Quando decide che è giunto il momento di scrivere la sua storia, Rose ha quasi centocinque anni, cinque denti buoni, una faccia da gufo e un odore non propriamente di violetta.
Ma lo spirito è intatto, l’appetito per il cibo e per il sesso sempre vivace, il suo ristorante a Marsiglia più pieno che mai e la memoria pronta a sfornare ricordi ancora caldi di una lunghissima e rocambolesca esistenza.
Rose ha attraversato il Novecento tra la Turchia, la Provenza, Parigi, gli Stati Uniti, la Cina, e vissuto in prima persona il massacro degli armeni, la persecuzione degli ebrei, i deliri del maoismo; nelle mille tappe delle sue picaresche avventure ha servito cene spettacolari e funghi avvelenati, viaggiato con Simone de Beauvoir, premuto il grilletto della sua Glock 17 senza rimorsi, cucinato per Heinrich Himmler e per il Führer, amato senza riserve e senza preconcetti, sostenuta da un solo credo: se la Storia è l’inferno, la vita è il paradiso. Lunga e variopinta è la lista dei suoi amori, così come quella di chi le ha fatto del male, custodita gelosamente fin da quando era bambina e spuntata un nome dopo l’altro, con orgoglio e inesorabile determinazione: perché solo la vendetta gustata fino in fondo permette di risollevarsi e rinascere.
La cuoca di Himmler è una cavalcata attraverso gli orrori del XX secolo e le delizie di una vita vissuta appieno e assaporata fino all’ultimo boccone, nella voce di un personaggio irresistibile che si racconta con dolcezza, umorismo e con la straordinaria leggerezza di chi sa sorridere al passato e al futuro; un romanzo che ha commosso e divertito la Francia, dove è diventato un grande successo di pubblico e di critica.
Franz-Olivier Giesbert (Wilmington, USA 1949) vive in Francia da quando aveva tre anni. Giornalista politico, corrispondente dagli Stati Uniti, autore e presentatore televisivo, ha scritto per il «Nouvel Observateur», «L’Express» e «Le Figaro», è stato direttore di «Le Point» e ha firmato diversi romanzi e biografie politiche. La cuoca di Himmler è stato un caso editoriale in Francia e sarà pubblicato in tutto il mondo.
la Scala
FRANZ-OLIVIER GIESBERT
La cuoca di Himmler
Traduzione di Daniele Petruccioli
Proprietà letteraria riservata
© Editions Gallimard, Paris,
2013
© 2014, RCS Libri S.p.A., Milano
ISBN 978-88-58-66503-9
Titolo originale
dell’opera:
La cuisinière
d’Himmler
Prima edizione digitale 2014 da edizione marzo 2014
In copertina:
Rielaborazione da PP/S (Porcelain Pistol/Strewn Flowers), 2006 ©
YLS Yvonne Lee Schultz
Art Director: Francesca
Leoneschi
Graphic Designer: Giovanna Ferraris /
theWorldofDOT
Quest’opera è protetta
dalla Legge sul diritto d’autore.
È vietata ogni duplicazione, anche
parziale, non autorizzata.
La cuoca di Himmler
A Elie W., mio fratello maggiore, che tanto mi ha dato
«Vivete, date ascolto, diman non attendete:
cogliete fin da oggi le rose della vita.»
PIERRE DE RONSARD
Prologo
Non sopporto la gente che si lagna. E a quanto pare non si trova altro, sulla Terra. Ecco perché ho qualche problema con le persone.
In passato avrei avuto parecchie occasioni per lamentarmi del mio destino, ma ho sempre resistito a tutto quello che, da sempre, trasforma il mondo in un gran piagnucolame.
Alla fin fine l’unica differenza tra noi e gli animali non è la coscienza, che stupidamente continuiamo a negare in loro, bensì la tendenza all’autocommiserazione, da cui l’umanità è trascinata a fondo. Come si fa a lasciarle libero corso, quando fuori c’è il richiamo della natura, del sole e della terra?
Fino al mio ultimo respiro e anche più in là, crederò solo alla potenza dell’amore, delle risate e della vendetta. È lei ad aver guidato i miei passi in mezzo alle disgrazie, per oltre un secolo, e devo dire di non avere rimorsi, nemmeno oggi che sto per essere abbandonata dalla mia vecchia carcassa e mi preparo a scendere sottoterra.
Tanto vale ammetterlo subito: io non ho niente della vittima. Certo, sono contro la pena di morte, come tutti. Tranne quando sono io ad applicarla. L’ho fatto qualche volta in passato, per amministrare la giustizia ma anche per sentirmi bene con me stessa. E non me ne sono mai pentita.
Nel frattempo non permetto a nessuno di pestarmi i piedi, nemmeno a Marsiglia, la mia città, dove la gentaglia pretende di dettare legge. L’ultimo ad averlo imparato a sue spese è stato un teppistello che di solito si dà da fare nelle code che in alta stagione si formano non lontano dal mio ristorante, davanti ai traghetti in partenza per lo Château d’If e le isole del Frioul. Lui sta lì e si fa le tasche o le borsette dei turisti, a volte qualche scippo. È un bel ragazzo dall’andatura sciolta, con uno scatto da campione olimpico. L’ho soprannominato «il ghepardo». La polizia lo descriverebbe come «di etnia maghrebina», ma personalmente non ci metterei la mano sul fuoco.
Mi sembra che abbia più l’aria del rampollo di buona famiglia finito male. Un giorno, mentre andavo a comprare il pesce al porto, ho incrociato il suo sguardo. Mi sbaglierò, ma ci ho visto dentro solo la disperazione di chi si ritrova gambe all’aria dopo avere abbandonato, per pigrizia o disincanto, la condizione del cocco di casa.
Una sera, dopo la chiusura del ristorante, mi ha seguita. Bella fortuna, per una volta che tornavo a casa a piedi. Era quasi mezzanotte, tirava un vento da portare via le barche e per strada non c’era anima viva. Condizioni ideali per un’aggressione. All’altezza di place aux Huiles, quando con un’occhiata veloce alle mie spalle l’ho visto in procinto di superarmi, mi sono voltata di scatto e gli ho puntato contro la mia Glock 17. È una calibro nove a diciassette colpi, un gioiellino.
«Non hai niente di meglio da fare che scippare le ultracentenarie, pezzo di merda?» gli ho urlato.
«Ma signora, non ho fatto niente io, non volevo fare niente di male, lo giuro.»
Saltellava da un piede all’altro, come una bambinetta con la corda.
«La sai la regola?» ho detto. «Chi giura è sempre colpevole.»
«Ma no, sbaglia di brutto signora. Facevo soltanto due passi.»
«Sentimi bene, stronzetto. Con questo vento, se sparo non se ne accorge nessuno. Quindi non hai scelta: se vuoi salva la vita, molla subito la borsa con tutta la robaccia che hai rubato oggi. La passerò a qualche bisognoso.»
Gli ho puntato addosso la Glock come un indice ammonitore: «E non farti beccare più da me. Altrimenti non oso pensare a cosa ti farò. E adesso sparisci!».
Ha buttato la borsa per terra ed è corso via urlandomi, una volta raggiunta la distanza di sicurezza: «Vecchia pazza, sei una vecchia pazza!».
Dopodiché sono andata a sganciare il contenuto della borsa – orologi, braccialetti, cellulari e portafogli – ai barboni che se ne stavano a grappoli lì vicino, sul cours d’Estienne-d’Orves, a smaltire la sbornia. Mi hanno ringraziato un po’ esterrefatti e un po’ timorosi. Uno di loro ha sostenuto che ero matta. Gli ho risposto che me lo avevano già detto.
Il giorno dopo, il gestore del bar all’angolo mi ha messa in guardia: la sera precedente qualcuno si era fatto alleggerire di nuovo in place aux Huiles. Stavolta la rapinatrice era una vecchia. Non credo abbia capito il perché, ma sono scoppiata a ridere.
1
Sotto il segno della Vergine
Marsiglia, 2012. Ho baciato la lettera e ho incrociato le dita perché fosse latrice di buone notizie. Sono molto superstiziosa, è un po’ il mio debole.
Era stata imbucata a Colonia, in Germania, come da timbro postale, e sul retro c’era il nome della mittente: Renate Fröll.
Il cuore ha cominciato a battermi fortissimo. Ero angosciata e felice allo stesso tempo. Ricevere una lettera personale alla mia età, quando ormai sei sopravvissuta a tutti gli altri, rappresenta giocoforza un avvenimento.
Ho deciso di aprirla più tardi, nel corso della giornata, per conservare il più possibile l’eccitazione da cui ero stata pervasa nel riceverla, e ho baciato di nuovo la busta. Stavolta sul retro.
Ci sono giorni in cui mi viene voglia di baciare qualsiasi cosa, dalle piante ai mobili di casa, ma mi trattengo. Non vorrei che mi prendessero per una vecchia pazza, una specie di spauracchio per i bambini. A poco meno di centocinque anni mi è rimasto un filino di voce, cinque denti buoni, una faccia da gufo e un odore non propriamente di violetta.
Ma quanto a cucinare, sono ancora sulla breccia: anzi, posso considerarmi una delle regine di Marsiglia, seconda soltanto all’altra Rose, un fiore di ottantotto anni che prepara certi piatti siciliani incredibili in rue Glandevès, vicino all’Opéra.
Non appena esco dal ristorante, però, e mi metto a gironzolare per le strade, ho la sensazione di far paura alle persone. C’è un solo posto dove la mia presenza non sembra completamente fuori luogo: in cima a quella specie di picco calcareo che è il campanile di Notre-Dame-de-la-Garde, dalla cui sommità la statua dorata della Vergine esorta all’amore tutto il mondo, il mare, Marsiglia.
Mi ci accompagna Mamadou, facendomi salire dietro di lui sulla moto. È un gran bel pezzo d’uomo, nonché il mio alter ego al ristorante. Fa la sala, mi aiuta in cassa e mi scarrozza ovunque sul suo catorcio puzzolente. Mi piace sentire la sua nuca sulle labbra.
La domenica pomeriggio e tutto il lunedì, quando il locale è chiuso per riposo settimanale, sono capace di restare per ore seduta sulla mia panchina, sotto un sole che mi mastica la pelle. Chiacchiero tra me e me con i miei morti, che ben presto andrò a raggiungere su in cielo. Secondo l’espressione preferita di un’amica che ho ormai perso di vista, la frequentazione con i trapassati è più gradevole di quella con i vivi. Ha ragione: non solo sono meno isterici, hanno anche un sacco di tempo a disposizione. Mi ascoltano. Mi calmano.
Alla mia veneranda età, ho imparato che le persone sono molto più vivaci da defunte. Morire non vuol dire affatto eclissarsi, ma rinascere nella mente altrui.
A mezzogiorno, quando il sole non si trattiene più e ti prende a coltellate, o peggio a picconate, mi dileguo nei miei neri abiti di vedovanza ed entro all’ombra della basilica.
Mi inginocchio davanti alla Madonna d’argento che domina l’altare e fingo di rivolgermi a Dio, dopodiché mi siedo e schiaccio un pisolino. Chissà perché, quello è il posto dove dormo meglio. Sarà lo sguardo affettuoso della statua a tranquillizzarmi. Le grida e i risolini deficienti dei turisti non mi danno noia. Lo scampanio nemmeno. Certo, sono sempre terribilmente stanca, come se fossi appena tornata da un lungo viaggio. Quando avrò finito di raccontare la mia storia capirete perché. Tra l’altro la mia storia non è niente, o poca cosa: un infimo sciabordio della Storia, melma in cui sguazziamo tutti e che ci trascina sempre più a fondo, un secolo dopo l’altro.
La Storia è una porcheria. Mi ha portato via ogni cosa. I figli. I genitori. Il mio più grande amore. I gatti. Non capisco la deferenza imbecille che la specie umana le riserva.
Personalmente sono ben contenta della fine della Storia: ha fatto già abbastanza danni. Ma presto ricomincerà, ne sono certa, lo sento nell’elettricità dell’aria e lo vedo negli sguardi cupi delle persone. È il destino del genere umano lasciarsi guidare dall’idiozia e dall’odio verso le fosse comuni che le generazioni precedenti non hanno smesso di riempire.
Gli umani sono come bestie al macello. Avanzano verso il loro destino a occhi bassi, senza mai guardare avanti né indietro. Non sanno cosa li aspetta, né vogliono saperlo, quando non ci sarebbe niente di più facile: il futuro è un rigurgito, un conato, un acido in gola, a volte il vomito del passato.
A lungo ho cercato di mettere in guardia l’umanità contro le tre piaghe della nostra epoca: il nichilismo, l’avidità e la buona coscienza, a causa delle quali ha perso la ragione. Attacco bottone con i vicini, soprattutto con il garzone del macellaio che abita sul mio pianerottolo, un tipo mingherlino e pallido con due mani da pianista chiaramente stufo dei miei deliri tanto che, quando lo incontro sulle scale, devo spesso trattenerlo per la manica in modo da impedirgli di fuggire; ogni volta si dice d’accordissimo con me, ma lo fa solo per essere lasciato in pace.
È sempre la stessa storia. Negli ultimi cinquant’anni non ho trovato nessuno che volesse ascoltarmi. Alla fine mi sono zittita, stanca di combattere, fino al giorno in cui mi è cascato per terra lo specchio. Per tutta la vita ero riuscita a non romperne nessuno, ma quella mattina, mentre guardavo le schegge sulle piastrelle del bagno, ho capito di essermi tirata la sfortuna addosso. Pensavo addirittura che non sarei sopravvissuta all’estate. Alla mia età non sarebbe affatto strano.
Quando si sa di dover morire soli, senza nemmeno un cane a farti compagnia, l’unica è tentare di attirare l’attenzione. Perciò ho deciso di scrivere le mie memorie e sono andata a comprare quattro quaderni a spirale nella cartolibreria della signora Mandonato. È una sessantenne ben conservata, da me soprannominata «la vecchia», nonché una delle donne più colte di Marsiglia. Mentre pagavo ho visto che qualcosa non le tornava, così ho finto di cercare gli spiccioli per darle il tempo di formulare la sua domanda: «A cosa ti serve tutta questa roba?».
«Indovina: a scrivere un libro!»
«Sì, ma di che genere?»
