VIII.
Il cinema d’animazione.
Walt Disney e «Biancaneve e i sette nani»

1. Che cos’è il cinema d’animazione?

Con l’espressione ‘cinema d’animazione’ si indica ogni film che utilizzi la tecnica del ‘passo uno’: la macchina da presa impressiona la pellicola un fotogramma per volta (come se si trattasse di fotografie), e tra uno scatto e l’altro gli elementi inquadrati (disegni, pupazzi, modellini) vengono modificati, così che in fase di proiezione si ha l’illusione del movimento. Più le modifiche sono piccole e più il movimento è fluido, ma anche più lungo è il lavoro dell’animatore. La forma maggiormente diffusa di cinema d’animazione è costituita dai disegni animati, che negli Stati Uniti si chiamano animated cartoons, o semplicemente cartoons. Letteralmente animated cartoon significa ‘vignetta animata’ (il nostro ‘cartone animato’ è un calco fonetico che non traduce correttamente la formula originale). Le prime esperienze di disegno animato americano, infatti, sono fortemente legate al mondo dei comics e delle illustrazioni umoristiche dei quotidiani. Non a caso, colui che è considerato il padre del cinema d’animazione americano, Winsor McCay, al quale si deve il primo cartoon realizzato negli Stati Uniti, Little Nemo (t.l.: Il piccolo Nemo, 1911), è al contempo uno degli ‘inventori’ del fumetto (Little Nemo era appunto l’eroe di una striscia da lui lanciata nel 1905).

Il cinema sperimentale

Il cinema sperimentale (o cinema d’avanguardia) si contrappone a quello industriale tanto sul piano produttivo quanto su quello estetico. Si tratta di film realizzati e distribuiti al di fuori delle normali strutture commerciali, che rifiutano la dimensione del racconto, optando per l’associazione a-logica delle immagini, il flusso di forme astratte, la visualizzazione di esperienze oniriche. Il cinema sperimentale nasce negli anni Venti con le avanguardie storiche (definite tali per distinguerle dalla neo-avanguardia degli anni Sessanta e Settanta). Sul piano cinematografico, quella delle avanguardie storiche è un’esperienza soprattutto europea. Infatti, benché in America, tra le due guerre mondiali, siano reperibili non pochi film sperimentali, da Manhatta (1921) di Paul Strand e Charles Sheeler a Lot in Sodom (1932) di James Sibley Watson e Melville Folsom Webber, il solo artista statunitense che abbia giocato un ruolo realmente significativo nell’ambito del cinema delle avanguardie storiche è Man Ray, autore di Le retour à la raison (1923) ed Emak Bakia (1926), il quale però viveva e operava a Parigi, come altri intellettuali americani espatriati. La presenza del cinema d’avanguardia negli Stati Uniti inizia a divenire più rilevante a partire dagli anni Quaranta, con l’attività di Maya Deren, che nel 1943 realizza la sua prima opera, Meshes of the Afternoon, insieme ad Alexander Hammid. Durante gli anni Sessanta, gli Stati Uniti diverranno l’epicentro del cinema sperimentale internazionale, con figure quali Andy Warhol, Stan Brakhage, Kenneth Anger, Jonas Mekas.

L’animazione, dunque, non è un genere, bensì una tecnica che può essere impiegata nei modi più diversi. Sul piano quantitativo, la forma più diffusa di cinema a ‘passo uno’ – lo ripetiamo – è il disegno animato, che nella Hollywood classica era rappresentato dal cartoon della durata canonica di sette minuti, proiettato prima del lungometraggio, insieme agli altri cortometraggi che componevano il ‘pacchetto’ offerto allo spettatore di cui abbiamo parlato nel primo capitolo. Accanto al disegno animato troviamo altre tipologie di film d’animazione, relativamente rare a Hollywood, quali i film con le silhouette articolate (in inglese: cutout animation) e quelli con i pupazzi. Esiste poi una lunga tradizione di cinema d’animazione sperimentale, che inizia in Europa negli anni Venti con le avanguardie storiche, e che successivamente si diffonde in Nord America, grazie anche all’arrivo di alcuni degli artisti del Vecchio Continente, come il tedesco Oskar Fischinger, esponente del cinema astratto (film che presentano solo forme geometriche, senza immagini rappresentative), o lo scozzese Norman McLaren, autore di film realizzati dipingendo direttamente sulla pellicola. Ma l’animazione è presente in vari modi anche all’interno dei lungometraggi dal vero: negli effetti speciali, nei titoli di testa, nelle sequenze ‘ibride’ in cui gli attori interagiscono con personaggi animati.

