28

Rossa come un gambero

Parigi, 1940. Il 17 giugno le truppe tedesche sfilavano sugli Champs-Élysées, come avevano fatto quotidianamente da quando erano entrate a Parigi tre giorni prima. L’aria era tremula, le strade deserte e nessuno si sentiva tranquillo.

Heinrich Himmler ha scelto appunto quel giorno per venire a cena alla Petite Provence. Non ho idea di come ci sia finito. L’ufficiale tedesco venuto per la prenotazione e il sopralluogo di prammatica mi ha spiegato che il Reichsführer-SS voleva un ristorante con vista sulla Torre Eiffel, ma non era propriamente il nostro caso, la si vedeva solo da uno dei tavoli fuori e anche lì bisognava allungare il collo.

Himmler è arrivato intorno alle dieci di sera, la notte era ormai calata e non ha nemmeno provato a cercare la torre, che se ne stava semisommersa in fondo al piazzale del Trocadéro come un vascello nelle tenebre marine. In tutta evidenza, il Reichsführer-SS non era venuto a scopi turistici. Protetto da una quindicina di soldati e accompagnato da almeno altrettanti collaboratori, per non parlare dei quattro camion militari parcheggiati sulla piazza davanti al ristorante, ha lavorato fino a tarda notte dispiegando mappe e schiamazzando a più non posso.

Tra le nove di sera e le cinque del mattino la circolazione per le strade parigine era vietata a noi francesi, quindi la maggior parte dei fornitori mi aveva dato buca. Ho preparato la cena con quello che c’era. Fondamentalmente, baccalà e patate.

Dopo un antipasto di foie gras al Porto, con composta di fichi e cipolla, Himmler e i suoi camerati si sono visti presentare il mio famoso baccalà alla provenzale e una charlotte di fragole, per concludere con una fantasia di tisane. Avevo superato me stessa.

Ma il morale era sotto zero. A mezzogiorno e mezzo di quello stesso giorno avevo ascoltato alla radio il discorso del maresciallo Pétain, in cui sosteneva di avere «fatto dono alla Francia» della sua persona «per mitigarne le sofferenze», e poi affermare, con quella voce da vecchio costipato in pieno sforzo e subito prima del chiacchiericcio ormai noto: «Con il cuore stretto, oggi vi dico che bisogna deporre le armi». In seguito a ciò, diverse unità dell’esercito francese si erano arrese ai tedeschi, tanto da indurre il ministro degli Esteri Paul Baudoin a rettificare in serata le affermazioni del nuovo presidente del Consiglio, ricordando che il governo non aveva «abbandonato la lotta né cessato di combattere». Almeno, non ancora.

Dopo cena, Heinrich Himmler ha chiesto di vedermi. Mi sono truccata e pettinata di corsa per poi presentarmi al suo tavolo con il cuore a tambur battente e la bocca secca, tremando come una foglia.

«Très bien» ha detto Himmler, dando ai suoi collaboratori, che non gli staccavano gli occhi di dosso, il segnale per gli applausi.

«Danke schön» ho risposto con voce timida.

Non avevo mai visto un gerarca nazista. Prima di cena Paul Chassagnon mi aveva messa in guardia: Himmler era quello che eseguiva i lavori sporchi per conto di Hitler, un personaggio immondo abituato a seminare morte ovunque andasse. A prima vista, tuttavia, il Reichsführer-SS ispirava fiducia. A parte il culone, aveva un’aria normalissima, stavo per dire umana, anche se non dovrei ripeterlo oggi, dopo aver saputo tutto quanto c’è da sapere. Allora mi sembrò addirittura di scorgere nella sua espressione un misto di rispetto e compassione nei confronti di noialtri francesi.

Con l’aiuto dell’interprete, Himmler mi ha interrogato su tisane e piante officinali. Parlavo un tedesco ancora troppo rudimentale per osare rispondergli nella sua lingua, mi ci sarebbe voluto ancora qualche mese prima di sentirmi pronta. Nel frattempo però ho voluto impressionare il Reichsführer-SS con le mie conoscenze di fitoterapia.

«Lei ha capito tutto» ha detto. «Il futuro è nelle piante. Curano, calmano, guariscono. Nel nuovo Reich che stiamo costruendo, posso già annunciarglielo, ci saranno ospedali fitoterapici. Non le pare una buona idea, signora?»

Ho annuito. Aveva lo sguardo acceso da una specie di smania interiore, sembrava talmente convinto di quello che diceva da spogliare l’interlocutore di ogni volontà di contraddirlo.

Per affascinare ancora il Reichsführer-SS, gli ho detto di dovere moltissimo a una grande tedesca del Millecento, sant’Ildegarda di Bingen, prodiga di scritti sulle piante e di cui vantavo il possesso dell’opera omnia. Per dimostrare di non parlare a vanvera ho aggiunto che il Libro delle creature era uno dei miei preferiti in assoluto.

Ha fatto una smorfia, come se avesse masticato un gamberetto andato a male o pestato una cacca con le scarpette. Ancora non lo sapevo, ma Himmler aveva quattro nemici nella vita, in ordine di importanza: gli ebrei, il comunismo, la Chiesa e la Wehrmacht.

«Il cristianesimo» ha detto con sguardo severo «è uno dei peggiori flagelli dell’umanità. Soprattutto se asiatizzato. Una religione in cui la donna viene considerata il peccato condurrà l’uomo dritto alla tomba. Ma noi ce ne sbarazzeremo. Non ha niente che valga la pena di salvare, nemmeno Ildegarda di Bingen, una benedettina isterica e frigida…»

Mi sono salvata con una citazione del cinese Pen Ts’ao Ching, libro in cui, tremila anni prima di Cristo, venivano elencate le piante officinali e si celebrava il ginseng, che stimolando la sessualità maschile tanto ha fatto per la riproduzione della specie umana.

Ha riso, un buon riso di padre di famiglia in risposta a una storiella buffa della sua bambina. Tutti i collaboratori lo hanno imitato, ma le loro erano risate nervose e artificiali, del tipo da me soprannominato «riso di corte».

«In ogni caso» ha strombazzato prendendo tutti a testimone «a me il ginseng non serve!»

«Comunque non fa mai male.»

Ho chiesto al maître di andargli a prendere un assortimento di una decina delle mie scatole di pillole. Quelle per il mattino, quando si trattava di tonificare l’organismo, erano a base d’aglio, ginseng, zenzero, basilico e rosmarino. La sera, per chi aveva bisogno di darsi una calmata, usavo un misto di iperico, melissa, ciliegia, verbena officinale e papavero della California.

Himmler mi ha fatto i complimenti per la bellezza delle scatole e delle etichette all’antica.

«Es ist gemütlich» ha detto, e l’ultimo termine ha riecheggiato in bocca agli ufficiali del seguito, sempre attentissimi alle sue parole.

Dopo aver dichiarato di volersi «relazionare» di nuovo con me, il Reichsführer-SS ha chiesto a un suo collaboratore spilungone e pallido di prendere i miei estremi.

«Tornerò» ha detto prima di andarsene. «Non mi piacciono le cene militari nei palazzi ufficiali. Preferisco mescolarmi a popoli come il vostro, con cui lavoreremo insieme per costruire un mondo migliore, più pulito, più puro, fatto solo di persone belle come lei.»

Sono arrossita come un gambero buttato nell’acqua bollente.

29

L’uomo che non diceva mai di no

Parigi, 1942. Per diversi mesi Heinrich Himmler non ha dato segni di vita. Poi, una mattina, due SS si sono presentate al ristorante e hanno fatto incetta della mia scorta di pillole «Rose» contro fiacchezza e insonnia. Hanno insistito per pagare, senza trascurare di darmi una bella mancia.

Sono tornati due mesi dopo. Sempre gli stessi: uno tarchiato con le guance da bulldog e uno magrolino e ossuto, da me soprannominati Don Chisciotte e Sancho Panza. Himmler doveva aver quintuplicato le dosi, ne ho dedotto, anche se era strano in un tipo metodico come lui, organizzato e sempre molto ligio – sicuramente anche alla posologia stampata sulle scatole.

A quel punto dovevo arrendermi all’evidenza: favorendo con le mie pillole l’energia e il riposo di uno dei più importanti capi del nazismo, contribuivo mio malgrado alla vittoria finale della Germania.

Non sapevo bene cosa fare. Vi risparmio i moniti di cui mi tempestava la mia salamandra: Teo era scatenata contro di me, e per una volta non potevo darle torto. A un certo punto ho pensato di aggiungere arsenico o cianuro alle pillole, ma sarebbe stato stupido: come tutti gli industriali della morte, il Reichsführer-SS era un paranoico di prim’ordine e molto verosimilmente godeva dei servizi di un assaggiatore, il che spiegava forse in parte quel consumo eccessivo. In realtà mi sembrava ci fosse soltanto un modo per eliminarlo: prenderlo al laccio della seduzione.

Himmler si era beccato una cotta per me, balzava agli occhi, perlomeno ai miei: noi donne non ci sbagliamo mai, su certe cose. Giacché l’amore fa perdere la ragione, mi dicevo, avrei dovuto lasciare che il Reichsführer-SS venisse a me per poi accalappiarlo al momento opportuno, portarlo in un luogo appartato ed eliminarlo, approfittando dell’occasione per ricominciare con Gabriel, che mi sarebbe cascato tra le braccia quando fossi arrivata da lui, senza fiato per aver fatto sei piani di corsa con settantamila SS alle calcagna, sussurrandogli: «Tesoro, ho appena ammazzato Heinrich Himmler».

Non avrebbe resistito, su questo non potevano sussistere dubbi. Il nostro nuovo incontro sarebbe cominciato con un bacio appena raccolto dall’albero per poi proseguire, dopo aver messo a letto i bambini in camera loro e avere chiuso a doppia mandata la porta della nostra, con una stretta delirante sul letto o sul parquet, meglio la seconda ipotesi date le circostanze, mentre lui mi sussurrava all’orecchio, preoccupato per i miei gridolini di delizia e turbamento: «Non farti sentire! Ci sono i bambini che dormono di là».

Le avevo provate tutte, per ricominciare con Gabriel. Crisi di pianto. Preghiere in ginocchio. Minacce di attentare alla mia vita. Offerte di tabula rasa perché accettasse di ripartire da zero. Niente da fare. Solo l’assassinio di Himmler mi sembrava in grado di riaccendere una fiamma ormai spenta.

Era da pazzi, ma dovevo assolutamente inventarmi qualcosa. Non riuscivo a rassegnarmi né a darmi per vinta e avevo diverse ragioni di essere ancora fiduciosa. Per esempio, lui non si arrabbiava mai per la mia insistenza a chiamarlo tesoro, a volte addirittura amore mio. Anzi, un certo rossore alle guance tradiva i suoi sentimenti quando, a ogni nuovo incontro, mi umiliavo apposta chiamandolo amore mio in tono lamentoso: «Mi manchi ogni giorno che Dio manda in Terra. Al risveglio mi è rimasta l’abitudine di cercare con la mano la tua schiena tra le lenzuola, il braccio, il collo. Ma la mia mano torna indietro vuota e mi si stringe il cuore».

Una domenica ho deciso di giocare il tutto per tutto. Ho proposto a Gabriel di andare al Jardin des Plantes con i bambini e abbiamo iniziato dallo zoo. Era una bella giornata d’autunno e il sole si indorava in un cielo tenue, stanco dell’estate.

Nel padiglione delle scimmie, con cui i nostri figli si sono subito messi a chiacchierare, l’ho preso da parte e gli ho proposto di ricominciare la nostra storia da dove l’avevamo lasciata. Ha protestato in modo non troppo convinto, per essere lui: «Non sono sicuro che sia un bene per noi, Rose. Non precipitiamo le cose, vediamo come va».

«Non sappiamo quanto tempo ci resta. È il destino a decidere. E sai quanto poco ci sia da fidarsi.»

Non mi ha detto di no. È vero, Gabriel non diceva mai di no, per paura di ferire. Posso affermare di non avere sentito quella parola uscire dalle sue labbra nemmeno una volta.

«Pensiamoci su» sussurrò.

«L’amore non si pensa» mi sono indignata. «Si vive.»

«Hai ragione. Ma non lo si può nemmeno resuscitare con uno schiocco di dita. Una volta ferito, bisogna dargli il tempo di riprendersi.»

«Perché non la smettiamo di farci del male, io e te? Siamo nati uno per l’altra, prendiamone atto.»

Gli ho preso la mano.

«Hai qualcuno?» ho domandato.

«No, nessuno.»

«Allora ti chiedo di darmi una seconda possibilità.»

«Nella vita non c’è mai una seconda possibilità, Rose.»

«La vita non varrebbe la pena di essere vissuta, se non ci fossero seconde possibilità.»

«In effetti mi chiedo sempre più spesso se ne valga davvero la pena.»

«Tesoro, non dire così.»

Gli ho preso la faccia tra le mani e l’ho baciato con una foga resa ridicola dalla sua resistenza. Aveva la bocca secca. Mi è rimasto un gusto di terra, condito di foglie marcite.

«Grazie» ho detto quando si è staccato da me. «Mi perdoni?»

Ha scosso la testa e io sono scoppiata a piangere. Lui ha tirato fuori di tasca un fazzoletto a quadretti e mi ha asciugato le lacrime con un sorriso triste.

Non ero un bello spettacolo. Grazie a Dio i bambini erano troppo occupati a lanciare arachidi alle scimmie.

«Se continuo a respingerti così» ha sussurrato mentre mi asciugava le ultime lacrime «alla fine sono io a non perdonarmi.»

«Non rigirare la frittata, Gabriel. Quando ripenso a come mi sono comportata, mi faccio schifo. Mi vergogno da morire. È tutta colpa mia.»

«No, sarà colpa mia se continuo a non essere capace di voltare pagina. Ma lo farò, dammi ancora due o tre mesi e potremo ricominciare ad amarci come all’inizio, lo sento.»

Siamo rimasti un momento abbracciati. Ma i bambini non erano d’accordo e si sono messi d’impegno per separarci, tirandoci ciascuno per un braccio. Volevano andare a vedere i coccodrilli.

Quella sera, tornando a casa da sola, mi è sembrato che l’aria cantasse.

*

Le settimane successive Gabriel continuò con la strategia di lasciarmi su un binario morto, che fino a poco tempo prima mi faceva inorridire ma a questo punto mi inteneriva. Il suo sguardo era sempre più sfuggente. A volte si avvicinava per dirmi qualcosa ma poi restava interdetto, con la bocca aperta, come se le parole gli rimanessero bloccate in gola. Fingeva di non essere mai libero per passare una domenica con me e i bambini al Bois de Boulogne, o da qualsiasi altra parte. Ma mentiva talmente male da risultare patetico.

Più di un segnale mi rivelava il grande lavorio da cui era agitato interiormente, e a ogni sintomo davo il benvenuto: eravamo sulla buona strada. Per esempio quando si lamentava dei suoi mal di testa, o se mi accorgevo che aveva perso una decina di chili. Il giorno in cui mi ha confessato di soffrire di stomaco ho pensato di averlo finalmente preso al laccio. Molte volte, mentre ero in cucina, mi sono bruciata apposta una mano o un polso, che – a voler seguire le mie superstizioni, secondo le quali per ottenere quanto si desidera è necessario soffrire – era il modo migliore per affrettare il suo ritorno.

Ho tenuto un sassolino in una scarpa per un’intera giornata e, quando l’ho finalmente tolto per mettere fine al mio calvario, avevo la soletta zuppa di sangue.

Una sera mi sono piantata una forchetta nel dorso di una mano, danneggiando una delle cinque ossa del metacarpo: mi vergogno a dirlo, ma mi era sembrato di sentire una voce suggerirmi che Gabriel sarebbe tornato prima, se lo avessi fatto.

Ma era una voce ingannevole. Una domenica sono andata a prendere i ragazzi per tenerli tutto il giorno con me e Gabriel li ha mandati un momento in camera, per dirmi a bassa voce che aveva deciso di trasferirsi con loro a Cavaillon.

«Non puoi farmi questo» ho protestato. «Cosa sarà di me, senza di loro?»

«Non ho scelta, Rose.»

«Se vi trasferite in Provenza non li vedrò più, immagina come mi sentirei.»

«Te lo ripeto, sono costretto ad andar via. C’è una campagna stampa contro di me.»

«Dove?»

«Sui giornali in cui impazzano i nostri cosiddetti vecchi amici. Non ne sapevi niente?»

«No.»

«Mi danno a tutta pagina del giudeo, marrano, cane e traditore.»

È andato in camera sua a prendere un giornale ed è tornato leggendo: «Un tempo édouard Drumont ha parlato del “nemico ipocrita e doppio” da cui la Francia è stata invasa, corrotta e rincitrullita fino al punto di “rovinare con le sue stesse mani tutto quanto l’aveva resa un tempo potente, rispettabile e felice”. Uno dei volti che vengono subito in mente, perché meglio corrispondono a tale definizione, è quello di Gabriel Beaucaire, falso amico, falso scrittore, falso patriota e falso maître quanto è vero Iddio. Ha tutte le caratteristiche semitiche: avido, intrigante, scaltro e sagace. Grazie alla sua immensa astuzia, quest’essere vile si è infiltrato in mezzo a noi per spiarci senza ritegno e rivendere ai nostri peggiori nemici chissà quali informazioni. È tempo di finirla con siffatti individui e con questo in particolare, il quale, per disgrazia dei suoi vicini, ha eletto il proprio domicilio in rue Rambuteau numero 23».

Gabriel maneggiava il giornale come se fosse uno straccio imbevuto nell’acido e avesse paura di ustionarsi: «Ci si è messa tutta la stampa antisemita, da “Je suis partout” in giù. È un bombardamento, sono esterrefatto che nessuno ti abbia detto niente».

«Non leggo certe schifezze…»

«Adesso capisci le mie preoccupazioni?»

«Ma certo, tesoro, e conta pure su di me.»

Sudavo e tremavo come un’innamorata al primo bacio, ma Gabriel mi manteneva a distanza con espressione disgustata, è addirittura indietreggiato di un passo non appena ne ho mosso uno verso di lui. In effetti emanavo un odore di acido e di piscio. Cercavo di muovermi il meno possibile per non spargerlo troppo in giro.

Ho subito riconosciuto quell’odore: era la mia paura, per lui e per i bambini. Il mio tumore del tormento aveva ripreso forza. Avrebbe continuato a dilatarsi fino alla fine della guerra.

«Per questa campagna, i miei capi al lavoro sono a disagio. Si mostrano più gentili del solito, vogliono farmi sentire il loro sostegno. Ma non potranno reggere all’infinito. Preferisco anticiparli, andandomene il prima possibile. Mi dispiace.»

«I bambini potrebbero restare con me» ho detto con voce supplichevole.

«Non è una buona idea, Rose. La sentenza di divorzio stabilisce il contrario e non avrai mai il tempo di occuparti di loro, lo sai bene. Un’infanzia in Provenza, in mezzo alla natura, è comunque il massimo che possiamo offrire loro.»

Ho finto di avere un’illuminazione: «Tesoro, ho trovato. Posso ospitarvi e nascondervi a casa mia, cioè a casa nostra, a rue du Faubourg Poissonnière, e chi s’è visto s’è visto finché verranno tempi migliori».

«Mi stai proponendo di ritornare a casa?»

«Stai tranquillo. Se non mi vuoi, saprò trattenermi: non ti violenterò, non ti toccherò nemmeno.»

«Lo spero bene. Ma ho paura di cedere io alla tentazione.»

Sorrise, adoravo il suo sorriso.

«Comunque dovrai pur tornare, prima o poi.»

«Dovrò pur tornare…»

Ci fu un silenzio. Mi sembrava di avere il cuore in un vortice, sentivo il sangue battermi nelle tempie. Alla fine ha sospirato: «Restare non ha senso. Parigi è una trappola per topi».

«È più facile nascondersi a Parigi che in provincia, te lo direbbe qualsiasi ricercato.»

«Non in tempo di guerra, Rose. Sono schedato in quanto ebreo. Se resto a Parigi, dal 7 giugno sarò costretto a portare la stella gialla.»

«La settimana prossima?»

«Sì, l’ordinanza è appena stata emessa. Io e i bambini saremo come agnellini nella bocca del lupo, anche se non ho alcuna intenzione di portarla davvero.»

«Perché non vai in comune a spiegare che non sei ebreo?»

«Perché non è affatto così semplice, lo sai benissimo: le autorità hanno stabilito la mia appartenenza a una famiglia ebrea, a causa del cognome o per le lettere di denuncia, e io non sarò mai in grado di esibire prova del contrario. Non li convincerò certo con i miei begli occhi. Di questi tempi, quando sei ebreo ci rimani.»

«Ti chiedo un unico favore» ho detto, con lo sguardo velato di lacrime. «Resta fino a quando compio gli anni.»

Ha annuito con l’irresistibile sorriso per cui da sempre andavo matta: «Non perderei il tuo trentatreesimo compleanno per niente al mondo».

«È vero, viene una volta sola nella vita.»

«Ma devo lasciare subito casa e nascondermi senza farmi riconoscere. Pochi giorni fa ho visto un bilocale in affitto vicinissimo a te, in rue La Fayette. Se è ancora libero, lo prendo e mi ci trasferisco sotto falso nome.»

Mi sono avvicinata per baciarlo, ma Gabriel è corso in camera sua, a rimettere il giornale sul comodino.

30

Colazione all’aperto

Marsiglia, 2012. Samir il sorcio ha suonato alla mia porta all’una e passa del mattino. Mamadou mi aveva appena riportata a casa e avevo aperto l’acqua della vasca. Mentre mi spogliavo prima di entrare nel bagno, ascoltavo una canzone di Patti Smith, People Have the Power.

Se potessi rifarmi una vita, la sua mi andrebbe benissimo: cantante, musicista, pittrice, poetessa, tossica, fotografa, attivista, scrittrice, madre di famiglia, Patti Smith non si è fatta mancare niente. Il suo nome resterà di certo nella Storia delle donne, quella che agli uomini non piace vederci scrivere.

Una volta, dopo un concerto a Marsiglia, è venuta a cena nel mio ristorante e mi sono fatta fotografare insieme a lei e al suo sorriso dai denti guasti. Patti Smith ha il suo bel posticino nel mio pantheon delle grandi donne.

Ho lasciato Samir ad aspettare, il tempo di infilarmi l’accappatoio e chiudere il rubinetto della vasca, e quando finalmente gli ho aperto aveva messo su un broncio da far paura. È un esponente perfetto, fino a rasentare il ridicolo, di quella che chiamo la generazione del «tutto e subito». Una generazione apparentemente sempre in ritardo per un treno o un aereo, mentre in realtà ha tutta la giornata davanti. Completamente incapace, al contrario della mia, di assaporare ogni goccia della vita che Dio ci ha donato.

Samir mi ha sventolato davanti il tablet che teneva in mano mentre cercava di assumere un’aria minacciosa: «L’indagine procede. Ho una roba pazzesca da farti vedere».

«E vediamo.»

«Prima senti l’ultima barzelletta che gira su internet.»

È entrato in salotto e si è andato a sedere in poltrona, senza nemmeno chiedere il permesso.

«A un summit internazionale» ha attaccato «cade una mosca nella tazza di caffè di uno dei partecipanti.»

Ha fatto una pausa a effetto, poi: «L’americano non la tocca. L’italiano butta la mosca con tutto il caffè. Il cinese mangia la mosca e butta il caffè. Il russo beve il caffè con tutta la mosca. Il francese butta la mosca e beve il caffè. L’israeliano vende il caffè al francese, la mosca al cinese e con i soldi si compra un’altra tazza di caffè. Il palestinese accusa Israele di avergli messo una mosca nel caffè, chiede un prestito alla Banca mondiale e con i soldi compra l’esplosivo per far saltare in aria il bar nell’attimo in cui tutti gli altri cercano di convincere l’israeliano a comprare un’altra tazza di caffè per il palestinese».

Ho sorriso: «È una barzelletta ebrea».

«Grazie, ci ero arrivato anch’io. Divertente, no?»

Adesso Patti Smith cantava Because the Night, la sua hit di maggior successo, scritta da Bruce Springsteen. Ci metteva un fuoco tale da non lasciare adito a dubbi, ascoltandola, che ormai le donne sono a tutti gli effetti alla pari degli uomini.

Samir il sorcio si è alzato e mi si è avvicinato tutto ironico: «Guarda bene, questa foto è dinamite. L’ho trovata in un archivio online dell’ultima guerra».

Ho preso il tablet e mi sono subito riconosciuta. Nella foto c’era Himmler seduto a tavola, con me dietro. Avevo in mano un piatto da portata, dentro credo ci fosse del pollo ruspante con purè al basilico, una delle mie specialità: al Reichsführer-SS piaceva da matti. Aveva la testa appena voltata verso di me, animata da un sorriso quasi impercettibile e da uno sguardo non privo di tenerezza. Dietro c’era un cespuglio di fiori e sullo sfondo una quantità di alberi, quasi tutte conifere. Eravamo a una colazione all’aperto a Gmund, in Baviera.

Samir il sorcio posava su di me lo stesso sguardo dell’investigatore del film noir quando mostra all’assassino le foto della scena del delitto, nell’intento di farlo crollare. Ma io non sono crollata: «Che roba è?».

«Sei tu.»

«Io? Scusa, ma ero molto più bella di così.»

«Piantala con questo circo, Rose.»

Tra noi è calato un silenzio, fortunatamente riempito dalle note della canzone di Patti Smith, su cui mi sono concentrata.

«Quest’altro» ho detto alla fine «è Himmler, vero?»

«Così sembra.»

«E cosa c’entro, io, con Himmler?»

«È quello che mi chiedo anch’io.»

«È ridicolo» ho protestato.

«È inquietante.»

«Secondo me dovresti smetterla di indagare su Renate Fröll.»

«Non ci penso nemmeno.»

«Con questa storia» ho concluso «non si va da nessuna parte.»

Non ero sicura che fosse abbastanza venale da accettare dietro compenso di non frugare più nel mio passato. Anzi, rischiavo di aizzarlo ancora di più. Ho preferito congedarlo e mi sono alzata per significargli la fine dell’udienza.

«È tardi, Samir. Alla mia età dovrei essere a letto già da un pezzo, invece devo ancora entrare nella vasca.»

Lui non si è mosso: «Comunque mi piacerebbe sapere cosa facevi, tra il 1942 e il 1943. In quei due anni non c’è traccia di te, sei sparita da tutti i radar, e non è stata l’ultima volta. Sono strane tutte queste sparizioni, no?».

«È normale: mi ero rifugiata in Provenza.»

«Mica eri ricercata dalla polizia.»

Mi sono riseduta: «Ero ricercata dalla polizia in quanto lo era il mio ex marito, l’uomo della mia vita, il padre dei miei figli, che era ebreo. Hai capito, adesso?».

«Mi stai nascondendo qualcosa, Rose, e le cose nascoste sono le più interessanti.»

«Sono una signora molto anziana, vorrei solo essere lasciata in pace e magari anche trattata con un po’ più di rispetto, se non è chiedere troppo.»

Quando Samir se n’è andato, mi sono infilata nella vasca. L’acqua era bollente e come al solito la riscaldavo a intervalli regolari. Sono rimasta a cuocere a lungo lì dentro, a occhi chiusi e con le orecchie sott’acqua, lasciando affiorare i ricordi perché fluttuassero sopra di me mescolati ai vapori del bagno.

Quando sono uscita, ero bianca come un pesce bollito.

31

Una bellissima dentatura bianca

Parigi, 1942. L’estate arriva sempre un po’ prima. Non comincia mai il 21 giugno, lo sanno tutti, bensì con diversi giorni di anticipo. Quell’anno era arrivata ancora prima del solito, quando le querce, gli alberi più indolenti del creato, avevano appena messo il verde sui rami.

All’avvicinarsi dei miei trentacinque anni mi attenevo ancora strettamente all’astinenza consigliatami da Teo, benché in me si scatenassero i calori, come si diceva un tempo, attizzati dalla bella stagione annunciatrice della fregola che ben presto avrebbe invaso tutto il creato.

Un giorno di giugno, credo fosse verso la fine della prima settimana del mese, i due soliti ufficiali SS, Don Chisciotte e Sancho Panza, si sono presentati al ristorante. Il personale finiva di apparecchiare in sala, mentre io sorvegliavo gli ultimi minuti di cottura di due grandi crostate di albicocche, sulla cui sommità avevo appena sparso delle scaglie di mandorle a forte rischio di bruciatura, così come, sotto, bisognava stare attenti a non lasciar bruciare la pasta sfoglia caramellata. Ero nervosissima.

Sancho Panza mi ha invitato a seguirli con un tono che non ammetteva repliche. Ho pregato le SS di aspettare due o tre minuti, finché le crostate fossero cotte a puntino, e sono andata con loro solo dopo averle tolte dal forno. Non sapevo dove mi avrebbero portata e non osavo chiederlo. Convocazioni di quel genere di solito non presagiscono niente di buono e io lo sapevo bene.

In macchina ho provato a informarmi in tedesco sulla nostra destinazione, ma senza ottenere risposta. Ho immaginato gli scenari peggiori, soprattutto riguardo a Gabriel, poi Sancho Panza si è lasciato sfuggire: «Non è crafe, ma è importante».

«Non me lo potete dire?»

«Zecreto militare.»

Io parlavo in tedesco, lui rispondeva in francese. Ne ho dedotto che si sentiva in colpa per avere occupato la Francia. Anche perché, al contrario del suo commilitone, mi guardava con l’aria di un cane bastonato.

Mi hanno portata in rue de la Faisanderie 49, non lontano dal Bois de Boulogne, dove ho ritrovato Heinrich Himmler in un salone dalle pareti rivestite in legno, che troneggiava nel bel mezzo di una riunione dietro una scrivania Luigi XIV, davanti a cui erano seduti tre vecchi ufficiali SS con alcune cartelline in grembo. A quarantun anni, li dominava del tutto. Se fossero stati i suoi cani, non si sarebbe comportato diversamente.

Appena mi ha visto si è alzato con cautela, come se soffrisse di sciatica, in modo da segnalare agli ufficiali la fine della riunione. Hanno subito levato le tende senza farsi pregare, lasciando dietro di sé un tanfo di sudore e tabacco che mi ha ricordato le conigliere di Sainte-Tulle. Il Reichsführer-SS mi ha stretto la mano e mi ha invitata a sedermi insieme a lui in un angolo con divano e poltrone.

Non ero affatto tranquilla e lui se n’è accorto immediatamente. Per questo ha cominciato a tranquillizzarmi, in tedesco: «Sono a Parigi in incognito. Ho alcune questioni urgenti da sistemare. E volevo scambiare con lei due parole in privato».

Ha preso fiato, poi ha proseguito: «Lei mi piace molto e ormai da due anni, data del nostro primo incontro, non riesco a smettere di pensare a lei. Di notte, di giorno, appena chiudo gli occhi mi appare il suo volto. Vorrei portarla a vivere con me».

Oscillavo la testa in preda ai sintomi di una crisi vagale, ovvero un rallentamento del battito cardiaco con susseguente crollo della pressione arteriosa. Himmler deve avere creduto che annuissi.

«Mi piacerebbe vivere con lei fino alla fine dei miei giorni» ha continuato. «Non sono impegnativo, sa? Vado e vengo, sono sempre in viaggio. Hitler mi obbliga a qualcosa di peggio di un sacerdozio. Non mi fermo mai, è un delirio, non so come farei senza le sue pillole. Ma ho bisogno di saperla mia per intero, almeno nei rari momenti di distensione che il lavoro mi lascia.»

Aveva gli occhi grigioblu piantati su di me, ma forse dovrei dire «in me» perché sentivo come delle punture. Aspettava una mia qualche reazione ma io ero come cristallizzata. Avevo la netta sensazione che non sarei mai più riuscita a staccare la lingua dal palato.

«Per correttezza, devo dirle subito che non posso sposarla» ha continuato. «Primo, Hitler è contrario al divorzio, ce lo proibisce, ha sollevato un marasma con tantissima gente desiderosa di rifarsi una vita, per esempio Hans Frank. Secondo, a giudicare dai capelli biondi e gli occhi azzurri lei ha origini ariane, ma sono sicuro che sia di sangue misto.»

«Sono armena» ho detto in un tedesco molto migliorato rispetto al nostro ultimo incontro.

