole, di Allegorie, di Fantasie, alla maniera volante del Callot ma con un ben diverso sentimento e un ben diverso stile, per potersi liberamente abbandonare a tutte le sue predilezioni, a tutte le sue imaginazioni, a tutte le sue più acute curiosità e più sfrenate temerità di disegnatore. Il 15 settembre, un mercoledì, giunse l'ospite nuova. La marchesa andò, insieme con il suo primogenito Ferdinando e con Andrea, ad incontrar l'amica nella prossima stazione di Rovigliano. Mentre il phaeton discendeva per la strada ombreggiata di alti pioppi, la marchesa parlava dell'amica ad Andrea con molta benevolenza. - Credo che ti piacerà - ella concluse. Poi si mise a ridere, come per un pensiero che le attraversasse lo spirito improvvisamente. - Perché ridi? - le chiese Andrea. - Per un'analogia. - Quale? - Indovina. - Non so. - Ecco: pensavo a un altro annunzio di presentazione e a un'altra presentazione ch'io ti feci, son quasi due anni, accompagnandola con una profezia allegra. Ti ricordi? - Ah! - Rido perché anche questa volta si tratta di una incognita e anche questa volta io sarei... l'auspice involontaria. - Ohibò. - Ma il caso è diverso, ossia è diverso il personaggio del possibile dramma. - Cioè? - Maria è una turris eburnea. - Io sono ora un vas spirituale. - Guarda! Dimenticavo che tu hai finalmente trovato la Verità e la Via. « L'anima ride li amor suoi lontani... » - Tu citi i miei versi? - Li so a memoria. - Che amabilità! - Del resto, caro cugino, quell'« assai bianca donna » con l'Ostia in mano m'è sospetta. M'ha tutta l'aria d'una forma fittizia, d'una stola senza corpo, che sia alla mercede di quella qualunque anima d'angelo o di demonio intenzionata d'entrarci, di amministrarti la comunione e di farti « il gesto che consente ». - Sacrilegio! Sacrilegio! - Bada a te e fa ben la guardia alla stola e fa molti esorcismi... Ricasco nelle profezie! Proprio, le profezie sono una delle mie debolezze. - Siamo giunti, cugina. Ridevano ambedue. Entravano nella stazione, mancando pochi minuti all'arrivo del treno. Il dodicenne Ferdinando, un fanciullo malaticcio, portava un mazzo di rose per offerirlo a Donna Maria. Andrea, dopo quel dialogo, si sentiva allegro, leggero, vivacissimo, quasi che d'un tratto fosse rientrato nella primiera vita di frivolezza e di fatuità: era una sensazione inesplicabile. Gli pareva che qualche cosa come un soffio femineo, come una tentazione indefinita, gli attraversasse lo spirito. Scelse dal mazzo di Ferdinando una rosa thea e se la mise all'occhiello; diede un'occhiata rapida al suo abbigliamento estivo; si guardò con compiacenza le mani bene curate ch'eran divenute più sottili e più bianche nella malattia. Fece tutto questo senza riflessione, quasi per un istinto di vanità risvegliatosi in lui d'un tratto. - Ecco il treno - disse Ferdinando. La marchesa si avanzò incontro alla ben venuta; ch'era già allo sportello e salutava con la mano e accennava con la testa tutt'avvolta d'un gran velo color di perla coprente a metà il cappello di paglia nera. - Francesca! Francesca! - ella chiamava, con una effusione tenera di gioia. Quella voce fece su Andrea un'impression singolare; gli ricordò vagamente una voce conosciuta. Quale? Donna Maria discese con un atto rapido ed agile; e con un gesto pieno di grazia sollevò il velo fitto scoprendosi la bocca per baciare l'amica. Sùbito, per Andrea quella signora alta e ondulante sotto il mantello di viaggio e velata, di cui egli non vedeva che la bocca e il mento, ebbe una profonda seduzione. Tutto il suo essere, illuso in quei giorni da una parvenza di liberazione, era disposto ad accogliere il fascino dell'« eterno feminino ». Appena smosse da un soffio di donna, le ceneri davano faville. - Maria, ti presento mio cugino, il conte Andrea Sperelli-Fieschi d'Ugenta. Andrea s'inchinò. La bocca della signora si aperse ad un sorriso, che sembrò misterioso poiché la lucentezza del velo nascondeva il resto della faccia. Quindi la marchesa presentò Andrea a Don Manuel Ferres y Capdevila. Poi disse, accarezzando i capelli della bimba che guardava il giovine con due dolci occhi attoniti: - Ecco Delfina. Nel phaeton Andrea sedeva di fronte a Donna Maria e a fianco del marito. Ella non aveva ancor svolto il velo; teneva su le ginocchia il mazzo di Ferdinando e di tratto in tratto lo portava alle nari, mentre rispondeva alle domande della marchesa. Andrea non s'era ingannato: nella voce di lei sonavano alcuni accenti della voce di Elena Muti, perfetti. Una curiosità impaziente l'invase, di vedere il volto nascosto, l'espressione, il colore. - Manuel - dicea ella, discorrendo - partirà venerdì. Poi verrà a riprendermi, più tardi. - Molto tardi, speriamo - s'augurò cordialmente Donna Francesca. - Anzi la miglior cosa sarebbe d'andar via tutti in un giorno. Noi resteremo a Schifanoja sino al primo di novembre, non più oltre. - Se la mamma non m'aspettasse, resterei volentieri con te. Ma ho promesso di trovarmi in tutti i modi a Siena pel 17 d'ottobre, ch'è il natalizio di Delfina. - Peccato! Il 20 d'ottobre c'è la festa delle donazioni a Rovigliano, tanto bella e strana. - Come fare? S'io mancassi, la mamma n'avrebbe certo un gran dolore. Delfina è l'adorata... Il marito taceva: doveva essere di natura taciturno. Di mezza taglia, un poco obeso, un po' calvo, aveva la pelle d'un color singolare, d'un pallore tra verdognolo e violaceo, su cui il bianco dell'occhio nei movimenti dello sguardo spiccava come quel d'un occhio di smalto in certe teste di bronzo antiche. I baffi, neri, duri ed egualmente tagliati come i peli d'una spazzola, ombravano una cruda bocca sardonica. Egli pareva un uomo tutto irrigato di bile. Poteva aver quarant'anni o poco più. Nella sua persona era qualche cosa di ibrido e di subdolo, che non isfuggiva a un osservatore; era quell'indefinibile aspetto di viziosità che portano in loro le generazioni provenienti da un miscuglio di razze imbastardite, crescenti nella turbolenza. - Guarda, Delfina, gli aranci tutti fioriti! - esclamò Donna Maria stendendo la mano al passaggio per cogliere un rametto. La strada infatti saliva tra due boschi d'agrumi, in vicinanza di Schifanoja. Le piante eran così alte che facevano ombra. Un vento marino alitava e sospirava nell'ombra, carico d'un profumo che si poteva quasi bevere a sorsi come un'acqua refrigerante. Delfina aveva posate le ginocchia sul sedile e si sporgeva fuor della carrozza per afferrare i rami. La madre la cingeva con un braccio per reggerla. - Bada! Bada! Puoi cadere. Aspetta un poco ch'io mi tolga il velo - ella disse. - Scusa, Francesca; aiutami. E chinò la testa verso l'amica per farsi districare il velo dal cappello. In quell'atto il mazzo di rose le cadde a' piedi. Andrea fu pronto a raccoglierlo; e nel rialzarsi a porgerlo, vide alfine l'intero volto della signora scoperto. - Grazie - ella disse. Aveva un volto ovale, forse un poco troppo allungato, ma appena appena un poco, di quell'aristocratico allungamento che nel XV secolo gli artisti ricercatori d'eleganza esageravano. Ne' lineamenti delicati era quell'espressione tenue di sofferenza e di stanchezza, che forma l'umano incanto delle Vergini ne' tondi fiorentini del tempo di Cosimo. Un'ombra morbida, tenera, simile alla fusione di due tinte diafane, d'un violetto e d'un azzurro ideali, le circondava gli occhi che volgevan l'iride lionata degli angeli bruni. I capelli le ingombravano la fronte e le tempie, come una corona pesante; si accumulavano e si attortigliavano su la nuca. Le ciocche, d'innanzi, avevan la densità e la forma di quelle che coprono a guisa d'un casco la testa dell'Antinoo Farnese. Nulla superava la grazia della finissima testa che pareva esser travagliata dalla profonda massa, come da un divino castigo. - Dio mio! - esclamò ella, provando a sollevare con le mani il peso delle trecce constrette insieme sotto la paglia. - Ho tutta quanta la testa addolorata come se fossi rimasta sospesa pe' capelli un'ora. Non posso stare molto tempo senza scioglierli; mi affaticano troppo. E' una schiavitù - Ti ricordi, - chiese Donna Francesca - in conservatorio, quando eravamo in tante a volerti pettinare? Succedevano gran liti, ogni giorno. Figurati, Andrea, che corse perfino il sangue! Ah, non dimenticherò mai la scena tra Carlotta Fiordelise e Gabriella Vanni. Era una mania. Pettinar Maria Bandinelli era l'aspirazione di tutte le educande, maggiori e minori. Il contagio si sparse per tutto il conservatorio; ne vennero proibizioni, ammonizioni, rigori, minacce perfin di tonsura. Ti ricordi, Maria? Tutte le nostre anime erano allacciate da quel bel serpente nero che ti pendeva fino ai calcagni. Che pianti di passione, la notte! E quando Gabriella Vanni, per gelosia, ti diede a tradimento una forbiciata? Proprio, Gabriella aveva perduta la testa. Ti ricordi? Donna Maria sorrideva, d'un certo sorriso malinconico e quasi direi incantato come quel d'una persona che sogni. Nella sua bocca socchiusa il labbro di sopra avanzava un poco quel di sotto, ma così poco che appena pareva, e gli angoli si chinavano in giù dolenti e nel loro incavo lieve accoglievano un'ombra. Queste cose creavano un'espressione di tristezza e di bontà, ma temperata da quella fierezza che rivela l'elevazion morale di chi ha molto sofferto e saputo soffrire. Andrea pensò che in nessuna delle sue amiche egli aveva posseduta una tal capigliatura, una così vasta selva e così tenebrosa, ove smarrirsi. La storia di tutte quelle fanciulle innamorate d'una treccia, accese di passione e di gelosia, smanianti di mettere il