Dopo un attimo di esitazione, ho risposto: «Di tutti i generi contemporaneamente, vecchia mia. Un libro per celebrare l’amore e avvertire l’umanità dei pericoli che corre. Perché non debba mai rivivere quanto ho vissuto io».
«Esistono già diversi libri sull’argomento…»
«Evidentemente non abbastanza convincenti. Io racconterò la storia della mia vita. Ho già un titolo provvisorio: I miei cent’anni e oltre.»
«È un buon titolo, Rose. I lettori adorano tutto quello che riguarda i centenari. È una nicchia di mercato in rapida espansione e ben presto conterà milioni di estimatori. Il brutto di questi libri è che spesso vengono scritti da millantatori.»
«Be’, invece io, nelle mie memorie, cercherò di dimostrare che non tutti i centenari sono dei morti viventi e che abbiamo ancora qualcosa da dire.»
Scrivo al mattino ma anche di sera, davanti a un bicchierino di vino rosso. Mi bagno le labbra di tanto in tanto, per rifarmi la bocca, e quando sono a corto di ispirazione ne bevo una sorsata per schiarirmi le idee.
Quella sera era mezzanotte passata quando ho deciso di sospendere la scrittura. Invece di spogliarmi e andare in bagno, ho voluto aprire subito la lettera che avevo trovato nella cassetta quella mattina. Sarà stata l’età, o forse l’emozione, ma le mani mi tremavano talmente che ho strappato la busta in più punti. Dopo averne letto il contenuto ho avuto un malore, il cervello mi si è come spento di colpo.
2
Samir il sorcio
Marsiglia, 2012. Pochi attimi dopo essere tornata su questa Terra, una canzone ha cominciato a ronzarmi in testa: Can You Feel It dei Jackson Five. Michael al suo meglio, con una vera voce da bambino, mica quella da castrato illustre che gli è venuta dopo. È la mia canzone preferita.
Mi sentivo bene, come sempre quando la canticchio. Si dice che dopo una certa età se ti svegli e non senti male dappertutto vuol dire che sei morto. Io ero la prova del contrario.
Quando ho ripreso i sensi, infatti, non provavo nessun dolore, ma non ero morta e tantomeno ferita.
Come tutti quelli della mia età, ho il terrore delle fratture con cui si rischia di finire sulla sedia a rotelle, in particolare se si tratta del femore. Ma sarà per un’altra volta.
In realtà mi ero premunita. Prevedendo lo choc, prima di leggere la lettera mi ero seduta sul divano. Quando ho perso conoscenza sono caduta all’indietro, ovviamente, ma ho sbattuto la testa su un morbido cuscino.
Ho dato un’altra occhiata al biglietto che tenevo ancora in mano, poi ho imprecato: «Schifo di una porcata di merda!».
L’annuncio mi informava della morte di Renate Fröll, che dunque non poteva essere il mittente. Il suo decesso risaliva a quattro mesi prima, ed era stata cremata nel cimitero di Colonia. Sul cartoncino non comparivano altre notizie. Niente indirizzo, niente numero di telefono.
Sono scoppiata in lacrime. Credo di aver pianto tutta la notte, perché al mattino mi sono svegliata in un lago, con lenzuola, cuscino e camicia da notte completamente zuppi. Bisognava passare all’azione.
Avevo avuto un’intuizione e volevo verificarla. Ho telefonato sul cellulare a un vicino: Samir il sorcio. È il figlio di un settantenne che a quanto si dice di professione ha sempre fatto il disoccupato, ma gli è andata benone: è un bell’uomo, sempre a posto, lindo e pinto. Sua moglie invece fa la cassiera e la donna di servizio, ha vent’anni meno di lui ma ne dimostra almeno una decina di più: è paralizzata dai reumatismi e si trascina a forza su per le scale. Ci credo, ha lavorato sempre per due.
Samir il sorcio ha tredici anni e già l’occhietto vispo di chi va a caccia di grossi dividendi. Non gli sfugge niente. È come se avesse occhi dappertutto, anche sulla schiena, anzi sulle chiappe. Ma invece di sfruttare questo suo talento, passa la vita davanti al computer a trovare in tempi record qualsiasi cosa uno gli chieda, beninteso dietro compenso. Prezzi, nomi, cifre.
Samir il sorcio ha fiutato il guadagno e, benché non sia mattiniero, è venuto subito da me. Gli ho mostrato il biglietto: «Mi servirebbero tutte le informazioni possibili su questa Renate Fröll».
«Informazioni di che tipo?»
«Tutto, dalla culla alla tomba. Famiglia, lavoro, scheletri nell’armadio. Insomma, tutta la sua vita.»
«Quanto?»
Samir il sorcio non è un poeta e tantomeno un filantropo, perciò, in cambio dei suoi servizi, gli ho proposto la console del salotto. L’ha esaminata, poi ha detto: «È davvero vecchia, questa roba?».
«Dell’Ottocento.»
«Adesso guardo in rete quanto vale, poi se non mi tornano i conti ne riparliamo. Ma dovremmo esserci.»
Gli ho offerto dei biscotti al cioccolato con uno dei miei sciroppi preferiti: orzata, menta o granatina, ma ha rifiutato, come se non si addicessero alla sua età. Alla mia invece si addicono eccome.
Samir il sorcio trova sempre ottime scuse per piantarmi in asso. È oberato di lavoro, gli è impossibile prendersi cinque minuti. Ma se non riesco mai a trattenerlo più di un tot è anche perché ha subodorato quello che provo per lui, lo so bene. Nonostante la differenza di età, mi sono presa una cotta.
Tra un paio d’anni, quando l’uomo sarà emerso dal bambino trasformandolo in un ammasso di peli e desiderio, mi piacerebbe essere stretta fortissimo da lui, farmi dire qualche parolaccia e strapazzare un po’, nient’altro. Lo so, alla mia età è indecente e perfino un po’ idiota, ma se dovessimo reprimere ogni nostra fantasia cosa ci resterebbe? Qualche rimasuglio dei dieci comandamenti, seghe mentali e poco altro. Una vita da morire. Sono le nostre piccole follie a tenerci in piedi.
Io, per principio, vivo ogni istante come se fosse l’ultimo. Ogni gesto, ogni parola. Voglio morire tranquilla, senza rimorsi né rimpianti.
La sera dopo ero in camicia da notte, pronta per andare a letto, quando hanno suonato alla porta. Era Samir il sorcio. Pensavo volesse chiedermi un aumento invece no, aveva lavorato tutto il giorno e ci teneva a darmi di persona il risultato delle prime indagini.
«Renate Fröll» ha esordito «faceva la farmacista a Neuwied, vicino a Colonia. Nubile, genitori ignoti. Nessun parente. Non ho trovato altro. Non hai altri indizi, tu?»
Mi è sembrato ci fosse dell’ironia, nel suo modo di guardarmi.
«Secondo te?» ho risposto in tono piatto. «Se avessi saputo chi era non ti avrei chiesto di fare ricerche.»
«Ma se non avessi qualche sospetto, non ti importerebbe di sapere chi era.»
Non ho replicato. Sul volto gli è passato un lampo di soddisfazione, era tutto contento di avere colto nel segno. A mano a mano che invecchio, mi è sempre più difficile nascondere i miei sentimenti, e lui si era accorto dell’emozione da cui ero stata presa mentre mi forniva i primi risultati dell’indagine, che confermavano la mia intuizione. Mi sentivo come la terra in attesa del sisma.
Quando se n’è andato ero così elettrizzata da non riuscire a dormire. I ricordi tornavano a galla uno dopo l’altro. Mi sentivo risucchiata in un vortice di immagini e sensazioni del passato.
Ho deciso di riprendere il mio libro. Fino a quel momento ero stata io, a scrivere. Di colpo, una voce è entrata in me e mi ha dettato quanto segue.
3
La figlia del ciliegio
Mar Nero, 1907. Sono nata su un albero, il 18 luglio, sette anni dopo l’alba del secolo, cosa che in teoria avrebbe dovuto portarmi fortuna. Era un ciliegio centenario, con rami come braccia stanche e pesanti. Quel giorno c’era mercato. Papà era a vendere arance e verdura a Trebisonda, antica capitale dell’omonimo impero sulle rive del Mar Nero, a pochi chilometri da casa nostra a Kovata, capitale delle pere e vaso da notte dell’universo mondo.
Prima di andare in città, papà aveva avvertito mia madre che probabilmente non sarebbe riuscito a tornare prima di notte. Per quanto gli dispiacesse vista l’imminenza del parto, non aveva scelta: doveva andare a cavarsi un molare cariato e a recuperare da uno zio il denaro che questi gli doveva; la sera scendeva presto e le strade non erano sicure, con il buio.
Secondo me aveva anche organizzato una bevuta con certi suoi amici, ma comunque non aveva motivo di preoccuparsi. Mamma era come quelle pecore che sgravano mentre continuano a brucare. Al massimo smettono un momento di nutrirsi o ruminare per leccare l’agnellino venuto giù dal loro posteriore. Figliano come altri fanno i bisogni, anzi a volte danno l’impressione di faticare di più in quest’ultimo caso.
Mia madre era una donna ben piantata, con ossa grandi e un bacino largo abbastanza da farci passare una batteria di bambini. Partoriva sempre con grande naturalezza e in pochi secondi. Dopodiché, finalmente alleggerita, tornava alle sue occupazioni. Aveva ventotto anni e già quattro figli, senza contare i due morti in tenera età.
Il giorno della mia nascita, i tre personaggi destinati a devastare l’umanità erano già venuti al mondo: Hitler aveva diciotto anni, Stalin ventotto e Mao tredici. Ero cascata nel secolo sbagliato. Il loro.
Cascare è il termine esatto. Uno dei gatti di casa era salito sul ciliegio e non riusciva più a scendere. Si era appollaiato su un ramo rotto e miagolava come un invasato dal mattino. Poco prima del tramonto, quando capì che mio padre non sarebbe tornato, mamma decise di aiutarlo a scendere.
Dopo essersi arrampicata, mentre allungava un braccio verso il gatto, mia madre, secondo la leggenda familiare, sentì la prima contrazione. Prese la bestia per la collottola, la lasciò cadere pochi rami più in basso e colta da un presentimento si adagiò nell’incavo tra due rami. Così sono venuta al mondo: a ruzzoloni.
In realtà, prima di cadere, sono stata anche espulsa dal ventre di mia madre. Se fosse andata di corpo o avesse mollato un peto, le cose non sarebbero andate diversamente. Nel mio caso, però, dopo la caduta sono arrivate coccole e carezze. La mamma traboccava d’amore, anche per le figlie femmine.
Scusate la metafora, ma è la prima che mi viene e non c’è modo di togliermela dalla mente: lo sguardo materno era per noi come un sole che ci illuminava tutti; scaldava il nostro inverno. Il volto di mamma aveva la stessa espressione dolce della Madonna d’oro troneggiante sopra l’altare della chiesetta di Kovata. L’espressione di ogni mamma del mondo davanti ai suoi bambini. È stato merito suo se i miei primi otto anni sono stati i più felici della mia vita. Lei vegliava affinché non ci accadesse nulla di male, e a parte il succedersi delle stagioni a casa nostra accadeva ben poco. Niente urla né drammi, tantomeno lutti. A costo di fare la figura dell’idiota, cosa che peraltro non dev’essere molto lontana dal vero, ecco la mia idea di felicità: quando i giorni si susseguono uno dopo l’altro in una specie di torpore, quando il tempo si estende all’infinito, gli avvenimenti si ripetono senza sorprese, tutti si vogliono bene, non si sente urlare né in casa né fuori e ci si addormenta con il gatto accanto.
Dietro la collina che sovrastava la nostra fattoria c’era una casetta in pietra, abitata da una famiglia mussulmana. Il padre, uno spilungone con le sopracciglia folte come baffi e molto bravo in tutti i lavori, faceva il bracciante a giornata nelle fattorie dei dintorni. La moglie e i figli guardavano pecore e capre mentre lui lavorava un po’ ovunque, compreso da noi durante il raccolto, quando papà era oberato di lavoro.
Si chiamava Mehmed Ali Efendi. Credo fosse il migliore amico di mio padre. Siccome non eravamo della stessa religione, non passavamo le feste insieme. Ma le nostre due famiglie si riunivano spesso la domenica per pranzi interminabili, durante i quali io mangiavo con gli occhi il piccolo Mustafà, uno dei figli del nostro vicino, più grande di me di quattro anni e che avevo deciso di sposare un giorno, prevedendo di convertirmi all’islam solo per lui…
Aveva un corpo che sognavo di stringere contro il mio, ciglia lunghissime e uno sguardo profondo, apparentemente in empatia con il mondo intero. Una bellezza fiera e tenebrosa, di quelle che si nutrono di sole.
Avrei passato il resto dei miei giorni a contemplare Mustafà, mi dicevo, e questa è ai miei occhi la più bella definizione dell’amore, che ho poi imparato a considerare, secondo la mia lunga esperienza, uno sciogliersi nell’altro anziché un perdersi nello specchio che l’altro ci tende.
Mi sono resa conto di essere ricambiata quando Mustafà mi ha portata in riva al mare e mi ha regalato un braccialetto di cuoio, per scappare via un attimo dopo. L’ho richiamato, ma lui non si è voltato. Era come me. Aveva paura di ciò che sentiva crescere in lui.
Del nostro amore conservo il gusto strano dei baci mai dati. Più gli anni passano, più questo rimpianto mi pesa.
Quasi un secolo dopo porto ancora quel braccialetto al polso, l’ho fatto allargare e lo osservo cercando in me le parole adatte a completare queste righe. Non mi resta altro della mia infanzia: la Storia, maledetta cagna, ha divorato fino all’ultimo ossicino.
Non so bene quando la sua opera mortifera sia cominciata, ma in seguito alla proclamazione dello jihad il 14 novembre 1914 da parte dello sheikh ul-Islam, un barbuto di una sporcizia atroce e capo spirituale dei mussulmani sunniti, gli imam iniziarono a incoraggiare il massacro degli armeni durante la preghiera del venerdì. Quel giorno, davanti alla moschea di Fathi, nel centro storico di Costantinopoli, la guerra santa ebbe inizio in pompa magna e alla presenza di una sfilza di baffuti impettiti.