«Lo so. Dunque ha buone basi, viene da uno dei rami più puri della razza ariana. Purtroppo, come tutti i popoli caucasici, gli antichi armeni si sono spesso mischiati ai mongoli o ai turanici, da cui erano stati invasi, stuprati e asserviti.»

Il Reichsführer-SS mi squadrò dall’alto in basso, mi osservò lungamente prima di dire: «Non ho mai tempo per leggere né andare nei musei, ma sono molto sensibile alla bellezza. Anche per me, come per il poeta John Keats, “bellezza è verità, verità è bellezza”».

«Mia madre adottiva adorava Keats.»

«Ebbene, anch’io. Sappia che la trovo bellissima, bella in modo sublime. Ma è risaputo, la bellezza ha bisogno di difetti per sbocciare. I suoi sono evidenti, glielo dico in tutta franchezza: ha diversi tratti caratteristici dei mongoli. Gli zigomi alti, gli occhi a mandorla, le sopracciglia sottili, la pelle scura.»

Sono arrossita.

«Di certo avrà la macchia mongolica» ha aggiunto. «Una macchia grigioblu che di solito si trova sopra i glutei, molto vicino al coccige. Mi sbaglio?»

«No, non si sbaglia.»

«Vede, il mio intuito non sbaglia mai.» Himmler sorrise mellifluo: «Personalmente, i tratti mongoli in lei non mi danno alcun fastidio. Arrivo anzi a dire che mi piacciono, tanto più, lo ripeto, perché poggiano su basi ariane, su questo non vi è alcun dubbio».

Ero inorridita da quegli occhi, sembrava un macellaio con davanti a sé, sul banco insanguinato, una lombata o un controfiletto, ma allo stesso tempo non mi dispiaceva essere ridotta a un oggetto alla mercé di quello sguardo. Per la prima volta provai qualcosa per lui: una voglia perversa di mortificarmi e punirmi per i miei peccati, di cui le mie infedeltà con Gilbert Jeanson-Brossard erano soltanto i più veniali.

Il mento sfuggente di Himmler non era di intralcio. Chissà perché, sono sempre andata pazza per i menti sfuggenti. Mi eccitano, è un istinto sessuale.

Al pari dei timidi quando cercano di darsi un contegno, Himmler ha tossicchiato per poi togliersi gli occhiali, diventando subito più umano. Dietro le lenti aveva gli occhi umidi e mi è sembrato di leggervi una supplica, una sorta di indefinibile sofferenza. Passammo una trentina di secondi in un silenzio di tomba, con la paura e il desiderio vicini al parossismo.

Poi Himmler si è rimesso gli occhiali e ha proseguito: «Ho un’altra ragione per non chiederla in moglie: in prime nozze, lei è stata sposata con un ebreo».

«Il mio ex marito non è mai stato ebreo!»

«Le informazioni in mio possesso sono diverse. È ebreo, benché abbia lasciato intendere il contrario.»

«Non è così, verifichi…»

«Lo farò. Ma questo non cambia nulla. Le propongo di diventare la mia compagna…»

«È difficile rispondere così su due piedi» ho detto, con la gola stretta e la voce tremante. «Ci conosciamo a malapena…»

«Venga in Germania quando vuole, mi metterà alla prova» ha scherzato. «Vedrà, non rimarrà delusa…»

«Ci devo pensare.»

«Ci pensi in fretta. Altrimenti ne soffrirò.»

Mi ha consegnato un biglietto da visita con il numero della sua segreteria berlinese. Se mi avesse baciata, sia detto a mio discapito, probabilmente gli avrei ceduto, anche perché la sua bella dentatura bianca, di un biancore abbagliante, presagiva un alito decente, benché a volte nemmeno la migliore dentatura metta al riparo da brutte sorprese.

Invece, terminato l’incontro, il Reichsführer-SS si è limitato a stringermi la mano nella sua, tanto molle da provocarmi un disagio che, di ritorno al ristorante, ho annegato in preda al batticuore in una bottiglia di Bordeaux.

Quella sera è venuta a cena al ristorante una coppia simpaticissima: Simone de Beauvoir, una bella donna che lavorava a Radio Vichy, la radio nazionale, e Jean-Paul Sartre, di cui prima della guerra avevo letto e apprezzato il romanzo La nausea. Fumavano e parlavano molto.

A Sartre piacque tanto la mia cucina da offrirsi di recensire il ristorante sulla rivista collaborazionista «Comoedia», per la quale ogni tanto scriveva. Sto ancora aspettando l’articolo.

32

Il mio peso in lacrime

Parigi, 1942. Il giorno dopo il mio incontro con Heinrich Himmler, verso le sei del mattino ho sentito battere alla porta di casa mia. Sul pianerottolo una voce strillava in falsetto: «Aprite! Polizia!».

La voce apparteneva a un ometto bassino con naso e piedi enormi, dettaglio beneaugurante, se è vero come si dice che siano proporzionali all’organo maschile. Tuttavia, e nonostante il periodo di digiuno sessuale in cui languivo da tempo, non mi ha provocato il minimo brivido carnale.

Il personaggio mi ha fulminato con lo sguardo e ha strillato: «Commissario Mespolet!».

Era il suo modo di presentarsi.

«Non ci siamo già visti?» gli ho chiesto.

«Pare anche a me di avere avuto l’onore.»

Era cambiato pochissimo, dal nostro ultimo incontro a Manosque. Sempre la stessa faccia da mummia, rallegrata da una smorfia a mo’ di sorriso sopra il solito fisico da marionetta. Per non parlare del naso a manico di martello.

Quattro poliziotti sono entrati in casa e si sono messi a frugare dappertutto. Stavo per protestare, ma il commissario mi ha mostrato il mandato di perquisizione e mi ha domandato in tono stridulo: «Non sa dove posso trovare il suo ex marito?».

«Ho perso ogni contatto con lui.»

«Ma avete dei figli.»

«Non ho nemmeno loro notizie.»

«Mi permetta di dubitarne. Il suo ex marito è oggetto di un mandato di cattura: è ricercato da tutti i corpi di polizia di Francia. Se si rifiuta di collaborare con noi, posso accusarla di complicità.»

«Non vedo perché non dovrei collaborare, Gabriel non si è comportato per niente bene con me, se proprio vuole saperlo.»

Avevo già preparato il caffè e gliene ho offerto una tazza. Siamo passati in cucina mentre i tutori dell’ordine svuotavano cassetti e spostavano armadi e comò, suppongo nel tentativo di scoprirvi passaggi segreti e gallerie sotterranee verso le caverne di Sion.

«Cos’altro ha combinato, quell’idiota?» ho chiesto con finta esasperazione.

A giudicare dagli sguardi accusatori con cui accompagnava l’elenco delle sue lagnanze, il commissario giudicava me e Gabriel alla stessa stregua: «È un agente al soldo degli stranieri, che da sempre si fa passare per bravo cittadino francese. Ricattatore, usurpatore di identità e calunniatore incallito, scrittore di libelli immondi che hanno nuociuto assai a importantissime personalità del nostro Paese».

«Nella fattispecie…?»

«L’elenco sarebbe lungo.»

Il commissario Mespolet sembrava spossato. Ha sospirato e ha buttato giù il caffè in un sorso. Gliene ho versata un’altra tazza, facendo in modo di lasciargli scivolare su una spalla due ciocche dei miei lunghi capelli di allora, mentre gli alitavo dolcemente sulla nuca e gli sfioravo il braccio con il mio. Quando gli ho domandato di nuovo i nomi dei delatori, è diventato subito più loquace: «Innanzitutto c’è Jean-André Lavisse, grande scrittore e giornalista contemporaneo, un uomo ammirevole, incapace di fare del male a una mosca. Ben presto, si dice, entrerà all’Académie Française. Ebbene mi creda, meriterebbe di figurarvi già da un pezzo. L’ho incontrato diverse volte, una persona incredibile. Se tutti i francesi fossero come lui, il nostro Paese non starebbe a questo punto, non saremmo crollati davanti all’esercito tedesco. È di una cultura, un rigore, un’energia! Avrà certo letto il suo libro, Pensées d’amour…».

Ho scosso la testa schifata. Era stato lui a dare il via alla campagna di stampa contro Gabriel dalle colonne dell’«Ami du Peuple».

«Peccato, è un libro bellissimo» ha continuato Claude Mespolet. «Comunque, la grande rettitudine di Jean-André Lavisse non ha impedito al suo ex marito di accusarlo di essersi appropriato illecitamente di beni ebraici. Questi presunti intrallazzi esistono solo nella sua mente astiosa di ebreo. È diffamazione bella e buona, cara signora. Germaine, moglie di Lavisse, non ha resistito a tanta virulenza nei confronti del marito. Ha tentato il suicidio con il gas e non si è mai del tutto ripresa. Pare non le resti ancora molto.»

«Ma è terribile!» ho esclamato.

«Terribile» ha confermato lui. «E deve ancora sentire il peggio. Pensi un po’: la signora Lavisse è nipote di Louis Darquier de Pellepoix, il discendente dell’astronomo, che ha appena sostituito quell’incapace di Xavier Vallat, perché bisogna pur dire pane al pane, al Commissariato generale per le questioni ebraiche. Quest’uomo straordinario è un’altra vittima di suo marito, che su di lui ha scritto un libricino agghiacciante. Un intreccio di menzogne e infamità, in cui si parla dei grandi personaggi del nostro Paese in termini che non mi azzardo a ripetere qui per questioni di decenza. Se ci penso mi vengono ancora i brividi. Queste opere non solo attentano ai buoni costumi, ma perfino alla sicurezza dello Stato.»

Di tanto in tanto lasciavo scivolare su di lui uno sguardo ammirato, passandomi la lingua sulle labbra socchiuse. Pochi sono gli uomini capaci di resistere a una donna infatuata.

«Ma non è finita qui» ha continuato il commissario. «Fonti attendibili suggeriscono che suo marito stia scrivendo un libro della stessa risma addirittura sul maresciallo di Francia, cui tanto deve il nostro Paese.»

«Che orrore!» ho gridato. «Ma perché farebbe una cosa simile, perdindirindina?»

«Perché è un perverso, un ebreo perverso, intento a seguire solo i suoi bassi istinti. Bisogna metterlo in condizioni di non nuocere, è nel suo stesso interesse. Ecco perché deve aiutarmi a ritrovarlo.»

«Farò tutto il possibile, glielo prometto.»

Ha teso il palmo destro perché ci battessi, cosa che ho fatto.

«Mi aiuti. È vitale. Per il maresciallo. Per la Francia.»

Ben presto mi avrebbe preso la mano, lo sentivo, perciò gliela stavo lasciando a disposizione aperta sul tavolo, quando uno dei quattro poliziotti entrò in cucina: «Non abbiamo trovato niente, signor commissario».

Claude Mespolet si alzò lentamente, poi si sedette di nuovo: «Avete rimesso tutto a posto come prima?».

«Eh, cioè, no… Sa, di solito non usa, nelle perquisizioni.»

«Voglio che lasciate questa casa nelle stesse identiche condizioni in cui l’abbiamo trovata. Chiaro?»

«Agli ordini.»

Benché il commissario Mespolet fosse un traccheggiatore per natura, alla fine ho raggiunto il mio scopo: dopo aver posato una buona volta la mano sulla mia, mi ha invitato a cena per l’indomani.

«Alle sei e mezzo di sera al mio ristorante» ho risposto, «è la cosa più pratica. Mi scusi, ma prima e dopo non posso, sono in cucina.»

«I suoi orari vanno benissimo per me.»

Cominciavo a sentirmi attratta sul serio. La prospettiva di distruggermi rotolandomi nel fango con lui mi piaceva. Sulla soglia, gli ho sussurrato: «Lei è la persona più interessante che io abbia incontrato da molto tempo a questa parte».

Non è arrossito, ma ha avuto un lampo negli occhi.

Appena se ne sono andati mi sono vestita in fretta e furia e, non senza assicurarmi di non essere seguita, sono corsa da Gabriel per avvertirlo del pericolo. Dietro la porta della casa dove si era trasferito, in rue la Fayette 68, ho sentito ridere i bambini: aveva allestito per loro uno spettacolo di marionette.

Dopo essersi fatto riassumere quanto avevo appreso dal commissario, Gabriel mi ha detto di non preoccuparmi. Era già tutto organizzato di modo che lui e i bambini raggiungessero presto la zona libera e non voleva cambiare il programma, sarebbero rimasti a Parigi fino al mio compleanno per partire soltanto il giorno successivo.

Quando li ho salutati, i bambini mi si sono aggrappati alle sottane. Ho faticato molto a mantenere un contegno, soprattutto perché Édouard strillava: «Mamma non andartene, resta con noi!».

Ma non appena ho chiuso la porta alle mie spalle, sono scoppiata in singhiozzi. Quel giorno, credo proprio di avere pianto il mio peso in lacrime.

33

La tattica Johnny

Parigi, 1942. La sera successiva il commissario Mespolet si è presentato alla Petite Provence con espressione cupa, la bocca secca e lo sguardo smarrito. Ho dato la colpa all’amore e fin dall’aperitivo le ho provate tutte per rassicurarlo.

«Alle nostre imprese insieme» ho detto, mentre il mio bicchiere di champagne tintinnava contro il suo.

«A noi» ha mormorato lui a testa bassa.

«Attento, bisogna guardarsi negli occhi. Altrimenti sono sette anni di infelicità sessuale.»

«Ci crede davvero?»

«Sono superstiziosa.»

Abbiamo ricominciato.

«Prost» ho detto, alzando il bicchiere con aria provocante.

Non ha nemmeno sorriso. Il commissario Mespolet non era lo stesso uomo del giorno precedente. Aveva l’espressione di chi sta perdendo tempo. Con le gambe, come se avesse le formiche, suonava il tamburo sotto il tavolo. Aveva gli occhi in preda a tic, come quello di lanciare continuamente sguardi furtivi intorno a sé.

Alla fine, prima di sparecchiare la parmigiana che avevo servito come primo, gli ho chiesto cosa non andasse.

«È molto semplice» ha risposto senza esitazioni. «Mi ha deluso…»

«Perché?»

«Ha tradito la mia fiducia.»

«Ma cosa ho fatto?»

«Appena ce ne siamo andati è corsa dal suo ex marito…»

Ho finto stupefazione: «Mi scusi, ma siamo nel delirio più assoluto!».

La chiamo la tattica Johnny, perché Johnny Hallyday mi ha detto di averla utilizzata in una situazione in cui tutto sembrava accusarlo. Si tratta di spararla talmente grossa da sbalestrare l’interlocutore. Un diniego primario, il grado zero della smentita.

Una decina di anni fa, dopo un concerto, il cantante è venuto a cenare nel mio ristorante di oggi, a Marsiglia, a un’ora improbabile. Mi è subito piaciuto. Un uomo ferito, impegnato da decenni ad ammazzarsi d’alcol, ma senza successo. Era ubriaco fradicio, e detto di lui rappresenta un eufemismo. A parte quando canta.

Con voce pastosa e dunque sincera, Johnny Hallyday me ne ha raccontata una bella, ricordandomi il mio comportamento di tanto tempo prima nei confronti del commissario Mespolet. Una notte, all’epoca dei suoi inizi come cantante, era tornato a casa tardi e completamente sbronzo, con una ragazza rimediata chissà dove. Dopo essere caracollato con lei nella sua camera coniugale, aveva cominciato a spogliarla al buio quando la luce si era accesa all’improvviso. Era sua moglie. Si era rivolta indignata alla signorina già mezza nuda e aveva strillato: «Cosa ci fa lei qui?».

Al che Johnny, altrettanto indignato, si era rivolto anche lui alla ragazza: «Esatto! Cosa ci fa, qui?».

Ricordo che quella sera era stato lo sguardo del commissario Mespolet a mettermi in allarme. Ci ho visto scintillare una lama, il suo volto pallido rifletteva un odio inesorabile.

Il cuore ha cominciato a battermi più forte. Non riuscivo a farlo rallentare.

«Se conosce l’indirizzo di Gabriel e dei miei figli» gli ho chiesto, «significa che li avete arrestati?»

«Segreto professionale.»

«Perché non dimostra un minimo di umanità e risponde alla mia domanda?» ho gridato, tutta tremante.

Si è alzato e mi ha salutata con un piccolo cenno del capo, ma quasi non ho fatto in tempo a vederlo: mi ero già messa a correre e appena fuori dal ristorante ho fermato un taxi a place du Trocadéro, dandogli l’indirizzo di rue La Fayette 68.

Per strada abbiamo incrociato una quantità di Torpedo, camion telonati, furgoni neri e autobus stracolmi. Non ho capito cosa succedeva, mi sentivo stremata e allo stesso tempo qualcosa mi gridava dentro…

Arrivata al civico 68, sono salita divorando i gradini a quattro a quattro. Al quinto piano ho suonato il campanello con mano tremante. Nessuna risposta. Sono ridiscesa senza fiato per chiedere informazioni alla portiera, la quale mi ha risposto con aria compassionevole: «Eh, signora, sono venuti i poliziotti e li hanno portati via. A detta del commissario, oggi è giorno di rastrellamento di ebrei, di tutti gli ebrei».

«Anche i bambini?»

«Certo, cosa crede? La polizia porta via tutto dalle case degli ebrei. Piccoli, vecchi e gioielli, tranne i gatti. I gatti li lasciano sempre. È un problema. Ne ho già recuperati cinque, con i miei fanno sette, non posso prenderne altri. Per fortuna suo marito non ne aveva. Altrimenti era un bel problema.»

Ha tirato un gran sospiro e ha ripreso: «Non è che vuole, un gatto?».

«Ne ho già uno.»

«Meglio due, e meglio ancora tre.»

Quando le ho domandato se Gabriel e i bambini erano stati portati via da poliziotti o miliziani, non ha saputo rispondermi.

«Comunque è uguale» ha detto, «non cambia niente, cara signora: i gatti, li lasciano sempre.»

A parte i baffi, aveva proprio una faccia da felino: prendeva a cuore dunque le sorti del suo popolo, ma ciò non le impediva di compatire la mia disgrazia.

Ha abbassato lo sguardo: «Non si faccia illusioni, non torneranno tanto presto. Avevano delle valigie con sé e la polizia ha detto al signore di chiudere acqua, luce e gas».

Mi ha invitato a entrare in guardiola per sedermi e bere un grog, acqua e rum. Le ho risposto di sentire già abbastanza caldo così e sono corsa al commissariato del IX arrondissement.

Dopo avere aspettato tre ore senza riuscire a ottenere alcuna informazione ed essere passata in questura per trovarla chiusa, sono ritornata al ristorante con l’intenzione di telefonare a Heinrich Himmler, al suo quartier generale di Berlino.

Il mio vice Paul Chassagnon, che aveva finito il turno serale, mi aspettava proprio di fronte alla Petite Provence.

«È successo qualcosa ai bambini?»

«Come lo sai?»

«Mi hanno detto che sei scappata via di corsa. Poteva essere solo per i tuoi figli.»

«Una retata. Adesso chiamo subito Himmler.»

Non mi rendevo conto del ridicolo, mentre pronunciavo tutta indignata il nome del Reichsführer-SS come se mi dovesse delle spiegazioni. Ero fuori di me: rivivevo l’incubo della mia infanzia e questo mi rendeva folle, mi trasformava in un unico immenso brivido.

Heinrich Himmler non era in ufficio, del resto quello era l’ultimo posto al mondo dove l’avrei trovato. Probabilmente era a fare un giro d’ispezione in Russia, Boemia, Moravia o Pomerania, per supervisionare le esecuzioni di massa. Mi ha risposto un certo Hans, uno dei suoi aiutanti di campo. Gli ho esposto la situazione e lui, con tono non meno scandalizzato del mio, ha esclamato: «Che errore puerile. Ne parlerò al Reichsführer-SS non appena riuscirò a raggiungerlo. Le autorità francesi sono piene di buona volontà ma combinano solo sciocchezze, questo va detto. Si sbagliano con le schedature, confondono i nomi, dovrebbero lasciar fare a noi…».

Ho riattaccato e sono crollata tra le braccia di Paul Chassagnon, da cui sono stata informata che il turno serale si era svolto più o meno senza incidenti, anche se mancava praticamente qualsiasi cosa. A cominciare dal pane.

«Me ne sbatto, del pane!» ho urlato, poi gli ho chiesto scusa e sono scoppiata in lacrime.

Morivo. Per un lungo tempo, sono morta. Esiste una vita dopo la morte, lo sa chiunque abbia perso un figlio. A questa vita mi aggrappavo per ritrovarli.

Per paura che Himmler chiamasse mentre ero a casa e non ritelefonasse più, ho preferito aspettare al ristorante. Paul Chassagnon si è proposto di restare con me e io ho accettato: avevo bisogno di sentire le sue grosse braccia villose intorno a me. Inoltre, da lui non avevo niente da temere. Era omosessuale.

Ci siamo stesi sotto la cassa, vicino al telefono, su un giaciglio di tovaglie ripiegate. Mi ha posato il braccio sulla pancia, è servito a calmarmi ma non sono riuscita lo stesso a dormire. In troppi sono venuti a farmi visita quella notte: sotto le mie palpebre gonfie di pianto, fino all’alba hanno sfilato Garance, Édouard, Gabriel, mia madre, mio padre, la nonna, fratelli e sorelle, tutti scomparsi nel vortice degli abomini del Novecento.

Poco prima dell’alba, Heinrich Himmler non aveva ancora richiamato e ho deciso di tornare a casa.

34

Rastrellamento

Parigi, 1942. Il 17 luglio, all’indomani del cosiddetto rastrellamento del Velodromo d’Inverno, dopo essermi svegliata stanchissima sono rimasta sconvolta quando mi sono imbattuta nel mio volto riflesso nello specchio del bagno. Sembravo una vecchia arpia incartapecorita, con due grandi occhiaie viola. Non sono mai stata una fanatica del trucco. Fino ad allora, una nuvola di polvere di riso sulle gote mi era sempre bastata.

Ma stavolta, dopo aver bevuto il caffè, mi ci sono messa di buzzo buono. Nell’armadietto tenevo un tubetto di fondotinta Bourjois praticamente d’anteguerra, ancora intonso. Me ne sono spalmata talmente tanto da darmi la sensazione di nascondermi dietro una maschera. Dopodiché ho preso il rossetto e mi sono disegnata due labbra scarlatte, senza lesinare sul rimmel, di cui mi sono impiastricciata le ciglia nonostante sapessi quanto poco ci avrebbe messo a colar via, sotto la calura estiva.

Ormai si sa quanto io sia superstiziosa. Non avrei corso il benché minimo rischio: prima di richiamare Heinrich Himmler ho dovuto assolutamente farmi bella, recitare un Pater Noster, portarmi all’orecchio la conchiglia portafortuna detta in Provenza «orecchio di Madonna» e bagnarmi il petto con un’acqua lustrale in cui era immerso un rametto di verbena.

Quando ho ricontattato il quartier generale di Himmler, l’aiutante di campo mi ha detto che il Reichsführer-SS si scusava per non essere ancora riuscito a dare seguito alla mia chiamata, ma aveva avuto «una serata assai piena»: in quel momento si trovava in riunione, «una riunione molto importante», e mi avrebbe cercata a fine mattinata, verso mezzogiorno. Nel caso non lo avesse più, ho ridato a Hans il numero di telefono della Petite Provence.

«Stia tranquilla» ha risposto Hans in tono ironico. «I suoi numeri di telefono si trovano su un foglio di carta bene in evidenza sopra la scrivania del Reichsführer-SS. E io ne una copia sulla mia.»

Mentre andavo al lavoro in bicicletta, come al solito, Parigi mi è apparsa in lutto. Per le strade aleggiava un’atmosfera di grande tristezza. Più respiravo e più mi sentivo oppressa. Un rapporto della questura parigina a seguito dell’arresto di 12.844 ebrei, di cui un terzo bambini, avrebbe poi descritto la desolazione dipinta quel giorno su tutti i volti: «Anche se il popolo francese nel suo insieme è in generale alquanto antisemita, cionondimeno giudica molto severamente certe misure, da esso considerate inumane».

I parigini, aggiungeva il rapporto, non sopportavano di vedere i piccoli separati dalle madri. Chi ha sentito le grida dei bambini, quel giorno, non le ha più potute dimenticare.

Appena sono arrivata al ristorante, Paul Chassagnon mi è corso incontro per dirmi che con tutta probabilità Gabriel e i ragazzi si trovavano al Velodromo d’Inverno, dove erano stati portati moltissimi ebrei. Ho deciso di andarci con lui appena fossi riuscita a parlare con il Reichsführer-SS.

Con una puntualità che andava di pari passo con la sua cortesia, Himmler si fece vivo a mezzogiorno spaccato.

«Conti pure su di me» disse, dopo avermi chiesto di riassumergli la situazione.

«La prego» supplicai.

«Sono uno che quando dice una cosa la fa, Rose, lo capirà conoscendomi meglio. La richiamo quanto prima.»

Chiusi il ristorante e incaricai Paul di andare al Velodromo d’Inverno mentre io restavo attaccata al telefono.

Heinrich Himmler richiamò verso le sei di sera. Non era riuscito a scoprire niente: «Qualcosa mi sfugge» cominciò, «e non mi piace quando non capisco: i nomi del suo ex marito e dei suoi figli non figurano sul grafico riepilogativo dei moduli d’arresto degli ebrei stranieri compilato dalle autorità francesi».

«Cosa ne deduce?»

«Nulla. Evidentemente sono stati arrestati nel quadro dell’operazione Vento di primavera, che i francesi hanno portato avanti per noi. In quanto ebrei, ci spettano.»

«Ma non sono ebrei!»

«Vengono considerati tali. Chi ha almeno due nonni ebrei, come loro, è un Mischling. Un mezzo ebreo, dunque un ebreo. Di regola dovrebbero ricadere sotto la nostra giurisdizione.»

«Perché non riesce a trovarli, allora?»

«Tenderei a metterlo in conto alla disorganizzazione dei servizi francesi. Non dico che manchino d’impegno, ma sono troppo nervosi, troppo eccitati, capisce. E anche troppo sicuri di sé. Sono dilettanti, anziché professionisti. Creano sempre problemi.»

«Pensa che li abbiano tenuti loro?»

«Con i francesi si è autorizzati a pensare a qualsiasi cosa, in particolare al peggio. Hanno un tale complesso di superiorità, si credono dei geni. A parlare, sono i più bravi. Ma quando è il momento di passare all’azione, non se ne salva uno. Non si prendono la briga di concentrarsi, improvvisano in continuazione: non cambieranno mai. Il suo ex marito e i suoi figli portavano la stella gialla?»

«No.»

«Sui loro documenti di identità c’era il timbro “ebreo”?»

«Nemmeno.»

«Se si tratta di ebrei non registrati, potremmo aver perso le loro tracce proprio per questo…»

Ho riferito a Himmler quanto mi era stato detto dal commissario Mespolet. Bisognava interrogarlo: se qualcuno sapeva dove fossero Gabriel e i bambini, quello era lui.

«Lo faremo parlare» disse, «ma temo che non servirà a molto: la chiave di tutto dev’essere nella confusione di nomi e incartamenti. Se è così, ci metteremo del tempo per ritrovarli. Me ne occuperò personalmente.»

Per paura di mancare una sua chiamata, ho dormito di nuovo al ristorante con Paul Chassagnon, ritornato da una mezza giornata passata a girare intorno al Velodromo d’Inverno in cerca di informazioni su Gabriel e sui miei figli. Mi ha raccontato i lamenti, i pianti e le risa, poi è scoppiato a piangere anche lui. Per consolarlo l’ho stretto a me, poi l’ho baciato. Quando le nostre bocche si sono incontrate, ho sentito un buonissimo sapore di noce moscata. Siccome diceva di essere omosessuale ero sicura di non dare adito a conseguenze, ma le cose sono precipitate malgrado noi.

Aveva un modo stupendo di prendermi, con delicatezza e circospezione. Era un artista dei preliminari, accarezzava benissimo e non faceva niente senza chiedere il permesso prima. Possedeva il garbo di Gabriel, che non ho più ritrovato in nessun altro. È colpa di Paul Chassagnon se, in seguito, sono stata tanto spesso attratta da omosessuali, nella speranza di ritrovare l’enorme piacere provato con lui. Ma nessuno è mai più riuscito a darmi quelle soddisfazioni, per cui ci vuole proprio la guerra o qualche terribile disgrazia.

Himmler ha telefonato l’indomani nel tardo pomeriggio. Secondo le sue informazioni, ancora in via di verifica, precisò, Gabriel e i bambini erano stati deportati dalla stazione di Drancy. Si rendeva garante del loro recupero durante il viaggio e mi metteva a disposizione un aereo in modo da raggiungerlo a Berlino, per seguire le ricerche al suo fianco.

Per farmi coraggio ho preso con me la mia salamandra, dopo averla sistemata in uno scatolone di biscotti perché potesse starci comoda con tutta la coda. Con più di un quarto di secolo alle spalle, Teo cominciava ad avere una discreta stazza, e grazie a Dio aveva ancora molti anni di vita davanti. Avevo bisogno di lei come non mai: era l’unica famiglia che mi fosse rimasta.

35

Un pidocchio nel pagliaio

Berlino, 1942. Hans mi aspettava sotto la scaletta dell’aereo. Era rigido come la morte, nell’uniforme da SS. Come sarei venuta a sapere poi, aveva combattuto sul fronte russo nella Panzerdivision Wiking, dove si era molto distinto diventando uno dei cinquantacinque soldati di quella divisione insigniti del titolo di cavaliere della Croce di ferro.

Senza le terribili cicatrici da cui era attraversata la sua guancia destra, Hans sarebbe stato un bell’uomo. Lo era ancora, ma solo dal lato sinistro. L’altro lato aveva un che di mostruoso: dall’orecchio alla guancia, era stato completamente devastato da un lanciafiamme.

Mi ha chiesto quali fossero i miei interessi principali e ho risposto: «Dio, l’amore, la cucina e la letteratura».

«Niente sport?»

«No, ma mi piacerebbe.»

Mi ha consigliato di mantenermi in forma praticando le arti marziali, a cui si è proposto di iniziarmi. Ho accettato e lui, forse perché aveva male da qualche parte, non ha più aperto bocca fino a quando l’automobile si è fermata davanti a un bel palazzo in pietra grigia, nel centro di Berlino. Era il domicilio istituzionale del Reichsführer-SS.

Ancora non lo sapevo, ma Himmler aveva anche altre case. Un appartamento a Grunewald, dove aveva sistemato la sua amante Hedwig Potthast, che più tardi trasferì con fondi del partito presso Schönau, sulle rive del lago Königssee, mentre la legittima sposa faceva la spola tra la loro casa di Berlino e la villa di Gmund, in Baviera, dove viveva la figlia Püppi.

Dopo avermi mostrato i luoghi e fatto vedere camera mia, Hans mi propose uno spuntino. Champagne e salmone affumicato o gravlax marinato, con blini e panna acida.

«È meglio aspettare il Reichsführer-SS, per mangiare» ho obiettato.

«Il Reichsführer-SS non ha orari. È un maniaco del lavoro, non stacca mai: potrebbe ritornare tardissimo.»

«Preferisco aspettare.»

«Mi ha detto di darle da mangiare appena fosse arrivata. È una persona semplicissima, vedrà. I salamelecchi non sono il suo forte, ma gli piace essere ubbidito.»

Subito dopo avere ottemperato alle sue richieste quel tanto che richiedeva la forma, mi sono occupata di Teo andandole a cercare in giardino qualche punteruolo del grano, sempre con l’aiuto di Hans. La mia salamandra ne ha mangiato uno solo.

«Cosa c’è?» ho chiesto a Teo. «Tieni il broncio?»

«Questo posto non mi piace.»

«Non è una buona ragione per lasciarsi deperire.»

«Ti dico la verità: a me i nazisti tolgono l’appetito.»

«Io amo questo pianeta, Teo, e niente mi impedirà di amarlo, né gli uomini né tantomeno i nazisti.»

Ho richiuso la scatola e mi sono addormentata sul letto.

«Ha fatto buon viaggio?»

Tre ore più tardi Himmler mi svegliava con la sua bella voce virile. Si era chinato su di me e mi solleticava le narici con il suo fiato acidulo.