pettine e le dita nel vivo tesoro, gli parve un gentile e poetico episodio di vita claustrale; e la chiomata nell'imaginazione gli s'illuminò vagamente come l'eroina d'una favola, come l'eroina d'una leggenda cristiana in cui fosse descritta la puerizia d'una santa destinata a un martirio e a una glorificazione futura. Nel tempo medesimo, gli sorgeva nello spirito una finzione d'arte. Quanta ricchezza e varietà di linee avrebbe potuto dare al disegno d'una figura muliebre quella volubile e divisibile massa di capelli neri! Non erano, veramente, neri. Egli li guardava, il giorno dopo, a mensa, nel punto in cui il riverbero del sole li feriva. Avevano riflessi di viola cupi, di que' riflessi che ha la tinta del campeggio o anche talvolta l'acciaio provato alla fiamma o anche certa specie di palissandro polito; e parevano aridi, per modo che pur nella lor compattezza i capelli rimanevan distaccati l'uno dall'altro, penetrati d'aria, quasi direi respiranti. I tre luminosi e melodiosi epiteti d'Alceo andavano a Donna Maria naturalmente. « Ioploch' agnameilichomeide...» - Ella parlava con finezza, mostrando uno spirito delicato e inchino alle cose dell'intelligenza, alle rarità del gusto, al piacere estetico. Possedeva la coltura abondante e varia, l'imaginazione sviluppata, la parola colorita di chi ha veduto molti paesi, ha vissuto in diversi climi, ha conosciuto genti diverse. E Andrea sentiva un'aura esotica involgere la persona di lei, sentiva da lei partire una strana seduzione, un incanto composto dai fantasmi vaghi delle cose lontane ch'ella aveva guardate, degli spettacoli ch'ella ancóra serbava negli occhi, dei ricordi che le empivano l'anima. Ed era un incanto indefinibile, inesprimibile; era come s'ella portasse nella sua persona una traccia della luce in cui erasi immersa, de' profumi ch'ella aveva respirati, degli idiomi ch'ella aveva uditi; era come s'ella portasse in sé confuse, svanite, indistinte tutte le magie di que' paesi del Sole. La sera, nella gran sala che dava sul vestibolo, ella s'accostò al pianoforte e l'aperse per provarlo, dicendo: - Suoni ancóra, tu, Francesca? - Oh, no - rispose la marchesa. - Ho smesso di studiare, da parecchi anni. Penso che la semplice audizione sia una voluttà preferibile. Però mi do l'aria di proteggere l'arte; e l'inverno in casa mia presiedo sempre a un po' di buona musica. E vero, Andrea? - Mia cugina è assai modesta, Donna Maria. E' qualche cosa più che una protettrice; e una restauratrice del buon gusto. Proprio quest'anno, nel febbraio, in casa sua, per sua cura, sono stati eseguiti due Quintetti, un Quartetto e un Trio del Boccherini e un Quartetto del Cherubini: musica quasi in tutto dimenticata, ma ammirabile e sempre giovine. Gli Adagio e i Minuetti del Boccherini sono d'una freschezza deliziosa; i Finali soltanto mi paiono un po' invecchiati. Voi, certo, conoscete qualche cosa di lui... - Mi ricordo d'aver sentito un Quintetto quattro o cinque anni fa, al Conservatorio di Bruxelles; e mi parve magnifico, e poi nuovissimo, pieno d'episodii inaspettati. Mi ricordo bene che in alcune parti il Quintetto, per l'uso dell'unisono, si riduceva a un Duo; ma gli effetti ottenuti con la differenza dei timbri erano d'una finezza straordinaria. Non ho ritrovato nulla di simile nelle altre composizioni strumentali. Ella parlava di musica con sottilità d'intenditrice; e per rendere il sentimento, che una data composizione o l'intera arte di un dato maestro suscitava in lei, aveva espressioni ingegnose ed imagini ardite. - Io ho eseguita ed ascoltata molta musica - diceva ella. - E di ogni Sinfonia, di ogni Sonata, di ogni Notturno, di ogni singolo pezzo insomma, conservo una imagine visibile, un'impressione di forma e di colore, una figura, un gruppo di figure, un paesaggio; tanto che tutti i miei pezzi prediletti portano un nome, secondo l'imagine. Io ho, per esempio, la Sonata delle quaranta nuore di Priamo, il Notturno della Bella addormentata nel bosco, la Gavotta delle dame gialle, la Giga del mulino, il Preludio della goccia d'acqua, e così via. Ella si mise a ridere, d'un tenue riso che su quella bocca afflitta aveva una indicibile grazia e sorprendeva come un baleno inatteso. - Ti ricordi, Francesca, in collegio, di quanti commenti in margine affliggemmo la musica di quel povero Chopin, del nostro divino Federico? Tu eri la mia complice. Un giorno mutammo tutti i titoli allo Schumann, con gravi discussioni; e tutti i titoli avevano una lunga nota esplicativa. Conservo ancóra quelle carte, per memoria. Ora, quando risuono i Myrthen e le Albumblätter, tutte quelle significazioni misteriose mi sono incomprensibili; la commozione e la visione sono assai diverse; ed è un fino piacere questo, di poter paragonare il sentimento presente con il passato, la nuova imagine con l'antica. E un piacere simile a quello che si prova nel rileggere il proprio Giornale; ma è forse più malinconico e più intenso. Il Giornale in genere è la descrizione degli avvenimenti reali, la cronaca dei giorni felici e dei giorni tristi, la traccia grigia o rosea lasciata dalla vita che fugge; le note prese in margine d'un libro di musica, in giovinezza, sono invece i frammenti del poema segreto d'un'anima che si schiude, sono le effusioni liriche della nostra idealità intatta, sono la storia dei nostri sogni. Che linguaggio! Che parole! Ti ricordi, Francesca? Ella parlava con piena confidenza, forse con una leggera esaltazione spirituale, come una donna che, lungamente oppressa dalla frequentazion forzata di gente inferiore o da uno spettacolo di volgarità, abbia il bisogno irresistibile di aprire il suo intelletto e il suo cuore a un soffio di vita più alta. Andrea l'ascoltava, provando per lei un sentimento dolce che somigliava alla gratitudine. Gli pareva che ella, parlando di tali cose innanzi a lui e con lui, gli desse una prova gentile di benevolenza e quasi gli permettesse di avvicinarsi. Egli credeva intravedere lembi di quel mondo interiore non tanto pel significato delle parole ch'ella diceva, quanto pe' suoni e per le modulazioni della voce. Di nuovo, egli riconosceva gli accenti dell'altra. Era una voce ambigua, direi quasi bisessuale, duplice, androgìnica; di due timbri. Il timbro maschile, basso e un poco velato, s'ammorbidiva, si chiariva, s'infemminiva talvolta con passaggi così armoniosi che l'orecchio dell'uditore n'aveva sorpresa e diletto a un tempo e perplessità. Come quando una musica passa dal tono minore al tono maggiore o come quando una musica trascorrendo in dissonanze dolorose torna dopo molte battute al tono fondamentale, così quella voce ad intervalli faceva il cangiamento. Il timbro feminile appunto ricordava l'altra. E il fenomeno era tanto singolare che bastava da solo ad occupare l'animo dell'uditore, indipendentemente dal senso delle parole. Le quali quanto più da un ritmo o da una modulazione acquistano di valor musicale, tanto più pèrdono di valore simbolico. L'animo infatti, dopo qualche minuto d'attenzione, si piegava al fascino misterioso; e rimaneva sospeso aspettando e desiderando la cadenza soave, come per una melodia eseguita da uno strumento. - Cantate? - chiese Andrea alla signora, quasi con timidezza. - Un poco - ella rispose. - Canta, un poco - la pregò Donna Francesca. - Si, - consentì ella - ma appena accennando, perché proprio, da più d'un anno, ho perduta ogni forza. Nella stanza attigua, Don Manuel giocava col marchese d'Ateleta, senza romore, senza motto. Nella sala la luce si diffondeva a traverso un gran paralume giapponese, temperata e rossa. Tra le colonne del vestibolo passava l'aria marina e moveva di tratto in tratto le alte tende di Karamanieh recando il profumo dei giardini sottoposti. Negli intercolunnii apparivano le cime dei cipressi nere, solide, come di ebano, sopra un cielo diafano, tutto palpitante di stelle. Donna Maria si mise al pianoforte, dicendo: - Già che siamo nell'antico accennerò una melodia del Paisiello nella Nina pazza, una cosa divina. Ella cantava, accompagnandosi. Nel fuoco del canto i due timbri della sua voce si fondevano come due metalli preziosi componendo un sol metallo sonoro, caldo, pieghevole, vibrante. La melodia del Paisiello, semplice, pura, spontanea, piena di soavità accorata e di alata tristezza, su un accompagnamento chiarissimo, sgorgando dalla bella bocca afflitta s'inalzava con tal fiamma di passione che il convalescente, turbato fin nel profondo, sentì passarsi per le vene le note a una a una, come se nel corpo il sangue gli si fosse arrestato ad ascoltare. Un gelo sottile gli prendeva le radici de' capelli; ombre rapide e spesse gli cadevano su gli occhi; l'ansia gli premeva il respiro. E l'intensità della sensazione, ne' suoi nervi acuiti, era tanta ch'egli doveva fare uno sforzo per contenere uno scoppio di lacrime. - Oh, Maria mia! - esclamò Donna Francesca, baciando teneramente su i capelli la cantatrice quando tacque. Andrea non parlò; rimase seduto nella poltrona, con le spalle rivolte al lume, col viso in ombra. - Ancóra! - soggiunse Donna Francesca. Ella cantò ancóra un'Arietta di Antonio Salieri. Poi sonò una Toccata di Leonardo Leo, una Gavotta del Rameau e una Giga di Sebastiano Bach. Riviveva meravigliosamente sotto le sue dita la musica del XVIII secolo, così malinconica nelle arie di danza: che paion composte per esser danzate in un pomeriggio languido d'una estate di San Martino, entro un parco abbandonato, tra fontane ammutolite, tra piedestalli senza statue, sopra un tappeto di rose morte, da coppie di amanti prossimi a non amar più.