Noialtri armeni ci eravamo abituati, non ci saremmo certo rovinati la vita per una manica di idioti. Qualche settimana prima del genocidio del nostro popolo, però, l’umore di papà mi era sembrato peggiorare; credevo fosse per via della sua lite con Mehmed, il padre di Mustafà, il quale da allora non metteva più piede in casa nostra.
Quando ho chiesto a mamma come mai non si parlavano più, ha scosso la testa con aria cupa: «Sono cose talmente cretine che un bambino non può capirle».
Un giorno, verso sera, mentre camminavo in cima alla collina, ho sentito la voce di mio padre. Mi sono avvicinata alle sue spalle, attenta a non farmi notare, e mi sono nascosta dietro una macchia di cespugli. Papà era solo e, con le sue grandi braccia alzate, rivolgeva un discorso al mare agitato davanti a lui: «Carissime sorelle, cari fratelli, siamo vostri amici, vi dico. Certo, lo capisco, la cosa vi stupisce dopo tutto quanto ci avete costretti a subire, ma abbiamo deciso di dimenticare, sappiatelo, per non lasciarci trascinare insieme a voi in una spirale infernale, in cui il sangue chiamerebbe altro sangue per l’infelicità delle generazioni a venire…».
Poi si interruppe e con un gesto impaziente chiese al mare di smettere di applaudirlo, in modo da poter proseguire. Siccome quello ubbidiva agli ordini, lui ricominciò gridando: «Sono venuto a dirvi che vogliamo la pace e che non è troppo tardi, non è mai troppo tardi per tendersi la mano!».
Si inchinò davanti all’ondata di acclamazioni marine, si asciugò la fronte con la manica della camicia e riprese la strada di casa.
Io lo seguivo. A un certo punto si fermò in mezzo alla strada e gridò: «Cazzoni!».
Ho ripensato spesso a quella scena un po’ ridicola. Papà si preparava a recitare la parte del pacificatore politico, ma senza crederci per niente. Insomma, cominciava a perdere qualche rotella.
Durante le sere successive, mamma e papà confabulavano per ore. A volte lui alzava la voce. Dalla cameretta che dividevo con le mie due sorelle e il gatto non capivo bene cosa si dicessero, ma lui mi sembrava avercela con il mondo intero e in particolare con i turchi.
Una sera hanno alzato la voce entrambi, e le frasi che ho sentito dall’altra parte del muro mi hanno gelato il sangue nelle vene.
«Se davvero credi a quello che dici, Hagop» è saltata su la mamma, «dobbiamo andarcene subito!»
«Prima voglio dare a tutti un’ultima possibilità e invocare la pace, come Cristo, anche se non ci credo granché. Hai visto che fine gli hanno fatto fare, a Cristo. Ma se non ci ascoltano non ho nessuna intenzione di porgere l’altra guancia. Certo non possiamo farci portar via senza combattere quello che abbiamo impiegato una vita a costruire!»
«E se ci ammazzano, noi e i bambini?»
«Combatteremo, Vart.»
«Con cosa?»
«Con quello che troviamo» ha gridato papà. «Fucili, asce, coltelli, pietre!»
Mamma ha urlato a sua volta: «Ma Hagop, ti rendi conto di quello che dici? Se mettono in atto le loro minacce, siamo già condannati. Andiamo via, finché siamo in tempo!».
«Non potrei vivere in un altro posto.»
È seguito un lungo silenzio, poi ansimi e sospiri come se si facessero del male, ma io non mi sono preoccupata, anzi: quando sentivo quei rumori, inframezzati da risate grandi e piccole, sapevo quanto bene si facessero in realtà.
4
La prima volta che sono morta
Mar Nero, 1915. Mia nonna puzzava di cipolla dappertutto, nei piedi, nell’alito, sotto le ascelle. Io ne mangio molta di meno, ciononostante ho ereditato da lei quell’odore dolciastro e me lo porto dietro da mattina a sera, fin sotto le lenzuola: è l’odore dell’Armenia.
Durante la bella stagione preparava il plaki per tutta la settimana. Soltanto a scriverlo, ho già l’acquolina in bocca. È un piatto povero a base di sedano, carote e fagioli bianchi, che lei arricchiva a seconda dei giorni e dell’estro con verdure di ogni tipo. A volte, anche con nocciole o uvetta. Era una cuoca piena di fantasia, mia nonna.
Adoravo mondare le verdure o preparare dolci sotto il suo sguardo benevolo. Lei ne approfittava per filosofeggiare e spiegarmi le cose della vita. Spesso, quando eravamo in cucina, si lamentava per il potere dell’ingordigia sul genere umano: la fame dà a noi tutti lo slancio vitale, mi diceva, ma quando per disgrazia l’uomo comincia ad ascoltare esclusivamente le budella, quello è il momento in cui si scava la fossa da solo.
La nonna sarebbe finita molto presto nella sua, di fossa, a giudicare dal gran deretano che quasi non passava dalla porta, per non parlare delle gambe coperte di vene varicose, eppure si preoccupava per gli altri, non per lei, perché dopo la morte del marito si considerava già morta e sognava soltanto di andare in cielo a ritrovarlo. Mi citava spesso i proverbi che sua nonna le aveva recitato a sua volta. Ne aveva per tutte le occasioni.
Per i tempi duri: «Se fossi ricca mangerei troppo e morirei giovane. Perciò ho fatto bene a restar povera».
Per la situazione politica: «Nei cieli c’è meno cibo che nell’orto. Con la luna non si è mai sfamato nessuno».
Per i nazionalisti turchi: «Il giorno in cui lasceremo il lupo a guardia del gregge, non resterà una pecora sulla Terra».
L’Impero ottomano non lo ha capito, e infatti durante i primi anni della mia vita l’ho visto crollare. Oddio, si fa per dire: dal buco in cui vivevo non ho visto un bel niente. La Storia arriva sempre senza bussare, a volte è già tanto se ci accorgiamo del suo passaggio. Tranne quando ti crolla addosso, com’è successo a noi.
Noi armeni eravamo certi di essere nel giusto. Per sopravvivere, pensavamo bastasse essere un popolo pacifico. Non disturbare. Camminare rasente ai muri.
Il risultato si è visto. La lezione mi è bastata per tutta la vita. Di lì mi viene la cattiveria che mi ha trasformata in un’erbaccia senza pietà né rimorso, sempre pronta a ricambiare il male con il male.
Riassumiamo. Quando, in uno stesso Paese, un popolo vuole eliminarne un altro, è perché quest’ultimo è arrivato da poco. O perché c’era da prima. Gli armeni vivevano su quel pezzo di terra dalla notte dei tempi: ecco la loro colpa; ecco il loro delitto. Il regno armeno, apparso nel secondo secolo avanti Cristo sulle rovine del regno di Urartu, si estese a lungo dal Mar Nero al Mar Caspio. Dopo essere diventato il primo Paese cristiano nel cuore d’Oriente, l’Armenia ha resistito quasi a ogni invasione: araba, mongola o tartara. Salvo piegarsi poi, nel corso del secondo millennio, sotto la marea dei turchi ottomani.
«I satrapi persi, al pari dei pascià turchi, hanno devastato la terra dove Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza» diceva sempre mia nonna, citando il poeta inglese Lord Byron, il primo scrittore di cui ho sentito parlare per bocca sua.
Secondo Byron e diversi altri, proprio dalla polvere d’Armenia nacque Adamo, il primo uomo, e sempre su questa terra bisogna situare il paradiso terrestre della Bibbia. Ecco spiegata la malinconia tinta di rimpianto che da secoli si legge nello sguardo degli armeni, come in quello di ogni membro della mia famiglia a quell’epoca. Ma non nel mio di oggi: la cupezza non è mai stata il mio forte.
Anche se passo la vita in ciabatte davanti ai fornelli e sto in scarpe da ginnastica per il resto del tempo, non bisogna prendermi per ignorante. Ho letto quasi tutto sul genocidio armeno del 1915 e 1916. Per non parlare degli altri. Il mio intelletto lascerà a desiderare, ma una cosa non sono mai riuscita a capirla: per quale motivo è necessario eliminare un’intera popolazione, se non è una minaccia per nessuno?
Una volta ho fatto questa domanda a Elie Wiesel, che era venuto a cena nel mio ristorante con la moglie Marion. È una bella persona, sopravvissuto ad Auschwitz e autore di uno dei più grandi libri del Novecento, La notte. Mi ha risposto che bisogna credere nell’essere umano, nonostante gli uomini.
Mi inchino alla sua ragione. Benché la Storia sostenga il contrario, si deve credere nel futuro a prescindere dal passato e in Dio a prescindere dalla sua assenza. Altrimenti la vita non varrebbe la pena di essere vissuta.
E dunque non scaglierò la pietra contro i miei antenati. Dopo la conquista mussulmana, agli armeni è stato fatto divieto di portare armi, così si sono ritrovati alla mercé dei loro nuovi padroni, che potevano massacrarli di quando in quando nell’impunità più assoluta e con il consenso del sultano.
Tra un raid e l’altro, gli armeni si preoccupavano delle loro faccende in banca, nel commercio o in agricoltura. Fino alla soluzione finale.
Sono stati i successi dell’Impero ottomano a prepararne la caduta. È finito all’inizio del secolo per obesità e ingordigia, per avere avuto gli occhi più grandi dello stomaco. L’Impero non aveva abbastanza braccia armate per tenere sotto di sé il popolo armeno, la Grecia, la Bulgaria, la Bosnia, la Serbia, l’Iraq, la Siria e tante altre nazioni la cui massima aspirazione era vivere la propria vita. Alla fine, è rimasto da solo a cuocere nel suo brodo in Turchia, che da quel momento ha intrapreso la purificazione del proprio territorio da un punto di vista etnico e religioso, eliminando greci e armeni. Senza dimenticare di accaparrarsi i loro beni.
Le popolazioni cristiane, sospettate di separatismo, andavano semplicemente estirpate. Gli armeni, presenti nel Paese dal Caucaso alle coste mediterranee, sembravano costituire la minaccia peggiore, nel cuore stesso della Turchia mussulmana. Stanchi di tante persecuzioni, di quando in quando gli armeni prospettavano la creazione di uno Stato indipendente in Anatolia. Ci fu perfino qualche manifestazione, cui i miei genitori non hanno mai partecipato.
Talat ed Enver, due assassini all’ingrosso dall’aria molto soddisfatta di sé, decisero di presentarsi per risolvere il problema. Sotto il giogo del partito rivoluzionario dei Giovani turchi e del Comitato per l’unione e il progresso cui appartenevano, la turchizzazione si mise in marcia. Niente l’avrebbe fermata.
Ma noi armeni non lo sapevamo. Tantomeno io. Si erano dimenticati di avvertirci, bisognerà tenerlo presente per la prossima volta. Ecco perché quel pomeriggio non mi aspettavo di vedere un branco di uomini sbraitanti con gli occhi stravolti dall’odio e armati di bastoni e fucili davanti a casa mia. Erano fanatici dell’Organizzazione speciale, spalleggiati dalla polizia. Assassini di Stato.
Dopo avere bussato alla nostra porta, il capo locale dell’Organizzazione speciale, un monco grasso e baffuto, ha fatto uscire tutti tranne me, che ero riuscita a scappare dal retro senza farmi vedere da nessuno.
Il capo ha ordinato a mio padre di unirsi a una colonna di lavoratori armeni, a suo dire diretti a Erzurum. Papà, con un coraggio niente affatto sorprendente in lui, si è rifiutato di ubbidire: «Dobbiamo parlare».
«Parleremo dopo.»
«Non è troppo tardi per provare a intendersi ed evitare il peggio. Non è mai troppo tardi.»
«Non ha niente da temere. Le nostre intenzioni sono pacifiche.»
«Con tutte quelle armi?»
Invece di rispondere, il capo degli assassini ha preso a bastonate mio padre e lui con un ringhio ha chinato il capo, come tutti i vinti dalla Storia, ed è andato a piazzarsi in coda alla colonna.
Mia madre, mia nonna, i miei fratelli e sorelle si sono incamminati nella direzione opposta insieme a un altro gruppo, munito di valigie e fagotti in quantità tale da sembrare in procinto di intraprendere un lungo viaggio.
Una volta saccheggiata la casa, tirato fuori utensili e mobilia e preso tutti gli animali, inclusi i pulcini, quei macellai hanno dato fuoco alla fattoria, come per purificare i luoghi dopo una pestilenza. Io guardavo tutto dal mio nascondiglio dietro i lamponi. Non sapevo chi seguire. Alla fine ho scelto mio padre, perché mi sembrava più in pericolo degli altri. Avevo ragione.
Sulla strada per Erzurum, gli uomini armati hanno allineato la ventina di prigionieri giù lungo un campo di avena. Poi si sono schierati come un plotone d’esecuzione e hanno sparato nel mucchio. Papà ha provato a scappare, ma le pallottole lo hanno raggiunto. Ha incespicato ancora qualche passo, ed è caduto.
Il monco è andato a tirargli il colpo di grazia.
Dopodiché gli assassini dell’Organizzazione speciale hanno proseguito tranquillamente la loro marcia, con l’aria di aver compiuto il loro sacrosanto dovere, mentre in me, come un enorme crampo, cresceva un misto di dolore e odio da mozzare il fiato.
Quando si erano ormai allontanati, sono corsa a vedere papà. Era steso per terra a braccia spalancate, sul volto aveva quello che mamma chiamava lo sguardo dell’altro mondo: gli occhi fissi su qualcosa di invisibile oltre me, oltre il cielo blu. Le capre sgozzate hanno lo stesso sguardo.
Non sono riuscita a notare altri particolari, perché un diluvio di lacrime mi ha appannato la vista. Ho baciato mio padre e gli ho fatto il segno della croce, non ricordo in che ordine, poi ho ritenuto opportuno filarmela: un piccolo branco di cani randagi si avvicinava abbaiando.
Quando sono tornata indietro la casa stava ancora bruciando qua e là e c’era molto fumo: sembrava passata attraverso la furia della bufera. Ho chiamato a lungo il mio gatto, senza ottenere risposta. Forse era morto tra le fiamme. A meno che non fosse fuggito anche lui: odiava i rumori e i fastidi di ogni tipo.