«Sono contento di vederla» sussurrò.

«Anch’io. Ci sono notizie?»

«Sì» disse raddrizzandosi. «Forse abbiamo scoperto dove si trovano i suoi figli: su un treno che abbiamo dirottato vicino a Stoccarda. Lo stiamo perquisendo in questo stesso istante.»

Mi ha guardata dritto negli occhi: «Badi, Rose, niente facili entusiasmi. È solo una traccia».

«E Gabriel?»

«Lo stiamo ancora cercando.»

Mi disse di avere fame e andò in cucina a vedere cosa c’era nel frigo. Io l’ho seguito, offrendomi di preparargli una pasta al salmone affumicato.

Gli ho chiesto di poter andare a Stoccarda. Himmler mi ha risposto vagamente infastidito: «Non appena avremo trovato i suoi figli».

Ho capito che era meglio non insistere, ma non resistendo gli ho domandato: «Lei è ottimista?».

«Il pessimismo non serve a nulla, è la malattia dei parassiti e degli inconcludenti. Abbiamo dalla nostra la volontà, e questo è l’essenziale. Perciò avremo successo.»

«E Gabriel?»

«Faccio già tutto quello che posso.»

Cominciava a irritarsi. Mi ha offerto una birra, dopodiché ne ha buttate giù due, una dietro l’altra, e alla fine ha emesso uno strano rumore: sembrava un gatto importunato da un cane o da un suo simile. Solo che sprizzava felicità da tutti i pori.

«Si è ricordata di portare con sé un po’ delle sue pillole miracolose?» mi ha chiesto.

«Ne ho una scorta per diversi mesi.»

«Grazie, Rose. Lei è perfetta.»

Il Reichsführer-SS mi si è avvicinato. Pensavo volesse baciarmi e ho avuto un mancamento, mi sentivo un agnello davanti alla mannaia, invece mi ha dato soltanto un amichevole buffetto sulla guancia. Tremavo di paura, ma allo stesso tempo ero ebbra di gratitudine.

Sapevo cosa voleva, ma era il tipo d’uomo che sapeva aspettare. Non resisteva a niente, fuorché alle tentazioni. Quando ne sentiva arrivare una, si irrigidiva: parole e gesti gli uscivano a fatica. Meno male.

Sarebbe toccato a me prendere l’iniziativa e ovviamente non ne avevo la minima intenzione. Hans mi aveva detto che avremmo dormito in due camere attigue al primo piano. Adesso ero sicura di poter dormire tranquilla: da Himmler non avrei avuto nulla da temere.

Ha tossicchiato e poi, mentre mi affaccendavo ai fornelli, mi ha chiesto se avevo avuto qualche avventura dopo il divorzio. Senza nemmeno pensare a Paul Chassagnon, ho subito mentito convinta: «Ma no, avrei orrore di me stessa…».

«È proprio una donna. L’ultima parola sull’argomento l’ha detta Goethe, quando ha spiegato che la natura dell’uomo è poligama, quella della donna monogama.»

Ha sgraffignato tre cubetti di salmone affumicato per assaporarli insieme alla sua citazione.

«Noi uomini» ha continuato «siamo conquistatori. Voi donne, protettrici. Del focolare, dei bambini, del patrimonio.»

Quando gli ho detto di aver portato con me un ospite a sorpresa, la mia salamandra Teo, Himmler ha sorriso: «Amo molto gli animali. Me lo mostri».

Gliel’ho portata e lui ha detto: «Quest’animale ha bisogno d’acqua».

«Ci penso io. Le faccio diversi bagni al giorno.»

«Domani le regalerò un acquario. È una bella bestia. Francesco I ne fece il suo emblema. Peccato sia spesso associata al popolo ebraico, a causa del suo viscidume.»

Ha tenuto in mano Teo mentre io tornavo ai fornelli. Dopo aver scolato la pasta, l’ho fatta saltare nel tegame con i dadini di salmone affumicato, un limone spremuto, olio d’oliva, una cucchiaiata di senape e una di panna acida, groviera grattugiato e uno spicchio d’aglio schiacciato che avevo messo a soffriggere in precedenza. Ho salato, pepato e servito con foglie fresche di aneto trovate nel comparto verdure del frigorifero.

Al primo boccone, Himmler si è lasciato sfuggire un sospiro di soddisfazione, una specie di rantolo amoroso. Dopo il secondo boccone ha fatto lo stesso, e anche dopo il terzo.

Al quarto mi ha detto, fissandomi dritto negli occhi: «Ho un’idea. Perché non resta in qualità di cuoca? Sarebbe un’ottima copertura: dopotutto è il suo lavoro e così eviteremmo le chiacchiere della gente mentre portiamo avanti le nostre ricerche, che rischiano di protrarsi a causa degli immensi spostamenti di popolazioni attraverso l’intera Europa».

«Ma poco fa diceva di aver localizzato i bambini…»

«È solo una traccia, gliel’ho già detto, e tra l’altro riguarda i suoi figli e basta. La caccia potrebbe durare a lungo. È come cercare un pidocchio in un pagliaio.»

Perché aveva detto pidocchio, invece di ago?

36

In cucina con il diavolo, senza coperchi

Berlino, 1942. Il mattino dopo sono scesa prestissimo per mettermi ai fornelli a preparare la colazione. La sera prima Himmler mi aveva detto che gli piacevano le crêpes flambé al rum. Era tutto pronto, pastella e bottiglia, quando verso le sei meno un quarto si è presentato in cucina già rasato e vestito, con la faccia da pesce lesso e lo sguardo della vacca che ha appena sgravato.

Conoscevo già la risposta, ma gliel’ho chiesto lo stesso: «Dormito bene?».

«Per nulla, ma non è importante. Ho letto e lavorato. Quando avremo vinto la guerra, ci sarà tempo per dormire. Il telefono ha squillato a ripetizione, spero non l’abbia disturbata.»

«Dormivo come un ciocco» ho mentito.

Mi ha letto nel pensiero e ha dichiarato: «Ancora nessuna notizia della sua famiglia».

A quel punto il Reichsführer-SS si è lamentato dello stomaco, da cui era stato tormentato atrocemente per tutta la notte. Soffriva di crampi in continuazione, si faceva curare da un massaggiatore estone «di origini tedesche», allievo di un grande maestro tibetano, il dottor Kô. Si chiamava Felix Kersten e aveva curato diversi membri della famiglia reale olandese: «Una pasta d’uomo».

«Stasera verrà a cena qui» disse Himmler. «Lei e Felix vi intenderete a meraviglia, ne sono sicuro. Appartenete a una specie in via di estinzione, quella delle persone vere.»

Gli chiesi se non gli avrebbe fatto male mangiare le mie crêpes, dati i suoi crampi allo stomaco, ma il Reichsführer-SS protestò in tono ironico: «Privarmene sarebbe inumano».

Inzuppò un dito nella pastella, lo leccò e disse: «Se non riuscissi a digerire queste crêpes, chiederò a Felix di riparare i danni. Con le sole mani riesce ad aver ragione di dolori mostruosi, contro i quali nemmeno la morfina è efficace. A volte sono talmente violenti da provocarmi uno svenimento: sembrerebbe un cancro in fase terminale, come quello alle ghiandole salivari di cui è rimasto vittima mio padre. Crede di potermi aiutare anche lei, con le sue piante officinali?».

Ho annuito: c’era una quantità di piante adatte a procurargli sollievo. Per esempio anice, aneto, coriandolo e finocchio, molto indicati contro l’accumulo di gas.

«Io non ho gas» ha ribattuto.

«Tutti ne abbiamo. Ma se i dolori vengono da stomaco e intestino…»

«… È esattamente questo, il problema.»

«Allora, in tal caso, melissa e menta piperita possono rivelarsi estremamente utili. Le preparerò delle pillole.»

Già che c’ero, gli ho raccomandato di rivedere tutta l’alimentazione, eliminando grassi, verdure crude, frutta e formaggi.

«Ma cosa mangerò, allora?» ha chiesto disperato.

«Riso, pasta, purè.»

«Dico di essere vegetariano per imitare il Führer, ma ha visto i risultati su di lui: nella sua dieta dev’esserci qualcosa di debilitante, non ce la fa più, vederlo è una pena. Per star bene ci vuole il ferro, e il ferro si trova nella carne. Io a volte ne mangio, sebbene in modo discreto.»

«La carne fa male alla salute. Almeno per i primi tempi, le consiglierei di limitarsi ai pesci non troppo grassi e ai legumi cotti.»

«E la zuppa di piselli? Mi piace tantissimo!»

«Deve evitare quelli secchi.»

Himmler se ne andò e io passai il resto della giornata a preparare la cena per quella sera. In fondo non avevo altro da fare, a parte mangiarmi il fegato pensando a Gabriel e ai miei figli.

Ho scelto il menu e sono uscita a comprare le provviste con le tre SS di guardia alla casa. Le strade e i negozi di Berlino erano invasi da nubi di mosche eccitate e ronzanti, apparentemente digiune da tempo immemore e attratte da qualsiasi cosa, compreso l’abbondante sudore sul mio volto.

«Non si è mai vista una cosa del genere» sospirò una SS.

«Potrebbe essere un segno» risposi. «O una punizione.»

Non raccolse la provocazione. A mezzogiorno entrai in cucina e ci rimasi fino a sera, dopo aver preparato tutta la cena salvo la portata principale.

Si cominciava con diversi antipasti: tortino di melanzane, barigoule di carciofi, gamberoni al basilico.

Poi il piatto forte: merluzzo al latte con aneto e aglio.

Infine la fantasia di dessert: torta di mele senza sfoglia, semifreddo al Grand Marnier, pesche flambé al kirsch.

Guardando le pietanze sul tavolo della cucina devo dire di aver provato uno slancio di allegria assolutamente ingiustificato, visto che, ventiquattro ore dopo il mio arrivo a Berlino, ancora non avevo notizie di Gabriel e dei bambini. Quando le cose vanno male, non c’è niente come cucinare, tutte le donne lo sanno.

*

Felix Kersten si presentò alle otto di sera, e per prima cosa si scusò di essere in orario. Era il tipo sempre intento a farsi perdonare colpe non sue.

Himmler era molto in ritardo, come il giorno prima, e nell’attesa abbiamo avuto tempo di scambiare due parole. Il dottor Kersten era un omone sudaticcio, eppure i vestiti gli ballavano addosso. Sbuffava come un toro ed era costantemente in preda al prurito, si grattava la faccia, la pancia, le braccia, le cosce, oppure infilava le mani nelle tasche della giacca per frugarvi o giocherellare con qualche pezzetto di carta. Se si aggiunge il fatto che era sempre alla caccia furibonda di qualche mosca, si può dire che il massaggiatore del Reichsführer-SS non stava fermo un attimo.

«Lei è nazista?» mi ha chiesto, subito dopo essermi stato presentato.

«No, sono qui per cercare i miei figli e il mio ex marito, deportati dalla Francia.»

«Tanto piacere» ha detto stringendomi la mano. «Nemmeno io lo sono. Comunque, sebbene Himmler sia un nazista indiavolato, sappia di poter contare sempre su di lui per i casi personali. Ne so qualcosa.»

Abbassando la voce, ha aggiunto: «Secondo me è il tipo da condividere sempre l’ultimo parere che ha sentito. Se viene dall’ufficio di Hitler sono guai. Ma se è appena stato con me, allora è un’altra cosa…».

Zio Alfred diceva spesso: «Gli eroi sono peggio dei buoi». Felix Kersten era la prova vivente della veridicità di questo detto. Quando l’ho visto la prima volta, esagitato e confusionario, non avrei mai creduto che in seguito sarebbe stato considerato uno dei personaggi più straordinari della Seconda guerra mondiale, tanto da essere canonizzato, per così dire, da H.R. Trevor-Roper, uno dei maggiori storici di quel periodo.

In effetti il dottor Kersten era una specie di santo agnostico, capace di muoversi insieme al diavolo in una cucina dove erano stati banditi i coperchi, nell’intento di sottrargli qualche vita. Grazie alle sue mani di massaggiatore aveva assunto il controllo della mente di Himmler, ottenendo dal suo paziente moltissime cose, soprattutto quando stava male. Dopo la guerra, non senza violentissime polemiche, fu stabilito che durante il 1941 lui fosse riuscito a risparmiare a tre milioni di olandesi, i cosiddetti «irreconciliabili», la deportazione in Galizia o Ucraina. Inoltre, il Congresso ebraico mondiale gli ha ufficialmente riconosciuto di avere salvato sessantamila ebrei. Senza contare tutti i prigionieri e i condannati a morte da lui sottratti alle grinfie del Terzo Reich.

Mi ha consigliato di non fidarmi di nessuno, a parte di lui e di Rudolf Brandt, il segretario di Himmler: «Un uomo privo di personalità, ma un buon diavolo».

«Alla fin fine» ha detto «c’è una sola cosa grazie alla quale si riesce a resistere. Ed è l’alcol.»

Mi ha chiesto dell’acquavite e io gliene ho versato un bicchierone, dopodiché ha ripreso a scacciare gli insetti con il suo scacciamosche.

Mi corteggiava sdraiato in poltrona, con voce sdolcinata e sguardi amorevoli. Era un po’ rozzo, ma mi faceva bene.

Ha bevuto altri tre o quattro bicchieri di acquavite e all’arrivo del Reichsführer-SS, verso le undici di sera, era decisamente brillo. Ma non importava. Con Himmler non c’era bisogno di tenere viva la conversazione: parlava sempre lui. Durante la cena ci ha intrattenuti su sacrificio e onore, basandosi sull’edificante esempio di Federico Guglielmo I, re di Prussia dal 1713 al 1740, abituato a vivere modestamente in due sole residenze di campagna, dopo avere drasticamente tagliato le spese di corte.

Un «monarca soldato» a cui si deve il ripensamento di tutta la Prussia, la riorganizzazione dello Stato e il potenziamento dell’esercito fino al raddoppio degli effettivi. Quando suo figlio Federico II poi detto il Grande, un letterato che inorridiva di fronte agli abissi di ignoranza del padre, provò a scappare in Inghilterra, il monarca non esitò a imprigionarlo in una fortezza e a fargli decapitare sotto il naso l’amico Hans Hermann von Katte.

«Quando si tratta della famiglia» concluse Himmler con la bocca piena di semifreddo al Grand Marnier, «le punizioni devono essere rare, ma giuste e severe.»

*

Passavano i giorni e le settimane, ma sempre nessuna notizia di Gabriel o dei bambini. Heinrich Himmler sembrava dispiaciutissimo, secondo me si sentiva fondamentalmente umiliato, lui, principe dei poliziotti, di rivelarsi incapace di risolvere il problema.

Di tanto in tanto Hans, l’aiutante di campo, mi insegnava le tecniche di combattimento ravvicinato oggi dette krav maga, che aveva imparato in gioventù da un amico e compagno di università, un ebreo originario di Bratislava di cui non aveva notizie da molto tempo.

Si tratta di un metodo di autodifesa sviluppato dagli ebrei slovacchi e da loro utilizzato durante gli anni Trenta per proteggersi contro le leghe fasciste e antisemite. Consiste nell’agire molto in fretta ed evitando rischi per la propria persona, tramite l’aggressione a mani nude, o con qualsiasi oggetto a disposizione, delle parti più vulnerabili del nemico: occhi, nuca, gola, ginocchia e genitali.

«È come nella vita» ripeteva sempre Hans. «Tutti i colpi sono validi.» Mi ero abituata al suo volto doppio, da un lato Adone e dall’altro Frankenstein. Ero affascinata dalla ferita in seguito alla quale aveva perso una grossa porzione del braccio vicino al gomito. Qualcosa mi attraeva in lui.

A un certo punto, forse a causa di una proibizione di Himmler, Hans ha smesso di venire a casa. Mi dispiaceva, ma quando ho chiesto notizie del mio spasimante dalla faccia dimezzata, il Reichsführer-SS mi è sembrato in imbarazzo.

«È in missione» ha risposto.

Il Reichsführer-SS si stava innamorando di me, era evidente, ma non voleva dichiararsi. Una sera è venuto a cena suo fratello Gebhard. Himmler sembrava felicissimo di vederlo e io avevo superato me stessa: soprattutto il tortino di melanzane era stato oggetto di ripetuti elogi.

Prima di salire in camera, il Reichsführer-SS mi ha proposto di fare due passi con lui nel giardino: ho capito subito che doveva avere qualcosa di importante da dirmi.

Aveva piovuto, Berlino era tutta verde. L’aria odorava di erba tiepida. Quell’odore mi piaceva; mi riempiva di allegria ma anche di un senso di struggimento: era l’odore della rinascita della terra a Saint-Tulle dopo un temporale ristoratore.

Himmler mi ha fatto sedere su una panca in pietra e poi, in tono compreso e con lo sguardo perso tra le stelle, ha detto: «Sono disperato per la quantità di tempo necessaria alle nostre ricerche. Se dovessi fare autocritica, direi che, nell’intento di ridisegnare la carta demografica d’Europa, io e Adolf Hitler siamo stati spinti ad agire troppo in fretta e a progettare troppo in grande. Abbiamo compiuto qualcosa di sovrumano, ma senza preparare a dovere tanti spostamenti di popolazioni».

«Ma c’è una possibilità di ritrovare la mia famiglia…?»

«Lo spero.»

Himmler, seduto alla mia sinistra, mi ha preso la mano destra per accarezzarne il palmo con l’indice della sua. Il primo vero approccio dalla sera del mio arrivo: le carni mi tremavano come la carcassa di un animale appena abbattuto.

«Come fa a essere così stupenda?» ha sussurrato, avvicinando leggermente il volto al mio. «Non so cosa mi fa…»

Non l’ho lasciato continuare. Ho cambiato argomento: «Ha scoperto qualche nuova traccia?».

Sapevo di averlo irritato, nondimeno ha continuato ad accarezzarmi il palmo della mano, canterellando un’aria a me sconosciuta. Mi sono detta, fremente di rassegnazione, che quello era il momento tanto temuto, invece Himmler si è limitato a portarsi la mia mano alle labbra e a deporvi un bacio delicato, dopodiché l’ha liberata.

«Mi chiede sempre le stesse cose, ma finché non ne saprò di più non so cosa risponderle. Il suo ex marito e i suoi figli sono sicuramente da qualche parte sul nostro continente, che per forza di cose si è trasformato in un immenso guazzabuglio. Pensi, in pochi mesi abbiamo trasferito masse di persone di ceppo tedesco in Romania, Bessarabia, Russia, Lituania e molti altri Paesi. Lo stesso dicasi per gli ebrei. Ah, gli ebrei. Quelli sono davvero la nostra croce…»

«Niente giustifica il vostro comportamento nei loro confronti» ho osato sussurrare con la mente rivolta a Teo, che se avesse potuto sentirmi sarebbe stata fiera di me.

Himmler mi ha ripreso la mano e l’ha stretta fortissimo, poi ha detto: «Lei parla come Felix, vi fate avvelenare dalla loro propaganda. Perché non provate a capirci, invece? Per non lasciare che gli ebrei contaminassero lo spirito europeo, abbiamo deciso di affrontare di petto il problema. È inutile provare a germanizzarli, sa? Sono loro a giudaizzare noi. Non cambieranno mai, saranno sempre al soldo dell’Impero ebraico, loro unica vera patria, la cui missione è liquidare la nostra civiltà. La nostra politica è crudele, lo so, ma ne va della conservazione della razza germanica. Avrei preferito mandarli a costruire il loro Stato lontano da qui, ma il Führer, cedendo alle pressioni di Goebbels, ha stabilito altrimenti, e il Führer ha sempre ragione, lo dico senza nessuna ironia…».

Himmler sembrava sempre più eccitato. Forse era l’amore, forse era il piacere di parlare, la sua attività preferita. Anche da morto, dal fondo della fossa, quell’uomo avrebbe portato avanti i suoi discorsi. Himmler, figlio del preside del famoso liceo Wittelsbach di Monaco, aveva cominciato in qualità di allevatore di polli ma possedeva l’animo del professore e io, per fargli piacere, mi comportavo da fervente allieva. Era un assassino, ma anche un pedagogo. Quella sera mi tenne un corso di storia su Carlo Magno: «Dal punto di vista del patriottismo, ho tutte le ragioni per avercela con lui. Ha massacrato i sassoni, uno dei ceppi più puri della razza germanica. Ma proprio grazie a ciò ha saputo costruire un impero capace di resistere alle orde asiatiche. Non lo dimentichi mai, Rose: spesso nella Storia è il male a generare il bene».

37

Il bacio di Himmler

Baviera, 1942. Himmler mi ha baciata per la prima volta a Gmund, un bacio leggero come una farfalla, appena accennato e già concluso.

Tra tutte le città che ho visitato, Gmund è forse una delle più pulite, anzi mi verrebbe da dire lustre. Sotto i nazisti o qualsivoglia altro regime, da lontano somiglia sempre a un mucchio di case di bambola ben lucidate, disposte con cura in riva al Tegernsee e sovrastate da montagne ricoperte di abeti.

Abbiamo passato sei giorni nel suo chalet sul lago, insieme ad altri membri della famiglia, tra cui la moglie Marga, una vecchia megera inacidita e furiosa con il mondo intero perché il marito la tradiva, e la figlia Gudrun detta Püppi, una peste nazista dalle trecce bionde, a tredici anni già vittima di dolori di stomaco come il padre.

Venivo immancabilmente accompagnata da una SS con casco e uniforme nera, tranne quando passeggiavo in compagnia di Himmler. Ci teneva alla nostra intimità, come diceva con un sorriso d’intesa. Aveva in mente sempre la stessa cosa, ma la rimandava continuamente all’indomani. Quella sera, dopo avere messo a letto Püppi, mi condusse nel bosco e per tutta la passeggiata al chiaro di luna parlò di Federico II di Prussia, detto Federico il Grande, «re filosofo», figlio di Federico Guglielmo I, il «monarca soldato» di cui mi aveva raccontato in precedenza.

Durante il suo lunghissimo regno (1740-1786) Federico il Grande aveva trasformato un piccolo reame spezzettato in una grande potenza, grazie all’annessione della Slesia e di un pezzetto di Polonia. Era un uomo coltissimo, ma sapeva parlare ai soldati, come quella volta in cui, vedendoli scappare vigliaccamente, aveva detto loro: «Cani, non vorrete mica vivere in eterno?».

«Federico il Grande» mi disse quella sera Himmler prendendomi sottobraccio «possedeva il rigore e la determinazione che in seguito ci sono tanto mancati. Al pari di me, non lasciava nulla al caso, pensava a tutto, anche alle questioni secondarie. È questa, la Prussia.»

«È così che la Prussia è diventata la Prussia» confermai con tono servile.

«Ma la Prussia ha una palla al piede: la Baviera. I prussiani e i sassoni saranno sempre superiori ai bavaresi, sa, è un bavarese a dirglielo.»

«Perché?»

«Perché hanno occhi e capelli chiari, mentre i nostri, ahimè, sono neri come la morte. È una sorta di dannazione – e sto pesando le parole, glielo assicuro – in virtù della quale noi bavaresi abbiamo il dovere assoluto di fare di più e di non recalcitrare davanti ai sacrifici impostici dall’ideale germanico. Avrei tanto voluto essere del tipo nordico, come lei. Le hanno già detto che è irresistibile?»

All’improvviso il Reichsführer-SS mi afferrò la testa con due mani e bevve dalle mie labbra un bacio più deciso del primo. Rassegnandomi alla mia sorte già mi vedevo costretta a sdraiarmi nel sottobosco, su un letto di foglie e muschio, con sopra uno dei personaggi più importanti del nostro tempo che avrebbe forse salvato i miei figli, quando Himmler staccò la bocca dalla mia: «Mi scusi, non ci stiamo comportando in modo assennato».

«Eh, già.»

Avevo deciso di mostrarmi sempre d’accordo con lui, ma stavolta non dovevo fingere…

«Ho addosso troppa pressione, in questo periodo» si scusò.

Sulla via del ritorno si appropriò di nuovo della mia mano e io strinsi la sua. Sessant’anni dopo, godendo ormai della prescrizione, posso ammettere di aver provato una gran voglia di urlargli in faccia: «Su, prenda, se la goda, è gratis, razza di improbabile cretino: è solamente amore».

Ero ossessionata dalla sorte di Gabriel e dei miei figli, sarei sprofondata nell’abiezione più nera pur di ritrovarli. Per quanto mi facesse orrore, non potevo sprecare quell’occasione.

*

Probabilmente Himmler sapeva cosa ne era stato di Gabriel e dei bambini, ma alla caduta delle prime foglie annunciatrici dell’autunno fingeva ancora di attendere i risultati delle ricerche.

L’ultima volta che avevo accennato all’argomento, era andato in bestia. Ormai evitavo di parlargliene. Alla fine ho capito: non mi diceva la verità perché avrei fatto ritorno subito a Parigi. Non voleva lasciarmi andare a nessun costo. Non poteva più vivere senza di me: grazie alla dieta e alle mie pillole stava molto meglio, benché continuasse a dover ricorrere alle manipolazioni del dottor Kersten.

Una sera mi disse che prima di incontrarmi aveva pensato che i suoi crampi avessero origini psicosomatiche, ma grazie a me adesso aveva la prova del contrario: almeno in parte, si trattava di un problema di alimentazione, benché non potesse certo negare una qualche ripercussione delle sue numerose preoccupazioni sullo stomaco, il suo punto debole.

«Lei e il dottor Kersten» concluse «siete come due stampelle per me. Non so cosa farei, senza di voi.»

Quei complimenti non mi bastavano. Non mi sarei accontentata ancora per molto di preparargli la cena in una casa dove si faceva vedere al massimo due o tre volte alla settimana, e Himmler lo sapeva. Ne andava della mia salute mentale.

Ecco perché decise di nominarmi consigliera presso il suo stato maggiore, con l’incarico particolare di coordinare i lavori del Centro ricerche nutrizionali presso Salisburgo e del Laboratorio di cosmesi e cura del corpo di fianco a Dachau. Avevo così il permesso di viaggiare – ovviamente sempre sotto scorta.

Già che c’era, Himmler mi mise alle dipendenze dello Standartenführer Ernst-Günther Schenck, nutrizionista della Waffen-SS, chiedendomi di verificare l’applicazione del promemoria sull’alimentazione dei soldati, che Himmler stesso aveva indirizzato a quest’ultimo e contestualmente al plenipotenziario della sua amministrazione, l’Obergruppenführer Oswald Pohl.

Conoscevo bene quel promemoria, e ne avevo ben donde. Himmler l’aveva redatto con me, nella notte tra l’11 e il 12 agosto 1942. Tra le varie direttive, vi si leggeva:

•  tostare il pane dei soldati per renderlo meglio digeribile;

•  aumentare le razioni di noci, frutta e fiocchi d’avena;

•  ridurre il consumo di carne con misura e discrezione, in modo ragionevole, per disabituare le generazioni future.

Himmler l’aveva scritto praticamente sotto mia dettatura, tra l’altro contestando la bontà della frutta, i cui semi nuocevano al suo stomaco. Ma il grande artefice della soluzione finale non aveva nessun carattere. Andava in pezzi al minimo commento di Hitler poco meno che lusinghiero nei suoi confronti e raramente contraddiceva me o il dottor Kersten.

Ecco perché non posso essere d’accordo con la mia filosofa preferita Hannah Arendt quando, dopo avergli dato a torto del «filisteo incolto», descrive Himmler come «il più normale» dei gerarchi nazisti. Certo il Reichsführer-SS si distingueva da paranoici, stravaganti, isterici e sadici che pullulavano tra i vertici dello Stato nazista, ma restava comunque un povero malaticcio, un gracilino, debole di corpo e di mente, come ne ho visti pochi in più di cent’anni. Sarebbe questo, un uomo normale?

38

Il fascicolo Gabriel

Berlino, 1942. Una sera Heinrich Himmler è rincasato con un grosso fascicolo e, mentre ero in cucina intenta a preparargli un tortino fondente al cioccolato, me lo ha mostrato con aria solenne e senza proferire parola. Mi sono lavata le mani e con il cuore al galoppo ho letto i documenti che vi erano contenuti, a cominciare dal più esteso, firmato Claude Mespolet.

Rapporto al questore
Gabriel Beaucaire è un personaggio equivoco, che per più di quindici anni ci ha gettato fumo negli occhi facendosi passare per un patriota legato ai valori della nostra civiltà, mentre sottobanco lavorava per le tribù di Israele e per la Lega internazionale contro l’antisemitismo. Nipote acquisito del compianto Alfred Bournissard, ha saputo approfittare delle conoscenze dello zio per infiltrarsi in ambienti nazionalisti.
L’11 maggio 1941 ha potuto così partecipare all’inaugurazione dell’Istituto per lo studio delle questioni ebraiche, in rue de La Boétie 21, senza alcun titolo per trovarsi lì, al pari dell’editore Gilbert Baudinière, contro la cui presenza il capitano Paul Sézille, futuro direttore dell’Istituto, si è messo a tuonare a buon diritto, a giudicare dalla forma assai sospetta del suo naso.
Il 5 settembre dello stesso anno Gabriel Beaucaire si è intrufolato a Palazzo Berlitz tra le personalità invitate all’inaugurazione della mostra «L’ebreo e la Francia», organizzata appunto dall’Istituto per lo studio delle questioni ebraiche. La mostra, non lo si sottolineerà mai abbastanza, ha registrato duecentocinquantamila presenze a Parigi e quasi centomila a Bordeaux e Nancy. Sotto lo pseudonimo di Francis Aicard ne ha tessuto gli elogi su «La Gerbe», quotidiano con cui collabora regolarmente facendosi passare per un certo Frémicourt, il che gli permette di lasciarsi credere parente del Guardasigilli.
Sebbene continui a godere dell’incomprensibile appoggio di alcuni ambienti della Rivoluzione nazionalista, si tratta di un ben noto agente israelita, come attestato dai suoi continui rapporti passati e presenti con diversi adoratori di Adonai facenti parte del mondo della carta stampata, solo da poco in via di arianizzazione: in particolare gli ebrei Offenstadt, Boris, Berl, Cotnareanu e Schreiber.
Le origini ebraiche di Gabriel Beaucaire sono accertate dai documenti allegati a questo rapporto, che dimostrano l’appartenenza di entrambi i nonni materni alla comunità ebraica di Cavaillon. Questo impostore incallito continua tuttavia a contestare in maniera sfrontata ogni elemento di prova del suo essere ebreo. Il grande giornalista Jean-André Lavisse fu il primo a smascherarlo, in un articolo su «L’Ami du Peuple» contro cui lo svergognato figuro ha ardito sporgere querela.
In seguito al dilungarsi di tale procedimento, ho richiesto una perizia accurata al professore di antropologia George Montandon, il quale, ci tengo a precisarlo, con lo spirito di servizio che lo contraddistingue non ha voluto paga alcuna. Allego la perizia al presente fascicolo, perché si possa constatare quanto il verdetto sia senza appello.
Dopo lunghe indagini siamo finalmente riusciti a localizzare il pericoloso individuo. Attendo istruzioni. In mancanza di risposta, domani mattina di buon’ora disporrò per il suo arresto.
Perizia del professor George Montandon, dell’Istituto di antropologia.
Dopo avere esaminato Gabriel Beaucaire, attesto la sua appartenenza al tipo giudaioide e il fatto che ne presenta le principali caratteristiche:

•  naso ampiamente convesso con prominenza del setto inferiore;

•  occhi liquidi e leggermente incavati;

•  gonfiore piuttosto marcato delle parti molli del volto, in particolar modo le guance.

Aggiungo alcuni altri tratti da me elencati nella mia opera Come riconoscere e spiegare l’ebreo:

•  spalle lievemente incurvate;

•  bacino ampio e adiposo;

•  gestualità graffiante;

•  andatura dinoccolata.

Dal punto di vista antropologico questo individuo è dunque un ebreo al cento per cento.

Giudaioide? Cosa avrà inteso il professor Montandon con quella parola? Si sarà trattato di un errore di stampa? Di un neologismo? Ero lì a riflettere su questo termine mentre sentivo sul collo l’alito del Reichsführer-SS in piedi alle mie spalle, intento a leggere quegli stessi fogli. Di tanto in tanto emetteva un sospiro di compassione.