III
- Gittatemi una treccia, ch'io salga! - gridò Andrea, ridendo, giù dal primo ripiano della scala, a Donna Maria che stava su la loggia contigua alle sue stanze, tra due colonne. Era di mattina. Ella stava al sole per farsi asciugare i capelli umidi che l'ammantavano tutta quanta, come un velluto d'un bel violetto profondo, tra il quale appariva il pallore opaco della faccia. La tenda di tela, a metà sollevata, d'un vivo colore arancione, le metteva in sul capo il bel fregio nero del lembo nello stile de' fregi che girano intorno gli antichi vasi greci della Campania; e, s'ella avesse avuto intorno le tempie corona di narcisi e da presso una di quelle grandi lire a nove corde che portano dipinta a encausto l'effigie d'Apollo e d'un levriere, certo sarebbe parsa un'alunna della scuola di Mitilene, una lirista lesbiaca in atto di riposo, ma quale avrebbe potuto imaginarla un prerafaelita. - Voi gittatemi un madrigale - rispose ella, per gioco, ritraendosi alquanto. - Vado a scriverlo sul marmo d'un balaustro, all'ultima terrazza, in vostro onore. Venite a leggerlo, quando sarete pronta, poi. Andrea seguitò a discendere lentamente le scale che conducevano all'ultima terrazza. In quel mattino di settembre, l'anima gli si dilatava col respiro. Il giorno aveva una specie di santità; il mare pareva risplendere di luce propria, come se ne' fondi vivessero magiche sorgenti di raggi; tutte le cose erano penetrate di sole. Andrea discendeva, di tratto in tratto, soffermandosi. Il pensiero che Donna Maria fosse rimasta su la loggia a guardarlo gli dava un turbamento indefinito, gli metteva nel petto un palpito forte, quasi l'intimidiva, come s'ei fosse un giovinetto in sul primo amore. Provava una beatitudine ineffabile a respirare quella calda e limpida atmosfera ove respirava anch'ella, ove immergevasi anche il corpo di lei. Un'onda immensa di tenerezza gli sgorgava dal cuore spargendosi su gli alberi, su le pietre, sul mare, come su esseri amici e consapevoli. Egli era spinto come da un bisogno di adorazione sommessa, umile, pura; come da un bisogno di piegare i ginocchi e di congiungere le mani e di offerire quell'affetto vago e muto ch'egli non sapeva qual fosse. Credeva sentir venire a sè la bontà delle cose e mescersi alla sua bontà e traboccare. - Dunque l'amo? - si chiese; e non osò di guardar dentro e di riflettere, poiché temeva che quell'incanto delicato si dileguasse e si disperdesse come un sogno d'un'alba. - L'amo? Ed ella che pensa? E s'ella vien sola, le dirò io che l'amo? - Godeva interrogar sé medesimo e non rispondere e interrompere la risposta del cuore con una nuova domanda e prolungare quella fluttuazione tormentosa e deliziosa a un tempo. - No, no, io non le dirò che l'amo. Ella è sopra tutte le altre. Si volse; e vide ancóra, in sommo, nella loggia, nel sole, la forma di lei, indistinta. Ella, forse, l'aveva seguito con gli occhi e col pensiero fin là giù, assiduamente. Per una curiosità infantile egli pronunziò a voce chiara il nome, su la terrazza solitaria; lo ripeté due o tre volte, ascoltandosi. - Maria! Maria! - Nessuna parola giammai, nessun nome eragli parso più soave, più melodioso, più carezzevole. E pensò che sarebbe stato felice s'ella gli avesse permesso di chiamarla semplicemente Maria, come una sorella. Quella creatura così spirituale ed eletta gli inspirava un senso di devozione e di sommessione, altissimo. Se gli avessero chiesto quale cosa sarebbegli stata più dolce, avrebbe risposto con sincerità: - Obedirla. - Nessuna cosa gli avrebbe fatto dolore quanto l'esser da lei creduto un uomo comune. Da nessuna altra donna, quanto da lei, avrebbe voluto essere ammirato, lodato, compreso nelle opere dell'intelligenza, nel gusto, nelle ricerche, nelle aspirazioni d'arte, negli ideali, nei sogni, nella parte più nobile del suo spirito e della sua vita. E l'ambizione sua più ardente era di riempirle il cuore. Già da dieci giorni ella viveva a Schifanoja; e in quei dieci giorni come interamente l'aveva ella conquistato! Le loro conversazioni, su le terrazze o su i sedili sparsi all'ombra o lungo i viali fiancheggiati di rosai, duravano talvolta ore ed ore, mentre Delfina correva come una gazelletta tra gli avvolgimenti dell'agrumeto. Ella aveva nel conversare una fluidità mirabile; profondeva un tesoro d'osservazioni delicate e penetranti; rivelavasi talvolta con un candore pieno di grazia; in proposito de' suoi viaggi, talvolta con una sola frase pittoresca suscitava in Andrea larghe visioni di paesi e di mari lontani. Ed egli poneva un'assidua cura nel mostrare a lei il suo valore, la larghezza della sua cultura, la raffinatezza della sua educazione, la squisitezza della sua sensibilità; e un orgoglio enorme gli sollevò tutto l'essere quando ella gli disse con accento di verità, dopo la lettura della Favola d'Ermafrodito: - Nessuna musica mi ha inebriata come questo poema e nessuna statua mi ha data della bellezza un'impressione più armonica. Certi versi mi perseguitano senza tregua e mi perseguiteranno per lunghissimo tempo, forse; tanto sono intensi. Egli ora, seduto su i balaustri, ripensava quelle parole. Donna Maria non era più nella loggia; anzi la tenda copriva tutto l'intercolunnio. Sarebbe forse discesa tra poco. Doveva egli scriverle il madrigale, secondo la promessa? Il piccolo supplizio del versificare a furia gli parve insoffribile, in quel grandioso e gaudioso giardino ove il sole di settembre faceva dischiudere una specie di primavera soprannaturale. Perché disperdere quella rara commozione in un giuoco affrettato di rime? Perché rimpicciolire quel vasto sentimento in un breve sospiro metrico? Risolse di mancare alla promessa; e restò seduto a guardare le vele sul limite estremo dell'acqua, che brillavano a simiglianza di fuochi soverchianti il sole. Ma un'ansietà lo stringeva come più i minuti fuggivano; ed egli volgevasi tutti i minuti a vedere se in sommo della scala, tra le colonne del vestibolo, apparisse una forma feminile. - Era forse quello un ritrovo d'amore? Veniva forse quella donna in quel luogo a un colloquio segreto? Imaginava ella di lui quell'ansietà? - Eccola! - il cuore gli disse. Ed era. Era sola. Scendeva pianamente. Su la prima terrazza, presso una delle fontane, si soffermò. Andrea la seguiva con gli occhi, sospeso, provando ad ogni moto, ad ogni passo, ad ogni attitudine di lei una trepidazione come se il moto, il passo, l'attitudine avessero un significato, fossero un linguaggio. Ella si mise per quella successione di scale e di terrazze intramezzate d'alberi e di cespugli. La sua persona appariva e scompariva, ora tutta intera, ora dalla cintola in su, ora emergente con la testa fuor d'un rosaio. A volte l'intrico dei rami la celava per un buon tratto: si vedeva soltanto negli spazii più radi passare la sua veste oscura o brillare la paglia chiara del suo cappello. Come più si avvicinava, più ella facevasi lenta, indugiando per le siepi, arrestandosi a guardare i cipressi, inchinandosi a raccogliere un pugno di foglie cadute. Dalla penultima terrazza salutò con la mano Andrea che aspettava ritto su l'ultimo gradino; e gli gettò le foglie raccolte, che si sparpagliarono come uno sciame di farfalle, tremolando, rimanendo qual più qual meno nell'aria, posandosi su la pietra con una mollezza di neve. - Ebbene? - chiese ella, a mezzo della branca. Andrea piegò le ginocchia sul gradino, levando le palme. - Nulla! - egli confessò. - Chiedo perdono; ma voi e il sole stamani empite i cieli di troppa dolcezza. Adoremus. La confessione era sincera e anche l'adorazione, sebbene fatte ambedue con un'apparenza di gioco; e certo Donna Maria comprese quella sincerità, poiché arrossì un poco, dicendo con una singolare premura: - Alzatevi, alzatevi. Egli s'alzò. Ella gli tese la mano, soggiungendo: - Vi perdono, perché siete in convalescenza. Portava un abito d'uno strano color di ruggine, d'un color di croco, disfatto, indefinibile; d'uno di que' colori cosiddetti estetici che si trovano ne' quadri del divino Autunno, in quelli dei Primitivi, e in quelli di Dante Gabriele Rossetti. La gonna componevasi di molte pieghe, diritte e regolari, che si partivano di sotto al braccio. Un largo nastro verdemare, del pallore d'una turchese malata, formava la cintura e cadeva con un solo grande cappio giù pel fianco. Le maniche ampie, molli, in fittissime pieghe all'appiccatura, si restringevano intorno i polsi. Un altro nastro verdemare, ma sottile, cingeva il collo, annodato a sinistra con un piccolo cappio. Un nastro anche eguale legava l'estremità della prodigiosa treccia cadente di sotto a un cappello di paglia coronato d'una corona di giacinti simile a quella della Pandora d'Alma Tadema. Una grossa turchese della Persia, unico gioiello, in forma d'uno scarabeo, incisa di caratteri come un talismano, fermava il collare sotto il mento. - Aspettiamo Delfina - ella disse. - Poi andremo fino al cancello della Cibele. Volete? Ella aveva pel convalescente riguardi assai gentili. Andrea era ancóra molto pallido e molto scarno, e gli occhi gli si erano straordinariamente ingranditi in quella magrezza; e l'espression sensuale della bocca un po' tumida faceva uno strano e attirante contrasto con la parte superiore del viso. - Si - rispose. - Anzi vi son grato. Poi, dopo un poco di esitazione: - Mi permettete qualche silenzio, stamani? - Perché mi chiedete questo? - Mi pare di non aver la voce e di non saper dire nulla. Ma i silenzii, certe volte, possono