La dizione ‘effetti speciali’ venne utilizzata per la prima volta nei credits di Gloria (What Price Glory?, 1926), un film sulla Grande Guerra diretto da Raoul Walsh. Con questa formula si indicano tutti i ‘trucchi’ cui si ricorre durante le riprese (effetti meccanici), con l’uso di cascatori e particolari attrezzature, e in fase di post-produzione (effetti fotografici), quando l’immagine viene rielaborata in vari modi (con la stampatrice ottica nel periodo classico, con il computer ai giorni nostri)1, al fine di ottenere soluzioni visive che altrimenti sarebbe impossibile realizzare per motivi tecnici, economici o di sicurezza. Quando si parla di effetti speciali solitamente si pensa alle astronavi dei film di fantascienza o alle battaglie dei war movies, ma nel cinema classico, che preferiva il lavoro in studio a quello in ambienti reali, buona parte dei trucchi era relativa alla simulazione di eventi del tutto quotidiani: una nevicata (con l’ausilio di una speciale macchina collocata sul set), oppure il traffico di una grande arteria cittadina (grazie alla retro-proiezione)2. All’interno di questo ampio bagaglio di trucchi, l’animazione ha sempre giocato una funzione importante. Uno dei film chiave degli anni Trenta, King Kong (id., 1933) di Merian C. Cooper ed Ernest B. Schoedsack, deve il suo enorme successo in larga parte ai modellini animati con cui il responsabile degli effetti speciali, il leggendario Willis O’Brien, ha dato vita al gigantesco gorilla che terrorizza New York e agli altri animali preistorici che popolano la misteriosa Isola del Teschio. Negli anni Cinquanta e Sessanta l’opera di O’Brien sarà proseguita da Ray Harryhausen, le cui creazioni più famose sono probabilmente gli scheletri guerrieri e le creature mitologiche degli Argonauti (Jason and the Argonauts, 1963), diretto da Don Chaffey, vero cult movie del cinema fantastico di serie B3.

Una seconda modalità di impiego dell’animazione nel cinema dal vero è rappresentata dai titoli di testa. In questo campo, il nome più illustre è certamente quello di Saul Bass, autore di titoli di testa dalla raffinata grafica stilizzata, i cui esempi più alti si trovano nell’Uomo dal braccio d’oro (The Man with the Golden Arm, 1955) e in Anatomia di un omicidio (Anatomy of a Murder, 1959) di Otto L. Preminger, e nella Donna che visse due volte (Vertigo, 1958) e in Intrigo internazionale (North by Northwest, 1959) di Alfred Hitchcock. Ma un caso del tutto unico è rappresentato dai titoli di testa della Pantera rosa (The Pink Panther, 1963) di Blake Edwards, per i quali Friz Freleng, veterano dei cartoons della Warner Brothers, creò un personaggio che ottenne un tale successo di pubblico da divenire l’eroe di una serie di disegni animati autonoma rispetto al film per cui era stato concepito.

Da ultimo bisogna citare le forme di tecnica mista, in cui gli attori compaiono insieme a personaggi animati. Si tratta di una formula utilizzata già durante il periodo muto, come nella serie ispirata ad Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, che Walt Disney realizzò tra il 1924 e il 1927, dove una bambina in carne e ossa si muove all’interno di un universo di disegni animati. Nell’ambito della produzione sonora, il terreno d’incontro tra i due mondi è spesso rappresentato dai numeri di ballo. Infatti, da un lato il lungometraggio animato adotta, a partire dal suo capostipite Biancaneve e i sette nani (Snow White and the Seven Dwarfs, 1937), il modello del musical, dall’altro il musical hollywoodiano, soprattutto quello della mgm, abbonda di sequenze oniriche, per realizzare le quali il cinema d’animazione offre ricche possibilità. Ad esempio, nei Tre caballeros (The Three Caballeros, 1945), prodotto dalla Disney, Paperino si lancia in scatenati ritmi latino-americani con la ballerina brasiliana Aurora Miranda. In Due marinai e una ragazza (Anchors Aweigh, 1945) di George Sidney, un musical della mgm con Gene Kelly e Frank Sinatra, compare una scena in cui il primo – mentre narra una fiaba ad alcuni bambini (il racconto viene appunto visualizzato attraverso il cartoon) – danza con il topo Jerry, compagno del gatto Tom in uno dei più longevi sodalizi della storia del cinema d’animazione. Nel progetto originario Gene Kelly avrebbe dovuto ballare con Topolino, ma la Disney non acconsentì a far comparire uno dei suoi divi nel film di una casa concorrente, e quindi si dovette ripiegare sul personaggio creato dagli animatori della mgm Bill Hanna e Joe Barbera. In virtù del successo ottenuto da Due marinai e una ragazza, Hanna e Barbera furono coinvolti anche in altri musical della Major, come Nebbie sulla Manica (Dangerous when Wet, 1953) di Charles Walters, dove Tom e Jerry nuotano in compagnia della ex campionessa di nuoto Esther Williams, star dei musical acquatici.

22. Due marinai e una ragazza (1945) di George Sidney.

2. Vita e morte del «cartoon» americano

Come già abbiamo accennato, il disegno animato americano nasce con Winsor McCay, autore di alcuni dei capolavori della storia dell’animazione, quali Gertie the Dinosaur (t.l.: Gertie il dinosauro, 1914) e The Sinking of the Lusitania (t.l.: L’affondamento del Lusitania, 1918). McCay opera con metodi artigianali, collocandosi in una posizione antitetica rispetto all’idea del cinema come ‘fabbrica’. Basti dire che per realizzare The Sinking of the Lusitania, un film di una decina di minuti che ricostruisce, con grande realismo e impatto visivo, l’affondamento del transatlantico inglese Lusitania da parte di un sottomarino tedesco verificatosi nel 1915, McCay – il quale si guadagnava da vivere come illustratore di grandi testate giornalistiche, dedicandosi al cinema per puro diletto – lavorò per quasi tre anni con il solo ausilio di due assistenti.

