15.
Fenoglio mancò due giorni, perché la burocrazia ha sempre pretese superiori alle previsioni.
– Buongiorno maresciallo, – disse Bruna, subito dopo aver congedato le due signore del turno precedente. – Sono felice di rivederla.
Era una forma di gentilezza o era contenta davvero? Fenoglio si infastidí molto con sé stesso. Di solito era abbastanza bravo a decifrare le intenzioni e le motivazioni delle persone, dietro le loro parole. Allora perché con lei non ci riusciva?
– Anche a me fa piacere… fa molto piacere, – replicò, sentendosi insopportabilmente goffo.
– Le hanno detto quando può rientrare in servizio?
– In teoria avrei diritto a un altro mese di convalescenza, ma se voglio posso riprendere fra una decina di giorni.
– E lei riprenderà fra una decina di giorni.
– Sí. Avrò un sacco di tempo per riposarmi, fra non molto.
Bruna serrò appena le labbra, poi andò alla scrivania e scrisse qualcosa su un pezzo di carta che ripiegò in quattro.
– Tenga, – disse porgendoglielo, con quel suo solito sorriso.
Fenoglio lo prese con espressione interrogativa.
– È il mio cellulare. Quando smette di essere mio paziente – ormai è questione di pochi giorni – mi telefoni, se vuole. Non prima, la prego. Mi metterebbe a disagio, mi costringerebbe a rifiutare un eventuale invito. Ognuno di noi ha le sue regole. Alcune hanno senso, altre meno. Ma tutte insieme servono a farci funzionare, a farci tirare avanti, o almeno io credo cosí. Se mi chiamerà, dopo, potremmo anche lasciar perdere il lei.
– Ognuno ha le sue regole. Giusto, – ripeté Fenoglio, e infilò il biglietto nel portafogli.
– Adesso cominci gli esercizi alla spalliera, – disse Bruna, – io salgo in reparto. Giulio è in ritardo, quando arriva lo rimproveri da parte mia.
– Ma possiamo andare a giocare in giardino?
Lei lo guardò diritto negli occhi. Pareva alla ricerca di una buona risposta, che evidentemente non le venne. Allora si limitò ad annuire, simulando un’espressione severa.
– In questi giorni ho riflettuto molto sulle cose che ci siamo detti, sulle storie che mi ha raccontato, – disse Giulio mentre camminavano lungo il sentiero che attraversava il prato. Fenoglio rispose con un monosillabo: era pronto ad ascoltare il seguito, significava.
– Fra l’altro ho ripensato all’episodio del medico ucciso, al momento in cui lei è entrato nel suo studio. Insomma, non era spaventato… preoccupato, sapendo che stava per trovarsi di fronte al cadavere di una persona ammazzata? Mi sono immedesimato nella situazione e la cosa mi ha messo ansia.
– Hai ragione. In effetti ero tesissimo: l’idea di vedere per la prima volta la morte violenta mi sgomentava. Quando superai la soglia dell’ambulatorio sentii letteralmente tremare le gambe, quasi stessero per cedermi. Durò alcuni secondi, poi la sensazione di paura svaní di colpo e diventai calmissimo. È difficile da spiegare e facile da fraintendere, ma quel corpo esanime mi apparve come un oggetto. Non era un essere umano che fino a qualche ora prima era vivo, si muoveva, parlava, respirava. Era un oggetto.
– Cioè non le ha fatto nessuna impressione vederlo?
– Non è che non mi ha fatto impressione: non mi ha prodotto emozioni. Appena ho messo piede nella stanza è scattato qualcosa che ha interposto una distanza fra me e il poveraccio là in terra. Allora ne fui stupito, ma in seguito avrei compreso bene la ragione di quel fenomeno. Ci sono lavori in cui, per sopravvivere, devi imparare a non lasciarti travolgere dalle vicende con cui entri in contatto. Se fai l’oncologo, per esempio, non puoi farti carico di tutte le sofferenze cui assisti, di tutte le notizie terribili che sei costretto a dare. E lo stesso vale per lo sbirro. Però, nel contempo, non devi diventare un automa, trattare le persone come numeri e fascicoli. È un equilibrio complicato fra due condizioni contraddittorie. In quell’occasione, tanti anni fa, sperimentai come si innesca automaticamente il meccanismo di autodifesa. Per il resto della vita ho cercato di evitare che quel meccanismo distruggesse l’altra parte.
– Ha visto molti morti ammazzati?
– Centosettantuno.
Giulio si voltò di scatto.
– Sa il numero preciso?
– Sí. Sai qual è la cosa peggiore, quella cui non ti abitui mai?
Il ragazzo scosse la testa.
– L’odore. Puoi creare una barriera rispetto a tutto, tranne che all’odore. Una volta ho notato in libreria un romanzo, un poliziesco; non l’ho comprato e non so esattamente di cosa parlasse, ma il titolo mi ha colpito: Lo sconveniente odore della morte. È la migliore definizione che abbia mai letto o sentito: sconveniente.
Per qualche minuto eseguirono gli esercizi senza parlare, poi Giulio ruppe il silenzio.