essere gravi e infastidire e anche turbare se si prolungano. Perciò vi chiedo se mi permettete di tacere durante il cammino, e d'ascoltarvi. - Allora, taceremo insieme - disse ella, con un sorriso tenue. E guardò in alto, verso la villa, con una impazienza visibile - Quanto tarda Delfina! - Francesca s'era già levata, quando siete discesa? - domandò Andrea. - Oh, no! E' d'una pigrizia incredibile... Ecco Delfina. La vedete? La bimba discendeva rapidamente, seguita dalla sua governante. Invisibile giù per le scale, riappariva su i terrazzi ch'ella attraversava correndo. I capelli disciolti le ondeggiavano per le spalle, nel vento della corsa, sotto una larga paglia coronata di papaveri. Quando fu all'ultimo gradino, aperse le braccia verso la madre e la baciò tante volte su le guance. Poi disse: - Buon giorno, Andrea. E gli porse la fronte, con un atto infantile d'adorabile grazia. Era una creatura fragile e vibrante come uno strumento formato di materie sensibili. Le sue membra eran così delicate che parevan quasi non poter nascondere e neppur velare lo splendor dello spirito entro vivente, come una fiamma in una lampada preziosa, d'una vita intensa e dolce. - Amore! - sussurrò la madre, guardandola con uno sguardo indescrivibile, nel quale esalavasi tutta la tenerezza dell'anima occupata da quell'unico affetto. E Andrea ebbe dalla parola, dallo sguardo, dall'espressione, dalla carezza una specie di gelosia, una specie di scoramento, come s'egli sentisse l'anima di lei allontanarsi, sfuggirgli per sempre, divenire inaccessibile. La governante chiese licenza di risalire; ed essi presero il viale degli aranci. Delfina correva innanzi, spingendo un suo cerchio; e le sue gambe diritte, strette nella calza nera, un po' lunghe dell'affilata lunghezza d'un disegno efebico, si movevano con ritmica agilità. - Mi sembrate un po' triste ora, - disse la senese al giovine - mentre dianzi, nello scendere, eravate lieto. Vi tormenta qualche pensiero? O non vi sentite bene? Ella chiedeva queste cose con una maniera quasi fraterna, grave e soave, persuadente alla confidenza. Una voglia timida, quasi una vaga tentazione, prese il convalescente, di mettere il suo braccio sotto il braccio della donna e di lasciarsi condurre da lei in silenzio, per quell'ombra, per quel profumo, su quel suolo consparso di zàgare, in quel sentiere che misuravano i vecchi Termini vestiti di musco. Gli pareva quasi d'esser tornato ai primi giorni dopo la malattia, a quei giorni indimenticabili di languore, di felicità, d'inconscienza; e d'aver bisogno d'un appoggio amico, d'una guida affettuosa, d'un braccio familiare. Quel desiderio gli crebbe così che le parole gli salivano alle labbra spontaneamente per esprimerlo. Ma invece rispose: - No, Donna Maria; mi sento bene. Grazie. E' il settembre che mi stordisce un poco... Ella lo guardò come se dubitasse della verità di quella risposta. Quindi, per evitare il silenzio dopo la frase evasiva, domandò: - Preferite, fra i mesi neutri, l'aprile o il settembre? - Il settembre. E' più feminino, più discreto, più misterioso. Pare una primavera veduta in un sogno. Tutte le piante, perdendo lentamente la forza, perdono anche qualche parte della loro realtà. Guardate il mare, la giù. Non dà imagine d'un'atmosfera piuttosto che d'una massa d'acqua? Mai, come nel settembre, le alleanze del cielo e del mare sono mistiche e profonde. E la terra? Non so perché, guardando un paese, di questo tempo, penso sempre a una bella donna che abbia partorito e che si riposi in un letto bianco, sorridendo d'un sorriso attonito, pallido, inestinguibile. E' un'impressione giusta? C'è qualche cosa dello stupore e della beatitudine puerperale in una campagna di settembre. Erano quasi alla fine del sentiere. Certe erme aderivano a certi fusti così da formar con essi quasi un sol tronco, arboreo e lapideo; e i frutti numerosi, taluni già tutti d'oro, altri maculati d'oro e di verde, altri tutti verdi, pendevano in su le teste de' Termini che parean custodire alberi intatti e intangibili, esserne i genii tutelari. - Perché Andrea fu assalito da una inquietudine e da un'ansietà improvvise avvicinandosi al luogo dove, due settimane innanzi, aveva scritto i sonetti di liberazione? Perché lottò fra il timore e la speranza ch'ella li scoprisse e li leggesse? Perché alcuni di quei versi gli tornarono alla memoria distaccati dagli altri, come rappresentando il suo sentimento presente, la sua aspirazione presente, il nuovo sogno ch'egli chiudeva nel cuore?
« O voi che fate tutti i venti aulire, che avete in signoria tutte le porte, io metto a' vostri piedi la mia sorte: Madonna, me 'l vogliate consentire! »
Era vero! Era vero! Egli l'amava; egli le metteva a' piedi tutta l'anima sua; egli aveva un solo desiderio, umile e immenso: - esser terra sotto le vestigia di lei. - Com'è bello, qui! - esclamò Donna Maria, entrando nel dominio dell'Erma quadrifronte, nel paradiso degli acanti; - Che odore strano! Si spandeva all'aria infatti un odore di muschio, come per la presenza invisibile d'un insetto d'un rettile muschiato. L'ombra era misteriosa, e le linee di luce traversanti il fogliame già tocco dal mal d'autunno erano come raggi lunari traversanti i vetri istoriati d'una cattedrale. Un sentimento misto, pagano e cristiano, emanava dal luogo, come da una pittura mitologica d'un quattrocentista pio. - Guardate, guardate Delfina! - ella soggiunse, con nella voce la commozione di chi vede una cosa di bellezza. Delfina aveva intrecciata ingegnosamente con ramoscelli d'arancio fioriti una ghirlanda; e, per una improvvisa fantasia infantile, ora voleva inghirlandarne la divinità di pietra. Ma, poiché non giungeva al sommo, si sforzava di riuscir nell'impresa alzandosi su le punte de' piedi, sollevando il braccio, allungandosi come più poteva; e la sua forma gracile, elegante e viva faceva contrasto con la forma rigida, quadrata e solenne del simulacro, come uno stelo di giglio a piè d'una quercia. Ogni sforzo era vano. Allora, sorridendo, le venne in soccorso la madre. Le prese dalle mani la ghirlanda e la posò su le quattro fronti pensose. Involontariamente, il suo sguardo cadde su le inscrizioni. - Chi ha scritto qui? Voi? - domandò ad Andrea, sorpresa e lieta. - Sì; è la vostra scrittura. E, sùbito, si mise in ginocchio su l'erba a leggere; curiosa, quasi avida. Per imitazione, Delfina si chinò dietro la madre, cingendole il collo con le braccia e avanzando il viso contro una guancia di lei e così quasi coprendola. La madre mormorava le rime. E quelle due figure muliebri, chine a piè dell'alta pietra ghirlandata, nella dubbia luce, tra gli acanti simbolici, facevano un componimento di linee e di colori tanto armonioso che il poeta per qualche istante restò sotto il dominio unico del godimento estetico e della pura ammirazione. Ma ancóra l'oscura gelosia lo punse. Quella creatura sottile, così avviticchiata alla madre, così intimamente confusa con l'anima di lei, gli parve una nemica; gli parve un insormontabile ostacolo che s'inalzasse contro il suo amore, contro il suo desiderio, contro la sua speranza. Egli non era geloso del marito ed era geloso della figlia. Egli voleva possedere non il corpo ma l'anima, di quella donna; e possedere l'anima intera, con tutte le tenerezze, con tutte le gioie, con tutti i timori, con tutte le angosce, con tutti i sogni, con tutta quanta insomma la vita dell'anima; e poter dire: - Io sono la vita della sua vita. La figlia, invece, aveva quel possesso, incontrastato, assoluto, continuo. Pareva che mancasse alla madre un elemento essenziale della sua esistenza, quando per poco l'adorata era lontana. Una transfigurazione subitanea avveniva nella sua faccia, visibilissima, quando dopo un'assenza breve ella riudiva la voce infantile. Talvolta, involontariamente, per una segreta rispondenza, quasi direi per legge d'un comun ritmo vitale, ella ripeteva il gesto della figlia, un sorriso, un'attitudine, un'aria del capo. Ella aveva talvolta, su la quiete o sul sonno filiale, momenti di contemplazione così intensa che pareva aver perduta la conscienza d'ogni altra cosa per divenir simile all'essere ch'ella contemplava. Quando ella rivolgeva la parola all'adorata, la parola era una carezza e la bocca perdeva ogni traccia di dolore. Quando ella riceveva i baci, un tremito le agitava le labbra e gli occhi le si empivano d'un gaudio indescrivibile tra i cigli palpitanti, come gli occhi d'una beata in assunzione. Quando ella conversava con altri o ascoltava, pareva di tratto in tratto aver come una sospension del pensiero improvvisa, come una momentanea assenza dello spirito; ed era per la figlia, per lei, sempre per lei. « Chi mai poteva rompere quella catena ? Chi poteva conquistare una parte di quel cuore, anche minima? » Andrea soffriva come d'una perdita irrimediabile, come d'una rinunzia necessaria, come d'una speranza estinta. « Anche ora, anche ora, la figlia non toglieva a lui qualche cosa? » Ella infatti, per gioco, voleva costringer la madre a restare in ginocchio. Le si abbandonava sopra e la premeva con le braccia intorno al collo, gridando fra le risa: - No, no, no; tu non ti alzerai. E, come la madre apriva la bocca per parlare, ella le metteva su la bocca le sue piccole mani per impedir che parlasse; e la faceva ridere; e poi la bendava con la treccia; e non voleva finire, accesa e inebriata dal gioco. Guardandola, Andrea aveva l'impressione come s'ella con quegli atti scuotesse