Non sapevo dove andare, così mi sono diretta automaticamente verso la fattoria degli Efendi, ma quando sono arrivata qualcosa mi ha consigliato di non farmi vedere: mi sono nascosta in un cespuglio, in attesa di scorgere Mustafà. Mi aveva insegnato a imitare il verso della gallina che depone l’uovo. Potevo ancora fare progressi, ma già ci salutavamo così.
Appena l’ho visto, ho imitato la gallina e lui mi ha subito raggiunto con espressione dispiaciuta.
«Non devono vederti» ha sussurrato mentre si avvicinava. «Mio padre sta con i Giovani turchi. Sono impazziti, vogliono ammazzare tutti gli infedeli.»
«Hanno ucciso mio padre.»
Sono scoppiata a piangere. E lui con me.
«E tu?» ha singhiozzato «ti aspetta la stessa sorte, se ti prendono. Oppure ti renderanno schiava… Devi andartene subito da questa regione. Qui sei armena. Altrove sarai turca.»
«Devo cercare mia madre e il resto della famiglia.»
«Non pensarci nemmeno, di sicuro saranno già incappati in qualche disgrazia. Sono diventati tutti pazzi, ti dico, perfino papà!»
Suo padre lo aveva incaricato di portare del letame di pecora da un coltivatore, a una decina di chilometri da lì. Così Mustafà ha architettato lo stratagemma a cui probabilmente devo la vita.
Con la pala ha scavato un grosso buco nel letame nero e umidiccio già caricato sul carretto, al quale mancava solo di attaccare il mulo. Dopo avermi fatto infilare in quella fanga mi ha dato due canne di giunco da mettermi in bocca, in modo da poter respirare, dopodiché mi ha ricoperta con palate di sterco tiepido e brulicante di vita, sotto cui mi sono sentita ridotta a un cadavere.
Secondo i becchini, ci vogliono quaranta giorni per ammazzare un morto. È il tempo necessario perché se lo mangi la terra, perché ogni traccia di vita lo abbandoni e il tanfo si disperda. Io mi sentivo come un cadavere al primo giorno, quando è ancora fresco: puzzavo di morto. Merda sei e merda ritornerai, ecco cosa dovrebbero dire i preti invece di star sempre a blaterare di polvere, che è priva di qualsiasi odore. Ma loro devono sempre imbellire tutto.
Di merda ne avevo fin dentro le orecchie e le narici. Per non parlare delle larve che mi mangiavano viva poco a poco, e se non andavano più in fretta era solo perché dovevano ancora decidere se ero più di là o più di qua.
Quella è stata la prima volta che sono morta, in vita mia.
5
La principessa di Trebisonda
Mar Nero, 1915. Ci si abitua a tutto. Perfino ai liquami. Avrei potuto restare giorni interi immobile dentro quel letame, se l’urina di pecora non mi avesse ridotta a un unico enorme prurito dalla testa ai piedi. Dopo poche ore avrei dato l’anima, per potermi grattare.
Mi era stato vietato di muovermi. Mustafà mi aveva messa in guardia, prima di partire: per quanto idioti, gli assassini di Stato avrebbero fatto presto a controllare cosa c’era nel mucchio di letame, se a questo fosse saltato il ghiribizzo di muoversi. Sferrare un colpo con la baionetta è facile e a volte non perdona: non era il caso di mettere in pericolo entrambe le nostre vite, soprattutto perché dopo quegli avvenimenti il nostro matrimonio mi sembrava inevitabile e già scritto.
A un certo punto il carretto ha lasciato la strada e si è fermato. Speravo di sentire il prurito scemare: macché. Adesso che la mia bara di letame non era più sottoposta a scosse e a buche, mi pareva di avvertire le larve insinuarmisi nel corpo e farsi tutt’uno con me: la sensazione di decompormi viva era sempre più forte.
Il carretto continuava a restare immobile e ho deciso di uscire dal mio mucchio di sterco. Non tutta in una volta, è chiaro. L’ho fatto poco a poco, come una farfalla che esce dalla crisalide, una farfalla lorda e ripugnante. Era scesa la notte, e il cielo stellato spandeva sulla Terra il misto di luce e di silenzio che ai miei occhi è il modo di Dio per manifestarsi quaggiù, a cui avrei aggiunto in seguito le musiche di Bach, Mozart e Mendelssohn, scritte senza dubbio da mano divina per interposta persona.
Il mulo era sparito e, a quanto pareva, anche Mustafà. Solo dopo essere scesa dal carretto l’ho riconosciuto al chiaro di luna: stava lungo disteso sul bordo della strada, al centro di una palude di sangue nero, con le braccia spalancate e la gola tagliata.
L’ho baciato sulla fronte, poi sulla bocca, finché sono scoppiata a piangere davanti al suo volto, che rifletteva lo stupore di chi muore all’improvviso: non immaginavo quante lacrime potessero scaturire da una sola persona.
Forse Mustafà era stato fermato per un controllo da poliziotti turchi simili a quelli che avevano deportato la mia famiglia e si era rivolto a loro in modo brusco, da uno come lui c’era da aspettarselo. Oppure era stato scambiato, così scuro e peloso, per l’armeno che probabilmente era senza nemmeno saperlo.
Il mio dolore ha raggiunto l’apice quando mi sono resa conto di non poter dare neppure a lui, come a papà, degna sepoltura: sarebbe finito dilaniato dalle zanne bavose dei bastardi con il fiato pestilenziale che dal giorno precedente si davano alla pazza gioia in tutta la regione. Sotterrarlo era impossibile: oltre al mulo, i suoi assassini avevano rubato anche la pala e il forcone del carretto.
Dopo averlo tolto dal bordo della strada e ricoperto d’erba, ho corso a lungo attraverso i campi, fino al Mar Nero, dove mi sono buttata per lavarmi. Era estate, l’acqua era tiepida. Sono rimasta dentro fino all’alba, per strofinarmi e pulirmi ben bene.
Quando ne sono uscita mi sembrava di puzzare ancora di sterco, di morte e di disgrazia. Ho camminato per ore e quell’odore non la smetteva di inseguirmi, un odore che ho ritrovato nel pomeriggio, quando, dopo essermi nascosta lungo un fiume, ho scoperto che traboccava di cadaveri.
Quell’odore non mi ha mai più lasciata: perfino quando esco dalla vasca da bagno mi sento sporca ancora oggi. Fuori, ma anche dentro. La chiamano la colpa del sopravvissuto. Ma nel mio caso c’era un’aggravante: invece di pensare ai miei e di pregare per loro, ho passato le ore successive a riempirmi la pancia. Credo di non avere mai mangiato tanto in vita mia. Soprattutto albicocche. Prima di sera avevo un pancione da sembrare incinta.
Era un modo per ammazzare l’angoscia, direbbe uno psicologo. Mi piacerebbe che fosse vero, ma credo sia stato il mio amore per la vita a rivelarsi, come sempre, più forte di ogni cosa, dalla tragedia della mia famiglia alla paura di morire a mia volta. Io sono come quei fiori indistruttibili che crescono sui muri di cemento.
Tra tutti i sentimenti di cui ero preda, l’odio era l’unico a non essere sopraffatto dal mio slancio vitale, forse perché vi si confondeva: se volevo vivere, era per potermi un giorno vendicare, aspirazione legittima quanto e più di molte altre e che, a giudicare dall’età a cui sono giunta, si è concretizzata con discreto successo.
Quel pomeriggio ho incontrato la creatura che avrebbe cambiato il mio destino e che mi avrebbe accompagnata in ogni momento per gli anni seguenti. Amica, sorella, confidente. Se le nostre strade non si fossero incrociate forse sarei morta, divorata dal rancore come dai pidocchi.
Era una salamandra. L’ho calpestata per sbaglio. Le macchie gialle sul corpo erano ancora molto vivide, quindi doveva essere giovanissima. Ci siamo intese al primo sguardo. Si è ritrovata sotto il mio piede tutta ansimante, glielo leggevo negli occhi che aveva bisogno di me. Anch’io avevo bisogno di lei.
Ho stretto il suo corpicino nella mano e ho ripreso la marcia. Il sole era ancora alto nel cielo quando mi sono sdraiata sotto un albero. Ho scavato una buca per metterci la salamandra e l’ho coperta con un sasso, poi il sonno mi ha vinto.
«Alzati!»
Ero stata svegliata da una guardia a cavallo. Un uomo baffuto con la faccia da maiale, ma un maiale idiota e soddisfatto, cosa molto più comune nella nostra specie che in quella suina.
«Sei armena?» ha domandato.
Ho scosso la testa.
«Sei armena!» ha esclamato allora, con l’aria di chi la sa lunga tipica degli imbecilli quando si fingono bene informati.
A quanto diceva, la moglie di un fattore turco mi aveva sorpresa a rubare albicocche nel suo frutteto. Sarei scappata volentieri a gambe levate, ma poi ci ho ripensato. Mi teneva sotto tiro, e a giudicare dallo sguardo spento non mi sembrava il tipo da farsi scrupoli a sparare.
«Sono turca» ho azzardato. «Allah akbar!»
Ha alzato le spalle: «Allora recita il primo versetto del Corano».
«Non l’ho ancora imparato.»
«Lo vedi, sei armena!»
Il soldato mi ha detto di montare davanti a lui in groppa al cavallo e io ho ubbidito, non prima di avere recuperato la mia salamandra, dopodiché abbiamo proseguito al trotto fino alla sede del Cup, il Comitato per l’unione e il progresso. Quando siamo arrivati, ha gridato: «Salim bey, mio signore, ho un regalo per te».
L’omone con un gran sorriso dagli incisivi separati che rispondeva a quel nome è venuto fuori e il soldato mi ha gettata ai suoi piedi dicendo: «Guarda cosa ti ho portato, vedi, non ti prendevo in giro, Dio ti benedica: per essere una principessa, è una principessa!».
Quel giorno ho imparato che ero bella. Meglio non restarlo troppo a lungo, mi sono detta. Adesso che Mustafà era morto non mi serviva a niente, anzi mi avrebbe portato soltanto guai.
6
Benvenuti al «piccolo harem»
Trebisonda, 1915. Al calar della sera, Salim bey mi ha portata a casa sua. Per le strade di Trebisonda regnava una grande agitazione. Tutti sembravano nel pieno di un trasloco.
Abbiamo incontrato una vecchia alle prese con una credenza troppo pesante per lei, tanto da costringerla a fermarsi ogni due passi a riprendere fiato, una coppia intenta a trasportare un armadio seguita dai cinque figli con un letto e un tavolo completo di sedie, e un ragazzo con un carico di lenzuola, tappeti, statue e giochi per bambini. Quella è stata la prima volta in cui mi sono trovata di fronte l’orrendo volto dell’umana avidità e ne ho visto chiaramente la schiena ricurva, la bocca storta e lo sguardo sfuggente o esaltato.
Fino a poche settimane prima, il mio nuovo padrone era un modesto e famelico insegnante di storia alla scuola coranica, peraltro bistrattato dagli studenti. Da quando, il mese precedente, era diventato uno dei pilastri del Comitato per l’unione e il progresso, aveva preso una quindicina di chili e un bel po’ di sicumera. Alto, con uno sguardo dolce a far da contraltare al mento volitivo, ispirava un certo rispetto.
Lo trovavo bello, e non senza una certa fierezza gli davo la mano mentre mi conduceva come fossi sua figlia per le strade verso casa. A voler cercare il pelo nell’uovo, i suoi piccoli porri intorno agli occhi avrebbero potuto infastidire un perfezionista, ma la bellezza per manifestarsi al meglio ha sempre bisogno di qualche difetto.
Abitava su una collinetta da cui si dominava la città, in una casa in pietra al centro di un giardino lussureggiante popolato di aranci, palme da dattero, laurocerasi e olivi di Boemia dal tronco rossastro e dalla chioma argentata. Il precedente proprietario era il più grosso gioielliere di Trebisonda, come ho scoperto anni dopo: un armeno che era stato «deportato» qualche tempo prima in un boschetto a cinque chilometri dalla città, dove era stato eliminato assieme a molti suoi consimili. Salim bey l’aveva comprata per niente dalla moglie, subito prima che anche lei venisse «deportata» in fondo al mare con i suoi quattro bambini.
Mi ha condotto in una grande stanza al primo piano, dove sei ragazze più grandi di me erano sedute a tavola per cena. Zuppa di cavolo nero e fagioli. Ho rifiutato la scodella allungatami da una donna sdentata con il labbro leporino, che si chiamava Fatima e ricopriva al contempo le funzioni di guardiana, confidente e tata. Non parlava molto, ma il suo sguardo diceva che era dalla nostra parte. Mi è piaciuta all’istante.
Da lei ho ottenuto una scatola di ferro per la mia salamandra. Teo doveva arrotolare la coda per entrarci, ma ci si è trovata subito bene, ancor più quando, dopo il bagnetto serale, la riempivo di terra affinché ci si raggomitolasse per la notte.
Fatima mi ha consigliato di nutrire la salamandra con insetti e lombrichi, cosa che ho fatto fin dai giorni immediatamente successivi, aggiungendovi lumache e certe chioccioline minuscole di cui andava pazza. Senza dimenticare ragni e falene.
Poi mi ha messa in guardia contro il liquido velenoso chiamato samandarina, come ho scoperto in seguito, che la salamandra secerne dalla pelle se si sente minacciata. Ma io non ho mai avvertito niente, nel maneggiarla, perciò con me doveva sentirsi al sicuro.
Ho praticato alcuni fori sul coperchio della scatola, in modo che potesse respirare, e le ho trovato un nome: Teo, diminutivo di Teodora Comnena, la principessa cristiana di Trebisonda la cui bellezza venne celebrata fin dal Quattrocento.
Senza la mia scatola con la salamandra non andavo da nessuna parte, nemmeno in bagno. Di Teo non mi stancavo mai: per me era terra, famiglia, coscienza e alter ego. Non mi risparmiava le prediche, cui ero sempre pronta a controbattere. Ne avevamo, di tempo per parlare.