Il resto dei documenti non era di grande interesse. Resoconti di pedinamento. Schede di intercettazioni telefoniche. Rapporti di polizia. Li scorsi febbrilmente dopodiché, con gli occhi velati di pianto, posai il fascicolo sul tavolo della cucina e mi accasciai su una sedia prima di scoppiare in lacrime e domandare: «Ma cosa significa? Crede che non ritroveremo più Gabriel?».

«Ne so quanto lei. Non sono riuscito a ricavare altro da quegli idioti della polizia francese.»

«E i bambini?» ho singhiozzato.

«Stessa cosa. Ho fatto tutto il possibile, Rose. Abbiamo perso ogni pista.»

Si è seduto anche lui e ha posato la mano sulla mia: «Le sono vicino. Con tutto il cuore».

Piangevo a dirotto, tra colpi di tosse e starnuti: «Mi scusi, Heinrich. È troppo per me».

Ormai lo chiamavo per nome. Ci eravamo dati soltanto due baci, il primo furtivo, il secondo più lungo in bocca. Ma avremmo ben presto fatto l’amore, lo sentivo: una forza mi attraeva verso di lui, una forza carica di energia negativa, come un buco nero.

Certo, a quell’epoca, con la soluzione finale – decretata durante la conferenza di Wannsee il 20 gennaio di quello stesso anno – che cominciava a marciare a pieno regime sotto la sua supervisione, ancora non sapevo quanto fosse mostruoso quel personaggio. Ma devo ammettere, benché nello scrivere queste righe mi assalga la vergogna, che trovavo la sua timidezza commovente, così come la stanchezza mentale che lo induceva spesso al piagnisteo, al pari di tutti i deboli: quando non si lamentava dell’eccesso di lavoro, era la volta delle umiliazioni impostegli da Hitler, che a quanto pare aveva occhi soltanto per Goebbels.

Quella sera ricevetti un terzo bacio, un bacio ostentato, misto alle lacrime e al moccio che imbrattavano il mio volto gonfio e ricoperto di macchie rossastre o violacee. Era un modo per affermare in faccia al mondo il suo amore verso di me. Anche brutta. Anche devastata dal dolore.

Poi Himmler andò in cantina a prendere una bottiglia di Château-Latour 1934 e me la mostrò tutto fiero prima di stapparla: «È l’annata migliore di cui sono a conoscenza, insieme ai millesimi del 1928 e del 1929. Un vino piuttosto corposo, con retrogusto di noce fresca, molto equilibrato».

Abbiamo brindato guardandoci negli occhi per evitare i sette anni di astinenza sessuale a cui è condannato chi non rispetta l’usanza, dopodiché Heinrich ha sospirato: «L’unico punto in cui mi trovo d’accordo con la Bibbia è quando consiglia di bere vino».

Dopo esserci scolati tre quarti della bottiglia è tornato in cantina e stavolta è risalito con un bianco, per accompagnare il piatto forte della serata: purè di patate al gratin con trito di granchi al tartufo e spicchi d’aglio, una ricetta di mia invenzione.

«Heinrich» ho ribadito, «le assicuro che il rosso si può benissimo bere insieme ai crostacei, e perfino con il pesce.»

«Non per quanto mi riguarda. Nella vita esistono regole a cui è necessario conformarsi. Altrimenti non ci distingueremmo dalle bestie.»

Ingurgitò il primo boccone del mio gratin con un rantolo di soddisfazione.

«La settimana prossima» disse «devo partire per un giro di una dozzina di giorni a Est.»

«Heinrich, non ci vediamo mai!» protestai.

«Devo supervisionare certi affari importantissimi, laggiù. Ma non c’è bisogno che lei mi aspetti qui. Non le fa bene. Perché non se ne va in missione in Baviera? Così farà il punto su tutte le iniziative che ho intrapreso in ambito farmacologico per dare maggiore energia alle SS e calmare le angosce dei deportati.»

«Va bene» sussurrai dopo un attimo di esitazione.

«E poi ho una grande notizia: il Führer ci ha invitati due giorni da lui a Berchtesgaden, per la fine della settimana. Ha sentito parlare del suo talento di cuoca.»

Dopo cena Heinrich mi ha baciata di nuovo, ma subito ha staccato labbra e mani ed è salito in camera sua con la scusa di un attacco di sonno. Ha cominciato a salire le scale, ma dopo tre o quattro gradini si è fermato e ha ripetuto in tono ispirato una frase che aveva sentito pochi giorni prima dalla bocca del Führer, grazie alla quale secondo lui avrei capito meglio il suo comportamento: «Temo di portar male alle donne, è per questo che ho paura di stringere legami».

39

Il fiato del diavolo

Berchtesgaden, 1942. Un panorama mozzafiato, non soltanto in senso metaforico: faticavo a respirare. Sulla strada bavarese che collegava l’aerodromo di Ainring, dove eravamo atterrati con il nostro trimotore Ju 52, al rifugio di Hitler a Berchtesgaden, avevo avuto la sensazione di trovarmi dentro un pretenzioso quadro di Gustave Doré ricavato da un’idea di Richard Wagner, della cui ouverture del Tannhäuser mi sembrava di sentire brandelli nel vento che batteva contro i finestrini dell’auto.

I gerarchi nazisti dovevano essere dei veri ciechi per perseverare nel loro ateismo di fronte a simili bellezze della natura, lì sul «nido dell’aquila» di Hitler sopra il Königssee, con i riflessi verde smeraldo delle acque del lago a insinuarsi tra le montagne dominate dal Watzmann in mezzo a pareti a picco, pascoli, boschi, cascate e ghiacciai.

Era il tipico posto dov’è inutile alzare gli occhi al cielo alla ricerca di Dio. È ovunque. Nella luce che trafigge le nubi, nel temporale distruttore di tutto e nel velo dorato della notte stellata che parlano più dei testi sacri: basta guardarli. C’era da ridere a pensare di essere in quei luoghi divini in compagnia di Heinrich, gran mangiapreti e assassino di religiosi, a cui mancava poco per sostenere che era stato Hitler a creare l’universo, anziché Dio.

Ci hanno preso le valigie e Himmler si è diretto verso la vetrata otto metri per quattro del salone del Berghof, la residenza di Hitler, mentre io sono stata condotta nelle cucine, dove una piccola brigata in uniforme, composta soprattutto di ragazze, era intenta a preparare il pranzo. Mi hanno salutata rispettose, hanno abbozzato un inchino e sono tornate subito con la testa sui fornelli. Al contrario di quanto mi aspettavo, sono stata accolta molto bene dalla capocuoca, una zitellona paffuta di cui non ricordo il nome ma che di certo non era né Marlene von Exner né Constanze Marnziarly, le due dietologhe destinate a lavorare per il Führer dopo di me. Non ci giurerei, ma mi pare si chiamasse Traudl.

Sembrava una suora di clausura. Lo sguardo e il volto non recavano traccia di vizio. Era il tipo di donna per la quale gli uomini perdono la testa, immaginando, spesso a torto, una serie di perversioni promettenti dietro a quello schermo di innocenza. Non senza imbarazzo devo ammettere che, pur appartenendo all’altro sesso, ero eccitata da Traudl non meno di Martin Bormann, come venni a sapere in seguito, uomo che l’arte della cortigianeria aveva issato a vette molto più alte nella gerarchia del Reich di quanto avrebbe potuto esserlo grazie alle sue sole competenze, e abituato a esercitare lo ius primae noctis in varie camere del Berghof, alla faccia di sua moglie.

Quando ho chiesto di essere informata sui gusti di Hitler, Traudl mi ha presa da parte: «Adora i dolci. Per il resto è molto difficile, sfamarlo è un vero rompicapo…».

Ho voluto sapere se Hitler seguiva una dieta particolare e lei mi ha sussurrato: «Soffre in continuazione di flatulenze e crampi allo stomaco. Spesso, subito dopo mangiato, si contrae di colpo per via dei dolori. È orribile vedere qualcuno soffrire così».

«Orribile» ho confermato.

«Sembra colpito da una freccia in pieno ventre, comincia a sudare come un pazzo. Poverino, vive in una specie di incubo, sa?»

Mi sono ben guardata dal dire: come Heinrich, sebbene la voglia non mi mancasse. Dissi soltanto: «Ho già cucinato per persone con problemi di digestione. In questi casi, so come comportarmi».

«Siamo qui per servirla. Per qualsiasi cosa, si rivolga direttamente a Herr Kannenberg.»

Aveva pronunciato quel nome in tono talmente solenne da farmi subito intuire l’importanza del personaggio. Si trattava di un ex ristoratore sulla quarantina, pingue di gote e di deretano, divenuto il maggiordomo di Hitler. Al Berghof lo chiamavano «Trippa».

Quando il Trippa ha fatto il suo ingresso, annunciato dal tremolare dei baffi dovuto alle sue perenni risatine, non ho più avuto dubbi sul perché: Arthur «Willi» Kannenberg era in effetti imponente, in senso sia letterale sia metaforico. Emanava l’euforia accompagnata da un’innata autorevolezza tipica dei grandi gastrolatri, i quali a distanza di decenni dalla loro venuta al mondo ancora non riescono a nascondere la gioia di ritrovarsi su questa Terra. Non ci si abituano: la disgrazia non sembra avere alcuna presa su di loro.

«Benvenuta in paradiso» mi ha detto mentre mi dava un’energica stretta di mano. «Insomma, magari non proprio per tutti. Conto su di lei per instillare un minimo di gioia nello stomaco del Führer. Al momento, la sua pancia non gli fa altro che dispetti.»

«C’è qualcosa in particolare che Herr Hitler non sopporta?»

«Ah be’, una quantità di roba, a parte carote, patate e uova bazzotte.»

«Che tristezza.»

«Cosa ci vuol fare. In quanto seguace della dieta Bircher-Benner, i suoi unici capricci sono noci, mele e porridge, capirà. A parte quello, è condannato a frutta e verdura crude.»

«La verdura cruda non va bene, per chi è nel suo stato.»

«Glielo spiegherà. Del resto, al punto in cui si trova è pronto a tutto.»

Per permettermi di preparare la cena con cognizione di causa, Kannenberg mi ha accompagnato nelle serre gigantesche che garantivano la produzione di ortaggi per Hitler e i suoi ospiti. C’era di tutto. Perfino pomodori tardivi, costellati di macchioline brunite sulla cima. Sembrava un’allegoria del nazismo e dei suoi sogni di autosufficienza e autarchia.

Ma è davanti ai porri che mi sono squagliata. Secondo Kannenberg, lì al Berghof finivano la loro esistenza in zuppa, assieme alle patate. Io li avrei serviti per antipasto, con una vinaigrette al tartufo.

Quanto alla portata principale, non avevo dubbi: con quella profusione di verdure, le lasagne vegetariane si imponevano. Le avrei costruite come un millefoglie infarcito di composizioni varie a dominanza di carote, la più digeribile delle verdure, grattate e appena sbollentate.

Tra le scorte di frutta c’erano mele a bizzeffe. Mi sono quindi decisa per una crostata di mele con un dito di rum, un pizzico di vaniglia pestata e due cucchiaini di succo di limone. Una ricetta di mia invenzione, destinata a subire numerose imitazioni.

La cena doveva essere pronta con un’ora di anticipo, in modo da poter servire una parte dei piatti destinati a Hitler alle sue assaggiatrici e avere il tempo di verificare la mancanza di effetti venefici sul loro organismo.

È stato un trionfo. I nazisti tendono a seguire molto il gregge, è dunque bastato che Hitler apprezzasse la cena senza essere colto da crampi al momento del dolce perché io venissi eletta regina della serata. Heinrich è venuto a cercarmi in cucina e mi ha portata di là, dove mi sono vista tributare un’ovazione dall’intera tavolata, Führer in testa.

Una ventina di minuti dopo, mentre dalla finestra di camera mia guardavo il cielo striato dai lampi di un temporale, Heinrich si è precipitato da me con la faccia sconvolta: «Il Führer vuole vederla».

«E qual è il problema?»

«Mi deve giurare di non parlargli dei suoi figli né del suo ex marito. Se sapesse che è stata sposata con un ebreo, non mi perdonerebbe mai per averla portata qui.»

«Magari lo sa già.»

«È escluso. Questo genere di informazioni passa solo attraverso di me.»

Heinrich mi ha accompagnato nello studio di Hitler. Aveva l’aria talmente tesa da indurmi, per calmarlo, ad accarezzargli un braccio e poi la nuca, mentre percorrevamo il corridoio. Mi ha sorriso.

La porta era aperta, abbiamo aspettato sulla soglia. Hitler doveva per forza averci sentito arrivare, ma non poteva vederci. Ci dava le spalle, seduto su una grossa poltrona davanti alla finestra, intento ad accarezzare il suo cane, un pastore tedesco, mentre con l’altra mano reggeva il documento che stava leggendo.

«Avanti» ha detto alla fine, senza voltarsi.

Non pretendo di essere creduta, ma giuro che nell’istante in cui i nostri sguardi si sono incrociati un lampo ha illuminato la finestra, per poi abbattersi sul fianco della montagna con gran fracasso, seguito da molti echi e da un rumore come di frana. Hitler ha ironizzato: «L’avevo preparato apposta per fare colpo su di lei».

Ha rivolto a Heinrich un cenno di congedo e mi ha proposto di guardare il temporale assieme a lui, attraverso la vetrata. Era uno spettacolo grandioso.

«Chissà» ha detto alzandosi «come lo avrebbe reso Pannini. Un altro capolavoro, senza ombra di dubbio.»

Il Führer mi ha spiegato chi fosse Giovanni Paolo Pannini, pittore romano del Settecento, amante delle scenografie e degli effetti monumentali, nonché uno dei suoi artisti preferiti.

«Quel pittore mi piace da impazzire» mi ha detto, «perché non aveva paura. I veri artisti non ce l’hanno mai. Nemmeno i grandi uomini. Tutti gli altri non valgono niente.»

Hitler mi ha preso sottobraccio e mi ha condotta verso due poltroncine e un divano di pelle nera, su cui ci siamo accomodati entrambi.

«Ho qualche Pannini, qui. Rovine romane. Glieli devo mostrare.»

Il suo alito mi ha fatto fremere le narici. Penso di non avere mai sentito niente di tanto immondo, nemmeno quando camminavo lungo il fiume di Trebisonda durante il genocidio degli armeni, tra lo sciabordio di un’armata di cadaveri.

Ero a disagio. Per rilassarmi, o per indurmi a parlare, Hitler mi ha offerto un bicchiere di acquavite di prugne. Ne ho bevuti tre di fila e questo spiega forse come mai non ricordi assolutamente nulla di quanto ci siamo detti dopo.

Joseph Goebbels è venuto a unirsi a noi. Era un omino dai capelli neri imbrillantinati, afflitto da piede varo e incapace di star fermo. Ancora non sapevo che fosse una delle colonne del Terzo Reich, nonché regista del culto di Hitler per il quale lui stesso, malgrado fosse un anticristiano fanatico, diceva di provare un «sentimento sacro». Ma la sua isteria di quella sera mi è rimasta impressa nella memoria.

Goebbels mi ha versato ancora da bere. Questa volta kirsch. Il mio ricordo è così confuso che non ci giurerei, ma mi pare di essere uscita con lui dallo studio di Hitler.

Che cosa è successo dopo? Niente, a quanto ricordo. Ho vagato per un certo tempo barcollando da un corridoio all’altro, fin quando ho incrociato un gruppo di uomini tra i quali mi è sembrato di riconoscere Martin Bormann, capo della cancelleria del partito. C’è stato qualche spintone e una o due risate, poi uno di loro mi ha trascinata in una camera dove mi ha presa dopo avermi bloccata contro la finestra.

Quando tutto fu finito, raggelata, sono rimasta a lungo nella stessa posizione, ansimante e inebetita, a guardare fuori dalla finestra. Mentre mi rivestivo la camera era già vuota. Mi sono sdraiata sul letto e ho dormito un po’.

40

Tre dita in bocca

Berchtesgaden, 1942. Non ho più rivisto Hitler. Per tre sere consecutive sono stata incaricata delle cene del Berghof, e a dar retta ai complimenti dei commensali devo aver fatto faville. Tutto ciò benché il Führer non andasse matto per i miei dolci. Gli piacevano solo le torte burrose e ricoperte di panna montata, che non hanno mai fatto parte del mio repertorio. A quanto pare era capace di farsene servire tre fette una dietro l’altra. Invece non ha ripreso nemmeno una volta la mia crostata della prima sera né la charlotte di pere dell’indomani e tantomeno il babà al rum dell’ultimo giorno.

Si dichiarava vegetariano in nome delle sofferenze degli animali e spesso, davanti alla sua amante Eva Braun, carnivora convinta, evocava una visita nei mattatoi ucraini da cui era rimasto traumatizzato. Ma Willi, il suo chef, mi ha confidato sotto il sigillo della segretezza più assoluta che il Führer non sempre sputava su carne, salsicce bavaresi e piccioni farciti, per i quali aveva a lungo avuto una predilezione. In quanto vegetariana, fui ben felice di sentirlo.

Dopo cena gli ospiti del Berghof avevano l’abitudine di guardare un film nel grande salone, non senza prima avere preso il tè o il caffè stravaccati in poltrona, mentre ascoltavano il Führer parlare del tempo o delle ultime avventure di Blondi, il suo pastore tedesco. Sempre che non si lanciasse in qualche noiosissima dissertazione su Wagner, la compravendita di uova o gli ultimi traguardi della scienza. Tutti lo ascoltavano attenti, al limite dell’abnegazione. Un popolo capace di annoiarsi fino a quel punto senza batter ciglio, mi dicevo, e per di più con il sorriso sulle labbra, doveva per forza essere invincibile: voleva dire essere in contatto con l’eternità e misurarsi con essa a ogni istante.

La prima sera, mi era venuta voglia di concludere la cena con degli scones al sesamo, all’uvetta o alla marmellata di fragole a mo’ di delikatessen. Siccome si mangiano spalmati o ripieni di una specie di panna grassa, al Führer sono piaciuti moltissimo. Ma poi ha chiesto cosa fossero. Quando ha scoperto l’origine inglese di quei dolcetti, ha emesso un grugnito da tutti interpretato come una condanna.

Heinrich non sopportava l’atmosfera di rilassatezza che si respirava a Berchtesgaden. Ogni cosa qui era emolliente, malgrado l’aria di montagna. Le giornate passavano in una successione di interminabili tavolate, passeggiate per digerire e merende stracolme di dolciumi. Niente è più stancante dei piaceri: trasformano in pappamolla anche il più duro degli uomini.

Quando verso mezzanotte Heinrich è venuto a trovarmi in camera per cavarmi di bocca ogni dettaglio dei miei discorsi con Hitler, avevo ingurgitato un litro e mezzo d’acqua ma mi sentivo ancora abbastanza ubriaca. Si è buttato sul letto e ha dichiarato: «Ha lo sguardo di chi ha bevuto».

«In compenso, lei ci vede benissimo.»

«Non c’è molto da fare, qui. Che rottura! Noi tedeschi siamo l’unico popolo al mondo che considera normale rompersi le scatole.»

Si è avvicinato a me: «Dovremmo sbrigarci a vincere la guerra, non crede?».

La sua inquietudine mi ha regalato un brivido di gioia. Non tutto era dunque perduto, mentre fino a quel momento credevo che i nazisti avessero praticamente vinto: non sapevo niente dei guai sul fronte russo.

«Stiamo diventando una nazione incapace di suscitare timore» si è lamentato. «Hitler ha appena ricevuto Laval, il vostro presidente del Consiglio, facendosi prendere in giro da quella specie di guano negroide, che si è rifiutato di dichiarare guerra a Inghilterra e Stati Uniti con la scusa della probabile opposizione di Pétain. Non capisco come mai l’abbiano lasciato andare via senza ammazzarlo. Un potere debole è un potere morto.»

Mi guardò in faccia all’improvviso: «Puzza di grappa. È con Hitler che ha bevuto così?».

Ho preferito non mentire.

«Le ha dato da bere perché gli parlasse di me, vero?»

Gli ho risposto che avevamo chiacchierato di cucina e del pittore Pannini.

Si sollevò a metà e mi prese per un braccio, tranquillizzato, poi mi attirò verso il letto e quando crollai su di lui mi baciò di nuovo. Un bacio forte in bocca, potente, grasso, pieno d’alcol e con un sapore di champagne all’inizio, poi di toma di pecora, legno marcio, nocciole fresche, rum invecchiato e un retrogusto di pepe grigio.

Poi mi ha infilato tre dita in bocca. Dita sottili da pianista, che ho baciato con una foga da cui è rimasto subito turbato. Lottava contro se stesso, glielo si leggeva negli occhi appannati: odiava perdere il controllo.

Heinrich si è alzato di colpo, si è schiarito la gola, si è aggiustato il colletto della camicia, ha sfregato le maniche per lisciare ogni piega, mi ha salutata ed è uscito dalla stanza.

*

Quattro giorni dopo, due trimotori Ju 52 ci aspettavano all’aeroporto di Ainring, a una ventina di chilometri di distanza da Berchtesgaden. Uno doveva riportare Heinrich a Berlino, da dove sarebbe ripartito per il fronte russo. L’altro era diretto a Monaco, dove avrei raggiunto Felix Kersten, il massaggiatore del Reichsführer-SS, per visitare con lui il Centro studi cosmetici e omeopatici.

Felix Kersten, con l’aria di chi è oberato di lavoro e una faccia più stropicciata del suo cappotto blu, mi accolse con un misto di enfasi e serietà che non prometteva niente di buono. Mi aveva promesso di tormentare gli alti comandi SS fin quando avesse ottenuto notizie di Gabriel e dei bambini. Mi è bastato guardarlo negli occhi per capire che c’era riuscito.

Abbassò lo sguardo e biascicò una frase incomprensibile. Ho capito solo: «Dachau». A quel nome mi sono venuti i brividi. Dachau, creato da Himmler nel 1933 subito dopo l’ascesa al potere del nazismo, era l’unico campo di concentramento di cui fossi a conoscenza a quell’epoca. Di colpo tutto in me ha cominciato a tambureggiare. Cuore, tempie, timpani. Ero un unico immenso battito nel vuoto.

«Suo marito è morto a Dachau. I suoi figli sono deceduti in treno.»

Qualcosa si è spezzato in me. Quando ho ripreso conoscenza, Felix mi stava dando degli schiaffetti sulle guance. Mi ha aiutata a rimettermi seduta sullo sgabello e ha alzato le spalle con aria fatalista, poi mi ha accarezzato l’avambraccio con mano consolatoria.

Non ricordo cosa sia successo dopo, al Centro studi. Sono emersa solo a fine giornata quando, nell’albergo sulla Max-Joseph-Platz, mi sono incontrata di nuovo con Felix Kersten, che per parte sua aveva passato mezza giornata a Dachau. Mi ha confermato la morte di Gabriel, l’aveva verificata su un registro, in data 23 agosto 1942.

«Non conosco i particolari» ha sussurrato. «Le chiedo scusa.»

Non sono riuscita a cavargli nient’altro. Era invece pronto a parlare di certi esperimenti medici che lo avevano sconvolto: inoculazione di malaria su prigionieri sani per sperimentare nuovi prodotti farmaceutici, vista la rarità e il costo troppo elevato del chinino; immersione dei detenuti in vasche d’acqua ghiacciata, a volte fino al sopraggiungere della morte, per studiare gli effetti dell’ipotermia e poi sezionarli come rane aprendo loro il petto e il cranio; iniezione di pus nelle cosce di una quarantina di ecclesiastici, per la maggioranza polacchi, al fine di identificare il rimedio più efficace contro le infezioni, non prima però di aver suddiviso in gruppi quelle cavie in veste talare, neanche fossero topi da laboratorio, in modo da curarne alcuni con sulfamidici, altri con compresse biochimiche – queste ultime apparentemente preferite da Himmler.

Gli ecclesiastici curati con i sulfamidici guarivano abbastanza in fretta, cosicché i più forti si ritrovavano di colpo a ricevere per endovena il pus dei loro stessi ascessi, in modo da falsare il risultato degli esperimenti ed evitare così al Reichsführer-SS l’umiliazione di avere avuto torto. I sopravvissuti, quando non erano in coma, gemevano e si contorcevano sul letto tra dolori atroci.

«Non ci sono parole per quello che ho visto» ha sussurrato Felix a mezza voce, con la testa china. «È il crogiolo di tutti gli orrori. Lo dirò a Himmler, non ha il diritto di lasciare che accadano simili cose.»

«Crede non lo sappia già?»

«Me ne frego, purché si riesca a salvare qualche vita! E comunque, sebbene questo non lo assolva, a volte Himmler è a disagio con quanto succede, ne sono sicuro.»

Felix mi ha raccontato che Himmler, mentre assisteva a un’esecuzione di massa a Minsk il 15 agosto 1941, per poco non era svenuto. Si trattava del suo battesimo del sangue. Al suo fianco c’era Erich von dem Bach-Zelewski, Gruppenführer della Bielorussia e responsabile a sua volta di duecentomila omicidi. In seguito ha raccontato che il suo capo, «bianco come uno straccio», abbassava lo sguardo a ogni salva dei plotoni e, quando le SS avevano tardato a dare il colpo di grazia a due ragazze agonizzanti nella fossa comune, aveva gridato: «Smettetela di torturarle! Finitele!».

Fatte le debite proporzioni, commentò Felix, Himmler era come un amante della carne incapace di sopportare i mattatoi.

Tre mesi dopo, mentre lo aspettava per una seduta di massaggio, Felix aveva visto Himmler tornare sconvolto dalla cancelleria. Era l’11 novembre 1941, ricordava benissimo la data. Mentre il Reichsführer-SS avrebbe voluto procedere soltanto all’«evacuazione» degli ebrei, Hitler gli aveva appena chiesto di organizzarne lo «sterminio».

Himmler era depresso, Felix inorridiva. Mentre si occupava di lui, il massaggiatore aveva accusato di efferatezza una simile soluzione, ma il Reichsführer-SS aveva obiettato: «Gli ebrei dominano la stampa, le arti, il cinema, tutto. Sono i primi responsabili del marciume e della proletarizzazione del nostro mondo, su cui prosperano. Hanno impedito l’unità dell’Europa e non hanno mai smesso di rovesciare i vari sistemi di governo per mezzo di guerre e rivoluzioni. Bisognerebbe chiedere a loro di rispondere dei milioni di morti di cui sono responsabili attraverso i secoli. Quando l’ultimo ebreo sarà scomparso dalla faccia della Terra, avremo chiuso con le devastazioni tra le nazioni, e le generazioni future si vedranno risparmiati i massacri sui campi di battaglia nel nome del nichilismo giudaico. Per raggiungere la grandezza, è necessario essere pronti a marciare sui cadaveri. Gli americani non si sono comportati in modo diverso con gli indiani d’America. Se vogliamo creare una nuova vita, bisogna ripulire il terreno perché possano un giorno nascere frutti nuovi. È questa la mia missione».

A quel punto del racconto Felix mi ha preso la mano e me l’ha stretta, trasmettendomi una sensazione di freddo: «Nondimeno, pochi giorni dopo Himmler ha riconosciuto il carattere antigermanico dello sterminio di qualunque popolo, pur continuando a difenderne il principio».

È esploso in una risata artefatta.

«Se per salvare gli ebrei siamo ridotti a dover contare su un uomo come Himmler» ha aggiunto, «vuol dire che quaggiù è veramente andato tutto a rotoli.»

Io e Felix provavamo lo stesso sentimento misto di panico, fatica e annichilimento. Ci restava soltanto l’alcol e abbiamo proceduto a ubriacarci sistematicamente, alla tedesca: prima con la birra, poi con lo schnaps.

Il giorno dopo siamo rientrati a Berlino. Appena arrivata in camera mia, sono corsa direttamente all’acquario per raccontare gli ultimi avvenimenti a Teo, a cui le SS avevano provveduto in mia assenza. Alla fine del resoconto, la salamandra ha tuonato: «Che cosa ti salta in testa, di andare a letto con i nazisti?».

«Mica faccio solo quello!»

«Ma lo fai, e questo mi disgusta!»

«Se sono venuta in Germania è stato per salvare i miei figli, a qualunque prezzo.»

«E hai visto che bel risultato, povera Rose? Ti sei prostituita inutilmente.»

Ho sospirato mentre guardavo piena di tristezza gli occhi neri di Teo: «Cosa vorresti che facessi?».

«Che avessi rispetto di te stessa, razza di cesso!»

«Come puoi pretendere da una donna il rispetto di sé, quando le hanno portato via i figli?»

Ho passato la notte a piangere, abbracciata al cuscino.

41

L’embrione che non voleva morire

Berlino, 1942. Nella settimana durante la quale ho aspettato il ritorno di Heinrich nella casa di Berlino, passavo continuamente dal terrore alla prostrazione. Lo avevo messo in cima all’elenco dei miei odi.

Il fatto di non avermi detto la verità sulla fine di Gabriel e dei miei figli era per me segno di doppiezza e tradimento allo stato puro. Ero decisa a chiedergli di lasciarmi tornare a Parigi. Nell’attesa, ammazzavo il tempo bevendo tisane all’iperico, occupandomi di Teo, andando a spasso per il Tiergarten, il grande parco berlinese, o leggendo le opere complete di Shakespeare uscite nel 1921 nella traduzione tedesca di Georg Müller, che avevo trovato nella biblioteca di Himmler. Ma Gabriel e i bambini mi perseguitavano, non riuscivo a pensare a nient’altro.

Nel corso del suo viaggio Heinrich mi ha chiamata diverse volte. Aveva la voce cavernosa, segno che aveva bevuto molto o dormito poco, e mi parlava senza interesse, come un addetto alla lettura dei contatori: se non vado errata dovevo essere la quarta in lista, dopo moglie, figlia e amante.

Il dottor Felix Kersten, invece, che conclusa la puntata bavarese era ritornato in Olanda, mi telefonava ogni sera per rivolgermi sempre le stesse domande, a cui non era necessario rispondere: «Come sta? Sicura? Posso fare qualcosa per lei?».

Il giorno in cui Himmler doveva ritornare dal suo giro, è andato tutto a carte quarantotto: al mattino, pesandomi, ho notato di avere il seno ingrossato. Senza falsa modestia, ho sempre avuto un gran bel davanzale. Ma qui si esagerava.

Sono andata a guardarmi nello specchio del bagno. Mentre tastavo i miei seni grandi e sodi, ho constatato un ingrossamento anche dei tubercoli di Montgomery, sopra un’areola scurita a sua volta. Ne ho approfittato per accarezzarmi il petto, che ha reagito con svariati fremiti di piacere.

Già il giorno precedente, dopo avere urinato, avevo notato piccole perdite di sangue scuro nella tazza del gabinetto. Lì per lì non ci avevo fatto caso, ma adesso non potevano sussistere dubbi: ho lanciato un lungo grido di spavento, in seguito al quale due SS di guardia alla casa si sono precipitate in bagno.

«Andate pure» ho detto loro. «Non è niente. Mi sono schiacciata un dito nella porta.»

Non sopportavo l’idea di lasciar crescere in me un seme nazista, mi sentivo come la cicala sul cui corpo la vespa ha deposto le uova, per poi chiuderla in una buca tappata con un sassolino e lasciarla al destino di essere mangiata viva dall’immonda larva appena uscita dalla sua membrana, fino all’ultimo filamento di carne.

Ero pronta a tutto, pur di sbarazzarmi dell’intruso. Cucchiai di olio di ricino. Tisane di prezzemolo, assenzio, artemisia, alloro e salice bianco. Lavaggi con acqua e sapone, introduzione di piante abortive nel collo dell’utero. Corsa, salto con la corda, pugni in pancia.

Nell’agghiacciante ipotesi in cui il feto fosse rimasto attaccato all’utero nonostante tutto, avrei dovuto trovare un padre di rimpiazzo a cui lasciarlo e per quel ruolo mi veniva in mente solo Heinrich. Era dunque necessario concludere al più presto con lui, nel caso i miei tentativi di aborto fossero andati a vuoto.

Quella sera, quando è ritornato a casa dopo il suo giro a Est, si è seduto sul divano con un sospiro, mi ha chiesto di andargli vicino e ha tirato fuori di tasca una scatolina. Dentro c’era un anello di fidanzamento: un grosso rubino birmano incastonato in mezzo a una corona di diamanti.