Più o meno nello stesso periodo in cui McCay realizza The Sinking of the Lusitania, a New York (il business del cartoon si trasferisce in California solo con il sonoro) iniziano a sorgere i primi studios di animazione, che operano il passaggio a una produzione di tipo commerciale. La parola studios non deve trarre in inganno: a paragone del coevo cinema dal vero si tratta di ben misera cosa, piccole imprese con una decina di dipendenti. Ma in confronto alle modalità operative di McCay, le compagnie di John Randolph Bray e dei fratelli Fleischer presentano un approccio all’animazione di tipo schiettamente industriale. Infatti, da una parte abbiamo un’organizzazione del lavoro di natura collettiva, in cui un’équipe di animatori procede sotto la guida di un regista-produttore, dall’altra ci troviamo di fronte non a cartoons autonomi, a ‘pezzi unici’, come nel caso dei film di McCay, bensì a serie che hanno un protagonista che torna da un episodio all’altro. L’opzione per il modello seriale, mutuata dal fumetto (non per niente molte delle prime serie – The Newlyweds, Krazy Kat, Happy Hooligan – sono ricavate dai comics), agevola il salto dell’animazione dall’artigianato alla ‘catena di montaggio’. La serie, infatti, da un lato permette di abbattere i tempi di realizzazione (una volta definiti i caratteri di fondo, si tratta solo di operare varianti sul medesimo pattern), dall’altro di sfruttare la familiarità del pubblico con i personaggi in forme simili allo star system.

Nel complesso, però, l’animazione americana del periodo muto rimane confinata ai margini del mondo del cinema. Questi primi cartoons, imparagonabili con le raffinate opere di McCay, sono prodotti grezzi, licenziati in fretta e furia, che per lo spettatore rappresentano solo un’appendice, piacevole ma in fondo trascurabile, dei lungometraggi. L’unica eccezione è costituita da Felix the Cat, creato da Otto Messmer, la prima vera star del cinema d’animazione, che nel corso degli anni Venti si guadagnerà una vasta popolarità tanto negli Stati Uniti quanto all’estero. Messmer fa della povertà stilistica dei cartoons dell’epoca un elemento di forza: è proprio la natura piatta ed essenziale dell’immagine a rendere affascinanti i suoi film. In virtù di tale stilizzazione, Felix è al centro di avventure surreali in cui vengono sovvertite le regole dell’universo sociale e di quello fisico, avventure in cui il corpo del gatto si trasforma nei modi più impensati (la coda che diventa, a seconda dei casi, un punto interrogativo o un bastone da passeggio). Ed è proprio qui, nella sistematica violazione del confine tra esseri viventi e oggetti inanimati, tra mondo animale e mondo umano, che risiede la natura profonda dell’animazione, la quale è appunto l’arte di ‘dare vita’ – anima – a ciò che in natura non ne ha. Quella dell’animazione, insomma, è una forma espressiva a vocazione antirealistica, che tende a reinventare il mondo piuttosto che a riprodurlo (ma si tratta di una definizione da prendere con beneficio d’inventario: alcune delle opere chiave del cinema d’animazione, come il citato The Sinking of the Lusitania o molti dei lungometraggi Disney, per non parlare della più recente animazione digitale, vanno in tutt’altra direzione; è una questione complessa di cui riparleremo più avanti)4.

L’arrivo del sonoro inferse un colpo mortale a Felix the Cat, il quale, come altri grandi comici del muto, non seppe adattarsi alle mutate condizioni tecnologiche. Il sonoro, però, costituì anche una ricca occasione di crescita per il cinema d’animazione. Anzi, gli animatori furono tra i primi cineasti a fare un uso realmente inventivo del nuovo mezzo. Se alla fine degli anni Venti molti registi hollywoodiani (ma un discorso analogo vale per quelli europei) usavano il sonoro con esiti piattamente riproduttivi, rischiando di far ripiombare il cinema nella condizione di ‘teatro fotografato’, Walt Disney, con il primo cartoon sonoro della storia (che è anche il primo cartoon con Topolino), Willie del vaporetto (Steamboat Willie, 1928), mostrò le possibilità creative del suono sincrono. I risultati non tardarono a venire: tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta i cartoons con Topolino e quelli dell’altra serie Diseny, le Silly Symphonies, ottennero un successo enorme, tanto che, in alcuni casi, molti spettatori si recavano al cinema più per vedere il cortometraggio animato che il film a soggetto che seguiva. E si tratta di una popolarità che prescinde dall’età degli spettatori: per tutto il periodo classico, infatti, l’animazione è uno spettacolo che si rivolge tanto ai bambini quanto agli adulti. Anzi, certe serie e certi personaggi – ma non quelli della Disney – si rivolgevano in primo luogo ai secondi.

Con il sonoro, dunque, l’animazione entra a pieno titolo all’interno dell’industria del cinema e tutte le grandi case hollywoodiane si interessano ai cartoons, anche se con modalità diverse. Alcune Majors, come la Warner e la mgm, costituiscono un loro animation department sin dalla prima metà degli anni Trenta, mente altre si limitano a distribuire produzioni indipendenti: la 20th Century Fox ha un contratto con i Terrytoons, la Universal con i Walter Lantz Cartoons. La Paramount distribuisce i film dello studio dei fratelli Fleischer, che assorbe nel 1942, trasformandolo nel proprio animation department. Tra il 1929 e il 1956 Disney distribuisce i suoi film attraverso altre compagnie (nell’ordine: Columbia, United Artists, rko) per poi fondare una propria casa di distribuzione, la Buena Vista.