dalla madre e devastasse e disperdesse tutto ciò che nello spirito di lei la lettura de' versi aveva forse fatto fiorire. Quando finalmente Donna Maria riuscì a liberarsi dalla dolce tirannella, gli disse, leggendogli sul volto la contrarietà: - Perdonatemi, Andrea. Delfina certe volte ha di queste follie. Quindi, con una mano leggera, ricompose le pieghe della gonna. Era soffusa d'una tenue fiamma sotto gli occhi, e anche aveva il respiro un poco alenante. Soggiunse, sorridente d'un sorriso che in quella insolita animazione del sangue fu d'una luminosità singolare: - E perdonatela, in compenso del suo augurio inconsapevole; perché ella dianzi ha avuta l'inspirazione di mettere una corona nuziale su la vostra poesia che canta una comunione nuziale. Il simbolo è un suggello dell'alleanza. - A Delfina e a voi, grazie - rispose Andrea che si sentiva chiamar da lei per la prima volta non col titolo gentilizio ma col semplice nome. Quella familiarità inaspettata e le parole buone gli rimisero nell'animo la confidenza. Delfina s'era allontanata per uno de' viali, correndo. - Questi versi dunque sono un documento spirituale - seguitò Donna Maria. - Me li darete. perché io li conservi. Egli voleva dirle: - Vengono a voi, oggi, naturalmente. Sono vostri, parlano di voi, pregano voi. - Ma disse, invece, semplicemente: - Ve li darò Ripresero il cammino, verso la Cibele. Prima d'uscire dal dominio, Donna Maria si rivolse all'Erma, come se avesse udito un richiamo; e la sua fronte pareva piena di pensiero. Andrea le chiese, con umiltà: - Che pensate? Ella rispose: - Penso a voi. - Che pensate di me? - Penso alla vostra vita d'un tempo, ch'io non conosco. Avete molto sofferto? - Ho molto peccato. - E amato anche, molto? - Non so. Forse l'amore non è quale io l'ho provato. Forse io debbo ancóra amare. Non so, veramente. Ella tacque. Camminarono, l'uno accanto all'altra, per un tratto. A destra del sentiere si leavano alti lauri, interrotti da un cipresso a intervalli eguali; e il mare or sì or no rideva in fondo, tra i fogliami leggerissimi, azzurro come il fiore del lino. A sinistra, contro il rialto era una specie di parete, simile alla spalliera d'un lunghissimo sedile di pietra, portante in cima ripetuto per tutta la lunghezza lo scudo degli Ateleta e un alerione, alterni. A ciascuno scudo e a ciascuno alerione corrispondeva, più sotto, una maschera scolpita dalla cui bocca usciva una cannella d'acqua versandosi nelle vasche sottostanti che avean forma di sarcofaghi posti l'uno accanto all'altro, ornate di storie mitologiche in basso rilievo. Le bocche dovevan esser cento, perché il viale si chiamava delle Cento Fontane; ma alcune non versavano più, chiuse dal tempo, altre versavano appena. Molti scudi erano infranti e il musco aveva coperta l'impresa; molti alerioni eran decapitati; le figure dei bassi rilievi apparivano tra il musco come pezzi d'argenteria mal nascosti sotto un vecchio velluto lacerato. Nelle vasche, su l'acqua più limpida e più verde d'uno smeraldo, tremolava il capelvenere o galleggiava qualche foglia di rosa caduta dai cespugli di sopra; e le cannelle superstiti facevano un canto roco e soave che correva sul romore del mare, come una melodia su l'accompagnamento. - Udite? - chiese Donna Maria, soffermandosi, tendendo l'orecchio, presa all'incanto di quei suoni. - La musica dell'acqua amara e dell'acqua dolce! Ella stava in mezzo del sentiere, un po' china verso le fontane, attratta più dalla melodia, con l'indice sollevato verso la bocca nell'atto involontario di chi teme sia turbata la sua ascoltazione. Andrea, ch'era più presso alle vasche, la vedeva sorgere sopra un fondo di verdura gracile e gentile quale un pittore umbro avrebbe potuto metter dietro un'Annunciazione o una Natività. - Maria - mormorò il convalescente, che aveva il cuore gonfio di tenerezza. - Maria, Maria... Egli provava un'indicibile voluttà a mescere il nome di lei in quella musica delle acque. Ella premé l'indice su la bocca, per indicargli di tacere; senza guardarlo. - Perdonatemi, - egli disse, sopraffatto dalla commozione - ma io non reggo più. E' l'anima mia che vi chiama! Una strana eccitazion sentimentale l'avea vinto; tutte le sommità liriche del suo spirito s'erano accese e fiammeggiavano; l'ora, la luce, il luogo, tutte le cose intorno gli suggerivano l'amore; dagli estremi limiti del mare insino all'umile capelvenere delle fonti, per lui si disegnava un sol circolo magico; ed egli sentiva che il centro era quella donna. - Voi non saprete mai - soggiunse, con la voce sommessa, quasi temendo di offenderla - non saprete mai fino a qual punto la mia anima è vostra. - Ella divenne anche più pallida, come se tutto tutto il sangue delle vene le si fosse raccolto sul cuore. Non disse nulla; evitò di guardarlo. Chiamò, con la voce un poco alterata: - Delfina! La figlia non rispose, perché s'era forse internata fra gli alberi all'estremità del sentiere. - Delfina! - ripeté, più forte, con una specie di sbigottimento. Nell'aspettazione, dopo il grido, si udivano le due acque cantare in un silenzio che pareva ingrandirsi. - Delfina! Un fruscìo venne di tra i fogliami come pel passaggio d'un capriuolo; e la bimba sbucò dal folto dei lauri agilmente, portando tra le mani la paglia colma di piccoli frutti rossi che aveva colti da un àlbatro. La fatica e la corsa l'invermigliavano; molti pruni le restavano tra la lana della tunica; e qualche foglia le s'impigliava nella ribellion de' capelli. - Oh mamma, vieni, vieni meco! Ella voleva trascinare la madre a cogliere gli altri frutti. - Là giù, ce n'è un bosco; tanti tanti tanti. Vieni meco, mamma; vieni! - No, amore; ti prego. E' tardi. - Vieni! - Ma è tardi. - Vieni! Vieni! Donna Maria dall'insistenza fu costretta a cedere e a farsi condurre per mano. - C'è una via per andare al bosco degli àlbatri, senza passare nel folto - disse Andrea. - Hai inteso, Delfina? C'è una via migliore. - No, mamma. Vieni meco! Delfina la trasse tra gli allòri selvatici, dalla parte del mare. Andrea seguiva; ed era felice di poter guardare liberamente d'innanzi a sé la figura dell'amata, di poterla bevere con gli occhi, di poterne cogliere tutti i moti diversi e i ritmi sempre interrotti del passo sul pendio ineguale, tra gli ostacoli dei tronchi, tra gli intralci dei virgulti, tra le resistenze dei rami. Ma mentre i suoi occhi si pascevano di quelle cose, l'anima riteneva sopra tutte le altre un'attitudine, un'espressione. - Oh il pallore, il pallore di dianzi quando egli aveva profferite le parole sommesse! E il suono indefinibile di quella voce che chiamava Delfina! - E' ancóra lontano? - chiese Donna Maria. - No, no, mamma. Ecco, già ci siamo. Una specie di timidezza invase il giovine, al termine del camminio. Non anche, dopo le parole, i suoi occhi s'erano incontrati con gli occhi di lei. Che pensava ella? Che sentiva? Con quale sguardo l'avrebbe ella guardato? - Eccoci! - gridò la bimba. Il laureto infatti andavasi diradando, il mare appariva più libero; d'un tratto il bosco dei corbezzoli andracni rosseggiò come un bosco di coralli terrestri portanti alla sommità de' rami ampie ciocche di fiori. - Che meraviglia! - mormorò Donna Maria. Il bel bosco fioriva e fruttificava entro una insenatura ricurva come un ippodromo, profonda e solatìa, dove tutta la mitezza di quel lido raccoglievasi in delizia. I tronchi degli arbusti, vermigli i più, taluni gialli, sorgevano svelti portando grandi foglie lucide, verdi di sopra e glauche di sotto, immobili nell'aria quieta. I grappoli floridi, simili a mazzi di mughetti, bianchi e rosei ed innumerevoli, pendevano dalle cime dei rami giovini; le bacche rosse e aranciate pendevano dalle cime de' rami vecchi. Ogni pianta n'era carica; e la magnifica pompa dei fiori, dei frutti, delle foglie e degli steli dispiegavasi, contro il vivo azzurro marino, con la intensità e la incredibilità d'un sonno, come l'avanzo d'un orto favoloso. - Che meraviglia! Donna Maria entrava lentamente, non più tenuta per mano da Delfina; che correva folle di gioia, avendo un solo desiderio: quel di spogliare tutto il bosco. - Mi perdonate? - osò dire Andrea. - Io non voleva offendervi. Anzi, vedendovi così in alto, così lontana da me, così pura, io pensava che non vi avrei mai mai parlato del mio segreto, che non vi avrei mai chiesto un consenso né mai vi avrei attraversato il cammino. Da che vi ho conosciuta, ho molto sognato per voi, di giorno e di notte, ma senza una speranza e senza un fine. Io so che voi non mi amate e che non potete amarmi. Eppure, credetemi, io rinunzierei a tutte le promesse della vita per vivere in una piccola parte del vostro cuore... Ella seguitava a camminare, lentamente, sotto i brillanti alberi che le stendevano in sul capo le ciocche pendule, i bianchi e rosei grappoli delicati. - Credetemi, Maria, credetemi. Se ora mi dicessero di abbandonare ogni vanità ed ogni orgoglio, ogni desiderio ed ogni ambizione, qualunque più caro ricordo del passato, qualunque più dolce lusinga del futuro, e di vivere unicamente in voi e per voi, senza domani, senza ieri, senza alcun altro legame, senza alcuna altra preferenza, fuor del mondo, interamente perduto nel vostro essere, per sempre, fino alla morte, io non esiterei, io non esiterei. Credetemi. Voi mi avete guardato, parlato, e sorriso e risposto; voi vi siete seduta accanto a me, e avete taciuto e pensato; e avete vissuto, accanto a me, della vostra esistenza interiore, di quella