Dopo essermi infilata l’anello al dito, mi sono inginocchiata davanti a lui. Gli ho sbottonato i pantaloni, gli ho aperto la patta, gli ho tirato fuori la mazza dalle mutande e dopo essermela infornata tutta in bocca ho dato a Heinrich il meglio di me – vita, sapere, dignità – come soltanto una donna è in grado di fare, finché uno spruzzo di sacro crisma mi ha inondato la bocca e poi la gola.

Quando mi sono rialzata, Heinrich era accasciato sul divano con le braccia spalancate sulla spalliera e la testa reclinata all’indietro, sul volto un gran sorriso di appagamento. Per la prima volta, mi ha dato del tu: «Sei davvero la donna della mia vita».

Non avevo intenzione di ricambiare il complimento. Mi comportavo così perché mi serviva un genitore per il bambino che portavo dentro. Poteva essere soltanto Heinrich, perciò era necessario farmi penetrare da lui in tutta fretta. Altrimenti sarei andata incontro a seri problemi.

Tra l’altro avevo idea che passare all’azione fosse anche il miglior modo per togliermi di torno quell’uomo: di solito sono gli amori impossibili a rivelarsi eterni. Una volta consumato il nostro, potevo sperare di vedere Himmler stancarsi di me e lasciarmi ritornare a Parigi, nei giorni a venire, in modo da poter abortire lì.

Subivo un po’ il fascino del suo carattere tranquillo, in contraddizione con l’espressione interrogativa delle sue sopracciglia. Senza contare l’ironia che di tanto in tanto gli increspava il sorriso. A parte i baffi troppo curati e le labbra estremamente sottili, si presentava bene. Ma da quando avevo saputo della fine di Gabriel e dei bambini, avevo sempre più voglia di ucciderlo.

Dopo cena, quando gli ho detto di voler ritornare in Francia, mi ha risposto a mezza bocca e con espressione sinistra: «È fuori discussione».

*

Le sere in cui Heinrich veniva a dormire a casa, gli facevo un regaluccio seguendo questo rituale ben preciso: il Reichsführer-SS si accomodava sul divano, io gli portavo un bicchiere di Porto su un vassoio e, mentre cominciava a berlo, mi inginocchiavo davanti a lui.

Non mi faceva schifo quando mi posava la mano sulla testa per guidarmi. Né trattenevo gli ansimi di piacere quando mi prendeva per le guance in modo da infilarmi l’attrezzo bene in gola, o se mi infilava due dita nelle narici per impedirmi di respirare.

Iniziavo però a essere in preda al panico. I giorni si susseguivano, ma io non riuscivo a indurlo a passare all’azione. La mia dedizione non serviva a nulla, Heinrich continuava a inseminarmi la bocca e nient’altro. Perché si convincesse di essere lui il padre del bambino, dovevo portarmelo a letto senza perdere altro tempo.

Cominciavo ad avere il sospetto che il mio tenace embrione non si sarebbe lasciato uccidere in pancia. Da più di un mese tentavo di sradicarlo, ma niente aveva funzionato. Né i salti dagli ultimi tre gradini della scala. Né alzare e spostare mobili in continuazione nella speranza di provocare un aborto spontaneo.

Una sera Felix Kersten è venuto a cena a casa, dopo avere ottenuto quello stesso giorno, mentre massaggiava il Reichsführer-SS, diverse liberazioni di ebrei in Olanda. Se la memoria non mi inganna era il 19 dicembre 1943, giorno del compleanno di Emma Lempereur, per la quale al mattino ero andata a pregare nella cattedrale di Sankt-Hedwigs, il cui parroco era morto sulla strada per Dachau per aver difeso gli ebrei dopo la Notte dei cristalli.

Come al solito Felix si è presentato con un’ora di anticipo. Così abbiamo avuto tempo di raccontarci le novità davanti a una bottiglia di schnaps. Quando gli ho rivelato la mia gravidanza, ha sospirato: «Di chi è?».

«Non lo so.»

«Come è possibile?»

«Ero terribilmente ubriaca, non ricordo granché.»

Si è alzato e mi è venuto vicino.

«Personalmente, le sconsiglierei di tenerlo nascosto a Himmler» ha sussurrato. «Soltanto dicendogli come stanno le cose riuscirà a ottenere la libertà.»

«Perché avrà ribrezzo di me, è così?»

«Più di quanto immagina. È ossessionato dalle malattie sessuali, sono il suo incubo. E ne ha ben donde.»

Felix ha esitato un istante, dopodiché ha continuato a bassa voce: «È assodato che Hitler abbia contratto la sifilide, una ventina di anni fa».

Si è fermato di colpo e ha puntato l’indice contro il soffitto, come se avesse orecchie, poi ha proseguito in un soffio: «Giura di non dirlo a nessuno?».

«A nessuno. Mi dica.»

«Ormai da cinque anni, Hitler presenta una quantità di sintomi indicanti il fatto che la sifilide, benché curata a suo tempo, continua a provocargli danni.»

Con un filo di voce ha elencato i sintomi del Führer: «La diagnosi è senza appello: Hitler soffre di paralisi progressiva delle membra, tremori alle mani, insonnia cronica e mal di testa. A ciò vanno aggiunti attacchi di demenza e megalomania. Tutti segni che la malattia è ancora attiva in lui. Gli unici sintomi assenti sono la fissità dello sguardo e la confusione verbale, anche se i suoi discorsi sembrano più sconclusionati di prima».

«Crede stia per morire?» ho sussurrato.

«Himmler è preoccupatissimo. Dovrebbe vederlo quando parla della malattia di Hitler. È un tale maniaco dell’igiene che inizia a tremare dal ribrezzo.»

«Quindi mi lascerà in pace.»

«Non avrà più nulla da temere. Himmler è convinto che l’intera gerarchia nazista sia ormai affetta da sifilide. La metterà in quarantena.»

Durante la cena, mentre facevamo fuori la mia zuppa di carciofi al tartufo, Felix è partito in quarta contro la politica antiebraica del Reich. Nella fattispecie ha messo Himmler in guardia contro il giudizio dei posteri.

«Ma non sono io il responsabile di tutto ciò. È Goebbels.»

«Non è vero, è lei» ha insistito Felix.

«Al contrario di Goebbels, io non ho mai voluto sterminare gli ebrei, volevo solo espellerli dalla Germania. Con tutti i loro beni, sia pure, purché si togliessero di mezzo e non se ne parlasse più! Attraverso i canali diplomatici abbiamo chiesto a Roosevelt di accoglierli da lui in America, lì è pieno di spazio, di territori vergini: non si è nemmeno degnato di risponderci. Nel 1934, proprio per scongiurare il massacro, avevo proposto al Führer di creare uno Stato indipendente in modo da spedire lontano tutti gli ebrei.»

«In Palestina?» ho chiesto.

«No, troppo vicino. Pensavo al Madagascar, dove il clima è caldo come piace a loro. E poi è un posto ricco di risorse naturali: grafite, cromite e bauxite. Bene, non ce n’è stato uno, favorevole al progetto.»

Odiavo quel tono lamentoso e mi sono eclissata in cucina per un po’, lasciando Felix a proseguire l’offensiva da solo. Mi ero così innervosita che ho rotto un piatto di porcellana di Moustiers.

Anche Felix era nervosissimo. I discorsi di quella sera li ha raccontati nelle sue memorie in termini più o meno identici.

Dopo cena, quando ho confessato a Heinrich di essere stata violentata e messa incinta a Berchtesgaden, tutto si svolse esattamente come Felix aveva previsto. Himmler, turbatissimo, andò subito verso la credenza a prendere una bottiglia di schnaps e ne bevve d’un fiato più di un quarto, poi disse: «Ma non è modo. Göring, Bormann, Goebbels sono tutti uguali. Porci sifilitici. Così si dà il cattivo esempio…».

«Non sarebbe meglio se abortissi?»

«Non pensarci nemmeno, Rose! Abbiamo bisogno di sangue nuovo, per il Reich.»

Bevve un altro lungo sorso: «Adesso devi lasciare tutto nelle mie mani e promettermi di non dire niente a nessuno».

E io promisi. Al momento di salutarci non mi baciò sulla bocca. Mi diede solo una pacca sulla spalla, come un animale all’ingrasso da incoraggiare perché si nutra bene.

42

Il pigolio di un pulcino malato

Berlino, 1942. Con Heinrich tutto si è svolto come aveva annunciato Felix. Ha mantenuto le distanze dall’inizio alla fine del discorso, ma sempre tenendo a bada il ribrezzo con la sua solita ironia. Infine, dopo avermi dato quella pacca sulla spalla, invece di salire in camera sua come sempre è andato a dormire da un’altra parte. Gli facevo orrore, come se fossi sifilitica io stessa.

Non l’ho più rivisto né ha dato segni di vita. Non che mi dispiacesse: quando l’ho incontrato, avevo praticamente perso quasi tutta la mia dignità; al momento in cui la nostra storia è finita, si era ormai ridotta a zero. Non provavo affetto né indulgenza nei miei confronti. E questo va iscritto a suo merito: a mio modo di vedere, la propensione al narcisismo e all’autocommiserazione è una rovina che ci trascina sempre nel fango. Grazie al vuoto che lui ha scavato in me, invece, sono diventata inattaccabile.

Sono stata confinata nel nostro ex nido d’amore e privata di ogni contatto con il mondo esterno per sette mesi e mezzo, fino al momento del parto. I nazisti sembravano guardare alla mia immonda escrescenza come a qualcosa di sacro, ero seguita da un dottore SS che veniva a visitarmi una volta a settimana e assistita ventiquattro ore su ventiquattro da un’infermiera taciturna, che dormiva nella stanza di Heinrich.

Si chiamava Gertraud. Era una donnina dalla schiena ricurva, apparentemente terrorizzata da tutto. Ho capito il motivo quando mi ha confidato di essere una lontana cugina del falegname Johann Georg Elser, che l’8 novembre 1939 aveva provato a uccidere Hitler sistemando una bomba a scoppio ritardato nella birreria Bürgerbräukeller di Monaco, dove ogni anno il Führer commemorava il fallito attentato del 1923.

Elser aveva regolato il dispositivo perché scattasse alle 21.20. Ma alle 21.07, prima del previsto, Hitler aveva lasciato la birreria con la sua cricca al completo, scampando così a un attentato in cui morirono comunque otto persone.

Gertraud non era affatto tenera nei confronti del Terzo Reich, questo sembrava chiaro, ma preferiva tenere la bocca chiusa e mi sono dovuta accontentare delle sue occhiate benevole, che mi hanno sostenuta per l’intera durata di quell’inferno.

Ogni giorno pregavo Cristo, la Madonna e tutti i santi perché la cosa dentro di me non sopravvivesse. Ho fatto voti, ho acceso ceri. Al terzo mese mi sono perfino infilata un ferro da calza nella vagina.

In tutta evidenza, a Felix Kersten erano state date istruzioni perché non mi chiamasse né venisse a trovarmi. Forse era anche stato cambiato il numero di telefono. Peraltro, nemmeno io avevo il permesso di comunicare con nessuno né di uscire di casa se non sotto scorta, per la passeggiata quotidiana destinata a far prendere aria all’embrione, che spesso si svolgeva nella zona di Wannsee.

Mi piaceva passeggiare sulla spiaggia del grande lago, sentirla scricchiolare sotto i piedi a causa del gelo. Mi accadeva anche di passare davanti alla bella villa bianca dove, come sono venuta a sapere in seguito, il 20 gennaio 1942 si era tenuta la conferenza di Wannsee, in cui diversi gerarchi nazisti avevano determinato le modalità dello sterminio degli ebrei, sotto la direzione del braccio destro di Himmler, Reinhard Heydrich.

Mi piaceva anche camminare lungo il laghetto dove nel 1811 si era suicidato il poeta Heinrich von Kleist, dopo avere ucciso Henriette Vogel, la donna della sua vita, perché malata di cancro. Spesso mi raccoglievo in meditazione presso le loro tombe, una grossa lapide per lo scrittore e una lastra più piccola per l’amante. Sarebbero stati molto meglio insieme, pensavo, sotto la stessa pietra.

In primavera a volte ci recavamo all’Isola dei pavoni, dove, intorno al romantico castello costruito da Federico Guglielmo II per la sua amante, quei gallinacei si mettevano in mostra e starnazzavano a tutto volume le loro erotiche frenesie.

Presso il lago ritrovavo i paesaggi di Trebisonda, specie al mattino, quando la bruma dorme sull’acqua e il terreno è tutto un mareggiare lattiginoso, che un vento timido si incarica di spazzare aprendo squarci di ora in ora sempre più ampi nel cielo azzurrato. Per me, era lo specchio del paradiso perduto.

L’elemento più perturbante ai miei occhi, durante questi giretti, era la vista dei bambini: pensavo subito ai miei figli e scoppiavo a piangere. I guardiani SS perciò, appena si accorgevano che qualcuno si avvicinava a noi, mi inducevano a cambiare strada. Non mi sono mai sentita tanto vicina a Édouard e Garance come in quel periodo. Mi bastava chiudere gli occhi per vederli.

Durante una delle ultime passeggiate al lago ho liberato Teo, con cui da diverse settimane non andavo più d’accordo. Un giorno, dopo averle dato da mangiare, la salamandra mi aveva chiesto di restituirle la libertà: «Non posso fare più niente per te».

«Non è vero, Teo. Vivere è difficile, ma sopravvivere lo è ancora di più.»

«Ormai sono soltanto la tua cattiva coscienza. Senza di me te la caverai molto meglio. Sto quasi per raggiungere i trent’anni, età limite per le salamandre, e non voglio morire in un acquario a casa di un gerarca nazista.»

Mentre mi avvicinavo al lago la sentivo fremere di gioia. Si è tuffata, senza voltarsi indietro.

*

Heinrich, subito dopo il parto, aveva stabilito di affidare il bebè a un Lebensborn, uno di quei nidi dove lo Stato SS allevava i bambini nati da madri «razzialmente valide», dietro superamento di un esame di purezza.

Nei Lebensborn sono nati circa diecimila bambini, ma il numero di quelli rapiti nei territori occupati e spediti negli istituti di educazione al nazismo per essere «germanizzati» è stato stimato in duecentocinquantamila. Li si sceglieva seguendo criteri esclusivamente razziali ed erano chiamati a diventare l’aristocrazia dei germani del Nord, che secondo il Reichsführer-SS avrebbe dovuto raggiungere i centoventi milioni di individui entro il 1980.

Bionda e con gli occhi azzurri com’ero, il tronco non troppo allungato, polpacci piuttosto ben torniti e gambe non arcuate, rappresentavo la riproduttrice ideale.

Tra parentesi, non riuscivo a capire tanta ossessione per il biondo da parte di una dirigenza nazista in cui nessun gerarca a parte Göring aveva un solo capello chiaro in testa. Erano quasi tutti bruni, per non dire neri, l’antitesi insomma del popolo un tempo auspicato da Hitler: «Soffriamo tutti della degenerazione di un sangue misto e corrotto. Cosa possiamo fare per espiare e purificarci…? La vita eterna conferita dal Sacro Graal viene concessa solo a chi davvero è nobile e puro».

Con la sua carnagione scura, le spalle spioventi, il mento sfuggente, gli occhi a mandorla e le palpebre pesanti, Heinrich era ben lontano da quell’ideale. Secondo i suoi nemici, corrispondeva addirittura alle descrizioni degli ebrei negli opuscoli nazisti. Forse per questo non mi faceva tanto orrore.

L’ultima volta in cui ci eravamo parlati, mi aveva raccontato la filosofia dei Lebensborn. Per prima cosa, nel tentativo di consolarmi, mi aveva spiegato che non avrebbe mai potuto essere monogamo.

«Con la sacralizzazione del matrimonio» aveva continuato, «la Chiesa ha ottenuto, attraverso i suoi principi diabolici, di abbassare in maniera drammatica il nostro tasso di natalità. È normale: una volta sposate, le donne si lasciano andare e all’interno della coppia prevale l’indifferenza. Ecco perché la nostra demografia è in difetto di milioni di bambini.»

«E cosa proporresti, di permettere agli uomini di avere più di una donna?» ho chiesto, inorridita.

«Esatto. La prima moglie, detta la “Domina”, conserverebbe uno status particolare, ma bisogna finirla con le sciocchezze della cristianità e lasciare che l’uomo si riproduca a modo suo. Il Lebensborn è la prima tappa verso la nostra politica familiare: i figli illegittimi non saranno più colpiti dal marchio dell’infamia, diventeranno anzi l’élite del popolo germanico. Tuo figlio vivrà felice, Rose.»

Non l’ho messo a parte del mio scarsissimo interesse in merito. Avevo solo fretta di sgravarmi per sempre dal mostro che si sviluppava in me e che finalmente venne al mondo, il 14 agosto 1943.

«Vuole vederlo?» mi ha chiesto l’ostetrica.

«Assolutamente no» ho risposto chiudendo gli occhi.

Mi ricordo bene il suo vagito. Non avevo mai sentito nulla di simile. Era una specie di pigolio da pulcino malato, una roba straziante. È l’unico ricordo che ne conservo. È stato subito portato al Lebensborn più vicino.

I giorni successivi sono rimasta a casa da sola, fino a quando due SS mi hanno scortata all’aeroporto per infilarmi sul primo aereo in partenza per Parigi, come da promessa di Heinrich.

43

Un delitto firmato

Parigi, 1943. Un anno dopo non era cambiato niente, a parte la morte del gatto Sultan, schiacciato da un camion militare in place du Trocadéro. Paul Chassagnon, il mio braccio destro al ristorante, aveva preso in mia assenza le redini della Petite Provence, riuscendo a farla vivacchiare. Aveva pagato le bollette che arrivavano a casa, dove con mia grande sorpresa non ho trovato un granello di polvere, né per aria né sui mobili: sempre dietro sua richiesta, la donna di servizio, una maniaca delle pulizie, aveva continuato a venire da me due volte alla settimana.

Dopo il mio ritorno a Parigi, per mesi ho sofferto di crampi allo stomaco. A giudicare dai sintomi, si sarebbero detti dello stesso tipo di quelli da cui erano afflitti Hitler e Himmler. A questi si aggiungevano dei rigurgiti biliosi: mi tornavano su nel bel mezzo di qualche frase che mi rimangiavo, e mi lasciavano tracce scure che ritrovavo al mattino agli angoli della bocca. Le mie pilloline alle erbe non erano di alcun aiuto. Si trattava di una malattia metafisica.

Ho cercato di curarla lavorando come una bestia al ristorante o andando in pellegrinaggio al cimitero di Cavaillon, per raccogliermi sulla tomba dei genitori di Gabriel, morti durante il mio soggiorno in Germania. Non riuscivo a liberarmi dell’estate del 1942: ero inchiodata al passato e parlavo ininterrottamente con i miei morti, con Gabriel, con Édouard, con Garance. Sembravo una vecchia pazza.

«So cosa volete» dicevo loro. «Non c’è bisogno di ripetermelo in continuazione, lo farò.»

«Non dimenticarci» mi pregava Gabriel.

«Ma se non penso che a voi!»

A quel punto arrivava Paul Chassagnon, con le sopracciglia alzate e il mestolo in mano, e chiedeva: «Tutto bene, Rose? C’è qualcosa che non va?».

«No, no» rispondevo io, rossa per l’imbarazzo.

Anche un cliente del ristorante si era preoccupato: Jean-Paul Sartre, che era tornato a cena con Simone de Beauvoir. Il filosofo aveva alzato lo sguardo su di me e assieme a un forte odore di tabacco, alcol e caffè, mi aveva sbuffato in faccia queste parole: «Si deve riposare, cara. È arrivata al limite, sembra un cadavere. Posso fare qualcosa per lei?».

Mi ero limitata a scuotere la testa, ma avrei fatto volentieri l’amore con lui, tanto per dirne una, nonostante avesse una quantità di cose che non mi piacevano, a cominciare dalla voce che pareva uscire da una fabbrica di coltelli. Ma trovavo irresistibili i suoi occhioni umidi e un po’ a palla: dal mio ritorno in città era stato il primo, a parte Paul Chassagnon, a sapermi leggere nel cuore.

Nemmeno Sartre era allegrissimo: poche settimane prima, all’ex teatro Sarah Bernhardt, ora arianizzato con il nome di Théâtre de la Cité, il suo dramma Le mosche aveva debuttato per la regia di Charles Dullin ed era stata un fiasco clamoroso.

Dopo la guerra il pensiero dominante aveva decretato che la pièce di Sartre, benché autorizzata dalla puntigliosa censura tedesca, fosse un atto di resistenza, cosa mai provata, mentre sono note le ottime relazioni di Dullin con gli occupanti e del fatto che giornali nazisti dello stampo della «Gerbe» e della «Pariser Zeitung» avessero difeso lo spettacolo. Per non parlare della festicciola dopo la prima delle Mosche, durante la quale l’autore aveva brindato in compagnia di Simone de Beauvoir con diversi ufficiali tedeschi, come i Sonderführer Baumann, Lucht e Rademacher.

Per fortuna non c’erano fotografi a immortalare la scena: Jean-Paul Sartre intento a trincare champagne con i nazisti. Questo non impedì al filosofo di partecipare al comitato di epurazione dopo la fine della guerra, mentre Sacha Guitry, convinto sostenitore di Pétain, veniva sbattuto in galera per aver bevuto assieme all’occupante.

Sartre era migliore di quanto si pensasse, migliore e peggiore. Gli perdono tutto, furbizia, bugie, anatemi, per avermi detto quel giorno con tanta tenerezza e la mano appoggiata al mio braccio: «Cerchi di svagarsi un po’».

Aveva ragione. A causa della perdita dei miei figli stavo smarrendo il gusto della vita, che peraltro non era granché, a quei tempi. Una canzone di Charles Trenet riassumeva bene lo stato d’animo generale e perciò mi ritornava in mente di continuo:

Di voi che resta antichi amori?
Giorni di festa teneri ardori?
Solo una mesta
foto ingiallita fra le mie dita.
Di voi che resta sguardi innocenti
lacrime e risa e giuramenti
solo sepolto in un cassetto qualche biglietto.2

In particolare canticchiavo tre versi che sembravano scritti apposta per me:

Sere d’aprile sogni incantati
capelli al vento baci rubati
che resta dunque di tutto ciò ditemi un po’.3

Sicuramente li stavo canticchiando anche quel mattino d’autunno in cui mi sono recata in rue Auguste-Comte, vicino ai giardini del Lussemburgo, a casa di Jean-André Lavisse. Il cielo era un unico immenso scroscio, un’oppressione di acqua grigia e foglie morte.

Andavo all’appuntamento piena di un’esultanza preventiva. Dopo avere a lungo esitato, alla fine ero giunta alla conclusione di poter curare i miei mal di pancia soltanto con la vendetta, che del resto guarisce tutto.

La vendetta è certo una violazione delle leggi degli uomini e dei precetti religiosi, ma è anche una gioia di cui mi sembrerebbe stupido privarsi. Una volta consumata, come l’amore, regala una pace interiore. Fare giustizia è il miglior modo per ritrovarsi in pace con se stessi e con il mondo.

Lungi da me l’idea di contraddire chi considera il perdono la miglior vendetta, ma una massima del genere rientra soprattutto nel campo della morale e della filosofia. Nella fattispecie, può trattarsi unicamente di una vendetta astratta: non ripara niente.

Per avere effetti benefici, la vendetta dev’essere fisica, concreta. Solo se è crudele permette alle ferite di rimarginarsi e dà sollievo a lungo.

Al contrario di moltissimi sentimenti, la vendetta non scema con gli anni. Anzi, diventa via via più eccitante. Quando ho suonato al campanello della casa di Jean-André Lavisse ero dunque eccitatissima. Non mi ha aperto lui, bensì una povera ragazza dalla schiena ricurva, che a giudicare dai modi e dall’accento era stata da poco strappata alla provincia che le aveva dato i natali. Ho declinato le false generalità di una certa Justine Fourmont e mi sono lasciata condurre fino allo studio del padrone di casa, attraverso un labirinto di corridoi.

Non me l’ero immaginato così. Un efebo al limite dell’ermafrodita, con la faccia da vecchio bacucco, la zazzera ribelle e l’aria particolarmente inacidita. Era in vestaglia a lavorare alla scrivania, tra migliaia di libri. Ce n’erano dappertutto, ovviamente sugli scaffali della libreria ma anche per terra, dove formavano torrioni in equilibrio instabile, alcuni dei quali già crollati.

Jean-André Lavisse mi fece accomodare prima di chiedermi per quale motivo volessi scrivere la sua biografia.

«Perché l’ammiro» risposi senza esitazioni.

«Le biografie sono la cosa peggiore che possa capitare a una persona. Io le chiamo i vermi dall’alto, per distinguerli da quelli in basso che ci divorano nella tomba.»

Sorrise come un idiota e io lo imitai, prima di aggiungere: «Vado matta per i suoi romanzi. Sono molto al di sopra di tutto quanto la letteratura contemporanea abbia da offrire. Il mio unico dispiacere è che ne abbia scritti così pochi».

«L’attività giornalistica è troppo impegnativa, nuoce al resto della mia opera.»

A forza di frequentare scrittori avevo imparato come vanno trattati, in particolare quando sono anche giornalisti: si coglie la loro attenzione solo parlando dei loro libri. Così, dichiarai che adoravo più di qualsiasi altra cosa Un amour incertain e La montée du matin, gli ultimi suoi due romanzetti che avevano goduto di un discreto successo.

«Lei è l’unico in grado di parlare dell’amore come si conviene» chiosai. «Insieme a Stendhal.»

«È un paragone accettabile.»

La vanità degli scrittori può dare la misura dell’infinito. Jean-André Lavisse assaporò quel complimento con immobilità statuaria, finché sparai il seguente, provocando in lui una sorta di gorgheggio tacchineggiante.

«Tutta la sua opera mostra quanto conosca e sappia amare noi donne.»

«E, mi sia consentito dirlo, ne vengo abbondantemente ricambiato.»

Guardandolo con occhi rapiti e labbra socchiuse, con l’espressione della Vergine che prega l’Onnipotente ottenni un effetto immediato. Jean-André Lavisse si alzò, prese un libro da uno scaffale della libreria, e dopo aver cercato la pagina e mi si avvicinò leggendo ad alta voce alcune massime di Pensées d’amour, il suo più grande successo, uscito cinque anni prima: «L’amore fa morire gli uomini e nascere le donne.

«In amore, l’unica ribellione possibile è la fuga.

«L’amore è una malattia che si cura solo con la morte.

«C’è una cosa che l’amore è incapace di capire, anche con gli anni: il fatto di non essere eterno».

Aveva assunto una strana postura, con il bacino spinto in avanti e la testa all’indietro, nell’atteggiamento del grande scrittore intento a scrutare la posterità. Non appena fu alla mia portata, mi servii dei rudimenti di krav maga che mi aveva insegnato Hans, il mio amico SS di Berlino: mi alzai e gli assestai un colpo secco sulla glottide. Avrei potuto cavargli gli occhi con due dita o colpirlo sui genitali, ma in quanto esponente del sesso debole ho scelto il modo più spedito e meno rischioso.

Jean-André Lavisse è caduto riverso e ha iniziato a scalciare sul parquet, come un animale ferito a morte. Respirava a fatica e si stringeva il collo con entrambe le mani. Il volto gli era diventato rosso mattone. Soffocava.

Non volevo ucciderlo, o comunque non ancora. Mi sono inginocchiata e chinata su di lui con espressione compassionevole: «Come sta?».

Per tutta risposta ha sputato una pappetta di parole e bava di cui non ho capito niente. Gli ho sussurrato: «Lei mi ha rubato quanto avevo di più caro: il mio uomo, Gabriel Beaucaire, e i miei bambini. Non li rivedrò mai più. L’unico modo che ho per stare meglio è farla soffrire: è la mia unica possibilità di consolarmi almeno un po’».

Ho preso una Bibbia dalla borsa e gli ho letto un passaggio del Deuteronomio: «Il Signore ti colpirà con le ulcere d’Egitto, con bubboni, scabbia e prurigine, da cui non potrai guarire».

Ho commentato, rialzandomi: «La Bibbia è piena di maledizioni di questo tipo. Io le trovo affascinanti».

Stava diventando viola: non riusciva quasi a respirare, teneva la bocca spalancata come un pesce fuori dall’acqua.

«Non si preoccupi» gli ho detto mentre mi accucciavo di nuovo accanto a lui. «Io non sarò tanto crudele.»

Per seguire la Bibbia alla lettera, avevo pensato di versargli un flacone di acido cloridrico sul fondoschiena, ma poi ho cambiato idea, era un’operazione troppo stupida e complessa. L’ho colpito un’altra volta alla gola con il taglio della mano, e poi un’altra ancora, finché Jean-André Lavisse ha esalato l’ultimo respiro.

All’improvviso si è sentito un grido ridicolo e acutissimo alle mie spalle. Era la domestica: «Aiuuuuuto! Asciasciiiino!».

Si è precipitata su di me ringhiando, sbavando e mordendo. Mi sembrava di dovermi difendere da un cane rabbioso. Con le sue urla ha dato l’allarme all’intero vicinato, così, quando ho sentito un rumore di passi nel corridoio fuori dallo studio, mi sono alzata e sono schizzata via rovesciando per strada un giovanotto che accorreva, forse figlio di Lavisse. Poi ho gettato a terra una signora con una faccia da bulldog, la sua seconda moglie, come ho scoperto in seguito, con cui si era sposato un mese dopo la morte della prima.

Mi si è avvinghiata alle gambe. Le ho assestato diversi calci in faccia e alla fine, con un rantolo, ha dovuto mollare la presa.

Sono scappata a passo sostenuto verso i giardini del Lussemburgo. Provavo una sensazione di angoscia. Non era normale, avrei dovuto sentirmi alleggerita, dopo quel delitto. Ho dato la colpa ai rami spogli e assiepati degli alberi sopra di me, contro cui il vento si rompeva. Scenario perfetto per un omicidio.

Dall’altra parte dei giardini, in rue Vaugirard, ho cominciato a sudare. All’altezza della chiesa di Saint-Sulpice ho capito il perché: avevo lasciato la mia Bibbia a casa di Jean-André Lavisse, firmando così il delitto.

Sul risguardo, infatti, era segnato a mano:

Alla mia cara Rose,
per i suoi quindici anni,
con tutto l’amore del mondo

Emma Lempereur

Ho deciso su due piedi di partire per la zona libera, a Marsiglia, da dove sarei espatriata per gli Stati Uniti. Avevo già vissuto molto, ma all’età di trentasei anni niente mi impediva di rifarmi una vita.

2 Que reste-t-il de nos amours? / Que reste-t-il de ces beaux jours? / Une photo, vieille photo de ma jeunesse / Que reste-t-il des billets doux, / Des mois d’avril, des rendez-vous?

3 Bonheur fané, cheveux au vent, / Baisers volés, rêves mouvants / Que reste-t-il de tout cela? Dites-le moi.

44

Viaggio a Treviri

Marsiglia, 2012. Mentre finivo il capitolo precedente Samir il sorcio ha suonato il campanello con insistenza.

«Rose, sei diventata nonna!» mi ha comunicato.

«Che storia è questa?»

«Renate Fröll, tua figlia, aveva un figlio. Ne ho ritrovato tracce alle elementari di Aschaffenburg, dove è andato a scuola.»

«Tu sei fuori come un balcone!»

«Smettila di negare, Rose, cominci a renderti ridicola.»

«Smettila tu di parlarmi così, non ne posso più. Un po’ di rispetto, stronzetto!»

A questa parola una scintilla gli è lampeggiata negli occhi, dopodiché si è messo a tremare: Samir era molto permaloso. Mi ha presa per un braccio e ha iniziato a scuotermi dicendo: «Adesso chiedi scusa, buffona!».

«Non ho l’età.»

«Chiedi scusa.»

È passato a storcermi il braccio: faceva troppo male.

«Scusa» ho detto piano.

Allora ha abbassato immediatamente i toni: «Sono riuscito a rimettere insieme tutti i pezzi: in Germania hai avuto una figlia, che a sua volta ha partorito un bel maschietto. Si chiama Erwin».

Samir mi ha messo sotto il naso una foto di Erwin Fröll a diciotto anni, dopo essere stato bocciato all’Abitur, la maturità tedesca, che corona o sancisce la fine del corso di studi superiori.