Nel momento del suo debutto sullo schermo, Topolino è un personaggio piuttosto diverso da quello che poi diverrà in seguito: è un ‘ragazzaccio’, erede dello spirito anarchico di Felix (cui non a caso somiglia anche sul piano fisico), che in Willie del vaporetto si diverte a fare un concerto insieme a Minnie ‘suonando’ degli animali. I due topi strapazzano oche e gatti, come se fossero strumenti musicali, per trarne una melodia. Qui sta la genialità di Willie del vaporetto: Disney applica al film sonoro il principio della violazione del confine tra esseri viventi e oggetti inanimati – e tra umani e animali – di cui abbiamo parlato a proposito di Felix e che per molti versi rappresenta la quintessenza dell’animazione. In Willie del vaporetto animali antropomorfi (Topolino e Minnie), animali veri e propri (il piccolo zoo imbarcato sul battello) e oggetti (le diverse parti della nave) compongono un unico universo ‘animato’, dove danno vita a gag surreali. E in questo mondo di pura invenzione rumori, musica e parole (che di fatto non ci sono: Topolino e Minnie ‘parlano’, ma emettono solo suoni incomprensibili) si fondono in un unico flusso, su cui si struttura il ritmo visivo. Nel cinema sonoro, generalmente, la parola è l’elemento centrale. La scelta di Disney di rifiutare la centralità della voce, e costruire invece una partitura fatta di una miscela in cui non si riesce a distinguere la musica dai rumori, è segno appunto della vocazione antirealistica dell’animazione. Tale scelta sarà ribadita, ad esempio, nella Danza degli scheletri (The Skeleton Dance, 1929), primo episodio delle Silly Symphonies, dove quattro scheletri mettono in scena una comica danza macabra, in cui tibie e costole vengono usate come violini e xilofoni.

Il discorso che abbiamo fatto per la produzione Disney del primo sonoro vale, più in generale, per buona parte dell’animazione americana del periodo classico. In quasi tutte le serie – da quelle di Betty Boop e Braccio di Ferro realizzate dai fratelli Fleischer negli anni Trenta alle ‘Looney Tunes’ e alle ‘Merrie Melodies’ (i cui eroi sono Bugs Bunny, Duffy Duck e compagni) prodotte dalla Warner tra gli anni Trenta e i Sessanta, passando per il lavoro di Tex Avery alla mgm (dal 1942 al 1957) – troviamo sempre un tipo di spettacolo anarchico, dove non si rispetta nessuna legge, fisica o morale, del nostro mondo, e in cui si ignorano deliberatamente le convenzioni del racconto hollywoodiano (ad esempio, lo sguardo in macchina è usato sistematicamente).

Betty Boop è una ragazza sexy (almeno fino a che il Codice Hays non costringerà i Fleischer a vestirla in modo più castigato) al centro di avventure assurde, in cui perlopiù deve difendersi dalle pesanti avances dei maschi – umani o animali – in cui si imbatte. Ma tutta la produzione dei Fleischer è segnata da un’ironia trasgressiva e graffiante, legata alla cultura ebraica newyorkese (i due erano figli di ebrei austriaci immigrati). Prendiamo, ad esempio, The Kids in the Shoe (t.l.: I bambini nella scarpa, 1935), un film ‘minore’ dove non compare nessuno dei loro eroi seriali. In questo cartoon si racconta della strana vita di una famiglia lillipuziana di origine mitteleuropea (i personaggi parlano con un forte accento tedesco) che vive all’interno di una scarpa. I bambini fanno tutto ciò che va contro i precetti dei genitori: non mangiano, non si lavano, cantano e combattono con i cuscini invece di dormire dopo che sono stati messi a letto. Alla fine la madre li minaccia con l’olio di ricino e i ragazzi vanno finalmente a coricarsi; lei però si beve tutta la bottiglia, che scopriamo contenere sidro. Insomma, l’ordine viene ristabilito, ma si tratta di un ordine ottenuto con l’inganno e ad opera di una madre non esattamente irreprensibile. A trionfare non sono i ‘valori familiari’, bensì la legge del più astuto.

I cartoons di Tex Avery sono caratterizzati da una violenza ipertrofica e dallo scatenamento delle pulsioni sessuali. Uno dei suoi film più noti, Red Hot Riding Hood (t.l.: La calda Cappuccetto Rosso, 1943) è una parodia della famosa fiaba, in cui un lupo in smoking pazzo di desiderio insegue una Cappuccetto Rosso pin-up, dovendo al contempo sottrarsi alle violente profferte erotiche della nonna. Invece, il ciclo di ‘Road Runner’, creato da Chuck Jones alla Warner, è fondato sulla ripetizione all’infinito del medesimo sketch: Wile Coyote tenta di catturare il velocissimo pennuto, ma fallisce miseramente, rivolgendo contro se stesso la trappola che aveva messo a punto con il materiale fornito dalla ditta acme. Il tutto avviene senza che nessuno dei due personaggi pronunci mai una sola battuta, a eccezione del famoso verso «beep beep». Si tratta di una struttura narrativa minimale: i cartoons di ‘Road Runner’ sono fatti di singole gag, del tutto indipendenti l’una dall’altra, tant’è che l’ordine delle scene potrebbe essere tranquillamente invertito e l’economia complessiva del testo non ne risentirebbe affatto.