Il lavoro a casa di Salim bey non era molto pesante. Non sopportavo i versetti coranici di cui ci subissavano di continuo, né il resto, ma non oso lamentarmi se penso ai bambini avvelenati all’ospedale di Trebisonda dal dottor Ali Saib, ispettore dei servizi sanitari, o agli altri, legati insieme a gruppi di dodici o quattordici e condotti verso Aleppo con le madri e i nonni, a marce forzate in modo da farli morire per strada, di fame, sete o per le percosse dei guardiani. Per non parlare di quelli caricati sulle navi e buttati in mare.
Diverse sere a settimana Salim bey e i suoi amici, spesso compagni di partito, venivano per disporre dei corpi di quello che lui chiamava il suo «piccolo harem». Non era divertente, per le mie consorelle, passare dall’uno all’altro e farsi trapanare mille volte a sera. Dovevano mettercela tutta, sudando e ansimando fino a tarda notte. Erano come bestie da soma, di cui avevano acquisito lo sguardo spento, almeno al mattino. Ed erano delle vere megere. Mi odiavano, per via del trattamento speciale riservatomi grazie alla mia tenera età: ero territorio esclusivo del padrone, i cui gusti non erano abbastanza depravati da impormi la pratica completa. Da me pretendeva giusto qualche servizietto. «Regalucci» li chiamava Fatima, che mi ha insegnato quest’arte con tutti i crismi di una scienza.
«Stai attenta ai denti» mi ripeteva sempre. «Il tuo compito consiste innanzitutto nel farli dimenticare. Gli uomini non sopportano di essere graffiati o morsi. Devi lavorare esclusivamente di labbra e di lingua, per succhiare, leccare e ingoiare con tutta la passione di cui sei capace: solo così li renderai felici.»
Salim bey mi portava nel suo studio, si sedeva su una poltrona di cuoio, mi diceva di mettermi in ginocchio e posargli la testa in mezzo alle gambe, poi di aprirgli la patta e infine di tirargli fuori il coso e renderlo felice leccando il gelato. Il suo desiderio era un crescendo, i gemiti si trasformavano in grugniti, e il resto ve lo lascio immaginare.
Senza smettere di eccitarlo, proferivo tra me e me i peggiori insulti. Nella fattispecie «salak» («coglione» in turco) o «kunem kez» («vaffanculo» in armeno). Anche se – per ovvi motivi – non potevo leggergli negli occhi, ero sicura che sapesse quanto male mi faceva. Ma allo stesso tempo mi faceva anche molto bene. È stato lui, con il ripetersi di quegli incontri, a nutrire la violenza da cui sono abitata, che mi ha aiutato a sopravvivere.
7
L’agnello e gli spiedini
Trebisonda, 1916. Un giorno Salim bey ha chiamato l’imam perché io pronunciassi davanti a lui la professione rituale di fede islamica: «Attesto che non v’è altra divinità all’infuori di Dio, e che Maometto è il suo inviato».
Il suo inviato, certo, ma non il solo. C’è anche Gesù, che continuerò a pregare fino al mio ultimo respiro, così come Mosè, Maria, l’arcangelo Gabriele e molti altri. Nessuno ha il monopolio di Dio.
Quando l’imam mi ha domandato se la mia conversione era libera e volontaria, ho mentito come Salim bey mi aveva detto di fare. Ho perfino dichiarato di essere ben contenta di abbandonare il cristianesimo, da me aborrito fin dalla più tenera età.
«Cristo mi è sempre sembrato un cacasotto piagnone» ho detto. «Se quello è il figlio di Dio, francamente Dio mi fa pena, gli è venuto proprio male.»
Mentre scrivo queste righe sono invasa dalla vergogna, ma non quanto quel giorno, che ho poi passato in ginocchio a pregare e a camminare a piedi nudi sulla ghiaia, per mortificarmi e chiedere perdono per le mie bestemmie.
Ero pronta a tutto, pur di vivere, e secondo le parole del mio padrone la conversione all’islam sarebbe stata per me la più sicura delle protezioni. A sentire lui, ormai non rischiavo più niente. I mussulmani, al contrario dei cristiani, avevano per regola di non uccidersi l’un l’altro, il che è effettivamente un bel vantaggio.
Benché mi avesse salvato la vita, Salim bey si sentiva colpevole nei miei confronti e io ne approfittavo. Un giorno gli ho chiesto chi era quel monco grasso da cui mio padre era stato mandato al macello in mezzo a un campo coltivato, e lui mi ha risposto senza esitare: «Monco e grasso, può trattarsi solo di Ali Recep Ankrun. Mi fa schifo. È capace di qualsiasi cosa, pur di raggiungere i suoi scopi. Ammazzerebbe suo padre, sua madre, perfino i suoi stessi figli. Controllerò se era lui a Kovata».
Verificò e confermò, tentando anche di avere notizie su mia madre e sugli altri membri della famiglia. Ma fu difficilissimo, le ricerche non furono complete prima di sei settimane.
Salim bey sembrava sinceramente afflitto quando è venuto a dirmi, con gli occhi bassi e la gola stretta: «Tua madre e i tuoi fratelli e sorelle sono stati assaliti e sgozzati dai briganti curdi. Di tua nonna non so cosa sia stato, nessuno me lo ha saputo dire».
Sono scoppiata a piangere. Anche Salim bey singhiozzava e non era una commedia, le sue lacrime erano vere, si è perfino bagnato la camicia. Da quel momento, ho atteso mia nonna ogni giorno che Dio ha mandato in Terra: speravo fosse stata raccolta dai siriani di Aleppo o di qualche altra città, che hanno salvato tanti armeni. Per anni, fino a poco tempo fa, quando ho finalmente elaborato il lutto, pensavo di ritrovarla e di trascorrere la vecchiaia con lei ai fornelli del mio ristorante. Le ho provate tutte, dagli investigatori privati agli appelli alla comunità armena, ma invano.
Non riesco a pensare a Salim bey senza un certo disagio. Il modo con cui si serviva del mio corpo mi ripugnava, ma allo stesso tempo apprezzavo la sua condanna verso i colleghi del Comitato per l’unione e il progresso: mi parlava con orrore delle torture inflitte agli armeni nelle carceri del Cup per costringerli a rivelare dove avessero nascosto i risparmi. Le unghie tirate via con le pinze. Le sopracciglia e i peli della barba strappati uno a uno. Le mani e i piedi inchiodati su assi per poi prenderli in giro dopo averli crocefissi: «Vedi, sei uguale a Cristo, Dio ti ha abbandonato».
Un giorno mi ha raccontato le marce della morte, quelle colonne di zombi condotte dai soldati turchi nel deserto o sulle montagne e fatte girare in tondo fin quando non restava più nessuno vivo. Mogli violentate, figlie rapite, neonati abbandonati lungo la strada, i vecchi rimasti indietro gettati nei burroni o giù dai ponti.
Salim bey era un romanticone, come testimoniava il suo amore per la signora Arslanian, su cui si dilungava volentieri durante gli incontri in cui gli rallegravo il batacchio. Era una donna bellissima e molto ricca, che secondo lui gli avrebbe cambiato la vita conducendolo alla prosperità. Era rimasta libera in seguito alla sventurata sparizione del marito, un medico armeno «deportato» come tanti altri.
La signora Arslanian era l’incarnazione dell’eleganza. In più aveva una bocca da baci, un seno generoso, un bacino che sembrava fatto apposta per partorire e una folta chioma di cui nessun pettine o spazzola avrebbe mai avuto ragione. Senza dimenticare lo sguardo magnetico e profondo.
La prima volta che la vide, per Salim bey fu un colpo di fulmine, e lui non dubitava che alla fine sarebbe stato ricambiato. Questo lo metteva in pericolo, lo sapeva bene, di fronte alla direzione del suo partito mangia-armeni, ma se lei glielo avesse chiesto avrebbe mollato tutto per trasferirsi in America con lei e vivere appieno il loro grande amore.
Benché respingesse ogni sua proposta – e date le circostanze si poteva capire – la signora Arslanian si era detta disposta a fuggire con lui non appena avesse avuto notizie dei suoi bambini. Aveva perfino deciso dove: a Boston. Sognava di vivere sulla costa orientale degli Stati Uniti.
Ma Salim bey dovette rinunciarvi. Quella donna ispirava troppo amore e troppa avidità. Il suo tragico destino avrebbe mostrato quanto poco, contrariamente alle leggende, bellezza e denaro proteggano chicchessia quando la Storia si mette in cammino.
Su quell’incartamento in effetti aveva messo gli occhi davvero troppa gente, gente bella, importante: il dottor Ali Saib, il suo amico Imamzad Mustafa, responsabile dei magazzini, e Nail bey in persona, che capeggiando il Comitato per l’unione e il progresso era diventato il vero padrone di Trebisonda. Per non parlare di Ali Recep Ankrun, l’assassino di papà. Quattro loschi figuri, con le stimmate dell’odio e della cupidigia dipinte in volto.
La signora Arslanian, o meglio il suo gruzzolo, aveva fatto girare la testa a tutti costoro, che per raggiungere i propri scopi la ricattavano attraverso i suoi due bambini scomparsi, un ragazzino sui dieci anni e una bimba di sette: la signora era pronta a tutto pur di ritrovarli e anche l’unica a non sapere del loro assassinio.
Dio sa se abbia mai rivelato a uno dei mostri di cui era circondata dove aveva nascosto il suo tesoro di milleduecento lire turche in oro, ma un giorno Cemal Emzi, governatore della provincia, decise di fischiare la fine della ricreazione. Fece imbarcare la signora Arslanian su un battello e ordinò di portarla in alto mare e gettarla in acqua, secondo il metodo di «deportazione» preferito dalle autorità di Trebisonda.
Salim bey mi ha detto spesso di non capire come fosse stato possibile che la purificazione della Turchia degenerasse a quel modo: non avrebbe mai voluto, ripeteva, «arrivare a tanto».
«Mi dispiace» mi ha detto un giorno in cui ero stata particolarmente talentuosa, dopo essere venuto con un grido inumano. «Non avevamo previsto cosa sarebbe successo.»
«Neanche noi…»
«Hanno dato tutti di matto, capisci. La gente non ne poteva più…»
«Non ne poteva più di cosa?»
«Lo sai benissimo, degli armeni. Mercanti sfruttatori che ci succhiavano il sangue da secoli. Gente abituata a vivere troppo sulle sue, e non solo da un punto di vista religioso. Si rifiutavano sistematicamente di integrarsi, pensavano soltanto a se stessi.»
«Non è una buona ragione per sterminarli così.»
«Sappi, cara la mia principessina, che noi Giovani turchi siamo bravi mussulmani e buoni massoni, non barbari assassini. Volevamo solo ripartire da zero, con una razza pura in un Paese moderno.»
«E non c’era un modo meno terribile di raggiungere lo scopo?»
«Non si possono fare gli spiedini senza sgozzare l’agnello, certo, ma non era nemmeno il caso di sterminare l’intero gregge. Ci siamo spinti troppo in là, ma la colpa non è del programma, è degli uomini.»
Ho annuito. Sapevo chi erano i veri colpevoli: quelli di cui avevo scritto i nomi su un foglietto che tenevo sempre con me.
Mi sarebbe piaciuto restare con lui ancora qualche anno, in modo da proseguire la mia indagine. Ma con l’andare dei mesi sentivo scemare il mio potere nei suoi confronti. I suoi occhi non si fissavano più su di me, anzi mi evitavano. Aveva lo sguardo vigliacco degli uomini che cercano piacere altrove.
Ormai mentre mi davo da fare con Salim bey lui leggeva un libro e lo chiudeva solo all’ultimo momento, quando il sacro crisma mi esplodeva in bocca o sulla faccia. Così di volta in volta operavo sotto la copertina del Corano, dell’Isola del tesoro di Stevenson o dei Miserabili di Victor Hugo. Inoltre aveva fretta e finiva sempre più velocemente.
Benché non gli interessassi più, continuava ad avere nei miei confronti un atteggiamento protettivo. Aveva notato quanto mi fossi appassionata alle sue letture, e per la festa dell’Eid al-Fitr del 1916 mi regalò I miserabili. Poi sono arrivati David Copperfield, Le avventure di Huckleberry Finn e altri romanzi del genere, che leggevo la sera prima di addormentarmi, identificandomi con tutti quegli avventurieri di fiumi grandi e piccoli. Abitavo da Salim bey ormai da quasi due anni, quando un giorno Fatima ha raccolto la mia roba – detto fatto, visti i miei scarsi averi – e mi ha condotta dove lui stava finendo di fare colazione. Con l’aria ipocritamente gioviale di chi deve dare una brutta notizia, Salim bey ha detto di volermi mandare da un amico, un grosso mercante di tè, riso, tabacco e nocciole, che la sera prima era stato ospite in casa sua e a cui ero piaciuta parecchio anche se mi aveva vista solo di sfuggita.
«Non è bello, ma è molto buono» mi ha detto.
«Nessuno sarà mai buono come te, padrone.»
«Ti ha trovata di suo gusto e mi ha chiesto se mantenevi le promesse del tuo aspetto. Ho risposto di sì.»
«Farò tutto quello che vorrai.»
«Voglio che tu gli dia piacere come ne hai dato a me. Comunque tranquillizzati, principessina. Ti mando solo in prestito, non in regalo. Tornerai da me.»
«Certo che tornerò» ho confermato io. «Ho ancora molto da fare, qui.»
8
La formica e il ravastrello marino
Mar Mediterraneo, 1917. Nâzim Enver, il mio nuovo padrone, non era certo un poeta. Cinquantenne obeso, sembrava piuttosto la prova lampante che l’uomo non discende tanto dalla scimmia quanto dal maiale. Nel suo caso non da un maiale qualsiasi, ma proprio dal verro da esposizione, con i tremuli prosciutti portati in giro in precario equilibrio sulle zampe posteriori.
Non mi metteva propriamente l’acquolina in bocca, però coltivavo il sogno di squartarlo, salarlo e mettergli la testa in galantina. Avevo calcolato, se avessi dovuto mangiarlo in ragione di duecento grammi al giorno, che mi ci sarebbe voluto molto più di un anno.
Quando sono arrivata sulla sua barca, l’Ottomano, una nave da carico ormeggiata nel porto di Trebisonda, mi hanno condotta subito nella sua cabina. Sono rimasta a lungo abbandonata lì, seduta sul letto. In mano tenevo la scatola di Teo e ai miei piedi c’era il fagotto con i vestiti e l’elenco dei miei odi. Ammazzavo il tempo pregando Gesù in paradiso di darsi una mossa, magari ammazzando un paio di Giovani turchi e facendomi ritrovare la nonna.