Samir si è stravaccato sul divano mentre io restavo in piedi a guardare la foto di mio nipote alla luce del lampadario. Era un ragazzo dai capelli neri e riccioluti, il cui volto mi ha subito ricordato Gabriel. Sembrava assurdo, eppure era così. Aveva lo stesso naso possente, la stessa fronte beethoveniana, lo stesso sguardo volitivo, lo stesso sorriso da schiaffi. Non ho potuto trattenere una lacrima, che ha fatto sorridere Samir. Di colpo ho provato una gran voglia di stringere Erwin tra le braccia, il prima possibile: «Dove abita?».

«So dove trovarlo. Nel 2004 è entrato in un istituto di Treviri per soggetti con disturbi neurologici.»

«È malato?»

«Non lo so, non ho avuto accesso alla cartella clinica, ma è molto stanco. O almeno così mi ha confidato la ragazza del centralino, quando ho cercato di mettermi in contatto con lui. Non ho capito granché: comunicavamo in inglese, e il suo era pessimo almeno quanto il mio.»

Ho chiesto a Samir di darmi il numero dell’istituto di Treviri. Lo aveva memorizzato in rubrica e, dopo aver fatto partire la chiamata, mi ha passato il cellulare. La centralinista mi ha detto di non potermi passare Erwin perché non era in condizioni di parlare.

«Cos’ha?»

All’altro capo del filo c’è stato un silenzio, poi ho sentito: «Se è un’amica o qualcuno di famiglia, le consiglio di non aspettare troppo, per fargli visita».

«Vuol dire che sta morendo?»

«Non ho detto questo. Non siamo autorizzati a fornire informazioni sulla salute dei pazienti per telefono. Ma se viene, vedrà con i suoi stessi occhi lo stato in cui si trova…»

Alla fine della telefonata, la decisione era presa: avrei chiuso il ristorante per quattro giorni e già la sera successiva saremmo partiti per Treviri, io, Samir e Mamadou.

*

La vecchia Peugeot di Mamadou, con duecentoventimila chilometri sul groppone, andava peggio di una lumaca. Siamo arrivati a Treviri il mattino dopo, in seguito a un viaggio di quasi quindici ore, mentre stando a internet non avremmo dovuto impiegarne più di otto.

Sapevo che Treviri, la città più antica della Germania soprannominata la «seconda Roma», è anche una delle città più belle di quel Paese, ma non eravamo venuti a scopo turistico. Avevo fretta di vedere mio nipote.

Lungo la strada, davanti ai vigneti protetti dal freddo grazie allo scisto che riscalda la valle della Mosella, mi è venuta voglia di Riesling ma ho rimandato a dopo. Ho detto a Mamadou di comprarne un po’ mentre noi andavamo a trovare Erwin. Quando siamo scesi dall’auto mi sono vergognata per il tanfo che emanavamo, mi dispiaceva per i fiori e gli uccellini costretti a subirlo finché il vento non lo avesse spazzato via.

Nella clinica della fondazione Peter Lambert, dove era ricoverato Erwin e che prendeva il nome da un famoso rosicoltore di Treviri, aleggiava lo stesso sentore di chiuso. I televisori andavano a tutto volume, come spesso accade in questo genere di istituti.

Quando si sta sempre davanti alla televisione, vuol dire che la morte è vicina. Non so se ci sia un rapporto di causa-effetto, ma l’ho imparato dall’esperienza: la televisione è l’anticamera della morte.

Erwin Fröll aveva quarantanove anni; gliene avrei dati più di sessanta. Se non fosse stato per il naso e la fronte, ogni rassomiglianza con Gabriel era sparita. Era calvo e completamente glabro. Il bel ragazzo della foto si era ormai ridotto a un relitto naufragato sotto le lenzuola, con le articolazioni di braccia, gambe e bacino sostenute da cuscini.

Sembrava stesse guardando la televisione come tutti gli altri pazienti, ma il film che trasmettevano andava troppo svelto per lui. Ho abbassato il volume. Non ha protestato.

«Oh, eccola, finalmente» ha detto con voce titubante. «Mi ha… riportato… il sorriso?»

«Quale sorriso?» gli ho chiesto.

«Il mio. A quanto pare non ce l’ho più.»

«Chi lo dice?»

«Tutti.»

«Tutti possono sbagliarsi.»

«Non smettono di rubarmi le cose. Il sorriso. Il gatto. La macchina. Lo spazzolino. Sono pieno di cose scomparse.»

Ha levato un indice minaccioso: «Voglio sapere chi mi ha tolto il sorriso».

Erwin mi ha rivolto uno sguardo intenso, dopodiché, come attraversato da un lampo di lucidità, ha mormorato: «Sono contento di rivederti, mamma. Come mai non vieni più?».

«Tua madre è morta. Io non sono tua madre, sono tua nonna.»

«Ah, sì, tu e Waltraud.»

Ha annuito serio serio, poi ha sentenziato, come un oracolo ispirato dal dio: «Le nonne sono mamme più buone, le sole in grado di capirci. Tu, mamma, sei stata una vera nonna per me. Come Waltraud».

A quanto pareva, quel discorso era il massimo dello sforzo che fosse in grado di reggere in un giorno, e infatti si è addormentato di botto. Non ne avrei cavato un ragno dal buco, ho pensato, e la suddetta Waltraud, la capoinfermiera del piano, lo ha confermato di lì a poco. Mi ha spiegato in confidenza che Erwin aveva già oltrepassato da diversi mesi la durata media della fase terminale dell’Alzheimer che, dopo una maturazione di circa dieci anni, raramente supera i ventiquattro mesi.

Erwin era arrivato alla clinica della fondazione Peter Lambert otto anni prima e da allora non aveva mai ricevuto visite. Ovviamente escluse quelle della madre, morta ormai da diverse settimane per un tumore allo stomaco subito dopo avere finalmente scoperto, dopo lunghe ricerche, il nome della propria genitrice, ovverosia io, che la sua timidezza patologica le aveva impedito di contattare.

Da Waltraud sono venuta anche a conoscenza dei tanti mestieri esercitati da Erwin: salumiere, stuccatore, banchista, magazziniere, imbianchino, fino a diventare, verso la fine dei trent’anni, un disoccupato cronico.

«Non è una gran perdita per la società» ha concluso. «Era un fannullone incallito, bravo solo a parole e pure mezzo asociale.»

Il giorno seguente, mentre la nostra macchina si riavvicinava a Marsiglia con il portabagagli pieno di bottiglie di Riesling della Mosella, Samir il sorcio si è girato verso di me, che mi ero sdraiata dietro con le gambe sollevate e un cuscino sotto la testa, e ha annunciato: «Ho preso qualche ricordino dalla camera di Erwin».

«Non ci posso credere!»

Ha sorriso e ha tirato fuori dalla sacca da viaggio una statuetta in plastica di Karl Marx, nato a Treviri in Brücknerstrasse 10, un ventaglio e un guscio d’uovo con la sua effigie, il Manifesto del partito comunista e due libri di Rosa Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione? e La crisi della socialdemocrazia.

Ho sorriso anch’io, contenta che Samir non avesse rubato soldi, poi ho ruttato, un rutto al Riesling della sera prima. Tutti sono scoppiati a ridere, io in testa.

«Resta un’ultima cosa da scoprire» ho detto a Samir. «Chi ha spedito l’annuncio del decesso di Renate Fröll?»

«Non è difficile» ha risposto lui. «Basta ragionarci un momento. L’apertura degli archivi postbellici della Croce rossa ha permesso a chiunque di avere accesso ai documenti dei Lebensborn, per sapere chi fossero i loro veri genitori. Tua figlia Renate ha trovato il tuo nome, ma per qualche ragione, la malattia o chissà cos’altro, non ha voluto verificare l’indirizzo.»

«Cosa ne sai tu?»

«Altrimenti si sarebbe fatta viva. Prima di morire ha dato il tuo nome a qualcuno, magari proprio alla capoinfermiera, e lei ti ha rintracciata su internet.»

«Tornerei volentieri a Treviri per parlare di nuovo con quella Waltraud.»

«Non mi sembra una buona idea. Al contrario di quanto pensavo, questo viaggio non ti ha fatto bene, Rose. È meglio se ti riposi.»

«Eh, già» ha annuito Mamadou da dietro il volante, senza girare la testa.

«Sono contenta di avere visto mio nipote» ho detto. «Rimpiango solo che fosse troppo tardi.»

«Basta con i rimpianti» ha tagliato corto Samir. «Se il passato non ci piace, meglio andare avanti ed evitare di tornarci su.»

«Anche perché sulla mia strada lascio soltanto cadaveri.»

Per una volta l’occhiata lanciatami da Samir è stata così buona da farmi quasi scoppiare a piangere. Mi sentivo smarrita.

Adesso che mio nipote stava per morire, Samir e Mamadou erano tutta la mia famiglia. Avrei voluto dirglielo, ma non mi sono venute le parole.

Né le avevo ancora trovate quando siamo entrati a Marsiglia, al calar della notte: l’orizzonte era tutto schizzato di sangue, come una camera di macellazione. Non mi piace il crepuscolo, sembra deciso a strapparti la vita via di bocca. Il mondo è concepito male: il sole scompare sempre quando più abbiamo bisogno di lui.

45

Io, Nelson e Simone

New York, 1943. Con i soldi che aveva messo da parte durante la mia assenza, Paul Chassagnon rilevò La Petite Provence, quindi arrivai negli Stati Uniti con un discreto gruzzolo, cucito nella fodera del cappotto.

Grazie a un’associazione armena di mutuo soccorso, ho subito trovato posto come cuoca in un ristorantino sulla 44a strada, accanto all’albergo Algonquin, a due passi da Times Square. Dormivo nel seminterrato. Non credo di avere mai lavorato tanto in vita mia.

Ma la cosa peggiore non era la fatica, bensì il tanfo di zucchero, carne, cipolle e olio bollente, i quattro odori di New York in cui vivevo immersa dalla mattina alla sera e che portavo ogni notte fin dentro il sacco a pelo.

Spesso mi veniva voglia di vomitarmi viva. Il ristorante chiudeva solo la domenica a pranzo, perciò la mia vita era piuttosto monotona. Uscivo esclusivamente per andare sulla 5a avenue, alla messa domenicale nella cattedrale di St. Patrick, tutta marmi e ori.

Nel giro di pochi mesi avevo ripiegato su Saint Thomas, che si trova un po’ più giù sullo stesso viale. A parte la fantastica pala d’altare, dove assieme ai dodici apostoli figura una quantità di altra gente, tra cui George Washington e il vecchio Primo ministro inglese William Gladstone, questa chiesa renderebbe nevrastenico il più allegro dei cattolici, tanto l’atmosfera che vi regna è cupa e venefica. Ma per parte mia preferisco ancora il culto cristiano del dolore all’adorazione del Vitello d’oro, simboleggiata fino al parossismo dalla cattedrale di St. Patrick.

Ero tornata dalla mia permanenza in Germania più credente che mai. Andavo regolarmente in chiesa a chiedere a Gesù e alla Madonna notizie della mia famiglia nell’alto dei cieli. A quanto pare, non erano malvagie. Se lassù non stanno per forza meglio che quaggiù, almeno i morti non si stancano quanto noi su questa Terra. Non sono costretti a combattere. Hanno un po’ di tempo per sé.

Quando c’era il sole, dopo la messa andavo a mangiare un panino a Central Park, prima di tornare al lavoro. Mi piaceva guardare gli scoiattoli rotolarsi per terra e scavare tra l’erba alla ricerca di una ghianda, che sbucciavano con le loro manine da bambini agitando tutti allegri la coda a piumino.

Proprio a Central Park ho incontrato l’uomo che mi avrebbe dato un’altra possibilità. Era un rappresentante di dentifrici e creme da barba. Aveva una cinquantina d’anni, un pancione, due baffetti minuscoli e l’espressione da bue malinconico. Si chiamava Frankie Robarts e voleva aprire un ristorante a Chicago.

Ho deciso di seguirlo su due piedi quando, dopo essere venuto a provare la mia cucina nel bugigattolo della 44a strada, mi ha proposto di ricominciare insieme a lui. L’America è un Paese dove non si finisce mai di rifarsi una vita. Ecco perché si crede immortale. È la sua debolezza. Ma anche la sua forza.

*

A Chicago, io e Frankie abbiamo battezzato il nostro ristorante Frenchy’s. I primi mesi sono stati difficili: la cucina provenzale non attirava folle oceaniche, si faticava a sbarcare il lunario. Ma quando ho deciso di specializzarmi in hamburger, il nostro piccolo esercizio di fronte al lago ha spiccato il volo.

Non appena da Frenchy’s si è cominciata a sentire puzza di morto, ovverosia di carne alla griglia, sono arrivati i clienti. Da vegetariana, faticavo ad abituarmi a quell’odore. Grazie a quest’idiosincrasia ho capito che non sarei mai potuta diventare americana.

Gli Stati Uniti sono una società di carnivori, in cui ciascuno necessita della sua razione di carne rossa; vanno avanti a macinato come altri a colpi di speranza o di bastone. Mi sembrava di vivere costantemente nel peccato. Addirittura puzzavo di peccato.

Da noi il cliente poteva ordinare l’hamburger a piacimento, in tempo reale. Alle erbe, alle spezie, ai pinoli, ai fiocchi d’avena, alla mozzarella, al pomodoro, alle melanzane, agli spinaci, ai dadini di ananas, a qualsiasi cosa. Come accompagnamento avevo perfezionato una serie di salse, alla senape, al gorgonzola, all’aglio o all’aneto, tutte zuccheratissime.

E poi preparavo la miglior strawberry shortcake di Chicago. L’avevo ribattezzata Tarte au fraises à l’américaine, scritto sul menu proprio così, in francese, e riscuoteva anche più successo del mio famoso crème caramel, che non volevo rassegnarmi a zuccherare di più per adeguarmi ai costumi locali.

A quei tempi mi andava di avere un uomo nel letto. Frankie Robarts non era particolarmente competitivo da questo punto di vista, e poi russava. Per non parlare della sorta di gelatina che gli ricopriva pancia, didietro e cosce, motivo per cui quando facevamo l’amore avevo la sensazione di nuotare in un mare di porridge.

In comune avevamo solo il ristorante, ma tanto bastava a mantenere vivo il nostro rapporto. Quando cambiavamo argomento, Frankie diventava subito noioso, limitandosi a infilare una dietro l’altra una quantità di frasi fatte, quasi avesse paura di mostrare il suo vero volto.

Era una persona estremamente controllata. Se alla fin fine lo sopportavo, era giusto per la sua assoluta ammirazione di fronte alle mie arti culinarie e l’adorazione davanti al mio seno e al mio culetto. Per quanto fosse palloso, era pur sempre il migliore antidoto alle mie angosce. Diceva che ero la sua unica famiglia. E la cosa era reciproca. Dopo un anno di convivenza, ho accettato di sposarlo.

Non per questo avevo smesso di guardarmi intorno. Prima della chiusura facevo il solito giretto tra i tavoli e di tanto in tanto individuavo un cliente da cui ero attratta, ma alla fine non varcavo mai il Rubicone rispondendo agli approcci. Ero entrata a far parte della schiera di chi cerca sempre un modo per lasciare il focolare domestico, ma scappa via appena lo trova.

Con l’amore avevo chiuso, così mi dicevo. Passarono due anni, finché una sera d’inverno del 1946 rimasi senza parole davanti a un tipo tenebroso; non riuscivo a capire se fosse un artista o un facchino. Questo genere di individui esistono esclusivamente in America o in Russia: scrittori con spalle da boscaioli, che sembrano appena usciti da una foresta dove hanno tirato giù la loro dose quotidiana di tronchi d’albero.

Pugile, giocatore, alcolizzato, comunista e scrittore a tempo perso, il tipo in questione si chiamava Nelson Algren e aveva già scritto un libro facendo parlare di sé: Mai venga il mattino. Non era meno violento di quanto fosse romantico, l’ho capito subito: quel conoscitore dei bassifondi era abitato da una gran rabbia e io volevo tracannarla d’un fiato. Se lui era il temporale, io sarei stata la Madre Terra. Avevo fretta di lasciarmi sommergere da lui. Mi sentivo morsa da un’urgenza di cui non ho potuto liberarmi fino al giorno in cui abbiamo finalmente consumato.

La prima volta è venuto a cena con una sedicente attrice, pettinata alla Vivien Leigh in Via col vento, che era uscito negli Stati Uniti quattro anni prima. La donna era assolutamente incapace di infilare due frasi di seguito. Non so se fosse per timidezza o idiozia, ma il risultato era quello. Quando Algren ha saputo che ero francese, mi ha domandato come avevo potuto lasciare Parigi per quella topaia di Chicago.

«La guerra» ho risposto. «La guerra è come un bombardamento: scaglia le cose e i corpi dove meno te lo aspetti.»

La risposta gli è parsa interessante e per un attimo l’ho visto indeciso se indagare più a fondo, ma poi ha preferito chiedermi cosa rimpiangevo di più della Francia.

«Niente» ho detto.

«Impossibile.»

«So solo che se torno a Parigi non la smetterò di piangere.»

«Non ci credo.»

«Non voglio tornare dove abitano i miei morti. Non potrei vivere in mezzo a loro.»

«Non vuole nemmeno provare?»

«Ho troppo il gusto della vita. Perché sciuparlo?»

Ha ripetuto le mie parole, poi ha commentato: «È una frase molto bella. Mi permette di usarla per un romanzo, prima o poi?».

«Ne sarei lusingata.»

Non ero scema. Si trattava di uno dei suoi approcci abituali, come in seguito ho avuto modo di appurare. Al contrario di molti scrittori, era un seduttore nato.

L’indomani si è presentato di nuovo, stavolta con un’altra puttanella dai capelli decolorati, e mi ha lasciato il suo numero su un bigliettino giallo. La mattina successiva l’ho chiamato e l’ho raggiunto nel suo bilocale nella zona nord di Chicago. Avevo trentanove anni e una voglia furibonda di non perdere altro tempo.

Appena mi ha aperto, ho premuto le labbra contro le sue con tale forza da spedirlo quasi a gambe all’aria. Si è rimesso in equilibrio e, sempre baciandomi, mi ha trascinata fino al letto, dove abbiamo fatto subito l’amore.

Dopo siamo rimasti stesi un quarto d’ora a parlare, con lo sguardo al soffitto, finché mi sono decisa a dare una pulita all’antro di Nelson, che era sporco da fare schifo e sembrava un cimitero di bottiglie.

Per un mese mi sono presentata due o tre volte alla settimana in quella catapecchia, sempre avvertendolo prima del mio arrivo. Grazie all’amore, imbellivo a vista d’occhio. A mio marito dicevo di dover andare da qualche fornitore o di avere appuntamento dal dentista, e lui ci cascava. Quell’ingenuità peggiorava i miei sensi di colpa, da cui ero assalita soprattutto nel bel mezzo dell’atto, quando distogliendo lo sguardo dall’occhio vitreo di Nelson in pieno orgasmo mi sembrava di vedere, nella stanza in penombra, lo sguardo disperato di Frankie. Concentrandomi bene, ero sicura di individuare dietro di lui gli occhi di Gabriel, Édouard, Garance, papà, mamma e tutti gli altri.

Cosa venivano a fare lì? Perché vedevo le facce dei morti e degli assenti ogni volta che mi concedevo qualche piacere? Eppure facendo del bene a me stessa non nuocevo a nessuno.

All’inizio del 1947, un pomeriggio ho chiamato Nelson per avvertirlo del mio arrivo, ma lui mi ha detto di non andare: «Ho ospiti».

Era Simone de Beauvoir, venuta per un giro di conferenze negli Stati Uniti. La sera successiva, quando Nelson l’ha portata a cena nel mio ristorante, ci siamo buttate una nelle braccia dell’altra. Puzzava d’alcol, di sigarette e di altri odori legati a Nelson, a me ben noti ma di cui preferisco non parlare.

Nelson aveva fatto un gran bene anche a lei, a ogni modo molto più di Sartre. Non l’avevo mai vista così bella e luminosa.

Sono rimasta al loro tavolo fino all’ora di chiusura. A un certo punto il discorso è caduto sugli Stati Uniti, dove grazie alla pauperizzazione della classe operaia, secondo loro, la situazione stava diventando «rivoluzionaria». I toni si sono subito scaldati. Quei due si fomentavano l’un l’altra, mettendomi una gran tristezza. Bisogna proprio essere colti e talentuosi per affermare simili idiozie con la forza della convinzione.

«Nonostante le difficoltà, gli americani non mi sembrano poi così scontenti» sono intervenuta. «Non vedo perché dovrebbero voler cambiare forma di governo.»

«Non vorrai negare l’importanza degli avvenimenti in corso in Russia e in Cina?» si è indignato Nelson. «Non puoi essere tanto cieca, di fronte al futuro dell’umanità.»

«La felicità non arriva per decreto, non ho mai creduto a simili sciocchezze.»

«Ah. E da dove arriverebbe, allora?»

«Da ciascuno di noi. Tra l’altro, la vita qui mi piace molto.»

«Perché non hai il tempo di pensare» sospirò Nelson con disprezzo. «Sei alienata dal sistema capitalistico, completamente alienata!»

Simone beveva le sue parole: tanto amore ricordava l’alienazione da vicino, avrebbe detto Sartre. Nonostante quanto abbiano potuto dire nei suoi confronti, Simone non si concedeva, si donava. In seguito mi sono spesso chiesta se l’assoluta distorsione del suo sguardo sul mondo non fosse tutta colpa degli uomini.

Quella sera aveva le pupille dilatate. Bastava guardarla negli occhi per capire che Sartre era stato ormai detronizzato dal mio ex amante, destinato a diventare l’uomo della sua vita almeno per un po’.

Ecco perché non sono rimasta affatto stupita quando, diverso tempo dopo, sono venuta a conoscenza della sua volontà di essere sepolta vicino a Sartre, ma con al dito l’anello che le aveva regalato Nelson. Da quando avevano rotto, si odiavano talmente tanto da non lasciare adito a dubbi sul fatto di amarsi ancora.

Nei giorni successivi i due innamorati presero l’abitudine di venire sempre da Frenchy’s. La loro felicità mi piaceva. Non mi toglievano niente, anzi. La mia storia con Frankie, negli ultimi tempi alquanto vacillante per via dell’avventura con Nelson, ne uscì cementata.

Quando Simone è ritornata sull’altra sponda dell’Atlantico, Nelson ha continuato a frequentare il ristorante ma con meno assiduità e quasi sempre in compagnia di una ragazza. Avevo paura per il loro amore, che non mi sembrava tanto a misura umana, anche se un giorno in cui era solo e aveva voglia di parlare Nelson aveva tirato fuori dal portafoglio una lettera di lei datata 14 gennaio 1950, dove si leggeva:

Oh, Nelson! Sarò brava, sarò buona, vedrai, laverò i pavimenti, cucinerò a pranzo e a cena, scriverò il tuo libro insieme al mio, farò l’amore con te dieci volte per notte e altrettante di giorno, anche se per me la cosa dovesse risultare un po’ stancante.

Ricordo ancora il sorriso di Nelson mentre gli restituivo la lettera, un sorriso da domatore che ha finalmente avuto ragione sulla fiera.

«Per quanto femminista, una donna è sempre una donna» ha commentato accarezzandosi le braccia.

In seguito, dopo una cena con giornalisti dall’aria cospiratoria, Nelson è rimasto un po’ con me e mi ha aperto il suo cuore. A quanto pareva esistevano due Simone de Beauvoir. L’amante e la femminista. La donna in amore e la donna di testa. Lui non pretendeva che lei si sradicasse e compisse per così dire un «suicidio intellettuale». Voleva solo costruire insieme qualcosa. Un bambino, una casa, non era chiedere troppo alla fin fine. Ma lei non ne voleva sapere.

La mia storia con Nelson non è mai ricominciata. Io ne avrei anche avuto voglia, ma lui no. Forse mi ero un poco appesantita sui fianchi, e soprattutto sulle gambe. Magari temeva che prima o poi lo dicessi a Simone. Negli anni seguenti ho mantenuto un comportamento esemplare nei confronti di mio marito, quasi cercassi di farmi perdonare errori che aveva a malapena subodorato. Non è stato difficile: la quotidianità ripetitiva della nostra vita di ristoratori di successo iniziava a piacermi, mi rassicurava. Il nostro avvenire era una sorta di passato che ricominciava sempre.

Frankie era ingrassato parecchio. A quell’epoca, affermarsi nella vita provocava questo effetto. Aveva superato di gran lunga il quintale, la posizione del missionario era ormai proibitiva, tra noi: ci avrei lasciato la pelle.

Chicago è la città degli estremi. Un momento sembra di essere in Groenlandia, il momento dopo ai tropici. «Qui c’è un clima esagerato» amava dire Frankie Robarts. Faceva sempre troppo freddo o troppo caldo. A volte si bolliva talmente che sembrava di stare in una pentola della mia cucina, i pesci risalivano cotti alla superficie del lago Michigan e andavano a decomporsi sulle coste di sabbia fine.

«Benvenuti alla spiaggia del pesce morto» scherzavamo noi. Ma c’era poco da ridere: in certi giorni l’odore faceva inorridire la clientela.

Mio marito sopportava l’afa più o meno come i pesci del Michigan. Quando ci piombava addosso, lo si vedeva zuppo come una spugna, intento a squagliarsi. Paventavo quei momenti, perché rischiavano di condannarmi a due mesi di astinenza sessuale. Tutte le notti succedeva la stessa cosa orribile: niente.

Il 2 luglio 1955, mentre il sole cominciava a prendere la terra a picconate, Frankie Robarts è scoppiato. È morto nel bel mezzo del servizio, per una crisi cardiaca scatenata da un accidente cerebrovascolare mentre serviva un hamburger a una cliente che si è ritrovata a gambe all’aria e con la faccia impiastricciata di ketchup.

Alcuni giorni dopo ho ricevuto una lettera di condoglianze da parte di Simone de Beauvoir, avvertita da Nelson Algren della morte di mio marito, in cui mi proponeva, per «svagarmi un po’», di unirmi a lei e Jean-Paul Sartre per il loro viaggio in Cina, previsto nell’autunno seguente. Spese pagate, specificava. Mi avrebbero presentata alle autorità cinesi in qualità di loro segretaria.

Ho venduto il ristorante e ho fatto in modo di raggiungerli a Pechino passando per Mosca: non volevo rimettere piede sul suolo francese.

46

L’altro uomo della mia vita

Pechino, 1955. Arrivata a Pechino, la cosa che mi è piaciuta di più sono stati i cinesi, un popolo concreto, pieno di fiducia e gran lavoratore. Sono come gli americani ma senza il sorriso a trentadue denti né la corpulenza provocata dall’abuso di zuccheri e grassi animali: secondo il mio modesto parere, procedono più spediti e arriveranno per forza più lontano.

Avevo quarantotto anni ed era tempo di trovare l’anima gemella, quella capace di riaccendere il sole che mi aveva rischiarato lo spirito anche nella notte più nera, la cui ultima fiamma si era spenta con la morte di Frankie Robarts.

Visto lo stato della coppia Sartre-Beauvoir, avrei potuto lasciarmi tentare da lui, come lo ero già stata alla Petite Provence una dozzina di anni prima. Anzi, avevo la sensazione che a Simone non sarebbe dispiaciuto. Ma, per quanto affascinante, l’intellettuale rospo dai denti guasti non era propriamente il mio genere. Non sopportavo il suo sorriso tirato – sembrava continuamente sotto sforzo per andare di corpo. E poi quella voce metallica mi dava l’impressione di un coltello sul vetro. Infine pareva troppo spesso colto dalla perfida malevolenza delle persone sgradevoli, tradita anche dal suo alito: puzzava di amarezza, oltre che di alcol e tabacco.

Da un bel pezzo Simone e lui non facevano più niente, e detto tra noi la capivo. Dopo Nelson Algren aveva cominciato a frequentare Claude Lanzmann, un giovanotto bellissimo che non avevo mai visto e di cui lei parlava con grande emozione. A quei tempi aveva l’aspetto in fiore dell’amore ricambiato.

La cosa migliore di Sartre era Simone de Beauvoir. Cosa sarebbe stato lui, senza di lei? Una banderuola assertiva. Un cattivo scrittore. Insomma, non un granché. È stata lei ad avere messo la sua leggenda nero su bianco.

Per sei settimane abbiamo girato la Cina in lungo e in largo, da Pechino a Shanghai, da Canton a Nanchino, ma come disse Sartre molto tempo dopo in uno sprazzo di lucidità: «Abbiamo avuto sotto gli occhi tante cose, ma in effetti non abbiamo visto niente». Era tutto ufficiale, anche i colloqui privati, e non dimenticherò mai i mal di testa di cui cadevo vittima quando gli apparatčik ci infliggevano discorsi durante i quali si sforzavano di non dire niente con consumata arte. Mi facevano pena.

Sartre e Beauvoir non si accorgevano di un bel nulla. I loro ospiti li sommergevano di moine e loro erano al settimo cielo. Sembravano due pavoni ciechi e sordi, intenti a fare la ruota in un pollaio.

In quel viaggio ho ricevuto una grande lezione di vita, che non mi stancherò mai di ripetere: non esiste niente di più idiota delle persone intelligenti. Basta solleticare il loro ego e le si manipola a piacimento. L’ingenuità e la vanità camminano a braccetto, si nutrono l’una dell’altra, anche nelle grandi menti: l’ho potuto verificare per tutta la durata di quel viaggio.

Mentre Simone prendeva appunti per il suo libro più brutto, La lunga marcia, un saggio sulla Cina uscito nel 1957, io scrivevo su un quaderno frasi ispirate al nostro continuo girovagare:

L’uomo lavora, il cinese ancora di più.
L’intellettuale si lascia adulare, il povero no: è troppo pieno di acciacchi e le carezze gli farebbero male.
Il sol dell’avvenire lascia scottati.
Comunismo: sistema incapace di capire che per rendere felici le persone basta lasciarle in pace davanti a un bel paesaggio.

L’ultimo giorno mi sono innamorata di un comunista cinese. Con lui è andata più o meno come con Gabriel. Ho sentito una scossa di terremoto che mi attraversava la schiena e mi bloccava il respiro, mettendomi una tremenda voglia di fare pipì. Non appena i nostri sguardi si sono incrociati, ho capito che volevo vivere con lui per il resto dei miei giorni, o almeno finché sarebbe durato l’amore.

Si chiamava Liu Zhongling. Era vedovo e aveva una dozzina d’anni meno di me. Quando provo a ricordare cosa mi piaceva in lui non so mai da dove cominciare, tanto era perfetto dalla testa ai piedi: occhi a mandorla, labbra da mordere, lingua esperta, tutto muscoli e per finire le dita dei piedi ben tornite, che non mi stancavo di leccare. Quell’uomo era da mangiarselo vivo e se ripenso a lui non mi vergogno di dire che ancora oggi mi viene l’acquolina.

Né voglio dimenticare il suo odore la sera, quando ci ritrovavamo. Un profumo appena muschiato di fiori d’autunno, vinaccia e legna bagnata.

La sua intelligenza non era da meno del fisico. Liu faceva la guida, il traduttore, il commissario politico, tutto ugualmente bene. Dopo un viaggio nel Nord del Paese era stato assegnato a me, Sartre e Simone de Beauvoir per il nostro ultimo giorno a Pechino, nella fattispecie per spiegare ai due delusissimi intellettuali come mai il presidente Mao non avrebbe potuto riceverli.

Alla fine del ricevimento di addio, Liu mi ha rapito e mi ha sussurrato in un francese impeccabile: «Non so come dirglielo, non capisco cosa mi succede e sicuramente le sembrerò un cretino, ma insomma, ecco, scusi: non riesco a immaginare la mia vita senza di lei».

«Nemmeno io» ho risposto convinta.

Abbiamo continuato il discorso in camera mia, dove Liu mi ha strapazzata senza tante cerimonie e a tal punto che nel giro di un’ora ho avuto la sensazione di essere passata sotto un esercito di amanti scatenati. A letto era inesauribile, fino all’esaurimento dell’altro.