invisibile e inaccessibile esistenza ch'io non conosco, ch'io non conoscerò mai; e la vostra anima ha posseduta la mia fin nel profondo, senza mutarsi, senza pur saperlo, come il mare beve un fiume... Che vi fa il mio amore? Che vi fa l'amore? E' una parola troppe volte profanata, un sentimento falsato troppe volte. Io non vi offro l'amore. Ma non accetterete voi l'umile tributo, di religione, che lo spirito volge a un essere più nobile e più alto? - Ella seguitava a camminare, lentamente, col capo chino, pallidissima, esangue, verso un sedile che stava sul limite del bosco riguardante la sponda. Come vi giunse, vi si piegò a sedere, con una specie di abbandono, in silenzio; e Andrea le si mise da presso ancóra parlandole. Il sedile era un gran semicerchio di marmo bianco, limitato per tutta la lunghezza da una spalliera, liscio, lucido, senz'altri ornamenti che una zampa di leone scolpita a ciascuna estremità in guisa di sostegno; e ricordava quelli antichi, su' quali nelle isole dell'Arcipelago e nella Magna Grecia e in Pompei le donne oziavano e ascoltavano lèggere i poeti, all'ombra degli oleandri, in conspetto del mare. Qui gli àlbatri facevano ombra di fiori e di frutti, più che di foglie; e gli steli di corallo pel contrasto del marmo parean più vivi. - Io amo tutte quelle cose che voi amate; voi possedete tutte quelle cose che io cerco. La pietà che mi venisse da voi mi sarebbe più cara della passione di qualunque altra. La vostra mano sul mio cuore farebbe, sento, germinare una seconda giovinezza, assai più pura della prima, assai più forte. Quell'eterno ondeggiamento, ch'è la mia vita interiore, si riposerebbe in voi; troverebbe in voi la calma e la sicurtà. Il mio spirito irrequieto e scontento, travagliato da attrazioni e da repulsioni e da gusti e da disgusti in continua guerra, eternamente, irrimediabilmente solo, troverebbe nel vostro un rifugio contro il dubbio che contamina ogni idealità e abbatte ogni volere e scema ogni forza. Altri sono più infelici; ma io non so se ci sia stato al mondo uomo men felice di me. Egli faceva sue le parole d'Obermann. In quella specie d'ebrezza sentimentale, tutte le malinconie gli risalivano alle labbra; e il suono stesso della sua voce, umile e un po' tremante, gli aumentava la commozione. - Io non oso dire i miei pensieri. Stando vicino a voi, in questi pochi giorni, da che vi conosco, ho avuto momenti d'oblio così pieno che quasi m'è parso di tornare ai primissimi tempi della convalescenza, quando viveva in me il sentimento profondo d'un'altra vita. Il passato, il futuro non erano più; anzi era come se l'uno non fosse mai stato e l'altro non dovesse mai essere. Il mondo era come un'illusione informe e oscura. Qualche cosa come un sogno vago ma grande mi si levava su l'anima: un velo ondeggiante, ora denso ora diafano, a traverso il quale or sì or no splendeva il tesoro intangibile della felicità. Che sapevate voi di me, in quei momenti? Forse, eravate lontana, con l'anima; assai assai lontana! Ma pure, la sola presenza vostra visibile bastava a darmi l'ebrezza; io la sentiva fluire nelle mie vene, come un sangue, e invadere il mio spirito, come un sentimento sovrumano. Ella taceva, col capo eretto, immobile, con il busto sollevato, con le mani posate su le ginocchia, nell'attitudine di chi sia tenuto desto da un fiero sforzo di coraggio contro un languor che l'invada. Ma la sua bocca, l'espression della sua bocca, invano serrata con violenza, tradiva una sorta di dolorosa voluttà. - Io non oso dire i miei pensieri. Maria, Maria, mi perdonate voi? Mi perdonate? Due piccole mani, di dietro al sedile, si stesero a bendarla e una voce palpitante di gioia gridò: - Indovina! Indovina! Ella sorrise, abbandonata alla spalliera perché Delfina l'attirava tenendole le sue dita su le palpebre, e Andrea vide, lucidamente, con una strana chiarezza, quel sorriso lieve disperdere su quella bocca tutto l'oscuro contrasto dell'espression primitiva, cancellar qualunque traccia che a lui potesse parere l'indizio d'un consentimento o d'una confessione, fugar qualunque ombra dubbia che potesse nell'anima di lui convertirsi in barlume di speranza. E restò come un uomo che sia ingannato da una coppa creduta quasi colma, la quale non offra che aria alla sua sete. - Indovina! La figlia copriva di baci forti e rapidi il capo della madre, con una specie di frenesia, forse un poco facendole male. - So chi sei, so chi sei - diceva la bendata. - Lasciami! - Che mi dài, se ti lascio? - Quello che vuoi. - Voglio un giumento, per portarmi le albatrelle a casa. Vieni a vedere quante! Girò il sedile e prese per mano la madre. Ella si levò con qualche fatica; e, poi che fu in piedi, batté più volte le palpebre come per togliersi dalla vista un barbaglio. Anche Andrea si levò. Seguirono ambedue Delfina. La terribile creatura aveva spogliato di frutti quasi la metà del bosco. Le piante basse non mostravano più su i rami una bacca. Ella s'era aiutata con una canna trovata chi sa dove e aveva fatta una raccolta prodigiosa, riunendo infine tutte le albatrelle ad un sol mucchio che pareva un mucchio di carboni ardenti, per la intensità della tinta, sul suolo bruno. Ma le ciocche de' fiori non l'avevano attratta: pendevano, bianche, rosee, giallette, quasi diafane, più delicate de' grappoli d'un'acacia, più gentili de' mughetti, immerse nella vaga luce come nella trasparenza d'un latte ambrato. - Oh, Delfina, Delfina! - esclamò Donna Maria, guardando quella devastazione. - Che hai fatto? La bimba rideva, felice, d'innanzi alla piramide vermiglia. - Bisognerà bene che tu lasci qui ogni cosa. - No, no... Ella non voleva, da prima. Poi ripensò; e disse quasi fra sè, con gli occhi luccicanti: - Verrà la cerva a mangiare. Aveva, forse, veduto apparire la bella bestia, libera pel parco, in quelle vicinanze; e il pensiero di aver radunato per lei il cibo l'appagò e le accese l'imaginazione già nudrita delle favole ove le cerve sono fate benigne e possenti che giacciono su cuscini di raso e bevono in coppe di zaffiro. Ella tacque, assorta, vedendo già forse la bella bestia bionda satollarsi d'albatrelle, sotto le piante fiorite. - Andiamo - disse Donna Maria - ch'è tardi. Teneva Delfina per la mano, e camminava sotto le piante fiorite. Sul limite del bosco si soffermò, a guardare il mare. Le acque, accogliendo i riflessi delle nuvole, davano apparenza d'una immensa stoffa di seta, morbida, fluida, cangiante, mossa in larghe pieghe; e le nuvole, bianche e d'oro, l'una divisa dall'altra ma emergenti da una comune zona, somigliavano statue criselefantine avvolte in veli tenui, alzate sopra un ponte senz'archi. In silenzio, Andrea spiccò da un àlbatro una ciocca che piegava il ramo col suo peso, tanto era folta; e la offerse a Donna Maria. Ella, nel prenderla, lo guardò; ma non aprì bocca. Si rimisero pe' sentieri. Delfina ora parlava, parlava abondantemente, ripetendo senza fine le stesse cose, infatuata della cerva, mescolando le più strane fantasie, inventando lunghe storie monotone, confondendo una favola con l'altra, componendo intrichi ne' quali si smarriva ella stessa. Parlava, parlava, con una specie d'inconscienza, quasi che l'aria del mattino l'avesse inebriata; e intorno a quella sua cerva chiamava figli e figlie di re, cenerentole, reginelle, maghi, mostri, tutti i personaggi de' regni imaginarii, in folla, in tumulto, come nella metamorfosi continua d'un sogno. Parlava allo stesso modo che un uccello gorgheggia, con modulazioni canore, talvolta con successioni di suoni che non eran parole, ne' quali esalavasi l'onda musicale già iniziata, come il fremito d'una corda nella pausa, quando in quello spirito infantile il legame tra il segno verbale e l'idea rimaneva interrotto. Gli altri due non parlavano, ne ascoltavano. Ma pareva loro che quella cantilena coprisse i lor pensieri, il murmure de' lor pensieri, poiché pensando essi avevan l'impressione come se qualche cosa di sonoro sfuggisse dall'intimo del lor cervello, qualche cosa che nel silenzio sarebbesi potuto fisicamente percepire; e, se Delfina per poco taceva, provavano uno strano senso d'inquietudine e di sospensione, come se il silenzio dovesse rivelare e quasi direi denudare l'anima loro. Il viale delle Cento Fontane apparve in una prospettiva fuggente, ove gli spilli e gli specchi dell'acqua mettevano un fino luccichio vitreo, una mobile transparenza ialina. Un pavone, che stava posato su uno degli scudi, s'involò facendo cadere nella vasca sottostante qualche rosa sfogliata. Andrea riconobbe, alcuni passi più in là, la vasca innanzi a cui Donna Maria gli aveva detto: - Udite? Nel dominio dell'Erma l'odor del muschio non si sentiva più. L'Erma, cogitabonda sotto la ghirlanda, era tutta constellata dai raggi che penetravano tra gli intervalli de' fogliami. I merli cantavano, rispondendosi. Delfina, presa da un nuovo capriccio, disse: - Mamma, rendimi la ghirlanda. - No, lasciamola li. Perché la rivuoi? - Rendimela, ché la porto a Muriella. - Muriella la guasterà. - Rendimela; ti prego! La madre guardò Andrea. Egli si avvicinò alla pietra, le tolse la ghirlanda e rese questa a Delfina. Ne' loro spiriti esaltati la superstizione, ch'è un degli oscuri turbamenti portati dall'amore anche nelle creature intellettuali, diede all'insignificante episodio la misteriosità di una allegoria. Parve loro che in quel semplice fatto si occultasse un simbolo. Non sapevan bene quale; ma ci pensavano. Un verso tormentava Andrea.