Insomma, il cartoon americano rappresenta un paradosso vivente: si tratta di film realizzati a Hollywood, prodotti e/o distribuiti dalle case che hanno ‘inventato’ lo stile classico, ma che rifiutano in maniera sistematica quel modello narrativo-rappresentativo. Alla ricerca del verosimile e allo psicologismo del racconto classico i cartoons contrappongono il nonsense, la distruzione dell’illusione di realtà, un andamento del racconto rapsodico e caotico. Al moralismo di tanti film dal vero, i cartoons sostituiscono una esplicita ‘immoralità’: nel loro mondo non ci sono buoni e malvagi, ma soltanto forti e deboli, furbi e ottusi, e le azioni di questi divi di carta, per quanto perfide, non sono mai valutate sul piano etico. Schiacciare la testa di un gatto per fare un concerto, o far esplodere la faccia di Daffy Duck con un fucile a pallettoni, non sono ‘cattive azioni’, bensì gag esilaranti. In questo senso, i cartoons sono affini alle espressioni più radicali del cinema comico, quali i film dei fratelli Marx – ebrei newyorkesi come i Fleischer – e la screwball comedy. L’animazione, dunque, ci aiuta a capire che non esiste ‘uno’ stile classico, che non c’è un paradigma monolitico di norme inflessibili. Il cinema hollywoodiano classico era una realtà composita, che comprendeva generi e forme tra loro differenti, una realtà in cui, certo, c’era un pattern dominante, ma rispetto al quale era possibile operare degli scarti, anche forti.

Però, per quanto l’animazione americana5 potesse essere in conflitto con molte ‘regole’ delle Majors, essa ne condivise la parabola discendente, anzi, fu una delle prime vittime dello smantellamento dello studio system. Nel momento in cui il sistema hollywoodiano entra in crisi, a causa della fine dell’integrazione verticale e della concorrenza della televisione, la produzione degli animated cartoons viene progressivamente ridotta, sino a cessare del tutto durante gli anni Sessanta. I cartoons, infatti, per quanto godessero di ampia popolarità, in una fase di calo delle vendite dei biglietti divennero troppo costosi: gli spettatori amavano gli eroi di Tex Avery e di Chuck Jones, ma andavano al cinema per vedere il film a soggetto, e ci sarebbero andati anche se prima non fosse stato proiettato il cartoon. I fratelli Fleischer avevano abbandonato il campo già durante la seconda guerra mondiale: essendosi pesantemente indebitati per produrre due lungometraggi, I viaggi di Gulliver (Gulliver’s Travels, 1939) e Mr. Bug Goes to Town (t.l.: Mr. Bug va in città, 1941), nel vano tentativo di contrastare il predominio della Disney, nel 1942 avevano dovuto cedere la loro compagnia alla Paramount. Nel corso degli anni Sessanta tutti gli studios di animazione, con la sola eccezione della Disney, cessano la produzione per le sale e il cartoon si trasferisce in televisione, dove sopravvive come mero intrattenimento pomeridiano per i bambini. Sul grande schermo rimarranno soltanto i film della Disney, che aveva conquistato una posizione di netta superiorità nel mercato dell’animazione già a partire dalla seconda metà degli anni Trenta. Ed è proprio alla Disney, e in particolare al suo film più famoso, Biancaneve e i sette nani, che è dedicata la seconda parte di questo capitolo.

3. Walt Disney: dentro – e oltre – il cinema classico

Non tutta l’animazione americana può essere ricondotta all’interno dello schema che abbiamo delineato nel paragrafo precedente. La produzione Disney, dal 1933-34 in avanti, si muove verso l’assimilazione delle regole del cinema classico da parte del cartoon. Lo stile del disegno si fa via via meno stilizzato, i fondali più complessi e giocati sulla profondità, i movimenti di uomini e animali maggiormente fluidi e realistici. Sul piano narrativo, compaiono storie organizzate in maniera più coerente, spesso dotate anche di un esplicito insegnamento etico. Non a caso, gli autori della Disney cominciano a rifarsi ai classici della letteratura favolistica. Se Willie del vaporetto e La danza degli scheletri sono un accumulo di gag messe in scena da personaggi gioiosamente perfidi, Three Little Pigs (t.l.: I tre porcellini, 1933), The Grasshopper and the Ants (t.l.: La cavalletta e le formiche, 1934), La lepre e la tartaruga (The Tortoise and the Hare, 1935), invece, per quanto comici, possiedono una morale e dei personaggi dichiaratamente divisi in ‘buoni’ e ‘cattivi’ o, quanto meno, in virtuosi e non, dove sono sempre i primi a trionfare sui secondi. Non per niente, con il passare degli anni Topolino diviene sempre più un ‘bravo ragazzo’, tanto che a un certo punto viene introdotto Paperino (che fa la sua apparizione nel 1934), il cui compito è proprio quello di svolgere la funzione ‘anarchica’ che prima era stata del topo (il quale, non per nulla, pur rimanendo il simbolo della casa di produzione, negli anni Quaranta è ormai stato scalzato dal papero nei favori del pubblico). Nel 1932, con Fiori e alberi (Flowers and Trees), Disney è il primo a utilizzare il Technicolor. Tanto l’uso del sonoro, nel 1928-29, era stato inventivo e antirealistico, quanto l’impiego del colore da parte della Disney è subito mimetico, al limite dell’oleografia. Osservando le diverse Silly Symphonies distribuite dal 1932-33 al 1937, anno in cui viene prodotto Il vecchio mulino (The Old Mill), vera sintesi della svolta ‘realistica’ della Disney, ci si rende conto di come il costante innalzamento del livello tecnico dei cartoons della casa vada di pari passo con il rifiuto sempre più marcato del modello ‘eversivo’ di Felix the Cat, di Betty Boop e del primo Topolino.