Con lui l’unica era lasciarsi trasportare come un pacco in un mare in tempesta. Durante tutti gli anni in cui siamo rimasti insieme mi sono ritrovata coperta di lividi, succhiotti, pizzichi e morsi, da me fieramente esibiti al pari di decorazioni. Per non parlare degli indolenzimenti dappertutto.

Dopo che abbiamo fatto l’amore, Liu mi ha parlato di letteratura, per la precisione di Stendhal, che a quanto pare conosceva a menadito. Non era affatto pedante, eppure mi sono resa conto degli abissi della mia ignoranza.

Ricordo una frase, secondo lui tipicamente di Stendhal, dalla Vita di Henry Brulard, un libro che a tutt’oggi non ho ancora letto: «Per me l’amore è stato sempre la cosa più importante, o meglio l’unica».

Mi ha presa una seconda volta, dopodiché mi ha comunicato di avere trovato una soluzione per restare insieme, nonostante le circostanze alquanto complesse. Avrebbe pregato l’ambasciatore di Albania, un suo amico, di assumermi in qualità di cuoca.

Il giorno dopo ho dunque lasciato che Sartre e Beauvoir ripartissero da soli per Parigi. Simone aveva capito la ragione della mia mancata partenza. Quando li ho accompagnati all’aeroporto, si è avvicinata a me e mi ha chiesto all’orecchio: «Liu?».

Ho annuito.

«Ti capisco» ha sussurrato. «È un bellissimo ragazzo. Quando si incontra l’amore non bisogna mai lasciarselo scappare. Mi raccomando, tientelo stretto.»

Ha abbassato ancor più la voce: «Se posso darti un consiglio, cerca di fare in modo di non dover mai rimpiangere una decisione per il resto dei tuoi giorni: non esiste niente di peggio».

Per le cose della vita Simone era prodiga di buoni consigli, come ho potuto constatare molto tempo dopo nei suoi libri, che ho divorato e che vorrei tanto rileggere prima di morire: Il secondo sesso, I mandarini, Memorie di una ragazza perbene. Per il resto, e in particolare per la politica, si è sbagliata davvero oltre il lecito. Era passata direttamente dalla padella della borghesia alla brace degli intellettuali al potere, diventando troppo rigida per pensare come si deve. La si scusa anche per il rigore.

Sartre, il suo cattivo maestro, quanto a sé non aveva scusa alcuna, fuorché la sua intelligenza straordinaria da cui era spinto verso le peggiori idiozie, per via della sicumera che gliene derivava; nella fattispecie quella di cadere sempre in piedi, come infatti avvenne se si pensa che non ne ha mai azzeccata una. Miope di fronte al nazismo, il cui carattere diabolico gli era sfuggito quando si recò in Germania durante l’anno accademico 1933-1934. Vigliacco nei confronti del governo di Vichy, che ha avversato soltanto alla fine senza tuttavia farsi scrupolo, dopo la Liberazione, di presentarsi in qualità di partigiano della prima ora. Cieco di fronte al comunismo da lui magnificato sotto Stalin, alle rivoluzioni del Terzo mondo che ha appoggiato istericamente, e all’extraparlamentarismo in cui si è crogiolato per tutta la vita.

Ma non si creava nessun problema, pur prendendo una cantonata dietro l’altra! L’importante era stare sempre in prima pagina. Meglio se al fianco di Simone de Beauvoir, l’eleganza personificata. Essere scaraventato continuamente fuori dai binari dalla sua linea politica non aveva la benché minima importanza per lui. Bastava cambiare opinione al volo, con il solito codazzo a starnazzargli dietro. Era il suo stesso status ad autorizzarlo all’errore. Per poterselo concedere, all’epoca, era sufficiente essere dalla parte giusta. La sua.

47

Il piccione viaggiatore

Pechino, 1958. Liu Zhongling si vedeva spesso con Mao Tse-tung (altezza metri 1,80) e Deng Xiaoping (altezza metri 1,50) ma ci ho messo mesi a comprendere quale fosse esattamente il suo ruolo nell’apparato del partito comunista cinese. Con la sua altezza (metri 1,65) rappresentava un’ottima sintesi tra i due.

All’inizio della nostra relazione, se provavo a parlare di politica lui cambiava subito argomento. Uno dei suoi compiti, l’ho capito ben presto, era evitare che il fossato tra quei due si allargasse troppo.

Per molto tempo, il secondo uomo della mia vita ha mantenuto un comportamento rigorosamente a compartimenti stagni. Non si tradiva mai. Quando era con me credo evitasse addirittura di pensare al lavoro, per paura che gli leggessi nel pensiero, cosa che peraltro sarei stata capace di fare, visto il carattere simbiotico del nostro rapporto: io ero lui, lui era me.

Soffrivo le pene dell’inferno quando Liu aveva mal di denti, urlavo di dolore se si bruciava la mano con il coperchio di un tegame. Di raffreddore e influenza soffrivamo sempre all’unisono. Eravamo la stessa persona dalla mattina alla sera, poi di notte ci trasformavamo in bestia a due schiene.

Liu era sempre in viaggio. Quando tornava a Pechino, raramente riusciva a passare l’intera giornata con me: aveva sempre da fare. Oggi mi basta chiudere gli occhi per richiamare alla memoria le poche passeggiate insieme nei parchi cittadini o lungo gli hutong, i vecchi quartieri con le viuzze strette che attraversavamo tra siepi di panni stesi ad asciugare.

Pechino mi piaceva in tutte le stagioni, compreso quando il cielo sembrava caduto sulla Terra e ci costringeva a camminare come nel purè, tra le nuvole. Ma sono le nostre notti nel sottoscala dell’ambasciata d’Albania a mancarmi di più. Mentre scrivo queste righe, mi sento sanguinare tutto il corpo.

Non abbiamo mai passato una notte insieme senza fare l’amore almeno una volta. Una bella differenza, rispetto a Frankie Robarts. Annotavo tutto in un quadernino che conservo ancora: in tredici anni, Liu mi ha regalato 4263 orgasmi. A tanta energia bisogna aggiungere una capacità di ascolto e un’attenzione capaci di riconciliare la più antifallocrate delle femministe con il genere maschile.

Certo, Liu non ha cancellato né ha mai soppiantato il ricordo di Gabriel, però ha saputo scavarsi la sua brava nicchia nella mia memoria e da lì non si è spostato più. Ancora oggi che i cari scomparsi si accumulano nella mia testa, troppo stretta per accoglierli tutti, penso a lui diverse volte al giorno. Quando apro la finestra per respirare l’aria fresca: era il suo primo gesto al mattino. Oppure quando schiaccio un uovo sodo tagliato in due nella salsa di soia, come piaceva fare a lui per colazione.

All’ambasciata d’Albania non c’era un soldo bucato e il mio lavoro era ingrato quanto difficile. La situazione non è andata meglio nemmeno quando, dopo il rapporto di Nikita Chruščëv sui crimini di Stalin al XX congresso del partito comunista dell’Unione Sovietica nel 1956, l’Albania si schierò con la Cina.

Sua eccellenza Mehmet Artor era uno scapolo inveterato, ex professore di francese a Tirana e cugino alla lontana di Enver Hoxha, lo Stalin tascabile del suo Paese. Voleva mangiare solo cucina albanese: gulasch, pollo alle noci, tortino di verdura o foglie di vite farcite con riso. Si arrabbiava se non gli facevo trovare pronto il latticello o la bosa, una bevanda fermentata e poco alcolica a base di grano, mais e zucchero, da guarnire con vaniglia macinata. Guai a me se alla fine del pranzo o della cena non aveva lì pronto un piatto di baklava con mandorle e miele. Ne consumava una quantità smodata, come del resto comprovava il suo pancione.

Trovare gli ingredienti era un incubo. Mi capitava spesso di restare senza zucchero, cereali o verdure per settimane e allora Sua eccellenza si arrabbiava con me, dopodiché se la prendeva con le disfunzionalità del regime cinese. La sua fede nel maoismo variava a seconda di quello che trovava nel piatto.

Al momento, poca roba. Il motivo era la politica del Grande balzo in avanti, lanciata da Mao Tse-tung a partire dal 1958 per accelerare il cammino verso il comunismo soprattutto nelle campagne, che erano costrette a un programma di collettivizzazione di rara demenza e sottoposte a una lotta contro il «deviazionismo di destra», con il risultato di affamare e insanguinare il Paese fin nei villaggi più sperduti.

La «rivoluzione permanente»: ecco la risposta di Mao alla fronda interna, quando venne messo in discussione da diversi dignitari del regime, come Zhou Enlai e Liu Shaoqi per via dell’estremismo – o «avventurismo» – della sua politica. Dicevano che il presidente correva troppo? Be’, peggio per loro, lui avrebbe marciato ancora più in fretta.

Dall’ambasciata d’Albania, da dove mi allontanavo solo per andare a fare la spesa al mercato, non potevo rendermi conto della catastrofe perpetrata dalle politiche di Mao. Tuttavia ho capito quasi subito che qualcosa non andava per il verso giusto: per quanto mi spostassi di mercato in mercato, le bancarelle erano ovunque vuote. Spesso tornavo con patate dolci e il cavolo cinese pak choi, a volte con qualche braciola di cane, ma trovavo sempre meno roba da infilare nella zuppa di Sua eccellenza, che si presentava in tavola sempre peggio.

Più la situazione diventava drammatica, più Mehmet Artor si aggrappava ai principi del marxismo-leninismo, che a sentir lui i comunisti cinesi non erano capaci di applicare. L’ambasciatore imputava le difficoltà di approvvigionamento a oscuri complotti di capitalismo e borghesia: «Ci affamano per costringerci a odiare il comunismo» mugugnava tamburellando sul tavolo con il manico del coltello. «Se li eliminassimo, tornerebbe tutto a posto. Mio cugino Enver sistemerebbe la faccenda in quattro e quattr’otto.»

In quello stesso periodo, Liu ha cominciato a parlarmi degli incarichi che svolgeva e a mettermi a parte dei suoi dubbi. Era stato il migliore amico di Anying, il figlio maggiore di Mao, morto nel 1950 sotto un bombardamento durante la guerra di Corea, e in quanto tale aveva le sue entrature nell’ufficio del presidente. Ma soprattutto era un fedelissimo di Deng Xiaoping, segretario generale del partito comunista, sempre più ostile alle dissennatezze del Grande balzo in avanti, anche se non lo esternava pubblicamente. Il mio uomo gli faceva da latore di messaggi e lo avvertiva dei complotti che si tramavano contro di lui. Si definiva il suo «piccione viaggiatore».

La disgregazione del settore agricolo provocò carestie che per tre anni devastarono quasi tutte le province, dal Sichuan al Henan, dall’Anhui al Gansu. Come durante l’epoca di Stalin, il comunismo di Mao sterminava i contadini tagliando loro i viveri. Era una specie di genocidio anche questo, che secondo gli esperti conta fra i trentatré e i settanta milioni di morti.

Le chiacchiere stavano a zero: se il capitalismo era lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, il comunismo era l’opposto ma in peggio.

Nelle campagne cinesi tutto faceva brodo. Foglie, erbacce e cadaveri di chi era già morto di fame, in particolare dei bambini, che spesso finivano nelle pance dei genitori. Quanto alla fauna, era praticamente scomparsa dal Paese.

Avevo un bel gatto cinese i cui tratti fini e occhi penetranti mi ricordavano il mio uomo, tanto da averlo ribattezzato Liu II, che spesso andava in esplorazione tra i giardini del vicinato. Un giorno è scomparso. Sarà finito in polpette, oppure bollito.

Addirittura cominciavano a scarseggiare i passeri e nel cielo di Pechino regnava un silenzio di morte. I filamenti carnosi dei volatili si ritrovavano in ogni piatto di carne, compreso il mio gulasch, non prima di aver avuto cura di privare i cadaverini delle ossa perché Sua eccellenza non finisse strozzato, ma non è che fossero molto nutrienti.

Spesso ripenso ai tanti intellettuali, scrittori e ministri dell’Occidente trasformatisi in adepti del maoismo e portati in giro da Liu perché ammirassero i grandi traguardi del regime. Erano completamente ciechi. Per anni hanno riempito libri e giornali di aberrazioni e idiozie. Ne conosco alcuni che imperversano ancora, sproloquiando su altri argomenti. Sono solo da compatire.

Io accuso i leccaculo arroganti di corruzione morale, concorso in omicidio, omissione di soccorso e, come minimo, di cecità e stupidità colpose aventi per conseguenza la morte di terzi.

«Il presidente Mao non dorme più» mi ha comunicato un giorno Liu con la serietà riservata alle notizie importanti.

«Francamente, Liu, mi sembra l’ultimo dei problemi, dopo tutto il male che ha fatto: se non altro, vuol dire che ha ancora una coscienza.»

«Mao ha sempre sofferto di insonnia, ecco perché si alza così tardi, ma la cosa sta diventando preoccupante, specialmente perché accusa emicranie sempre più spesso. Inoltre vuole smettere di mangiare carne per solidarietà con il popolo, e questo lo indebolirà ulteriormente.»

«Al contrario» ho obiettato. «Starà meglio in salute, così potrà digerire con maggiore facilità il cibo e le disgrazie della sua gente.»

Liu non ha raccolto la provocazione. Gli ho chiesto se Mao avesse lo stesso alito orrendo di Hitler, ma lui mi ha lasciato attonita, fornendomi una risposta dal tenore di un comunicato ufficiale: «Secondo l’opinione generale, la bocca del presidente Mao ha un buonissimo odore».

«Ah sì?» ho detto. «E ha un buonissimo odore anche in altri posti?»

«Anche in altri posti.»

Sono scoppiata a ridere e lui con me. Non perdeva mai il senso dell’umorismo, nemmeno quando gli mancava il terreno sotto i piedi.

*

Una notte stavamo facendo l’amore e per poco Liu non mi ha strozzata. Colpa mia: gli avevo chiesto di stringermi il collo fortissimo mentre mi sbatteva e lui ha seguito le mie istruzioni talmente bene da farmi afflosciare come un cencio.

Quando ho ripreso i sensi, mi ha chiesto se volevo sposarlo. Avevo ormai cinquantanove anni, e lui sempre dodici meno di me. Se volevo cambiare cognome un’altra volta, quella era la mia ultima occasione. Il suo mi piaceva più di quello che continuavo a portare: Robarts.

Liu aveva amici dappertutto ed è riuscito a ottenere un’autorizzazione speciale. Ecco perché ancora oggi mi chiamo Zhongling. Il matrimonio non ha cambiato niente tra di noi. Abbiamo continuato a lavorare come bestie e a godere insieme del tempo libero. La salute di Sua eccellenza andava poco a poco peggiorando e, oltre che come cuoca, ormai lo assistevo in qualità di infermiera.

Mehmet Artor soffriva di un’ernia del disco paralizzante, doveva muoversi in sedia a rotelle e vista la scarsità di personale il compito di portarlo in giro è ricaduto sulle mie spalle. Per manifestare la sua riconoscenza grazie ai suoi agganci si è procurato per me, non richiesto, un passaporto diplomatico: mi sarebbe stato molto utile all’arrivo della catastrofe immediatamente successiva al Grande balzo in avanti.

Proprio quando lo si credeva finito, Mao Tse-tung rinasceva dalle sue ceneri. Quell’asso della tattica non stava mai fermo, né si scordava di strumentalizzare lo scontento del Paese per dare la colpa dei suoi fallimenti ai rivali di partito. Nell’intento di far dimenticare il fiasco del Grande balzo in avanti e per rimettere in riga il gruppo dirigente di nuovo in preda al malcontento, il presidente della Cina si inventò la grande Rivoluzione culturale. Si trattava di una sorta di colpo di Stato popolare, uno dei cui bersagli, nonostante la sua proverbiale prudenza, era proprio Deng Xiaoping, padre spirituale di mio marito. Una volta ancora, Mao superava a sinistra i riottosi e i refrattari della nomenclatura.

Il 16 maggio 1966, in un testo che Liu mi lesse e commentò con mano tremante, Mao se la prendeva, in occasione di una seduta allargata dell’Ufficio politico, con i rappresentanti della borghesia infiltratisi subdolamente nel partito, nel governo e nell’esercito. Se si fosse presentata l’occasione, secondo il presidente cinese questi «revisionisti controrivoluzionari» si sarebbero impadroniti del potere politico per «trasformare la dittatura del proletariato in una dittatura della borghesia». Per questo motivo, incitava il popolo a passarli in giudizio senza indugio, a cominciare dal suo successore designato Liu Shaoqi, il quale, per riprendere le parole di mio marito, era «un uomo buono e giusto». «Un uomo umano» aveva aggiunto, contento della sua trovata.

«Non so cosa succederà» mi disse poi, «ma dovremo vederci di meno, forse addirittura per niente. Non voglio esporti, né tantomeno comprometterti.»

«Ma sono pur sempre tua moglie» risposi. «Voglio condividere tutto con te.»

«Da questo momento in poi combatterò per le mie idee fino alla morte. Mi dispiace, Rose, ma non è la tua battaglia né la tua storia. Se mi dovesse capitare qualcosa, ho un enorme bisogno di sapere che almeno tu sarai sopravvissuta, perché rimanga su questa Terra una traccia del nostro amore. Lo capisci?»

Sapeva usare le parole, il mio uomo. Con gli occhi umidi, ricacciando indietro le lacrime, gli ho fatto promettere di venire all’ambasciata almeno di tanto in tanto, per darmi notizie e qualche altra cosa su cui è inutile dilungarsi qui. Ha detto di sì a tutto, ma non ha mantenuto niente. Per un anno e mezzo non ho più avuto notizie di lui.

Deng Xiaoping venne esiliato. Liu Shaoqi imprigionato: l’ex successore di Mao sarebbe morto per mancanza di cure molto tempo dopo, nel 1969, in una prigione di Kaifeng. Quanto a mio marito, è stato ucciso a colpi di spranga da alcune guardie rosse a Canton. Pare si sia difeso come un leone, ferendo diversi assalitori.

Il 2 febbraio 1958, quando Mehmet Artor mi ha annunciato la morte di Liu, notizia che aveva ricevuto da un’insigne personalità dello Stato, sono piombata nella disperazione. Lì per lì ho pensato di uscire dall’ambasciata e andare per strada ad ammazzare una o più guardie rosse a casaccio. Non avevo il minimo dubbio sull’efficacia del krav maga, ma temevo le conseguenze del mio crimine. Grazie a Dio l’ambasciatore di Albania soffocò sul nascere quel progetto idiota.

«Questo Paese sta impazzendo» disse Mehmet Artor. «Dobbiamo andare via.»

«Voglio rivedere il corpo di Liu. Voglio vederlo, baciarlo e seppellirlo.»

«Non ci pensi nemmeno, suo marito è morto da più di tre settimane e si trova già sottoterra chissà dove. Non c’è tempo da perdere, dobbiamo partire il prima possibile.»

L’indomani eravamo in volo verso l’Albania.

In aeroplano ho architettato un piano diverso: avrei vendicato la morte di Liu con il sangue di qualche famoso intellettuale francese compiacente nei confronti di Mao Tse-tung. Jean-Paul Sartre sarebbe stato la scelta più ovvia, ma l’ho scartato per non dare un dispiacere a Simone de Beauvoir. Qualche settimana dopo, arrivando in Francia, ho scoperto di avere l’imbarazzo della scelta.

48

Un fantasma venuto dal passato

Marsiglia, 1969. Tutte le strade mi portano a Marsiglia. Come al mio arrivo nel 1917, la città era di una sporcizia trascendentale. Benché fosse percorsa in lungo e in largo da ratti, mendicanti, borseggiatori e spigolatori di immondizia, rimetteva tutti al loro posto senza perdere l’allegria, e in quel caos mi sono subito sentita a casa. Ho affittato un bilocale all’ombra dell’abbazia di Saint-Victor.

Avevo aggiunto i nomi di una serie di intellettuali all’elenco dei miei odi e alla fine la scelta è ricaduta su Louis Althusser, uno dei sommi sacerdoti di Saint-Germain-des-Prés, il cui percorso mi sembrava tutto sommato logico: stalinista, maoista, infine squilibrato. Non avendo avuto il coraggio di uccidersi, ha aspettato qualche anno e alla fine ha deciso di strangolare la moglie.

La fortuna di Althusser è stata che, trovandomi a Marsiglia, ho quasi subito abbandonato il piano, trascinata dalla grande allegria di quella città, che tutto disperde. Avevo ancora i soldi della vendita di Frenchy’s e li ho usati per comprare un ristorante sempre in quai des Belges, in fondo al vecchio porto: aveva una sala di ventidue coperti e qualche tavolo fuori. Da brava idiota l’ho chiamato di nuovo La Petite Provence, esattamente come a Parigi, senza pensare alla possibilità che questo mi mettesse nei guai.

Il locale è diventato subito famoso. Mi occupavo di tutto io fuorché della sala, lavoro per il quale avevo assunto Kady, una maliana di ventitré anni senza documenti né complessi né biancheria intima. Quando l’ho vista ho sognato subito di spogliarla, anzi l’ho fatto quella sera stessa, per poi infilarmi con lei tra le lenzuola. A sessant’anni suonati, dopo avere conosciuto tanti uomini, avevo deciso di riconvertirmi al femminile. E lei faceva al caso mio.

Sono stata la sua prima donna, e anche l’ultima. All’alba mi ha detto con un sorrisone: «Meglio a rovescio che mai».

Era il suo genere di ironia. Portava i capelli afro come Angela Davis, la famosa attivista che tutti i ragazzi adoravano, e sosteneva di avere origini principesche. Kady raccontava un sacco di storie, ma io me ne infischiavo, almeno finché non riguardavano il lavoro. Per il resto era di una tale delizia da perdonarle qualsiasi cosa. Avevo una continua voglia di baciarla e prima o dopo l’apertura non mi trattenevo. Quanto a inventarmi trucchi per vederla sgambettare di piacere, aspettavo di arrivare tra le quattro mura di casa mia, in modo da attutire urletti e risatine, giacché la discrezione non era il suo forte. Ero sopraffatta dal suo temperamento.

Aveva un che di conturbante. Mi lasciavo trasportare dalla sua voce sensuale velata d’ironia, dalla risata esplosiva, dallo sguardo romantico, dal suo pomo d’Adamo che mi danzava sul collo, dai seni subito in movimento quando apriva bocca e dalle labbra polpose che sembravano alla continua ricerca di qualcosa da mordere o da mangiare. Volevo darle ciò di cui aveva bisogno. Amore, certo, ma anche calore, sicurezza, protezione, comprensione e attenzioni in ogni momento. Tutto quanto è necessario a una donna.

Ma non bastava. Un giorno, mentre compravamo orate vive dal nostro pescatore di fiducia, un nevrastenico con la barba e i capelli grassi che aveva una bancarella sul molo proprio davanti al ristorante, Kady mi ha detto a voce alta: «Voglio un figlio».

Non vedevo il nesso con le povere orate intente a dimenarsi pietosamente nella busta in cui le avevo infilate. Dopo un attimo di sorpresa, il pescatore si è messo a guardare ora me, ora Kady, con espressione un po’ stupita e un po’ salace.

Non sapevo cosa rispondere. Kady ha ripetuto, alzando ancora il tono: «Voglio un figlio».

«Va bene, va bene» ho detto con una smorfia impaziente per chiudere il siparietto.

Mentre ritornavamo al ristorante non abbiamo aperto bocca. In effetti ero nervosa per via della mia busta agonizzante, che brulicava tra sussulti e tremolii. Mi vergognavo sempre di chiedere al pescatore se mi uccideva lui il pesce, avevo paura di essere tacciata di sensibilità in eccesso, perciò mi affrettavo a mettere fine io stessa a tanta sofferenza, con un mattarello, spaccando la testa alle creature sul ripiano della cucina.

A mezzanotte circa, quando siamo rientrate dal lavoro, io e Kady abbiamo ripreso il discorso sul figlio. Ci siamo sedute strette strette sul divano, a pomiciare e a palpeggiarci un po’ mentre ascoltavamo sul mangiadischi la sua canzone preferita:

Se decidi di andare a San Francisco
Mettiti qualche fiore nei capelli
Ci troverai persone dolci e belle.4

Non ho ancora detto niente della lingua di Kady, ed è una grave dimenticanza. Nel suo caso, stiamo parlando di uno strumento carnoso, di colore cangiante e spesso tendente al violaceo, che lei sapeva usare in modo virtuosistico. Era una sorta di attrezzo maschile, ma molto più mobile. Dopo un bacio che mi ha lasciata inebetita, mentre riprendevo fiato Kady si è spiegata: «Voglio un figlio e ho anche trovato il padre».

«E chi è?»

«Non lo conosci.»

«Nero?»

«Ovviamente. Non ci tengo a farmi insudiciare la discendenza dalla razza bianca, sempre che la si possa considerare ancora una razza, visto come si è ridotta.»

«Va bene.»

Il maschio riproduttore faceva lo sguattero nella brasserie di fianco a noi ed era maliano come Kady. Alto, bello, con il collo lungo e lo sguardo fiero, aveva lo stesso modo lento e regale di muoversi. Abbiamo scelto un giorno adatto alla fecondazione e l’abbiamo portato a casa, dove si è prestato alla bisogna senza entusiasmo, quasi controvoglia.

Non sapeva di usare l’arnese per fare un bambino. Credeva di partecipare a un gioco voyeuristico in cui io avrei dovuto gustarmi lo spettacolo di loro due che si rotolavano allegramente sotto i miei occhi. Ma non mi divertivo affatto, soprattutto quando mi è parso di vedere, mentre lui si squagliava in lei, lampi di godimento nello sguardo di Kady.

Grazie al cielo non c’è stato bisogno di un secondo round. Nove mesi dopo nasceva Mamadou, un bambino di 3,7 chili e padre ignoto, destinato quindi a portare il nome della mamma: Diakite.

Mamadou ha cementato il nostro legame e la nostra gioia. Fino al giorno in cui, facendo il giro dei tavoli dopo avere finito il lavoro ai fornelli, mi è comparso davanti un fantasma venuto dal passato. Era sempre lo stesso. I volti pieni d’odio si mantengono quasi in formalina. Sono immutabili. Aveva giusto i capelli un po’ più bianchi. I denti risentivano di non avere mai visto uno strumento per l’eliminazione del tartaro, e questo portava al sospetto che non ci fosse nessuno nella sua vita. Erano come fusi in un magma di incrostazioni beige, che ho fronteggiato con orrore quando si è alzato da tavola con gesti teatrali per venirmi incontro con un gran sorriso, mentre mi puntava addosso il suo nasone: «Signora Beaucaire?» mi ha detto, stringendomi la mano.

«Zhongling» l’ho corretto.

«Non credo alle mie orecchie. Lei non è la signora Lempereur in Beaucaire?»

«Si sbaglia» ho insistito.

Ho scosso la testa e alzato le spalle, inspirando a fondo per alleggerire il senso di oppressione che mi attanagliava le tempie.

«Ah, be’, se è così» ha detto lui, «allora le chiedo scusa, sono io che vaneggio. Mi permetta di presentarmi: Claude Mespolet, sono il nuovo questore di Marsiglia. A Parigi ho conosciuto una donna che dirigeva un ristorante in cui si servivano gli stessi piatti e aveva lo stesso nome del suo, La Petite Provence. Perdoni l’equivoco.»

Mi presentò alle persone con cui era a tavola. Si trattava di due deputati grassi e rubizzi, uno molto più piccolo dell’altro. Avevano la bocca unta e lucente, come cani che avessero appena rialzato il muso dalla ciotola.

«Eppure somiglia tantissimo a quella signora» insisteva Claude Mespolet squadrandomi dalla testa ai piedi. «Magari più robusta, quella era magrolina, ma ci si appesantisce sempre con l’età. Ormai sono passati venticinque anni. Come vola il tempo!»

«Eh, già» ho annuito.

Quando è venuto a pagare il conto, l’ho invitato a fermarsi un po’ con me dopo avere preso commiato dai due onorevoli.

«Complimenti per la parmigiana» mi ha detto mentre mi sedevo al suo tavolo. «Non ha perso la mano.»

«Non sono qui per parlare di gastronomia» ho ribattuto, «ma di qualcosa che la riguarda da vicino.»

A quel punto, con un sorrisino ricattatorio, gli ho spiegato di trovarmi in possesso di carte compromettenti per lui. Nella fattispecie di un rapporto datato 1942, firmato di suo pugno e indirizzato all’allora questore di Parigi, in cui discettava sulle origini ebree del mio primo marito. Era un bluff, Himmler me lo aveva fatto soltanto leggere, ma Mespolet ha perso subito il suo sorriso di superiorità. Detto ciò, non era tipo da smontarsi tanto facilmente.

«E cosa vuole, in cambio?» ha chiesto come se niente fosse.

«Essere lasciata in pace.»

Ci ha pensato su, poi ha sibilato tra i denti: «Lei ha commesso un delitto, ha ucciso Jean-André Lavisse con ignobile efferatezza».

«Era un collaborazionista» ho sibilato di rimando.

«Non proprio. Ha aiutato i gaullisti di France Libre, tanto da meritarsi la medaglia della Resistenza alla memoria, dopo la Liberazione.»

«Quello schifoso?»

«Le persone non sono mai soltanto bianche o nere, ma di solito un po’ dell’uno e un po’ dell’altro, se non semplicemente grigie. La vita non glielo ha insegnato?»

«Mi ha insegnato il contrario.»

«A ogni modo il suo delitto non è andato in prescrizione, ci ho pensato io tramite il giudice istruttore incaricato, un vecchio amico.»

«Ma sono passati più di venticinque anni.»

«La giustizia ha i suoi codici, di cui il codice penale non è a conoscenza.»

Ha ripetuto la frase tutto tronfio. Si piaceva molto, mi ha ricordato un mascherone a cui qualche spiritoso avesse infilato una piuma di pavone nel didietro.

«Se lei si muove per far ripartire la macchina della giustizia» ho tagliato corto, «io mi muoverò perché venga resa pubblica la documentazione in mio possesso. Si chiama deterrenza, o equilibrio del terrore. L’ideale sarebbe che tutto restasse così, non crede?»

«In effetti.»

Quando Claude Mespolet è uscito dal ristorante, ho sentito una fitta che andava dal petto allo stomaco, destinata ad aumentare negli anni successivi nonostante le gioie regalatemi da Kady e Mamadou.

4 If you’re going to San Francisco / Be sure to wear some flowers in your hair / You’re going to meet some gentle people there.

49

L’ultima morte

Marsiglia, 1970. La fitta non se ne andava. Mi svegliavo e andavo a letto con lei. A volte la sentivo conficcata nelle carni talmente in profondità, intenta a diffondermi per tutto il petto un dolore così debilitante da indurmi quasi a smettere di respirare.

Anche se per mancanza di tempo rimandavo le analisi prescrittemi dal dottore, ero sicura di covare un cancro. Invece se l’è preso Kady. Il male l’ha portata via in un anno e mezzo, dopo averla costretta a farsi asportare un seno, poi l’altro, mezzo polmone e una metastasi alla vescica, per scoprire alla fine di avere un glioma cerebrale.

Kady non voleva morire in ospedale, ha preferito finire i suoi giorni a casa nostra. Per accompagnarla fino all’ultimo, ho chiuso il ristorante per «riposo stagionale». È durato sei settimane.

Il coraggio non cede mai davanti a niente, fuorché alla morte. Il rifiuto di Kady di capitolare di fronte al cancro ha portato la mia donna a vette di sofferenza tali da farmi venir voglia, negli ultimi giorni, di abbreviarle il martirio.

Ma lei non si è voluta risparmiare niente, foss’anche un secondo di vita, fingendo fino all’ultimo istante di assaporarla goccia a goccia, con un lieve sorriso spezzato che rivedo ancora mentre scrivo queste righe. Mi ha chiesto di trovarle un’ultima frase da pronunciare al momento di andar via. Le ho proposto quella di Alfred de Musset sul letto di morte: «Dormire, finalmente riuscirò a dormire!».

Non le è sembrata abbastanza «divertente». Tra le varie proposte, non le era dispiaciuta quella famosa di Auguste de Villiers de L’Isle-Adam, scrittore misconosciuto che se non altro ha azzeccato le ultime parole: «Be’, me lo ricorderò, questo pianeta».