« Non vedrò dunque il gesto che consente? »
Un'ansia enorme gli premeva il cuore, come più s'avvicinava il termine del sentiere; ed egli avrebbe dato metà del suo sangue per una parola della donna. Ma fu ella cento volte sul punto di parlare, e non parlò. - Guarda, mamma, là giù, Ferdinando, Muriella, Riccardo... - disse Delfina, scorgendo in fondo al sentiere i figli di Donna Francesca; e si spiccò a corsa, agitando la corona. - Muriella! Muriella! Muriella!
IV
Maria Ferres era sempre rimasta fedele all'abitudine giovenile di notar cotidianamente in un suo Giornale intimo i pensieri, le gioie, le tristezze, i sogni, le agitazioni, le aspirazioni, i rimpianti, le speranze, tutte le vicende della sua vita interiore, tutti gli episodii della sua vita esterna, componendo quasi un Itinerario dell'Anima, ch'ella di tratto in tratto amava rileggere per averne una regola nel viaggio futuro e per ritrovar la traccia delle cose da gran tempo morte. Constretta dalle circostanze a ripiegarsi di continuo su sé medesima, sempre chiusa nella sua purità come in una torre d'avorio incorruttibile e inaccessibile, ella provava un sollievo e un conforto in quella specie di confessione cotidiana affidata alla pagina bianca d'un libro segretissimo. Si lamentava de' suoi travagli, s'abbandonava alle lacrime, cercava di penetrare gli enigmi del suo cuore, interrogava la sua conscienza, riprendeva coraggio dalla preghiera, si ritemprava nella meditazione, allontanava da se ogni debolezza ed ogni vana imagine, metteva il suo spirito nelle mani del Signore. E tutte le pagine splendevano d'una comune luce, ossia di Verità.
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"15 settembre 1886 (Schifonoja). - Come mi sento stanca! Il viaggio mi ha un poco affaticata e quest'aria nuova del mare e della campagna m'ha un poco stordita. Ho bisogno di riposo; e già mi par di pregustare la bontà del sonno e la dolcezza del risveglio di domani. Mi sveglierò in una casa amica, nella cordiale ospitalità di Francesca, in questa Schifanoja che ha rose così belle e cipressi così grandi; e mi sveglierò avendo innanzi a me qualche settimana di pace, venti giorni d'esistenza spirituale, forse più. Sono molto riconoscente a Francesca, dell'invito. Rivedendola, ho riveduta una sorella. Quante mutazioni in me, e quanto profonde, dai belli anni fiorentini! Francesca, a proposito de' miei capelli, ricordava oggi le passioni e le malinconie di quel tempo, e Carlotta Fiordelise, e Gabriella Vanni, e tutta quella storia lontana che ora non mi par vissuta ma letta in un vecchio libro obliato o vista in sogno. I capelli non son caduti, ma son cadute da me ben altre cose più vive. Tanti capelli nel mio capo, tante spighe di dolore nel mio destino. Ma perché mi riprende la tristezza? E perché le memorie mi dànno pena? E perché di tratto in tratto la mia rassegnazione è scossa? E' inutile lamentarsi sopra una tomba; e il passato è come una tomba che non rende più i suoi morti. Dio mio, fa tu ch'io me ne ricordi una volta per sempre! Francesca e ancóra giovine, e conserva ancóra quella sua bella e franca giovialità che in collegio aveva un fascino così strano sul mio spirito un po' oscuro. Ella ha una grande e rara virtù: è gaia, ma sa intendere i dolori altrui e sa anche lenirli con la sua misericordia consapevole. Ella è, sopra tutto, una donna intellettuale, una donna d'alti gusti, una dama perfetta, un'amica che non pesa. Si compiace forse un po' troppo dei motti e delle frasi acute, ma le sue saette hanno sempre la punta d'oro e son lanciate con una grazia inimitabile. Certo, fra quante signore mondane ho conosciute, ella è la più fine; fra le amiche, è la prediletta. I figli non le somigliano molto, non sono belli. Ma la bimba, Muriella, è assai gentile; ha un riso chiaro e gli occhi della madre. Ha fatto gli onori di casa a Delfina con una compitezza di piccola dama. Ella, certo, erediterà la « gran maniera » materna. Delfina sembra felice. Ha esplorata già la maggior parte del giardino, è andata giù fino al mare, è discesa per tutte le scale; è venuta a raccontarmi le meraviglie, ansando, divorando le parole, con negli occhi una specie di barbaglio. Ella ripeteva spesso il nome della nuova amica: Muriella. E' un grazioso nome, e su la sua bocca diventa più grazioso ancóra. Dorme, profondamente. Quando i suoi occhi son chiusi, i cigli le fanno sul sommo della gota un'ombra lunga lunga. Si meravigliava della lunghezza, stasera, il cugino di Francesca e ripeteva un verso di Guglielmo Shakespeare nella Tempesta, molto bello, su i cigli di Miranda. C'è troppo odore, qui. Delfina ha voluto ch'io le lasciassi il mazzo delle rose accanto al letto, prima d'addormentarsi. Ma io, ora che dorme, lo toglierò e lo metterò su la loggia, al sereno. Sono stanca, eppure ho scritto tre o quattro pagine. Ho sonno. eppure vorrei prolungare la veglia per prolungare questo languore dell'anima indefinito, ondeggiante in non so che tenerezza diffusa fuori di me, intorno a me. Da tanto, da tanto tempo non avevo sentito un po' di benevolenza circondarmi! Francesca è molto buona, e io le sono molto riconoscente.
*
Ho portato su la loggia il vaso delle rose; e son rimasta là qualche minuto ad ascoltare la notte, tenuta là dal rammarico di perdere nella cecità del sonno ore che passano sotto un cielo così bello. E' strano l'accordo tra la voce delle fontane e la voce del mare. I cipressi, d'innanzi a me, parevano le colonne del firmamento: le stelle brillavan proprio su le cime, le accendevano. Perché di notte i profumi hanno nella loro onda qualche cosa che parla, hanno un significato, hanno un linguaggio? No, i fiori non dormono, di notte.
16 settembre. - Pomeriggio delizioso, passato quasi tutto a conversare con Francesca su le logge, su le terrazze, per i viali, in tutti i luoghi aperti di questa villa che pare edificata da un principe poeta per dimenticare un affanno. Il nome del palazzo ferrarese le convien perfettamente. Francesca mi ha fatto leggere un sonetto del conte Sperelli, scritto su pergamena: una inezia molto fine. Questo Sperelli è uno spirito eletto ed intenso. Stamani, a tavola, ha detto due o tre cose bellissime. Egli è convalescente d'una ferita mortale avuta in un duello, a Roma, nello scorso maggio. Ha negli atti, nelle parole, nello sguardo quella specie d'abbandono affettuoso e delicato ch'è proprio de' convalescenti, di quelli che sono usciti dalle mani della morte. Dev'essere molto giovine; ma deve aver molto vissuto, e d'una vita inquieta. Porta i segni della lotta.
*
Serata deliziosa, di conversazione intima, di musica intima, dopo il pranzo. Io, forse, ho parlato troppo; o, per lo meno, troppo caldamente. Ma Francesca mi ascoltava e mi secondava; e il conte Sperelli, anche. Uno de' più alti piaceri, nella conversazione non volgare, appunto è sentire che uno stesso grado di calore anima tutte le intelligenze presenti. Allora soltanto, le parole prendono il suono della sincerità e dànno a chi le profferisce e a chi le ode il supremo diletto. II cugino di Francesca, è, in musica, un conoscitore raffinato. Ama molto i maestri settecentisti e in ispecie, tra i compositori per clavicembalo, Domenico Scarlatti. Ma il suo più ardente amore è Sebastiano Bach. Lo Chopin gli piace poco; il Beethoven gli penetra troppo a dentro e lo turba troppo. Nella musica sacra non trova da paragonare al Bach altri che il Mozart. - Forse - egli ha detto - in nessuna Messa la voce del soprannaturale giunge alla religiosità e alla terribilità a cui è giunto il Mozart nel Tuba mirum del Requiem. Non è vero che sia un greco, un platonico, un puro ricercatore della grazia, della bellezza, della serenità, chi ebbe così profondo il senso del soprannaturale da crear musicalmente il fantasma del Commendatore e chi, creando Don Giovanni e Donna Anna, seppe spinger tant'oltre l'analisi dell'essere interno... Egli ha detto queste parole ed altre, con quel singolare accento che hanno nel parlar d'arte gli uomini i quali sono di continuo assorti nella ricerca delle cose elevate e difficili. Poi, nell'ascoltarmi, aveva una strana espressione, come di stupore, e qualche volta d'ansietà. Io mi rivolgevo quasi sempre a Francesca, con gli occhi; eppure, sentivo lo sguardo di lui fisso su di me con una insistenza che mi dava fastidio ma non mi offendeva. Egli dev'essere ancóra malato, debole, in preda alla sua sensibilità. M'ha chiesto infine: - Cantate? - allo stesso modo che m'avrebbe chiesto: - Mi amate? Ho cantato un'Aria del Paisiello e una del Salieri. Ho suonato un po' di settecento. Avevo la voce calda e la mano felice. Egli non mi ha fatto alcun elogio. E' rimasto in silenzio. Perché? Delfina dormiva già, quassù. Quando son salita a vederla, l'ho trovata che dormiva ma con le ciglia umide come s'ella avesse pianto. Povero amore! Dorothy m'ha detto che la mia voce giungeva fin qui distintamente e che Delfina s'è scossa dal primo sopore e s'è messa a singhiozzare e voleva discendere. Sempre, quando io canto, ella piange. Ora dorme; ma di tratto in tratto il suo respiro divien più vivo, somiglia un singhiozzo spento, e mette nel mio stesso respiro un affanno vago, quasi un bisogno di rispondere a quel singhiozzo inconscio, a quella pena che non s'è acquietata nel sonno. Povero amore! Chi suona, giù, il pianoforte? Qualcuno accenna, con la sordina, la Gavotta di Luigi Rameau, una gavotta piena di affascinante malinconia, quella ch'io sonavo dianzi. Chi può essere? Francesca è risalita con me; è tardi. Mi sono affacciata alla loggia. La sala del vestibolo è buia; è chiara soltanto la sala attigua dove il marchese e Manuel giocano ancóra. La Gavotta cessa. Qualcuno scende per la scala, nel giardino. Mio Dio, perché son così attenta, così vigilante, così curiosa? Perchè i rumori mi scuotono così a dentro, questa notte? Delfina si sveglia, mi chiama.