In quest’ottica, la scelta di realizzare un lungometraggio appare del tutto congruente: è soltanto oltrepassando i confini della forma ‘breve’ che la Disney può realmente confrontarsi ad armi pari con il cinema ‘maggiore’. Nella prima metà degli anni Trenta, certo, Disney si impone come la figura di maggior spicco all’interno dell’animazione americana, e le sue creazioni ottengono un enorme successo internazionale, ma i suoi film rimangono comunque confinati nel ghetto del cortometraggio, appendice dello spettacolo più importante. È proprio per superare questo limite, per diventare una casa di produzione a pieno titolo, capace di porsi sullo stesso piano delle Majors, che la Disney, nel 1934-35, avvia il progetto di Biancaneve e i sette nani, passato alla storia come il primo lungometraggio d’animazione (anche se, nel 1926, in Germania, Lotte Reiniger aveva realizzato un film di silhouette animate della durata di un’ora: Le avventure del principe Achmed, Die Abenteuer des Prinzen Achmed). Il risultato di questa sfida sarà una vittoria piena. Biancaneve e i sette nani, infatti, oltre a conquistare un premio al Festival di Venezia del 1938, otterrà un vasto successo di pubblico: costato un milione e mezzo di dollari, ne incasserà più di otto, tra il mercato americano e quello straniero.

Prima e durante la lavorazione di Biancaneve e i sette nani (nel corso della quale gli impiegati della Disney salgono a quota settecento, un numero incredibile per uno studio d’animazione), le Silly Symphonies vengono usate come banco di prova di nuove tecniche e di nuove soluzioni narrative e figurative. Da un lato le Silly Symphonies permettono di studiare i problemi relativi all’uso del colore e alla creazione dell’illusione della tridimensionalità, dall’altro presentano alcuni personaggi che fungono da ‘bozzetto’ per le figure del lungometraggio. In Babes in the Woods (t.l.: Bimbi nel bosco, 1932), ad esempio, ispirato alla favola di Hänsel e Gretel, i due bambini sono soccorsi da un gruppo di gnomi barbuti che mettono in fuga una strega piuttosto simile a quella di Biancaneve e i sette nani. Allo stesso modo, la tartaruga che compare tra gli animali della foresta che aiutano Biancaneve è anticipata da quella della Lepre e la tartaruga. Più in generale, un cartoon come La lepre e la tartaruga annuncia il tipo di adattamento che Disney farà del testo dei fratelli Grimm in Biancaneve e i sette nani. Nella Lepre e la tartaruga, infatti, la fiaba seicentesca di Jean de La Fontaine viene adeguata ai gusti del pubblico americano con l’inserimento di elementi ‘moderni’, come nel caso della scena della lepre che gioca a baseball. In Biancaneve e i sette nani, accanto al décor del castello e allo stile oratorio della regina, che rimandano a un Medioevo fantastico, troviamo elementi decisamente anacronistici. Basti pensare alla scena della miniera. I nani lavorano nel sottosuolo per estrarre le gemme, così come vuole la tradizione della mitologia nordica ma, a un certo punto, un orologio batte le cinque e i sette tornano a casa, come farebbero degli operai del XX secolo che hanno finito il turno. Allo stesso modo, Biancaneve prepara la torta di frutta e obbliga i nani – che tratta come bambini – a lavarsi le mani prima di sedersi a tavola per la cena, come una brava massaia americana. In tal senso, il confronto con The Kids in the Shoe è illuminante: nel film dei Fleischer la madre inganna i bambini e poi si beve il sidro, mentre Biancaneve è una donna di casa perfetta che, per di più, recita le preghiere prima di addormentarsi.

Ma per quanto sia possibile individuare molti elementi di continuità tra le Silly Symphonies e Biancaneve e i sette nani, lo iato tra i cartoons di sette minuti e il lungometraggio rimane enorme, così come enormi furono i problemi che dovette affrontare Disney, il quale si addentrava in un territorio completamente vergine. Con Biancaneve e i sette nani, infatti, egli provò per la prima volta a usare l’animazione per raccontare una storia così come la concepisce il cinema dal vero. Era quindi necessario creare dei personaggi con cui il pubblico si potesse identificare o – nel caso della regina cattiva – che potesse detestare. Per questo Disney scelse di dare tratti il più possibile realistici a uomini e donne. Tradizionalmente, gli eroi ‘umani’ del cartoon degli anni Trenta avevano fattezze grottesche. Basti pensare ai corpi assurdi di Braccio di Ferro e della sua fidanzata Olivia. Inoltre, come abbiamo visto, il confine tra mondo umano e mondo animale era spesso piuttosto confuso. La stessa Betty Boop, nel suo cartoon di esordio, Dizzy Dishes (t.l.: Piatti da vertigine, 1930), era un ibrido tra una ragazza e un cane. In Biancaneve e i sette nani, invece, Biancaneve, la regina, il principe e il cacciatore hanno tutti fattezze ‘normali’, tanto che Disney fu accusato di aver usato il rotoscopio, uno strumento messo a punto dai Fleischer negli anni Dieci, che permette di ricalcare a matita l’immagine di un fotogramma di un film dal vero, in modo tale che l’animatore possa riprodurre i tratti e i movimenti del corpo umano in modo fedele.