Alla fine si è decisa per una frase inventata da me: «C’è nessuno?». Ma al momento di esalare l’ultimo respiro, con la mano nella mia e Mamadou che dormiva nella culla, ha sussurrato qualcos’altro che non ho capito e ho dovuto chiederle di ripetere: «A presto».

Nel cimitero della mia mente anche lei figura ormai al fianco dei morti a cui ripenso diverse volte al giorno: i miei figli, i miei genitori, mia nonna, tutti gli uomini della mia vita, Gabriel, Liu e perfino Frankie. Con Kady cominciano a essere tantini, la mia lapide personale rischia di risultare troppo piena.

Dal punto di vista dell’intelletto non sono più quella di un tempo. È uno dei problemi dell’età: un giorno ci si ritrova all’improvviso con in testa un tale ambaradan da non riuscire a ritrovare niente.

Dal punto di vista del sesso, ormai mi accontento di me stessa. Dell’onanismo mi piace la mancanza di preliminari e il fatto di non doversi mettere a parlare dopo: un guadagno di tempo pari solo alla pace dello spirito.

Dopo la morte di Kady, a volte ho avuto la sensazione di avere ancora la vita davanti. Per questo devo ringraziare Mamadou, che con il suo solo sorriso mi ha aiutata a raccattare i cocci. Ma mi rendevo conto di non avere più quell’energia vitale che in passato mi aveva aiutato a rimettermi in carreggiata a ogni disgrazia. Tendevo a perdermi in un universo mio e a guardare il mondo da lassù, ma a sessantatré anni non era il caso. O perlomeno, non ancora.

Qualcosa mi impediva di lasciarmi trasportare come prima dal mio slancio vitale. Era la solita fitta, accompagnata da nausee, che mi tormentava al punto da svegliarmi spesso in piena notte. Mi sono sottoposta a ogni tipo di analisi. I medici non hanno trovato niente. Ho capito cosa dovevo fare.

*

Indagando su Claude Mespolet ho scoperto che aveva una seconda casa a Lourmarin, nel massiccio del Luberon, dove si recava spesso, soprattutto d’estate. Era divorziato e non aveva figli, quindi ci andava quasi sempre solo, di solito al sabato sera.

Con i denti ridotti così, sarebbe stato un miracolo che una donna sana si prestasse a dividere il letto con lui, foss’anche per una sola notte. In questura si diceva che passasse le domeniche a dedicarsi al giardinaggio, e forse questo avrebbe dovuto convincermi del suo buon carattere.

Ero giunta alla conclusione che fosse impotente. Oppure era un fanatico dell’onanismo. In tal caso avevamo qualcosa in comune, dei cui vantaggi avremmo potuto metterci a discettare: questa maniera di praticare l’amore lo rende privo di pericoli, perché grazie al suo carattere autarchico sfugge ai tormenti di una separazione ineluttabile.

Un sabato pomeriggio ho chiuso il ristorante e, dopo aver lasciato il piccolo Mamadou a una vicina, sono andata ad aspettarlo nella pineta dietro casa sua. Era agosto, nell’aria c’era grande agitazione, rondini e zanzare danzavano al ritmo delle cicale e la terra si andava ricoprendo di aghi dorati.

Verso sera, scortato dall’autista, ecco arrivare Claude Mespolet. Il questore era in compagnia di un cane, un Jack Russell, la bestia più narcisistica e infernale del creato, dopo l’uomo. Non mi aspettavo la presenza di quest’ulteriore personaggio, ma avevo con me di che neutralizzarlo: un flacone di cloroformio nella tasca della sahariana.

Il questore ha fatto il giro della proprietà insieme al cane, fermandosi ad accarezzare certi alberi. Ulivi contorti, con occhi neri e capelli argentati. Erano alberi da battaglia che a quanto pareva avevano resistito a tutto, solleone, gelate, diluvi. Ero troppo lontana per esserne certa, ma mi è sembrato che con alcuni di essi si sia messo a parlare.

Mespolet è entrato in casa e ha lasciato fuori il cane, a correre da tutte le parti e a prendersela con l’universo mondo. Cicale. Farfalle. Uccelli. Alla fine è caracollato da me abbaiando, ma quando gli ho teso una mano amica è venuto subito a leccarla. Dopo averlo ammansito, l’ho immobilizzato all’improvviso rovesciandolo di schiena e gli ho applicato sul muso un fazzoletto su cui avevo versato un quarto del flacone.

«Castro. Castro!»

Claude Mespolet ha passato una parte della serata a chiamare il cane, dalla porta di casa e poi dal giardino, di cui ha fatto il giro diverse volte gridando forte il suo nome. Castro giaceva lontano di lì, in mezzo alla macchia, con le zampe legate e vari giri di nastro isolante intorno al muso.

Mespolet è andato a dormire lasciando la porta d’ingresso accostata, casomai al cane fosse venuto in mente di tornare in casa. Ho aspettato un’ora.

Quando l’ho raggiunto dormiva già il sonno dei giusti, almeno a credere al suo respiro lento e regolare. Sono rimasta a guardarlo per qualche tempo, al buio, in uno stato di esaltazione atroce di cui dopo tutti questi anni ancora mi vergogno.

Non avevo voglia di parlargli. Mi avrebbe detto in tono lamentoso le solite cose, peraltro vere. Non poteva fare altrimenti, era soltanto un funzionario, eseguiva gli ordini. Che venissero dalla bocca del maresciallo Pétain o da quella del generale de Gaulle era la stessa cosa, agli ordini bisogna ubbidire e lui non sapeva fare altro. Anche se poi era stato capace di cambiare padrone e, nel corso della carriera, si era trasformato da fedelissimo di Pétain sotto l’occupazione a filosovietico dopo la Liberazione, quando si era trattato di sfuggire alle epurazioni – del resto non c’era altra scelta – per poi riconvertirsi come gaullista alla fine degli anni Cinquanta. Sapevo già cosa mi avrebbe detto: è la vita, bisogna sapersi adeguare. Per un Camus che ha resistito davvero, quanti Sartre e Gide si sono ritrovati con il vento in poppa, pur essendo solo banderuole?

Non volevo nemmeno guardarlo negli occhi. Jacky, il mio amico e ras di Marsiglia, mi diceva spesso che i delinquenti evitano di guardare negli occhi chi devono uccidere, per paura di intenerirsi e non riuscire più a sparare. Perciò non ho acceso nessuna luce, prima di piazzare nella carcassa del questore sette pallottole della mia Walther PPK, munita di silenziatore per l’occorrenza.

Dopodiché ho liberato il cane e sono ritornata a Marsiglia a cuor leggero, ascoltando la Nona di Beethoven a tutto volume, per festeggiare la mia ultima morte.

50

Ite, missa est

Marsiglia, 2012. Una calura pesante ricade sulla terra come pioggia. La città puzza di pesce e immondizia. È tutto un appiccicume, viene solo voglia di buttarsi in mare, ma personalmente non ho intenzione di dare spettacolo: sono troppo vecchia per certe cose.

Oggi è il mio compleanno. Ho deciso di festeggiare i miei centocinque anni al ristorante, «privatizzato» solo per noi: io, Mamadou, Leila, Jacky, sua moglie, Samir il sorcio e la signora Mandonato, la mia amica libraia, tutta felice perché ha venduto il suo negozio a un’enoteca bio. Il proprietario pare sia un gran bel ragazzo. «Da urlo» a sentir lei. Quando aprirà lo andrò a vedere.

Non so chi sia stato l’idiota che ha inventato il Natale, ma se è ancora vivo gli darò quello che merita: per l’intero periodo delle feste, ma soprattutto la sera del 24 dicembre, mi viene sempre da pensare ai miei morti e per poco non crepo da quanto mi mancano, a cominciare dai miei figli, ma senza dimenticare mio nipote di Treviri portato via dall’Alzheimer.

Il narciso demente che ha inventato il primo compleanno della Storia, invece, è ancora più criminale di quell’altro. Dopo la quarantina, i compleanni sono solo una tortura a cui bisogna sottoporsi per convenzione sociale, per fare piacere agli altri. Alla mia età è ancora peggio: questo sarà l’ultimo, ci si dice ogni volta.

Se non fosse per il rito del compleanno a cui sono costretta a sottopormi, le cose non potrebbero andare meglio. Da quando il questore Mespolet è morto mi sento allegra e sollevata: la fitta nel petto è sparita quella notte stessa, per non tornare più. Ma intorno al tavolo nessuno, me ne accorgo benissimo, crede alla mia pretesa felicità di stare al mondo.

«Ma no, ti credo» dice Jacky, «solo non dev’essere facile vivere giorno per giorno, dopo quello che hai passato.»

«Nonostante tutto, sono al settimo cielo.»

«Diciamo che ci stai per andare» ha puntualizzato Samir il sorcio con l’ironia acida che lo contraddistingue.

In effetti, ho detto rispondendo a Jacky, ho vissuto immersa fino al collo in un periodo che senza tema di smentita si può considerare come uno dei più terribili della storia dell’umanità: il secolo degli assassini.

«Ha prodotto una tale quantità di morti» ho proseguito «che non siamo stati nemmeno capaci di contarli.»

L’istituto olandese Clingendael, specializzato in relazioni internazionali, ha calcolato in duecentotrentuno milioni il numero di morti provocati da conflitti, guerre e genocidi del Novecento, nel corso dei quali i limiti dell’infamia si sono spostati sempre più in là.

Quale altra specie si massacra a vicenda a tal punto e con tanta ferocia? Certo non le scimmie o i maiali, cui pure siamo così vicini, né tantomeno delfini ed elefanti. Perfino le formiche sono più umane di noi.

Nel Novecento si è assistito allo sterminio degli ebrei, degli armeni, dei tutsi. Per non parlare dei massacri di comunisti, anticomunisti, fascisti e antifascisti. Le carestie politiche in Unione Sovietica, nella Repubblica Popolare Cinese e in Corea del Nord hanno decimato i contadini presunti ribelli. Adolf Hitler, oltre ad avere inventato il massacro su scala industriale, è stato causa della Seconda guerra mondiale, con i suoi sessanta o settanta milioni di vittime. A tutto ciò vanno aggiunte altre atrocità, dal Congo Belga al Biafra, alla Cambogia.

In testa alla classifica dell’orrore figurano Hitler, Stalin e Mao, con decine di milioni di morti all’attivo. Grazie alla complicità dei loro incensatori politici e intellettuali hanno potuto dare libero sfogo alla loro sete di sangue e sacrificare a pieno ritmo sull’altare delle loro vanità.

«E poi vengono a rompere i coglioni a me» ha ironizzato Jacky, scatenando la risata generale. «Uno penserebbe che le guardie vadano dietro a quei criminali e ai loro lecchini patentati, invece di accanirsi contro di noi, onesti malviventi.»

«Eh, ma bisognerebbe mettere sotto chiave la maggior parte del Paese» ha obiettato Samir il sorcio.

Poi si è rivolto a me: «A quanto pare, tutti questi orrori ti sono scivolati addosso senza colpirti davvero. Come hai fatto?».

Gli ho risposto in piena onestà che, benché provassi un istintivo orrore all’idea di aggiungere i miei lamenti ai piagnistei dell’umanità, per lungo tempo non avrei saputo dire cosa mi avesse resa capace di sopportare tutto ciò. Se la Storia è l’inferno, la vita è il paradiso.

La felicità non ci è data: è una cosa che si fa, si inventa. L’ho imparato da poco, leggendo dietro consiglio della signora Mandonato i filosofi della gioia, che hanno scritto nero su bianco tutto quanto ho sempre pensato, senza averlo mai saputo esprimere. Epicuro, capace di parlare così bene del piacere della contemplazione e morto per un blocco renale dopo aver sopportato i dolori di terribili calcoli. Spinoza, cantore della felicità, proscritto e maledetto dalla comunità a cui apparteneva. Infine Nietzsche, che ha celebrato la vita e sosteneva di provare un’indicibile allegria mentre soffriva martiri in tutto il corpo, divorato com’era da un mostruoso herpes genitale e da una sifilide all’ultimo stadio, oltre che da una cecità crescente e un’ipersensibilità uditiva. Per non parlare degli attacchi di vomito ed emicrania.

«Nietzsche chiamava il dolore la sua cagna» ha precisato Jacky, che è una persona colta. «Lo considerava fedele come un cagnolone su cui sfogare il suo cattivo umore.»

Dopo cena, ormai sbronza, mi sono alzata e ho sproloquiato un po’: «Un discorso è come un vestito da donna. Dev’essere abbastanza lungo da coprire e abbastanza corto da suscitare interesse. Il mio si comporrà di un’unica frase: ognuno ha solo la vita che si merita».

Dopodiché ho distribuito alcune fotocopie su cui avevo segnato i miei sette comandamenti:

1. Vivi ogni giorno in Terra come se fosse l’ultimo.

2. Dimentica tutto ma non perdonare niente.

3. Vendica il prossimo tuo come te stesso.

4. Diffida dell’amore: si sa come ci si entra, non come se ne esce.

5. Non lasciare mai niente nel piatto, nel bicchiere o alle tue spalle.

6. Vai sempre controcorrente: solo i pesci morti la seguono.

7. Muori da vivo.

Avevo appena svuotato la mia coppa di champagne, quando mi sono ricordata di un altro precetto da me sempre seguito con il massimo scrupolo: «Scaccia l’amor proprio da te stesso. Altrimenti non saprai mai cos’è l’amore». L’ho gridato per ben due volte, perché tutti potessero sentire, poi Jacky ha collegato il cellulare alle casse e abbiamo cantato sotto la sua guida la mia aria d’opera preferita: E lucevan le stelle, dalla Tosca, per poi passare a Il mondo, interpretata dai tre tenorini italiani del gruppo Il volo, adorabili adolescenti che hanno appena cambiato voce.

Iiiiiiil moooooondo
Non si è fermato mai un momento
La notte insegue sempre il giorno
Ed il giorno verrà.

Sì, il giorno verrà, niente paura cari i miei tenorini. È sempre lì, puntualissimo, al mattino. Basta aprire gli occhi.

Dopo cena, mentre salutavo Jacky e sua moglie sulla porta della Petite Provence, ho sentito gridare: era un lamento costellato di singhiozzi. All’angolo con la Canebière, una donna con indosso un vestito leggero era a terra e lottava contro un teppista che tentava di strapparle la collana. Ho subito riconosciuto il «ghepardo», di cui parlavo all’inizio di questo libro.

Il tempo di arrivare sul luogo del misfatto e se l’era già filata. Jacky ha aiutato la signora, una giovane ottuagenaria al botulino, a rialzarsi. Piangeva, una lacrimuccia dopo l’altra, e tirava su con il naso: «Me l’aveva regalata mio marito l’anno in cui è morto, tanto tempo fa. Non vale niente ma ci tenevo, capirete».

Ho chiesto a Jacky se poteva sfruttare le sue conoscenze per trovarmi nome e indirizzo del teppista. Avevo da dirgli due parole.

Epilogo

Il «ghepardo» si chiamava Ryan e abitava con la madre sulla corniche di Marsiglia, in una casetta barocca proprio davanti al mare. La signora Ravare, vedova quarantaseienne e psicanalista abbastanza conosciuta, riceveva tutti i giorni a domicilio tranne il mercoledì e il giovedì pomeriggio, che passava all’ospedale La Timone per seguire altri pazienti.

Era stato Jacky Valtamore a darmi questa e altre informazioni, oltre a insistere per venire con me. Ho accettato di malavoglia, ma a centocinque anni la prudenza non è mai troppa, come mi ha fatto notare un po’ bruscamente Jacky. In effetti, con l’afa degli ultimi giorni non mi sentivo tanto bene, malgrado osservassi alla lettera le istruzioni del ministero della Sanità che, per scongiurare i rischi di disidratazione, raccomandava agli anziani di bere molta acqua. Per di più mi sembrava di avere le scarpe da ginnastica piene di burro. A ogni passo mi sentivo scivolare all’improvviso e avevo sempre paura di cadere.

Jacky ha salutato il suo scagnozzo, un omone mezzo addormentato che aveva il compito di fare il palo, e mi ha detto di aspettarlo davanti al portone. Ha scavalcato un muretto, è passato sul retro di casa Ravare dalla parte del mare e dopo qualche minuto mi ha aperto la porta dall’interno. Ho sorriso: a ottantadue anni, non aveva ancora perso la mano.

«Il nostro uomo è in casa?»

«Te l’ho già detto» mi ha sussurrato con aria impaziente. «Lo faccio sorvegliare da tre giorni, ventiquattr’ore su ventiquattro. Altrimenti non ti ci avrei portata.»

Ho seguito Jacky su per la scala a chiocciola da cui si accedeva alla camera del «ghepardo». Era sdraiato sul letto a occhi chiusi, con le cuffiette dell’mp3 piantate nelle orecchie. Dormisse o no, non faceva alcuna differenza. Aveva tagliato ogni contatto con il mondo dei vivi.

«Che fai, dormi?» gli ha strillato Jacky.

Ryan Ravare ha aperto un occhio, poi l’altro, ed è saltato su a sedere, inorridito. Ero abbastanza soddisfatta dell’effetto: mi aveva riconosciuta.

«Caro il mio pezzo di merda, no che non hai le allucinazioni: sono proprio io, la vecchia pazza che ti ha fatto tanta paura quella sera al vecchio porto.»

Ho tirato fuori la Glock 17 dalla tasca della sahariana.

«E sì che ti avevo avvertito» ho continuato «sulle conseguenze in caso di recidiva. Be’, tesoro, è arrivato il giorno del giudizio.»

Jacky ha aggrottato la fronte e mi ha tirata per una manica, poi mi ha detto in un orecchio: «Cosa mi combini, Rose? Si era detto di dargli solo una lezioncina».

«Vedremo» ho bisbigliato. «Sto improvvisando.»

Ryan ha percepito il disaccordo tra le fila nemiche e ha cercato di trarne vantaggio: «Scusi se glielo dico, signora, ma lei è molto aggressiva».

«Perché, stronzetto, tu invece non lo sei, con le tue vittime?»

«Non so di cosa stia parlando. Io non ho fatto niente, siete stati voi a intrufolarvi in casa mia per venirmi ad accusare, no, dico, roba da matti!»

A quel punto ha assunto il tipico tono lamentoso delle nuove generazioni: «Forse non lo avete notato, ma al momento mi trovo in piena fase depressiva. Non dormo, non mangio, mia madre è preoccupatissima. Sto prendendo dei farmaci, come potete facilmente verificare».

Ci ha mostrato una specie di paesino provenzale arroccato sul comodino e composto di scatole di medicinali.

«Sono stanchissimo» ha ricominciato a lagnarsi. «Da anni soffro di malinconia, con tanto di diagnosi ospedaliera. Credetemi, la mia vita non è affatto divertente. Non riesco a uscirne e negli ultimi tempi è andata peggiorando, ho avuto addirittura degli impulsi suicidi.»

Fingeva di parlare con me ma guardava sempre Jacky, l’anello debole. Mi sono schiarita la gola per attirare la sua attenzione, poi ho detto: «Ti faccio una proposta. Se ti costituisci alla polizia e riconsegni il malloppo, avrai salva la vita. Altrimenti resti qui e tiri le cuoia».

«Alla buon’ora» ha sussurrato tra i denti Jacky. «Così mi piaci.»

Ryan sembrava indeciso. Ho insistito: «Se rifiuti di pagare il tuo debito con la società, sappi che sarò felicissima di farti fuori. È solo ed esclusivamente grazie all’amico qui presente se ti lascio un’ultima possibilità, invece di spararti subito».

«Non mi piace la prigione.»

«Non hai scelta.»

Ryan ha risposto che al momento le sue priorità riguardavano il superamento di quel brutto periodo e che la reclusione non gli pareva la soluzione ideale, da questo punto di vista. Gli ho detto di assumersi le sue responsabilità, poi ho precisato che, se dopo essere finito dietro le sbarre gli fosse venuta voglia di denunciarci, non sarebbe durato a lungo in galera: io e Jacky conoscevamo un sacco di gente, in carcere. Tutti bastardi depravati, ben felici di sfogarsi su un delinquentello come lui.

Dopo avere accompagnato Ryan al commissariato della Canebière, io e Jacky siamo andati alla brasserie di quai des Belges, a bere il primo pastis dell’anno. Quando ho ordinato il secondo, Jacky ha scosso la testa.

«Soltanto un altro» mi sono ribellata. «La vita va bevuta fino in fondo, prima di lasciarsi sfilare di mano il bicchiere.»

«Giura che è l’ultimo.»

«Bisogna bere sempre come se fosse l’ultimo, Jacky. Se non si muore di qualcos’altro, si muore per non aver vissuto, non credo di doverlo insegnare a te.»

«Morire sì, Rose, ma in buona salute e in possesso delle proprie facoltà. Non ubriaca fradicia.»

«Se dici così, il ciucco sembri tu. Morire è la sola cosa che la vita non mi ha insegnato. E guarda un po’: non ho nessuna intenzione di andarmene, per il momento.»

La vita è come un bel libro, un racconto, un romanzo, un saggio storico. Ci si affeziona ai personaggi, ci si lascia trasportare dagli eventi. Alla fine, che si legga o si scriva, non si vorrebbe mai vederlo finire. È così anche per me. Avrei tante altre cose da raccontare.

Anche quando sarò sottoterra, continuerò a muovere le labbra per sussurrare alla vita il mio sì, sì, sì…

Le ricette della Petite Provence

Il plaki della nonna

Ingredienti per 8 persone

2 kg di fagioli bianchi

1 cipolla grande

5 carote

1 mazzetto di prezzemolo tritato

1 testa d’aglio

2 grossi pomodori molto maturi

le foglie di 2 grossi gambi di sedano

Preparazione

In una casseruola fate appassire con un filo di olio extravergine d’oliva la cipolla affettata sottile e gli spicchi d’aglio sbucciati ma interi. Unite le carote a rondelle, fatele rosolare qualche minuto, quindi aggiungete il sedano, i pomodori a dadini, i fagioli già lessati e coprite con poca acqua. Lasciate cuocere a fuoco lento per un’oretta. Salate, pepate e guarnite con il prezzemolo.

Servite il piatto tiepido o freddo, condito con un filo di olio d’oliva a crudo.

La parmigiana di comare Jo

Ingredienti per 8 persone

1 kg di pomodori

1 kg di melanzane

1 kg di zucchine

5 cipolle

5 spicchi d’aglio

1 rametto di timo

1 foglia di alloro

prezzemolo

olio di semi per friggere

3 uova

100 g di parmigiano

Preparazione

Mettete a soffriggere per qualche minuto in olio extravergine d’oliva 3 cipolle e 3 spicchi d’aglio. Aggiungete i pomodori, il mazzetto di odori, salate a piacere e cuocete coperto per 20 minuti a fuoco lento. Verso fine cottura, togliete il coperchio in modo da favorire l’evaporazione. Quando la salsa si sarà addensata, eliminate gli odori e l’aglio, passate al setaccio e mettetela da parte.

Friggete le melanzane, già spurgate e dissalate se necessario, in abbondante olio di semi e mettetele su fogli di carta assorbente per eliminare l’unto in eccesso.

Fate cuocere le zucchine a dadini insieme alle 2 cipolle rimanenti, lasciandole sciogliere a fuoco lento fino a che si sfaldano. A questo punto aggiungete un pizzico di aglio tritato, il parmigiano e le uova leggermente sbattute.

Foderate una pirofila con le fette di melanzana in modo da ricoprire anche i bordi, versateci sopra il composto di zucchine, quindi cuocete in forno a bagnomaria a 180°C per una ventina di minuti.

A cottura ultimata, lasciate raffreddare la pirofila prima di metterla in frigorifero. La parmigiana va fatta rinvenire a temperatura ambiente e poi si serve rovesciata su un piatto e condita con la salsa di pomodoro.

Il crème caramel di Emma Lempereur

Ingredienti per 8 persone

7 uova

1 l di latte

1 stecca di vaniglia

200 g di zucchero semolato

7 zollette di zucchero

2 cucchiai d’acqua

Preparazione

Fate bollire un attimo il latte con la stecca di vaniglia, lasciatelo raffreddare per circa mezz’ora, quindi eliminate la vaniglia e unite le uova già amalgamate con lo zucchero semolato.

Fate caramellare le 7 zollette di zucchero con 2 cucchiai d’acqua e versate nello stampo da budino. Quando il caramello è freddo, aggiungete il composto di latte, uova e zucchero e mettete lo stampo a bagnomaria in acqua molto calda nel forno a 180 °C per 45 minuti.

Lasciate raffreddare il crème caramel a temperatura ambiente, poi mettetelo in frigorifero coperto con la pellicola che lo proteggerà dagli odori.

Sformatelo su un piatto e servite.

La Strawberry Shortcake di Frenchy’s
o Tarte aux fraises à l’américaine

Ingredienti per 8 persone

Per la base

1 bustina di lievito in polvere

250 g di farina

150 g di panna fresca

115 g di burro

3 cucchiai di zucchero semolato

Per la guarnizione

1 kg di fragole

100 g di zucchero di canna

1 cucchiaio di succo di limone (facoltativo)

250 ml di panna fresca

qualche goccia di essenza naturale di vaniglia

Preparazione

Intanto è fondamentale scegliere con cura le fragole: perché siano gustose, è meglio usare quelle coltivate da produttori locali. Tagliatele a pezzetti, unite lo zucchero di canna e lasciatele riposare per un’oretta in frigorifero.

Se non siete sicuri della qualità delle fragole, potete aggiungere un cucchiaio di succo di limone.

Scaldate il forno a 210 °C.

In una ciotola mescolate farina e lievito setacciati, zucchero e un pizzico di sale. Aggiungete il burro tagliato a tocchetti, la panna e lavorate velocemente. Avvolgete la pasta nella pellicola e fatela riposare in frigo per una mezz’ora. Stendete l’impasto con il matterello in una sfoglia di circa 2 cm di spessore e ricavatene 8 rettangoli; posateli su una teglia imburrata e spolverizzateli con un po’ di zucchero.

Cuocete in forno per circa 10 minuti o finché la pasta risulta ben dorata.

Lasciate raffreddare su una gratella, quindi tagliate ogni rettangolo in due nel senso della lunghezza, farcite con le fragole, guarnite con la panna montata aromatizzata con l’essenza di vaniglia e decorate ogni shortcake con qualche pezzetto di fragola.

Questa è la ricetta tradizionale. Da Frenchy’s sbriciolavo la base, mischiavo le briciole alle fragole a pezzetti e servivo in un grande piatto fondo la mia strawberry shortcake ricoperta di panna montata alla vaniglia a cui aggiungevo un dito di whisky.

Piccola biblioteca del secolo

 

 

 

 

 

 

 

Genocidio armeno

Raymond Kévorkian, Le génocide des Arméniens, Odile Jacob, Parigi 2006.

Arnold J. Toynbee, Armenian Atrocities, the Murder of a Nation, Hodder & Stoughton, Londra 1915.

Stalinismo

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Nazismo

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Maoismo

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Campi di sterminio

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Elie Wiesel, La notte, traduzione di Daniel Vogelmann, Giuntina, Firenze 2007 [1958].

Occupazione tedesca della Francia

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Gilbert Joseph, Une si douce occupation. Simone de Beauvoir, Jean-Paul Sartre, 1940-1944, Albin Michel, Parigi 1991.

Irène Némirovsky, Suite francese, traduzione di Laura Frausin Guarino, Adelphi, Milano 2005 [2004].

Novecento in genere

Saul Bellow, Herzog, traduzione di Letizia Ciotti Miller, Feltrinelli, Milano 1965 [1964].

Albert Camus, L’uomo in rivolta, traduzione di Liliana Magrini, Bompiani, Milano 2002 [1951].

Simone De Beauvoir, Il secondo sesso, traduzione di Roberto Cantini e Mario Andreose, Il Saggiatore, Milano 2008 [1949].

Marguerite Duras, Una diga sul Pacifico, traduzione di Giulia Veronesi, Einaudi, Torino 1985 [1950].

Winston Groom, Forrest Gump, traduzione di Alessandra De Vizzi, Sonzogno, Milano 2002 [1986].

Jonas Jonasson, Il centenario che saltò dalla finestra e scomparve, traduzione di Margherita Podestà Heir, Bompiani, Milano 2011 [2009].

Jack Kerouac, Sulla strada, traduzione di Marisa Caramella, Mondadori, Milano 2007 [1957].

Jean-Marie Gustave Le Clézio, Il verbale, traduzione di Silvia Baroni e Francesca Belviso, Duepunti, Palermo 2005 [1963].

Norman Mailer, Un sogno americano, traduzione di Ettore Capriolo, Einaudi, Torino 2004 [1965].

Tierno Monénembo, Il grande orfano, traduzione di Guia Risari, Feltrinelli, Milano 2003 [2000].

J.D. Salinger, Il giovane Holden, traduzione di Adriana Motti, Einaudi, Torino 2008 [1951].

Gaétan Soucy, La bambina che amava troppo i fiammiferi, traduzione di Francesco Bruno, Marcos y Marcos, Milano 2003 [1998].

John Steinbeck, Pian della Tortilla, traduzione di Elio Vittorini, Bompiani, Milano 2010 [1935].

Kurt Vonnegut, Mattatoio n. 5 o la crociata dei bambini, traduzione di Luigi Brioschi, Feltrinelli, Milano 2011 [1969].

Simone Weil, L’ombra e la grazia, traduzione di Franco Fortini, Bompiani, Milano 2011 [1947].

Tutte le citazioni dalla Bibbia sono prese dall’edizione della CEI, Edizioni Paoline, Roma 1971.

La traduzione della citazione da Ronsard è di Mario Praz (in Nove famosi sonetti, Letteratura n°8, Parenti, Firenze marzo-aprile 1946).

Le traduzioni delle citazioni da Keats sono di Viola Papetti (in Endimione, Rizzoli, Milano 1988) e di Silvano Sabbadini (da Ode su un’urna greca, in Poesie, Mondadori, Milano 1986).

La traduzione della citazione da Chateaubriand è di Filippo Martellucci, Ivanna Rosi e Fabio Vasarri (in Memorie d’oltretomba, Einaudi, Torino 1995).

La traduzione della citazione da Charles Trenet è di Gesualdo Bufalino (da Che cosa resta, cantata da Franco Battiato in Fleurs, Universal Italia, 1999).

La traduzione della citazione da Stendhal è di Marisa Zini (in Vita di Henry Brulard, Einaudi, Torino 1976).

Indice

 

 

 

 

 

 

 

Prologo
1 Sotto il segno della Vergine
2 Samir il sorcio
3 La figlia del ciliegio
4 La prima volta che sono morta
5 La principessa di Trebisonda
6 Benvenuti al «piccolo harem»
7 L’agnello e gli spiedini
8 La formica e il ravastrello marino
9 Chapacan I
10 L’arte della spigolatura
11 Felicità a Sainte-Tulle
12 Il condannato
13 Cucina d’amore
14 La regina dei ruffiani
15 Influenza d’amore
16 Il re della pinza Burdizzo
17 Un abbraccio lungo settantacinque giorni
18 Le mille pance di zio Alfred
19 La Petite Provence
20 L’arte della vendetta
21 Omelette ai funghi
22 Ritorno a Trebisonda
23 Una gita in barca
24 L’ebreo che non sapeva di esserlo
25 Giorni spensierati
26 Dichiarazione di guerra
27 A mo’ di esempio
28 Rossa come un gambero
29 L’uomo che non diceva mai di no
30 Colazione all’aperto
31 Una bellissima dentatura bianca
32 Il mio peso in lacrime
33 La tattica Johnny
34 Rastrellamento
35 Un pidocchio nel pagliaio
36 In cucina con il diavolo, senza coperchi
37 Il bacio di Himmler
38 Il fascicolo Gabriel
39 Il fiato del diavolo
40 Tre dita in bocca
41 L’embrione che non voleva morire
42 Il pigolio di un pulcino malato
43 Un delitto firmato
44 Viaggio a Treviri
45 Io, Nelson e Simone
46 L’altro uomo della mia vita
47 Il piccione viaggiatore
48 Un fantasma venuto dal passato
49 L’ultima morte
50 Ite, missa est
Epilogo
Le ricette della Petite Provence
Il plaki della nonna
La parmigiana di comare Jo
Il crème caramel di Emma Lempereur
La Strawberry Shortcake di Frenchy’s o Tarte aux fraises à l’américaine
Piccola biblioteca del secolo