– Io non ho mai visto persone morte. Eccetto mia nonna. Ma lei non pareva morta, pareva dormisse… serena. Piú di tanti che dormono davvero. Mentre entravo nella sua camera mi tremavano le gambe, proprio come ha detto lei. Invece mi venne naturale farle una carezza. Era estate, ma quel giorno c’era maestrale e l’aria era fresca. Le finestre erano aperte e il vento soffiava per tutta la casa gonfiando le tende bianche del salone: sembravano vele spiegate verso una destinazione.
– Quanti anni avevi?
– Diciannove. Le ero molto affezionato. Quando ero piccolo inventava per me delle filastrocche; devo averle ancora, raccolte in un quaderno. Fino a tutte le scuole medie andavo a fare i compiti da lei; aveva insegnato italiano e latino allo scientifico. Scriveva poesie e pubblicò anche due raccolte. Non quelle cose che si fanno con gli stampatori, a pagamento. Veri libri con veri editori. Era brava.
– Parlami ancora di lei.
– Era siciliana, però nel fisico non corrispondeva per nulla allo stereotipo che verrebbe in mente. Era alta, magra, con gli occhi azzurri. Io la ricordo sempre con i capelli corti e bianchi, ma nelle foto da giovane le arrivavano alle spalle, ed erano biondi.
– Era normanna, – disse Fenoglio.
Il ragazzo assunse un’espressione stupita, quasi fosse convinto che l’ascendenza nordica dei siciliani biondi fosse un fatto sconosciuto. Quasi il maresciallo avesse svelato un segreto di famiglia ben custodito.
– Era la madre di tuo padre o di tua madre?
– Di mio padre, – rispose Giulio. Indugiò alcuni secondi e proseguí: – Mio padre non ha fratelli o sorelle. Nonna gli voleva bene, naturalmente, però non capiva come fosse venuto fuori tanto diverso. Forse è colpa mia, forse ho fatto qualcosa di sbagliato, ripeteva sempre.
– A cosa si riferiva?
Il ragazzo alzò le spalle.
– A tutto. Non posso immaginare due persone meno somiglianti. Carattere, cultura, disposizione verso il mondo, opinioni politiche. Questo la affliggeva moltissimo. Io credo che la nonna si sentisse in colpa perché suo figlio non le piaceva.
– Che genere di poesie scriveva?
– Di vario tipo. Gli haiku erano i miei preferiti. Una volta si accorse che ero triste e ne scrisse uno mentre ero lí da lei. Lo so a memoria:
Nuvole livide
Popolate di buio
D’un tratto la scheggia di sole.
– Era brava, è vero, – sorrise Fenoglio.
Per qualche minuto tornarono a dedicarsi ai rispettivi esercizi, come due studenti che d’un tratto si rendono conto di essere in ritardo con i compiti.
– Conosce la parola ciaraula? – disse Giulio all’improvviso, mentre Fenoglio riprendeva fiato dopo una serie di affondi.
Ciaraula?
– In siciliano significa strega. Nonna una volta mi raccontò una cosa che le era accaduta da bambina. Era estate e lei trascorreva la villeggiatura con la famiglia in una grande casa di campagna, non so esattamente dove. Un pomeriggio era andata a fare un giro e si era imbattuta in un piccolo casolare abbandonato. Era curiosa e, anche se sapeva che poteva essere un’imprudenza, era entrata. Subito non riuscí a vedere nulla, perché veniva dalla luce accecante del sole. Poi i suoi occhi si abituarono alla penombra e si accorse che al centro di quella piccola stanza vuota, a meno di un metro da lei, c’era un lungo serpente nero, arrotolato, che la fissava. Anche lei lo fissò e rimasero a lungo cosí, entrambi immobili. Alla fine il serpente scivolò via e scomparve in una fessura del muro. Nonna raccontò l’episodio alla vecchia governante di casa, Concettina, e quella le disse che era stata una prova, la rivelazione che lei era una ciaraula. Solo le ciaraule possono guardare negli occhi il serpente senza averne paura.
– Tu le assomigli?
– Lei diceva di sí; e non si riferiva all’aspetto. Mi piace credere che avesse ragione.
Fenoglio si passò una mano sul mento.
– La storia delle streghe, delle persecuzioni, dell’inquisizione mi ha sempre affascinato.
– Anche nonna ne parlava spesso. Secondo lei le streghe erano il simbolo della rivolta femminile. Avevano rappresentato le avanguardie nella lotta contro il potere dell’uomo. I roghi, e in generale la violenza sulle donne, erano stati ed erano la risposta dell’uomo che aveva paura di perdere il predominio. Sosteneva che le streghe, le donne che decidevano di studiare in un mondo che le voleva ignoranti, erano sempre state il capro espiatorio della stupidità e della cattiveria maschile. E aggiungeva che non ci sarà autentica libertà finché un uomo che ha molte donne sarà considerato uno che si gode la vita e una donna che ha molti uomini una prostituta. Una puttana, diceva proprio, ed era strano sentirle usare quel termine.
Fenoglio lasciò echeggiare quelle parole fra le pareti della memoria. Come capita in certi frangenti, pensò a tante cose diverse in pochi secondi.
– Ho una buona storia su una ragazza che faceva la prostituta, – disse poi.
– Mi piacerebbe molto ascoltarla, – rispose Giulio.