Soltanto i nani conservano l’aspetto ‘eccentrico’ tipico del cartoon, e infatti hanno il compito di dare vita alle scene di tipo comico. Si tratta di una dicotomia che tornerà in buona parte della produzione Disney, prima e dopo la morte dello ‘zio Walt’: da Cenerentola (Cinderella, 1950) alla Bella e la bestia (Beauty and the Beast, 1991), nei film Disney troviamo spesso una polarità tra protagonisti ‘seri’, disegnati in maniera realistica, e figure secondarie comiche, dalle fattezze grottesche. Ma per quanto i nani siano molto legati alla tradizione del cartoon, essi sono comunque dei personaggi a tutto tondo, non delle semplici maschere comiche. Ognuno di loro, infatti, è dotato di un nome e di una specifica psicologia. Nella fiaba dei fratelli Grimm, invece, questo elemento era assente, come osservava con disappunto Bruno Bettelheim, fortemente critico nei confronti del lavoro di adattamento dell’opera letteraria fatto da Disney:

L’attribuzione a ciascuno dei nani di un nome e di una personalità distinti – mentre nella fiaba sono tutti identici – come nel film di Walt Disney, interferisce gravemente con l’idea inconscia che essi simboleggiano una forma immatura e pre-individuale di esistenza che Biancaneve deve superare. Simili sconsiderate aggiunte alle fiabe, che apparentemente ne accrescono l’interesse umano, in realtà tendono a distruggerlo perché rendono difficile afferrare in modo corretto il significato più profondo della storia6.

Ma, a parte le valutazioni che si possono fare rispetto alla fedeltà al testo di partenza, quello che qui ci interessa è il fatto che Disney si sforzi in tutti i modi di adeguarsi alle regole del film a soggetto: Biancaneve e i sette nani non è una Silly Symphony di ottanta minuti, bensì un altro tipo di film. Al di là del tratto realistico del disegno e della fluidità dei movimenti, così come della ricchezza degli sfondi e della sistematica ricerca dell’illusione della profondità, è lo stesso uso dei movimenti di macchina e del montaggio a indicare la volontà di Disney di impiegare a pieno le risorse espressive dello stile classico. Il montaggio dei cartoons degli anni Venti e Trenta era piuttosto semplice: serviva unicamente a correlare tra loro le varie gag. In Biancaneve e i sette nani, invece, il montaggio assolve a complesse funzioni narrative. Basti pensare alla sequenza di montaggio alternato del finale, quando Biancaneve viene avvelenata dalla strega, mentre i nani corrono al salvataggio. Oppure si veda la sequenza successiva alla morte apparente di Biancaneve, in cui il montaggio opera delle ellissi temporali: alcune brevi inquadrature, che ci mostrano il bosco in condizioni climatiche diverse, danno conto del passaggio delle stagioni (ma troviamo una soluzione simile già in The Grasshopper and the Ants). In Biancaneve e i sette nani Disney seziona lo spazio in base ai principi del montaggio analitico, per guidare l’attenzione dello spettatore o creare effetti di suspense. Si prenda, ad esempio, la scena in cui i nani trovano Biancaneve addormentata sui loro letti. Il passaggio dal campo totale della stanza al primo piano dell’eroina è segno dell’assimilazione delle regole del découpage classico: il mistero della creatura addormentata sotto la coperta è svelato all’interno di un campo totale, che permette al pubblico di vedere l’azione nel suo insieme ma, appena il volto di Biancaneve è stato scoperto, c’è subito un piano più stretto che focalizza l’attenzione sul viso della protagonista.

Se, nel complesso, è vero che con Biancaneve e i sette nani Disney cerca di trasformare il cartoon in una forma pienamente narrativa, bisogna però sottolineare che, nel compiere quest’operazione, egli opta comunque per un genere dallo statuto narrativo relativamente debole come il musical. Infatti, il musical, pur raccontando una storia, ha un andamento sincopato, in cui, in alcuni momenti, la vicenda ‘si ferma’ per lasciare spazio a un numero di canto e ballo, una performance in sé conchiusa, un po’ come le singole gag dei cartoons. Disney, insomma, opera una sorta di mediazione: c’è lo iato rispetto al modello linguistico-espressivo del cartoon degli anni Trenta, ma la rottura non viene consumata fino in fondo. Dove invece la rottura è totale è sul piano ideologico. Come abbiamo visto, buona parte del cartoon americano contiene un’ironia graffiante, spesso pensata più per gli adulti che per i bambini. Disney, invece, sceglie lo spettacolo per famiglie, vede nell’animazione in primo luogo una forma di intrattenimento infantile. Da qui la centralità delle fiabe, che pure non costituiscono una novità nel quadro del cinema d’animazione: il punto è l’uso che Disney fa di quel materiale letterario. Rimanendo al personaggio di Biancaneve, nel 1933 i Fleischer avevano già realizzato una versione a disegni animati della favola dei fratelli Grimm, Snow White (t.l.: Biancaneve), con Betty Boop nel ruolo della protagonista, in cui il testo di partenza veniva completamente stravolto per creare una vicenda tutta giocata su nonsense ed erotismo, con l’accompagnamento musicale del grande cantante jazz Cab Calloway. Niente di più lontano, insomma, dai rossori virginali e dalle dolci melodie della Biancaneve del 1937.