Un’ora dopo Nâzim Enver, tutto sudato e in fregola, è arrivato e mi ha detto di spogliarmi e stendermi sul letto. Dopo avermi allargato le gambe e schiacciata sotto le pieghe delle sue carni molli, è passato all’azione senza chiedere permesso né dire una parola, foss’anche di cortesia.
Nell’attimo in cui Nâzim Enver, poco dopo avermi penetrata, si è scaricato dentro di me, ha lanciato un urlo tale da sembrare che lo avessi appena assassinato. Anche il verro deve gridare così, quando gode.
Dopo, è rimasto sdraiato a lungo su di me, come prostrato. Ero terrorizzata di avere eseguito male il mio dovere, e anch’io sono rimasta immobile e zitta sotto il suo torso da tacchino pettoruto. Sarei morta soffocata, se alla fine non si fosse tolto per mettersi a sedere sul letto. Si è girato e ha posato lo sguardo su di me, ma senza vedermi. Sul volto aveva le stimmate di un terribile incanto.
Uscendo da sotto le lenzuola mi sono resa conto che erano tutte insanguinate, ma sapevo cosa voleva dire, mia nonna me lo aveva spiegato, e anche Fatima, perciò non sono riuscita a reprimere un certo orgoglio, nonostante il disgusto.
Nâzim Enver non mi ha lasciato il tempo di rivestirmi. Nuda com’ero, con le cosce insanguinate e tutta la mia roba in mano, mi ha portata in una piccola cabina che ha chiuso a chiave dietro di sé e in cui, dopo essermi lavata, ho trascorso quel giorno e i successivi a guardare il mare dall’oblò, rimuginando sul passato e recitando una quantità di preghiere nessuna delle quali è mai stata esaudita, come se l’Onnipotente avesse voluto punirmi per la mia condotta.
Il mio padrone veniva a prendermi tutte le sere, prima di andare a dormire, e durante il viaggio che da Trebisonda doveva portarci a Barcellona ho passato ogni notte dentro il suo letto. A parte quando mi cavalcava, per lui non esistevo e le rare occasioni in cui si rivolgeva a me erano per rimproverarmi di non sollecitare a dovere il suo desiderio: «Concentrati, devi impegnarti di più, non basta una pietra a tirare su un muro».
Di giorno, mentre ero chiusa nella mia cabina, i pasti mi venivano portati da un tizio dalla faccia bovina, anche lui di scarse parole, che le poche volte in cui si degnava di guardarmi lo faceva con un misto di indifferenza e sfinimento. Fossi stata un soprammobile, credo si sarebbe comportato allo stesso modo.
Grazie a Dio c’era Teo, quindi avevo con chi scambiare due chiacchiere. Alla mia salamandra quella traversata del Mediterraneo non è affatto piaciuta. Forse perché la nutrivo solo di mosche e ragni, di cui si cibava di malavoglia; ma sulla nave non c’era nient’altro da mangiare, per lei. Tra l’altro era scandalizzata dalla sorte che mi era stata riservata, di schiava sessuale sottomessa ai piaceri del padrone e trascinata nella polvere più abietta. Passavo le giornate a cercare di calmarla.
«Non puoi continuare ad accettare tutto questo» si scaldava Teo.
«Grazie tante, e cosa dovrei fare secondo te?»
«Ribellati.»
«Ah sì, e come?»
Teo non rispondeva, c’era ben poco da dire. Anche se fingeva di non saperlo, la morale ha sempre dei limiti, fissati dalla ragione.
Temevo che Nâzim Enver mi mettesse incinta. Nonostante le apparenze, non mi aveva portato via nulla. Né la dignità, né il rispetto di me o qualsiasi altra cosa. Ignoravo che, non avendo ancora le mestruazioni, non avrei potuto rimanere gravida. Ma alla fattoria avevo visto come figliavano le bestie. Come noi.
Non sopportavo l’idea che quel grasso verro lubrico mi facesse un figlio con le fattezze di un porco. Sapevo come ci si doveva comportare in questi casi, me lo aveva spiegato Fatima quando abitavo ancora nel piccolo harem. Se la cosa veniva presa in tempo, acqua e sapone potevano bastare. Me ne impiastricciavo l’albicocca dopo ogni penetrazione.
Mi sentivo come la ninfa di un formicaio, rapita da formiche rivali e ridotta in schiavitù. Noialtri esseri umani abbiamo un bel darci delle arie e imbellettarci tutti, alla fin fine siamo identici alle formiche che osservavo nella fattoria dei miei, ossessionate dall’idea di ampliare il loro territorio e capaci solo di farsi la guerra a vicenda.
Erano sempre pronte a debellare il formicaio vicino, la volontà di potenza era il loro unico motore. Se un milione e qualche centinaio di migliaia di armeni si sono lasciati sterminare tra il 1915 e il 1916, il motivo è semplice: erano meno numerosi e meno aggressivi dei turchi, come certe grandi formiche nere il cui nido avevo visto devastare dagli eserciti delle minuscole e organizzatissime rosse guerriere.
All’epoca del grande massacro degli armeni, come ho scoperto in seguito, i bambini minori di dodici anni venivano a volte sottratti ai genitori per essere affidati a «orfanotrofi», in realtà costituiti da gruppi di dervisci più o meno ignoranti, dove venivano allevati nella fede mussulmana.
Le formiche non si comportano in modo diverso, quando si dedicano a razziare uova, larve e ninfe che, una volta cresciute, vengono messe al servizio dei conquistatori. Nulla, a parte l’aspetto, ci differenzia da questi insetti e le formiche possono essere considerate a buon diritto le dominatrici del mondo del futuro. Schiaviste, saccheggiatrici e guerrafondaie, hanno tutte le qualità per sostituirsi alla specie umana, quando la nostra maniacale avidità ci avrà fatto sparire dalla faccia della Terra.
La scienza insegna a riconoscere in certe piante la volontà di frenare lo sviluppo delle radici, quando sono circondate da membri della loro stessa famiglia: non vogliono disturbarsi a vicenda e si spartiscono di buon grado acqua e sali minerali. Questo comportamento è stato osservato in particolare presso il ravastrello marino, che cresce sulle coste sabbiose dei Paesi freddi.
D’accordo, il ravastrello marino non sembrerà granché e non avrà contribuito allo sviluppo del pensiero né della filosofia. Ma a mio modesto avviso, se non altro sul piano dell’altruismo e della fratellanza, vale molto più di noi. Se gli armeni avessero avuto a che fare con lui, non sarebbero stati sterminati.
Durante il nostro viaggio ho imparato fino in fondo l’arte della dissimulazione. Mi fingevo perdutamente innamorata di quel gran porco di Nâzim Enver. Non appena me lo ritrovavo tra le lenzuola cominciavo a coprirlo di baci e carezze, affermando di non poter vivere senza il mio hayatim e che sarei morta se mi avesse lasciato. La vanità degli uomini è la forza di noi donne. Nâzim Enver è rimasto vittima della parte peggiore di sé.
Perciò, verso la fine della traversata, mentre risalivamo le coste italiane, ha deciso di lasciarmi uscire dalla mia cabina. Per ore, seduta sul ponte, mi perdevo a contemplare i teneri biancori all’orizzonte e andavo lontano lontano, di là dal mondo.
9
Chapacan I
Marsiglia, 1917. Non saprei dire il giorno esatto in cui la nave da carico battezzata l’Ottomano entrò nel porto di Marsiglia, ma era primavera e il traballante impero di cui battevamo bandiera era ancora ufficialmente in guerra con la Francia.
Prima di far dono della mia personcina a Nâzim Enver, Salim bey mi aveva indicato Barcellona come nostra destinazione ultima, ma sospetto che il mio nuovo padrone avesse organizzato il cambio di rotta ancor prima della partenza da Trebisonda: non sembrava affatto dispiaciuto, quando la nostra nave si è avvicinata al porto di Marsiglia.
Secondo le mie ricerche, Nâzim Enver era un uomo d’affari oculato, che alla fine degli anni Trenta divenne uno dei più ricchi della Turchia, re del tabacco e delle nocciole, a cui ben presto si aggiunsero la stampa e il petrolio. Ma su quel cambio di destinazione nel 1917 posso avanzare solo congetture.
Anche se non ho nessuna prova, qualcosa mi dice che avesse previsto la sconfitta della Germania e lo sbando dell’Impero ottomano e avesse perciò deciso di cercare nuovi mercati presso i futuri vincitori, prima ancora della fine delle ostilità. Assieme ad altri fiori all’occhiello della sua flotta in continua crescita, in poco tempo l’Ottomano divenne un assiduo frequentatore del porto di Marsiglia, dove portava regolarmente i prodotti del Mar Nero.
La prima notte dopo il nostro arrivo, Nâzim Enver non diede segno di sé. Alle cinque del mattino non avevo ancora chiuso occhio e sono salita sul ponte con Teo, che avevo tirato fuori dalla scatola, per vagare a lungo con lo sguardo sulla città, da cui venivano effluvi di sale, di pesce e di stupro.
Marsiglia esalava una sensazione di grandezza che era ben riassunta dall’iscrizione latina un tempo leggibile sulla facciata del municipio, come sono venuta a sapere poi: Marsiglia è figlia dei focesi; è stata rivale di Cartagine; ha riaperto le porte a Giulio Cesare e si è difesa vittoriosamente contro Carlo V.
Per me, era una vera città. Sediziosa e indipendente, ha sempre tenuto testa a chicchessia, compreso Luigi XIV. Secondo la leggenda, il 6 gennaio 1659 la città avrebbe inviato al re due suoi rappresentanti, Niozelles e Cuges, che contrariamente all’usanza e con gran scandalo del conte di Brienne si rifiutarono di inchinarsi davanti a lui.
Il Re Sole non dimenticò. L’anno successivo, dopo essersi impadronito della città, sulla punta calcarea da cui si domina il porto fece costruire il forte di Saint-Nicolas, con i cannoni rivolti in direzione delle case, per tenere a bada la popolazione.
Come se intuissi questi fatti, mi trovavo in uno stato di grande agitazione. Marsiglia, città aperta a tutti i venti e a tutte le persone, ti accoglie a braccia aperte. Si tratta solo di lasciarsi abbracciare. Io, già avvinta in quella stretta, non vedevo l’ora di raggiungerla.
Non ho indugiato. Sarebbe stato troppo rischioso scendere dalla passerella, i marinai mi avrebbero subito riacciuffata. Ho preferito aprire una delle centinaia di casse ammassate nella stiva e infilarmici dentro. Era piena di noci, ne ho dovute buttare via un bel po’ per fare spazio a me, al mio fagotto e a Teo con la sua scatola.
Al mattino, quando le gru hanno cominciato a scaricare, mi sono sentita sollevare e sballottare in aria, per ritrovarmi sul molo in pochi istanti. Uno scaricatore mi ha sorpresa mentre sgattaiolavo fuori dalla mia cassa, ma ha continuato per la sua strada dopo avermi rivolto un gran sorriso e un cenno amichevole del capo.
Per due settimane sono sopravvissuta saccheggiando la Joliette, il quartiere del porto, ma deperivo a vista d’occhio. Scoprivo mio malgrado che la libertà non ha mai sfamato nessuno, e cominciavo a rimpiangere le torte e i lokum di cui fino a poco prima mi ero rimpinzata sull’Ottomano, nella cabina di Nâzim Enver.
Alla fine sono emigrata dalle parti del porto vecchio, dove razziavo i bidoni dell’immondizia dietro i ristoranti subito dopo la chiusura. Nei giorni fortunati me la godevo tra astici e granchi, nonché ananas e avanzi di crostate. Senza disdegnare il culetto del pane. Non facevo certo la schizzinosa, e nemmeno Teo.
Ma in questo campo la concorrenza è sempre fortissima e una notte sono stata prelevata dalla polizia interna dei barboni di Marsiglia, che mi ha portata senza tanti complimenti in un bugigattolo di Saint-Victor, alla presenza di un ometto molto chic, con scarpe di vernice e in faccia una smorfia da sembrare arrabbiato con il mondo intero e in particolare con me.
Aveva l’aspetto di un uomo di grande successo, ma era pieno d’odio. A bucarlo, sarebbe venuto fuori solo fiele, un fiele nero, mefitico. Aveva gli occhi iniettati di sangue e una vocina sottile e spezzata, che pareva farsi strada in mezzo alla ghiaia.
Non capivo nulla di quanto diceva, ma la sua insoddisfazione era evidente. Lo ascoltavo a testa bassa e con la schiena ricurva, ero l’incarnazione della sottomissione più assoluta, come avevo imparato dai miei precedenti padroni. Il servilismo è un mestiere: il mio atteggiamento gli dava ragione in tutto. Se ce ne fosse stato bisogno sarei stata anche pronta a spupazzarlo, nonostante l’alito cattivo per cui ho sempre avuto una feroce idiosincrasia. Ma non dovevo essere il suo tipo e non me ne lamentavo certo, era tanto di guadagnato.
Si chiamava Chapacan I. Non è un complimento: nel dialetto locale significa ladro di cani. E tuttavia il suo nome veniva pronunciato con un misto di rispetto e di terrore.
A modo suo era un re, con diritto di vita e di morte sui suoi sudditi, di cui ormai facevo parte. Ma era anche un imprenditore, di quelli convinti che una buona gestione passa attraverso lo stress e la capacità di spremere il massimo dai dipendenti. La sua azienda si componeva di sei branche, specializzate rispettivamente in elemosina, spigolatura, furto, prostituzione, gioco d’azzardo e traffico di droga.
In un primo tempo, dopo un breve corso di formazione, venni adibita alla sezione «elemosina» di quell’impero, svolgendo il mio compito davanti alle chiese e agli edifici pubblici.
Chiedere l’elemosina è sfibrante. Bisogna stare sempre sul chi vive, spesso sotto un sole che spacca le pietre, per non lasciarsi sfuggire l’occasione di uno sguardo lanciato per sbaglio a incrociare il nostro o di un passo rallentato quel tanto da lasciarsi abbracciare con atteggiamento supplice, mentre ripetiamo la prima frase che ho imparato in francese: «Siouplaît, j’ai faim». Peffavore, ho fame.