17 settembre. - Stamani è partito Manuel. Siamo stati ad accompagnarlo fino alla stazione di Rovigliano. Verso il 10 di ottobre egli tornerà a prendermi; e andremo a Siena, da mia madre. Io e Delfina rimarremo a Siena probabilmente fino all'anno nuovo: due o tre mesi. Rivedrò la Loggia del Papa e la Fonte Gaia e il mio bel Duomo bianco e nero, la casa diletta della Beata Vergine Assunta, dove una parte dell'anima mia è ancóra a pregare, accanto alla cappella Chigi, nel luogo che sa i miei ginocchi. Ho sempre lucida nella memoria l'imagine del luogo; e quando tornerò m'inginocchierò nel punto preciso dove io soleva, esattamente, meglio che se ci fossero rimasti due cavi profondi. E là ritroverò quella parte dell'anima mia a pregare ancóra, sotto la volta azzurra constellata che si specchia nel marmo come un cielo notturno in un'acqua tranquilla. Nulla, certo, è mutato. Nella cappella preziosa, piena d'un'ombra palpitante, d'una oscurità animata da' riflessi gemmei delle pietre, ardevano le lampade; e la luce pareva raccogliersi tutta nel breve cerchio d'olio in cui si nutriva la fiammella, come in un topazio limpido. A poco a poco, sotto il mio sguardo intento, il marmo effigiato prendeva un pallor men freddo, quasi direi un tepore d'avorio; a poco a poco entrava nel marmo la pallida vita delle creature celesti, e nelle forme marmoree si diffondeva la vaga trasparenza d'una carne angelicale. Quanto era ardente e spontanea la mia preghiera! S'io leggeva la Filotea di San Francesco, mi sembrava che le parole scendessero sul mio cuore come le lacrime di miele, come stille di latte. S'io mi metteva in meditazione, mi sembrava di camminare per le vie segrete dell'anima come per un giardino di delizia ove gli usignoli cantassero su gli alberi fiorenti e le colombe tubassero in riva ai ruscelli della Grazia divina. La divozione m'infondeva una calma piena di freschezza e di profumi, mi faceva dischiudere nel cuore le sante primavere dei Fioretti, m'inghirlandava di rose mistiche e di gigli soprannaturali. E nella mia vecchia Siena, nella vecchia città della Vergine, io udiva sopra tutte le voci i richiami delle campane.
18 settembre. - Ora di tortura indefinibile. Mi par d'esser condannata a riappezzare, a riappiccare, a riunire, a ricomporre i frammenti d'un sogno, del quale una parte sia per avverarsi confusamente fuori di me e l'altra si agiti confusamente in fondo al mio cuore. E m'affatico m'affatico, senza riescir mai a ricomporlo per intiero.
19 settembre. - Altra tortura. Qualcuno mi cantò, gran tempo indietro; e non terminò la sua canzone. Qualcuno ora mi canta, riprendendo la canzone dal punto in cui fu interrotta; ma da gran tempo io ho dimenticato il principio. E l'anima inquieta, mentre cerca di ricordarsene per collegarlo al proseguimento, si smarrisce; e non ritrova gli antichi accenti né gode i nuovi.
20 settembre. - Oggi, dopo la colazione, Andrea Sperelli ha fatto a me e a Francesca l'invito di andare a veder nelle sue stanze i disegni che gli giunsero ieri da Roma. Si può dire che tutta un'arte sia passata oggi sotto i nostri occhi, tutta un'arte studiata e analizzata dalla matita d'un disegnatore. Ho avuto un de' più intensi godimenti della mia vita. Questi disegni sono di mano dello Sperelli; sono i suoi studii, i suoi schizzi, i suoi appunti, i suoi ricordi presi qua e là in tutte le gallerie d'Europa; sono, dirò così, il suo breviario, un meraviglioso breviario nel quale ogni antico maestro ha la sua pagina suprema, la pagina ov'è compendiata la maniera, ove son notate le bellezze dell'opera più alte e più originali, ov'è colto il punctum saliens di tutta quanta la produzione. Scorrendo questa larga raccolta, io non soltanto mi son fatta un'idea precisa delle diverse scuole, dei diversi movimenti, delle diverse correnti, delle diverse influenze per cui si sviluppa la Pittura in una data regione; ma son penetrata nell'intimo spirito, nella essenziale sostanza dell'arte d'ogni singolo pittore. Come profondamente ora comprendo, per esempio, il XIV e il XV secolo, i Trecentisti e i Quattrocentisti, i semplici i nobili i grandi Primitivi! I disegni sono conservati in belle custodie di cuoio inciso con borchie e fermagli d'argento imitanti quelli dei messali. La varietà della tecnica è ingegnosissima. Certi disegni, dal Rembrandt, sono eseguiti su una specie di carta un po' rossastra, riscaldata con matita sanguigna, acquerellata con bistro; e le luci son rilevate con bianco a tempera. Certi altri disegni, dai maestri fiamminghi, sono eseguiti su una carta rugosa molto simile alla carta preparata per la pittura a olio, dove l'acquerello di bistro prende il carattere degli schizzi a bitume. Altri sono a matita sanguigna, a matita nera, a tre matite con qualche tocco di pastello, acquerellati con bistro su tratti a penna, acquerellati con inchiostro di China, su carta bianca, su carta gialla, su carta grigia. Talvolta la matita sanguigna par che contenga porpora; la matita nera dà un segno vellutato; il bistro è caldo, fulvo, biondo, d'un color di tartaruga fina. Tutte queste particolarità le ho dal disegnatore; provo uno strano piacere a ricordarle, a scriverle; mi par d'essere inebriata di arte; ho il cervello pieno di mille linee, di mille figure; e in mezzo al tumulto confuso vedo pur sempre le donne dei Primitivi, le indimenticabili teste delle Sante e delle Vergini, quelle che sorridevano alla mia infanzia religiosa, nella vecchia Siena, dai freschi di Taddeo e di Simone. Nessun capolavoro d'un'arte più avanzata e più raffinata lascia nell'animo un'impressione così forte, così durevole, così tenace. Quei lunghi corpi snelli come steli di gigli; quei colli sottili e reclinati; quelle fronti convesse e sporgenti; quelle bocche piene di sofferenza e di affabilità; quelle mani (o Memling!) affilate, ceree, diafane come un'ostia, più significative di qualunque altro lineamento; e quei capelli rossi come il rame, fulvi come l'oro, biondi come il miele, quasi distinti a uno a uno dalla religiosa pazienza del pennello; e tutte quelle attitudini nobili e gravi o nel ricevere un fiore da un angelo o nel posar le dita sopra un libro aperto o nel chinarsi verso l'infante o nel sostener su' ginocchi il corpo di Gesù o nel benedire o nell'agonizzare o nell'ascendere al Paradiso, tutte quelle cose pure, sincere e profonde inteneriscono e impietosiscono fin nell'intimo spinto; e s'imprimono per sempre nella memoria, come uno spettacolo di tristezza umana veduto nella realità della vita, nella realità della morte. A una a una, oggi, passavano le donne dei Primitivi, sotto i nostri occhi. Io e Francesca eravamo sedute in un divano basso, avendo d'innanzi a noi un gran leggìo sul quale posava la custodia di cuoio con i disegni che il disegnatore, seduto incontro, svolgeva lentamente, comentando. Ad ogni tratto, io vedevo la sua mano prendere il foglio e posarlo su l'altra faccia della custodia con una delicatezza singolare. Perché, ad ogni tratto, sentivo dentro di me un principio di brivido come se quella mano stesse per toccarmi? A un certo punto, trovando forse incomoda la sedia, egli s'è messo in ginocchio sul tappeto e ha seguitato a svolgere. Parlando, si dirigeva quasi sempre a me; e non aveva l'aria di ammaestrarmi ma di ragionare con una egual conoscitrice; e in fondo a me si moveva un poco di compiacenza, mista di riconoscenza. Quando io faceva una esclamazione di meraviglia, egli mi guardava con un sorriso che ancóra ho presente e che non so definire. Due o tre volte Francesca ha appoggiato il braccio su la spalla di lui, con familiarità, senza badarci. Vedendo la testa del primogenito di Mosè, presa dal fresco di Sandro Botticelli nella Cappella Sistina, ella ha detto: - Ha un po' della tua aria, quando sei malinconico. - Vedendo la testa dell'arcangelo Michele, che è un frammento della Madonna di Pavia, del Perugino, ella ha detto: - Somiglia Giulia Moceto; è vero? - Egli non ha risposto e ha voltato il foglio con minor lentezza. Allora ella ha soggiunto, ridendo: - Lungi le imagini del peccato! Questa Giulia Moceto è forse una donna che un tempo egli amò? Voltato il foglio, ho provato un incomprensibile desiderio di rivedere l'arcangelo Michele, di esaminarlo con maggiore attenzione. Era curiosità soltanto? Io non so. Non oso guardarmi dentro, nel segreto; amo meglio indugiare, ingannando me stessa; non penso che o prima o poi tutte le terre vaghe cadono in dominio del Nemico; non ho il coraggio di affrontare la lotta; son pusillanime. Intanto, l'ora è dolce. Ho una imaginosa eccitazione intellettuale, come se avessi bevute molte tazze di tè forte. Non ho nessuna volontà di coricarmi. La notte è tiepidissima, come in agosto; il cielo è chiaro ma velato, simile a un tessuto di perle; il mare ha una respirazione lenta e sommessa, ma le fontane riempiono le pause. La loggia m'attira. Sogniamo un poco! Quali sogni? Gli occhi delle Vergini e delle Sante mi perseguitano. Vedo ancóra quegli occhi cavi, lunghi e stretti, con le palpebre abbassate, di sotto a cui guardano con uno sguardo affascinante, mite come quel d'una colomba, un po' obliquo come quel d'una serpe. « Sii semplice come la colomba e prudente come la serpe » ha detto Gesù Cristo. Sii prudente. Prega, còricati e dormi.
21 settembre. - Ahimè, bisogna pur sempre ricominciar l'opera dura, risalire l'erta già salita, riconquistare il suolo già conquistato ricombattere la battaglia già vinta!