23. Biancaneve e i sette nani (1937) di Walt Disney.

Certo, è piuttosto facile ironizzare sulla morale piccolo-borghese di Walt Disney, sul kitsch delle soluzioni visive di tanti suoi film (per non parlare di Disneyland) o sulla rozzezza della sua aspirazione a divulgare la ‘cultura alta’ presso il pubblico di massa, come cerca di fare in Fantasia (id., 1940), goffo tentativo di unire le idee del cinema astratto tedesco con il modello commerciale hollywoodiano. Ma, con tutte le ombre che il personaggio presenta, non si può non riconoscerne la genialità. Nel quadro della Hollywood classica, Disney è stato certamente uno degli autori-produttori che hanno brillato per lungimiranza e ampiezza di vedute. Disney è stato uno sperimentatore coraggioso per tutta la vita, investendo per primo su progetti cui nessuno aveva ancora pensato o che parevano destinati al fallimento, dal cartoon sonoro al lungometraggio animato, passando per il Technicolor. Disney è stato anche uno dei primi a capire la necessità, per Hollywood, di espandersi oltre i confini dell’industria cinematografica propriamente detta. Già negli anni Trenta, Disney investe pesantemente sul merchandising, dagli orologi di Topolino al disco con la canzoncina di Three Little Pigs. Dopo la seconda guerra mondiale si muove nella direzione della differenziazione dell’offerta, postulando la necessità del passaggio ad altri media e ad altre forme di intrattenimento. Nel 1950 la Disney distribuisce il suo primo lungometraggio dal vero, L’isola del tesoro (Treasure Island), diretto da Byron Haskin, e mette in onda il suo primo show televisivo. Cinque anni dopo viene inaugurata Disneyland. E nel firmamento dell’età dell’oro di Hollywood, Topolino e Biancaneve sono certamente tra le star che meglio hanno saputo continuare a parlare alle generazioni successive. Dopo il trionfo della stagione 1937-38, Biancaneve e i sette nani è stato distribuito nelle sale altre nove volte, dal 1944 al 1993, ottenendo sempre ottimi risultati al botteghino. Quando, nel 1994, è stato finalmente pubblicato in videocassetta, nelle vendite ha battuto il blockbuster del momento: Jurassic Park (id., 1993).

24. Biancaneve e i sette nani (1937) di Walt Disney.

 

1 La stampatrice ottica, o truca, è lo strumento con cui nel cinema classico (e, più in generale, in tutto il cinema precedente l’avvento del digitale) si realizzavano le dissolvenze, le sovrimpressioni e vari tipi di effetti speciali. Si tratta di un’apparecchiatura complessa, con un proiettore e una macchina da presa sincronizzati, che permette di impressionare più volte lo stesso segmento di pellicola, offrendo così la possibilità di comporre tra loro diverse immagini.

2 La retro-proiezione (dall’inglese back projection), o trasparente, è uno dei trucchi più utilizzati nel cinema classico: gli attori recitano di fronte a uno schermo traslucido su cui, da dietro, vengono proiettate immagini precedentemente girate in esterno. È l’effetto speciale con cui, ad esempio, si girano in teatro di posa le scene in automobile: il personaggio è al volante, in primo piano, mentre sul fondo dell’inquadratura, sul lunotto posteriore, scorre il paesaggio.

3 Limitandoci alle pubblicazioni più recenti, un’agile introduzione alla storia e alle tecniche degli effetti speciali è rappresentata da R. Hamus-Vallée, Les effets spéciaux, Cahiers du cinéma, Paris 2004. Un volume molto ricco sulla fantascienza americana (ma anche con diversi riferimenti a horror e fantastico) è V. Sobchack, Spazio e tempo nel cinema di fantascienza. Filosofia di un genere hollywoodiano, trad. it., Bononia University Press, Bologna 2002.

4 Sul cinema d’animazione americano durante il muto si veda D. Crafton, Before Mickey. The Animated Film 1898-1928, The University of Chicago Press, Chicago 1993.

5 Nell’ampia bibliografia disponibile sulla storia dell’animazione americana, il testo sicuramente più completo e affidabile è L. Maltin, Of Mice and Magic. A History of American Animated Cartoons, Plume, New York 1987. Su Disney, uno dei libri più ricchi e interessanti è E. Bruno, E. Ghezzi (a cura di), Walt Disney, La Biennale di Venezia, Venezia 1985. Per un approfondimento sul rapporto tra cartoon e stile classico cfr. G. Alonge, Topolino e i guanti del dottor Caligari. L’animazione americana, il cinema delle origini e le avanguardie storiche, in G. Alonge, A. Amaducci, Passo uno, l’immagine animata dal cinema al digitale, Lindau, Torino 2003, pp. 9-80.

6 B. Bettelheim, Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe, trad. it., Feltrinelli, Milano 2003, p. 202.