Ero quasi sempre a pezzi quando andavo a portare l’incasso del giorno agli scagnozzi di Chapacan I, il quale, con gesti molto espressivi, mi aveva minacciato di atroci punizioni se mi fossi azzardata a sottrargliene anche solo una parte: dalla resezione di un dito all’asportazione di uno o entrambi gli occhi, e, in caso di recidiva, poteva finire con l’amputazione di un braccio, poi dell’altro, fino al taglio della gola in qualche segreta.
A giudicare dal suo sorriso cordiale, Chapacan I non sembrava scontento dei miei risultati quando, diversi mesi dopo il mio reclutamento, mi convocò per quello che in gergo aziendale moderno si chiamerebbe un colloquio valutativo.
Ero nutrita e alloggiata, se così si può dire, nella soffitta di un edificio pericolante che condividevo con due anziane signore, sempre pronte a rasentare i muri anche quando non c’era nessuna parete. A forza di portare tutte le disgrazie del mondo sulle loro spallucce ricurve, prima o poi sarebbero finite a camminare con il naso, era scritto.
Le ho prese a lungo per principesse in esilio, tanto per dare un’idea della loro classe, fino al giorno in cui sono venuta a sapere che erano state abbandonate più o meno nella stessa epoca dai rispettivi mariti, un calderaio e un pescivendolo che intorno alla cinquantina avevano deciso di rinnovare la loro cavalcatura notturna.
Di sera mi insegnavano il francese, e cominciavo a cavarmela niente male. Più facevo progressi, meno mi sentivo a mio agio in quella vita dove bisognava fingere, lamentarsi e piagnucolare dalla mattina alla sera per due soldi bucati. Chapacan I l’aveva capito. Ecco perché mi propose di destinarmi al settore «spigolatura» della sua organizzazione. Promozione che accolsi senza la minima esitazione.
Chapacan I era sempre piuttosto autoritario con i dipendenti, e lì per lì mi cambiò anche nome: «Ruzanna non mi piace».
«A me sì. Era il nome di mia nonna.»
«Suona male. Da oggi ti chiamerai Rose.»
10
L’arte della spigolatura
Marsiglia, 1917. Spigolatori non ci si improvvisa. Ci vuole tecnica, un equipaggiamento apposito e un buon apprendistato, che nel mio caso mi venne fornito da uno dei luogotenenti di Chapacan I. Aveva il corpo smilzo e una testa pingue, anzi mi verrebbe da dire panciuta, tanto da meritarsi il soprannome di «Pallone gonfiato», epiteto che gli si addiceva alla perfezione. Quel vanesio metteva una gran solennità in qualsiasi cosa facesse, compresi i suoi bisogni.
Per tre giorni Pallone gonfiato mi iniziò al nuovo mestiere, da esercitarsi con un punteruolo per frugare nei bidoni dell’immondizia, un uncino per recuperare il bottino senza sporcarsi le mani di liquami o feci, un passeggino dove depositare il malloppo e un coltello per difenderlo contro i malintenzionati, alla bisogna. Mi insegnò anche le poche regole da seguire per diventare un vero asso della spigolatura:
• Discrezione. Alla gente non piace veder frugare tra i propri rifiuti, basti osservare i loro sguardi cupi nei confronti delle manovre degli spigolatori.
• Rapidità. Se in una pattumiera c’è un tesoro, questo va estratto il prima possibile per poi andarsene subito con aria indifferente, come se niente fosse, altrimenti si rischia di dover rendere conto a qualcuno.
• Discernimento. È importante saper scegliere il bottino, anziché cadere in quello che definirei un raccolto compulsivo. I cattivi spigolatori riempiono sconsideratamente il passeggino con detriti inutili, sprecando tempo ed energia.
Recuperavo il ferro, certo, ma anche giocattoli, vestiti e calzature. Un giorno ho trovato dei gattini in un cartone; un’altra volta una vecchia gallina che sembrava una piaga vivente, forse l’avevano considerata troppo orrenda per meritare di essere uccisa. Le persone buttano qualsiasi cosa, a cominciare dai loro problemi. Se avessi continuato a esercitare il mestiere, prima o poi avrei pescato di certo, in fondo a qualche cassone, un vecchietto incapace di muoversi ricoperto di interiora di coniglio e bucce di patata.
Devo molto alla spigolatura, ci ho ricavato la mia filosofia di vita. Il fatalismo. L’attitudine a piluccare alla giornata. La fissazione di riciclare sempre tutto, i piatti, i rifiuti, le gioie, i dolori.
È stato grazie alla spigolatura se ho incontrato i Bartavelle, la coppia che mi ha cambiato la vita. Barnabé era un gigante rozzo e paonazzo, con un pancione apparentemente sempre sul punto di esplodere, motivo per cui, credo, ci posava spessissimo le mani con una sorta di inquietudine. Si mangiava le parole e si esprimeva con le viscere.
Sua moglie Honorade sembrava nata dalle nozze di un calcolo biliare e una fiala di aceto. Non sorrideva mai: tutto le dava fastidio, il sole, la pioggia, il freddo, il caldo; trovava sempre qualche buon motivo per lagnarsi.
I Bartavelle gestivano un ristorante nel quartiere Panier: Le Galavard, che in provenzale significa il ghiottone. Prima di lavorare da loro non credo di avere mai trovato niente di riciclabile nella loro pattumiera, nonostante vi frugassi coscienziosamente tutti i giorni: quelli lì non sprecavano una briciola, il pesce di ieri te lo ritrovavi nel ripieno di dopodomani per poi andare a finire nella zuppa di scoglio dei giorni successivi.
Una volta un loro dipendente non si era presentato e Barnabé Bartavelle, la cui cucina si affacciava sulla strada, mentre passavo con il passeggino mi urlò dalla finestra che aveva da darmi un impiego: «Vieni a lavorare, invece di fare la barbona».
Come ho avuto modo di appurare in seguito, il mio predecessore si era dato alla fuga dopo aver ricevuto una di quelle ripassate memorabili che Barnabé Bartavelle, tiranno della cucina, infliggeva regolarmente e con mano pesante a tutto il personale. In qualità di addetta al lavaggio piatti, mondatura e pulizia in generale, ho ricevuto anch’io la mia parte di botte, e per di più senza salario, giacché la casa mi pagava il lavoro in natura, sotto forma degli avanzi di giornata conservati in una ciotola.
Raramente ho incontrato due spilorci come quelli, in vita mia. I Bartavelle contavano qualunque cosa e controllavano di continuo se il livello delle bottiglie o delle scorte di farina fosse sceso in loro assenza. Non si fidavano di nessuno, nemmeno di loro stessi, credo.
Ma non mi voglio lamentare. Sia lode a Barnabé Bartavelle, per avermi fatto scoprire la mia vocazione e iniziato al mio futuro mestiere. Di Teo, diceva sempre che prima o poi ci avrebbe pensato lui: «Niente animali, qui».
Mi trattava male e mi prendeva a calci nel sedere se battevo la fiacca, mi affibbiava nomignoli fastidiosi in marsigliese come «Estrasse» e «Bédoule», cioè straccetto e puttanella, ma qualcosa mi diceva che mi aveva preso in simpatia. Di tanto in tanto, quando era oberato di lavoro, mi autorizzava a mettermi ai fornelli. Prima dell’apertura mi insegnava perfino a preparare quella che in seguito sarebbe diventata una mia grande specialità, le melanzane alla provenzale, che ho paura vengano soppiantate da quelle della mia concorrente siciliana, l’altra Rose di Marsiglia.
Mi lasciava dormire in una rimessa dietro il ristorante, una specie di sgabuzzino per le scope a cui si accedeva dal cortile. Honorade Bartavelle non era d’accordo: secondo lei il marito si mostrava troppo tenero nel farmi «mettere radici», e mi faceva pagare ogni minima traccia di umanità che lui mi avesse manifestato, o riducendo la mia razione quotidiana o riempiendomi di sberle con la scusa che le stavo tra i piedi.
Io ero preoccupatissima di non farmi ritrovare dagli sbirri di Chapacan I, perciò mi ero tagliata i capelli e andavo solo dalla rimessa in cucina e viceversa. Mi hanno scoperta lo stesso. Un giorno Honorade Bartavelle è entrata in cucina, cosa che non faceva mai durante l’apertura per non innervosire il marito, e mi si è piantata davanti con l’unico sorriso che le abbia visto balenare sul volto durante tutto il periodo in cui sono stata da loro: «Puttanella, ti vogliono».
Immaginavo già chi fosse, ma ho voluto controllare dando un’occhiata veloce in sala. Sulla soglia c’era il Pallone gonfiato, assieme a uno spilungone con i capelli corti e la faccia da picchiatore. Ho seguito l’istinto: sono saltata dalla finestra e ho corso per due ore senza sapere dove, finché non è scesa la sera. Avevo con me soltanto la scatola di Teo e, nell’altra mano, l’elenco dei boia di Trebisonda.
11
Felicità a Sainte-Tulle
Alta Provenza, 1918. Un venticello tiepido sfiorava i campi, correva tra i cespugli e danzava sulle chiome degli alberi. Sembrava a suo agio dappertutto. Dopo essermi entrato dentro ben bene mi portò lontano, fino alle voci dei miei, nel profondo di me.
In quel vento c’era il canto della gioia su questa Terra, l’infinito mormorio di interminabili accoppiamenti e un misto di grani e particelle in cui si sentivano con molta chiarezza le salmodie dell’altro mondo.
Dopo aver mangiato qualche mela bacata ai margini di un uliveto, mi sono addormentata sull’erba secca di un fosso con la testa piena di voci familiari. L’estate era agli sgoccioli, la natura non ne poteva più. Corrosa e dissanguata per settimane dagli artigli del sole, si ritrovava nelle condizioni che spesso precedono una morte dopo lunga agonia, quando il moribondo abbassa ogni difesa e si lascia andare a un dolce torpore.
Ma era solo per recuperare le forze in vista dei fortissimi temporali di settembre, pronti a caracollare giù dall’orizzonte e a devastare tutto al loro passaggio, forieri però della ritrovata gioia di una terra gravida di quella specie di resurrezione generale che dura fino a Ognissanti. Nell’attesa, alberi, piante ed erbe soffrivano esangui in ogni loro fibra: il crepitio mi macerava le orecchie, come tanti gridolini ripetuti.
Al mio risveglio il vento era calato, e dopo essermi servita di altre mele mi sono rimessa in marcia. Poco dopo mezzogiorno mi trovavo all’altezza di Aix, quando sono stata interpellata da un vecchio con un cappello di paglia, alla guida di un carretto trainato da un gran cavallo bianco: «Vuole salire, signorina?».
A undici anni gli uomini non mi facevano paura e ho accettato l’invito del vecchio senza pensare, mentre lui mi tendeva la mano e mi aiutava a salire sul carretto. Ha chiesto dove andavo e io ho risposto: «Avanti».
«Da dove vieni?»
«Marsiglia.»
«Però hai un accento straniero. Di dove sei?»
«Dell’Armenia, un Paese scomparso con tutto il suo popolo.»
«Se non sai dove andare, puoi venire a dormire da noi.»
Mi ha rivolto un sorriso rurale, di quei sorrisi sofferti ma a occhi stretti e con un’aria ridanciana. Aveva la faccia scura come un tralcio di vite, ricordava un ramo senza più slancio vitale, che si secca da solo sull’albero.
Non ho risposto. L’invito mi era parso affrettato, ma qualcosa nell’espressione del vecchio mi diceva che veniva dal cuore, senza secondi fini.
Lui si chiamava Scipion Lempereur. Era un contadino di Sainte-Tulle, vicino Manosque. Allevava pecore e coltivava meloni e zucchine. Fino a quel momento gli era andato tutto bene: matrimonio, figli, lavoro, raccolti. Tutto, fino a quel terribile 1918.
«La felicità rende ciechi» mi ha detto, «ciechi e sordi. Non ho visto nessun segnale di quello che stava per succedere. La vita è un’immensa schifezza, non ci si deve mai fidare. Prima ti colma di doni, poi un bel giorno, senza preavviso, si riprende tutto, tutto.»
Scipion Lempereur aveva appena perso tre figli in guerra. Il quarto lottava tra la vita e la morte all’ospedale militare di Amiens, con una scheggia di granata in testa. Le sue probabilità di sopravvivenza erano poche, ma Dio, diceva Scipion, non poteva certo togliergli tutti i figli contemporaneamente, sarebbe stato troppo inumano.
«Sarà pure Dio, ma non ha il diritto di farmi una roba del genere» ha osservato. «Ho sempre cercato di comportarmi bene. Non capisco di cosa voglia punirmi.»
È esploso in una risata isterica, poi è scoppiato a piangere e io con lui. Non mi succedeva da tempo e mi ha fatto bene: spesso il dolore viene via con le lacrime, o se non altro ci sembra meno pesante, dopo. Non avevo mai incontrato qualcuno che la scomparsa dei suoi avesse reso un cadavere ambulante. Non riusciva a riprendersi.
Io invece sì. Ce l’avevo con me stessa per non essere morta di tristezza come lui e chiedevo perdono alla mia famiglia per esserle sopravvissuta con tanta facilità.
«Perché?» domandava Scipion Lempereur con lo sguardo rivolto al cielo.
«Perché?» gli facevo eco io.
A quel punto gli ho raccontato la mia vita. Ho sorvolato su Salim bey e Nâzim Enver e mi sono dilungata sulle mie avventure marsigliesi, tenendolo con il fiato sospeso. Alla fine del mio racconto, mi ha proposto di nuovo di restare almeno qualche giorno con lui e la moglie, nel loro casale di Sainte-Tulle.
«Non ci disturberai» ha insistito. «Fallo per noi, sarà una gioia, te lo assicuro: ci aiuterà a non pensare.»
Questa volta ho accettato. E mi sono ritrovata a tarda sera nel casale dei Lempereur, in cima a una ripida collina da cui si dominava un misero fiumiciattolo, un rivolo insignificante e limaccioso che aspettava soltanto la pioggia per riacquistare una qualche parvenza di fiume. Tutto intorno, un unico immenso tappeto di lana, vivo e brulicante, pascolava sull’erba dorata.
Sua moglie Emma era dotata di un mento cavallino con relativa dentatura e due spalle da facchino rotto al lavoro dei campi. Ma ciò non ne offuscava affatto il volto altero e solcato di rughe, che ricordava le gole di montagna scavate dal passaggio travolgente delle piene torrenziali nella brutta stagione.
Non era mai andata più lontano di Manosque, ma aveva molto vissuto, grazie ai libri. È stata lei a farmi scoprire, tra gli altri, il poeta John Keats, che ha scritto: «Una cosa bella è una gioia per sempre».
Parlando della signora Lempereur, alla parola gioia bisognava aggiungere intelligenza e cultura. Da questi tre punti di vista, la sua era una bellezza come se ne incontrano poche nella vita.
Mi ha adottata al primo sguardo, dopodiché mi ha abbracciata come se fossi sua figlia. Un giorno lo sarei diventata sul serio: dopo anni di incartamenti, alla fine ho ottenuto di portare il suo cognome. Poiché tre dei loro figli erano già morti durante la Grande guerra, dopo la morte del quarto i Lempereur mi resero loro unica erede, con testamento deposto dal notaio.
Emma adottò anche Teo, che a Sainte-Tulle conobbe i più begli anni della sua esistenza. La mia salamandra era felice e smise di tormentarmi con i soliti rimproveri.
Ero felice anch’io, se questa parola ha un senso. Scipion ed Emma Lempereur mi hanno dato tutto. Una famiglia, dei valori e tantissimo amore. Mia madre adottiva inoltre mi ha insegnato l’arte della cucina: è stata lei, per esempio, a trasmettermi la ricetta del crème caramel a cui devo gran parte della mia fama.
Un’altra ricetta ha contribuito almeno altrettanto alla mia notorietà. Si tratta della parmigiana di comare Jo, una bella castellana del circondario che veniva spesso dai Lempereur portando piatti cucinati da lei, finché un giorno, per nostra disgrazia, si è trasferita in America a rifarsi una vita con uno spedizioniere marittimo.
In bassa stagione, quando il lavoro nei campi scarseggiava, Emma Lempereur organizzava sempre grandi pranzi di campagna con un centinaio di invitati: faceva venire amici e vicini, a volte anche da molto lontano. Un giorno le ho chiesto come mai si desse tanta pena e lei mi ha risposto: «La generosità è un regalo fatto a noi stessi. Non c’è niente di meglio, per sentirsi bene».
Mi ha lasciato un mucchio di frasi del genere, rimaste impresse per sempre nella mia memoria. Dopo Salim bey, è stata Emma Lempereur a farmi scoprire tantissimi libri, in particolare l’opera di George Sand e i romanzi d’amore di Colette, come Chéri o Il grano in erba, anche se oggi devo ammettere che se provo a rileggerli mi scivolano dalle mani senza nemmeno pestarmi i piedi, tanto sono leggeri…
Mi vergogno, a dire così. È come se tradissi il ricordo di Emma Lempereur, che a dispetto del suo grande amore per il marito auspicava sempre di vedere prima o poi «gli uomini smetterla di pulirsi i piedi sul culo delle donne». Ecco perché amava Colette e chiunque andasse fiera della sua femminilità.
Era una femminista, le piaceva uscirsene con frasi ironiche di questo tenore: «È un segreto ancora molto ben tenuto, ma un uomo su due è donna. Perciò tutte le donne sono uomini, benché grazie a Dio non tutti gli uomini siano donne».
Dai Lempereur, tra gli undici e i diciassette anni ho vissuto di nuovo delle stagioni tenere e gioiose, di quelle in cui ogni giorno scaccia via l’altro senza che nulla cambi davvero e dove ogni cosa ritrova immancabilmente il suo posto, le rondini in cielo, le pecore nell’ovile, lo spolverio scintillante dell’orizzonte, mentre un misto di allegria ed ebbrezza ci invadono a ogni respiro.
Forse starò diventando scimunita, mi direte, ma la felicità è sempre un po’ scimunita. E d’altra parte, siccome ero già stata felice nella fattoria dei miei, stavolta non mi fidavo: tanta esaltazione mi spaventava. Non poteva durare, lo sapevo per esperienza.
Proprio quando le cose sembrano andar bene, arriva la Storia a scompigliare tutto.
12
Il condannato
Alta Provenza, 1920. Nell’anno in cui ho compiuto tredici anni e mi sono venute le prime mestruazioni, il mondo ha cominciato a impazzire. Forse in cielo o altrove c’erano stati segni premonitori in tal senso, ma devo ammettere di non averli notati.
Non guardavo mai oltre il domani. Ero troppo occupata a preparare marmellate, immagazzinare il fieno, finire i compiti, giocare con i cani, stendere la pasta, potare le rose, accarezzare il gatto, affinare i formaggi, pregare il Signore, cucinare, dar da mangiare alle galline, raccogliere i pomodori, tosare le pecore e fantasticare sui ragazzi.
Avevo ripreso l’abitudine di leggere la sera, prima di addormentarmi con il gatto accanto, proprio come da Salim bey, e il libro da cui sono rimasta più colpita è stato i Pensieri di Pascal, che secondo Emma Lempereur era il più vicino alla verità tra quelli del suo genere, perché portava alle estreme conseguenze ogni contraddizione: Dio, la scienza, il dubbio e il nulla.
L’affetto delle persone, degli alberi, degli animali e dei libri mi ha impedito di guardare oltre il mio naso. La Storia ha deragliato in pochi mesi, ma io ci ho impiegato molto più tempo a rendermene conto e capire che era colpa di una serie personaggi, non ultimo Georges Clemenceau, erba cattiva ma non privo di genio, un grande uomo, re di frasi a effetto come questa, di cui ho fatto il mio motto: «Quando si è giovani, lo si è per la vita».
A quei tempi Clemenceau era presidente del Consiglio. A Sainte-Tulle, e del resto nella Francia intera, lo si venerava al pari di un eroe. Lo stroncatore e divoratore dei crucchi. Il Padre della vittoria. La Tigre con un coraggio da leone. Aveva vinto la guerra, ma doveva perdere la pace.
«Non umiliare l’asino dopo che l’hai domato» diceva mia nonna. «Piuttosto ammazzalo.»
Il trattato di Versailles, imposto alla Germania da Clemenceau e dagli altri vincitori della Grande guerra, entrò in vigore il 10 gennaio di quell’anno: è vero, instaurava una Repubblica armena, ma per il resto era di un’indicibile stupidità, umiliava il Reich, lo smembrava e lo dissanguava dal punto di vista economico, coltivando così i germogli dei conflitti a venire.
Un mese dopo la sua promulgazione, Adolf Hitler, un personaggio dall’alito cattivo e dal baffetto quadrato, prendeva il controllo del partito dei lavoratori. Lo ribattezzò partito nazionalsocialista dei lavoratori tedeschi, lo dotò di un marchio a croce uncinata e di un programma per la nazionalizzazione dei trust, la confisca degli utili della grande industria e l’abolizione dei redditi non da lavoro. Allo stesso tempo, un esercito popolare di decine di migliaia di militanti comunisti occupava la Ruhr, mentre governi operai sostenuti da reparti armati proletari assumevano il controllo della Turingia.
Era l’apocalisse sullo sfondo della miseria sociale, come in Russia, dove bolscevichi e bianchi monarchici si ammazzavano l’un l’altro davanti al sorgere dell’astro nascente di Stalin, destinato a diventare nel 1922 il segretario generale del partito comunista.
Dio sa cosa c’entravo io. Alla felicità non piacciono le cattive notizie, che non sembravano voler arrivare da noi in Alta Provenza, scoraggiate forse dagli odori della nostra cucina. Non credo di aver sentito parlare di Hitler se non molto tempo dopo, durante gli anni Trenta.
L’Armenia avrebbe dovuto insegnarmelo, eppure non avevo ancora imparato l’assoluta impossibilità di sfuggire alla Storia, una volta messa in moto la sua macina. Per quanto ci diamo da fare, finiamo sempre come le formiche che cercano di svignarsela davanti alla marea montante delle acque nei giorni di temporale: prima o poi, nessuna sfugge al destino.
Ero come loro, come tutti in verità. Non volevo sapere, e non ho saputo prevedere. Ancora oggi, con un piede già nella fossa, mi rifiuto di sentire la morte che bussa alla porta per prendermi con sé. Ho troppo da fare in cucina, davanti ai miei fornelli, per trovare il tempo di aprirle.
*
Sempre nel 1920 abbiamo ricevuto la visita di un ex soldato che aveva fatto la guerra nella stessa unità di Jules, il terzo figlio dei Lempereur. Un pezzo d’uomo pallido e con lo sguardo stravolto, con un cappotto di velluto infangato che gli ballava addosso. Sembrava sempre in procinto di scusarsi per qualcosa, come se avesse paura di disturbare anche solo parlando, respirando, vivendo.
Non era propriamente brutto, ma suscitava uno strano disgusto. Due grossi porri pelosi gli sbucavano fuori dal bavero per arrampicarglisi sulla guancia destra. Aveva gli angoli delle labbra e la punta della lingua sempre ricoperti di una bavetta bianca. Per non parlare delle mani, grosse come palanche, nodose e violacee in alcuni punti, che non sapeva mai dove sbattere.
Si chiamava Raymond Bruniol. Faceva il vaccaro, su al Nord aveva perso il lavoro ma aveva ritrovato un posto in una fattoria del circondario e avrebbe cominciato due mesi dopo. Nell’attesa, aveva deciso di visitare la regione. È rimasto per diversi giorni a Sainte-Tulle. Era un bravo ragazzo, con il cuore in mano, sempre pronto a collaborare. Aveva qualcosa da dire ai Lempereur, l’ho capito subito, ma non si decideva a farlo.
Un’ora dopo il suo arrivo, mentre ci mettevamo a tavola, ha tirato fuori di tasca l’orologio di Jules e l’ha posato sul tavolo della cucina. Emma si è messa a piangere, Scipion ha detto: «Credevamo fosse stato rubato».
«Lo ha dato a me perché ve lo riportassi. Non si fidava dell’esercito.»
«Non posso dargli torto» ha detto Scipion.
Emma gli ha scoccato un’occhiataccia e il soldato ha aperto bocca per riprendere la parola, ma poi l’ha richiusa all’improvviso. Gli tremava la gola.
«È stato coraggioso fino all’ultimo?» ha domandato Scipion quasi con disinteresse, come se conoscesse già la risposta.
«Fino all’ultimo.»
Quando Emma gli ha chiesto quali erano state le sue ultime parole, c’è stato un lungo silenzio. Gli avevamo versato del vino e lui ne ha bevuta una gran sorsata per farsi coraggio, dopodiché ha detto: «Mamma».
Ci guardavamo tutti sconcertati, mentre Emma piangeva ormai senza ritegno.
«Vedete» ha commentato il soldato, «lo dicono quasi tutti i soldati, al momento di morire. Sono ragazzi mandati al macello, non va dimenticato. Poco più che bambini.»
Sembrava volesse ridimensionare la cosa per consolare mia madre adottiva, e ha aggiunto: «Ha detto anche qualcos’altro, ma farfugliava e non l’ho capito».
Il giorno prima della sua partenza, mi ha accompagnato a prendere alcune cassette di mele. Erano mele rosse e cicciottelle, come sederi di ragazzine sculacciate.
Sulla via del ritorno, a metà strada dal casale mi sono voltata verso di lui e gli ho chiesto: «Cos’è che non ci ha detto?».
Ha abbassato gli occhi, poi li ha risollevati con una faccia sgomenta: «È complicato».
«Me lo dica lo stesso» ho insistito.
C’è stato un silenzio, durante il quale lui ha guardato la collinetta come per trovare l’ispirazione, poi, con voce strozzata si è deciso: «Jules è stato deferito al tribunale militare e condannato alla fucilazione, ecco».
«Che cosa aveva fatto?»
«Niente.»
«Impossibile.»
«No, la guerra è così. Uno non fa niente e si ritrova davanti al plotone d’esecuzione.»
«Ma perché l’hanno condannato?»
«Per la sua indolenza. L’anno prima aveva alzato un po’ troppo la voce durante un inizio di rivolta, ma, insomma, i superiori lo avevano perdonato. Alla fine invece si sono scocciati di vedergli battere la fiacca. Con il generale Pétain, quella piattola delle retrovie, quell’aborto della Grande guerra, c’era poco da scherzare, sa? Per spaventare le truppe usava un maggiore leccapiedi, un certo Morlinier, che presiedeva il tribunale militare. Se gli capitavi davanti, eri sicuro di finire al plotone d’esecuzione. È esattamente quello che è successo al povero Jules.»
«Quindi la sua ultima parola non è stata “mamma”?»
«E che ne so? Non ero mica lì, quando è morto. Ho improvvisato. D’altra parte era quello che dicevano tutti, al fronte, quando esalavano l’ultimo respiro.»
Dopo cena, ho scritto il nome di Morlinier sul foglietto che tenevo con me da quando ero a Trebisonda e che chiamavo l’elenco dei miei odi.
Lo conservavo nella mia copia dei Pensieri di Pascal.
Spesso lo rileggevo e ogni volta provavo lo stesso fremito interiore davanti al nome del diabolico monco da cui mio padre era stato ucciso.
Al pari di Raymond Bruniol, non ho mai avuto cuore di dire ai genitori di Jules che il loro figlio aveva fatto parte dei seicento condannati a morte passati per le armi nel nome della Francia, per la vittoria, per caso, senza ragione apparente.
13
Cucina d’amore
Marsiglia, 2012. Dopo svariati decenni, Emma Lempereur è ancora viva e vegeta dentro di me. Al ristorante ho spesso occasione di pensare a lei. A volte, in mezzo agli sfrigolii delle fritture, mi sembra di sentirla ripetere i precetti gastronomici che mi impartiva di continuo, perché mi restassero impressi, mentre eravamo ai fornelli a preparare i suoi pranzi luculliani: «Non salare troppo le pietanze. E non zuccherare troppo i dolci. Vacci sempre piano con l’olio, il burro e le salse. La cucina è innanzitutto il prodotto, ancora il prodotto, e di nuovo il prodotto».
È stato per merito suo e di mia nonna se sono diventata cuoca, una cuoca famosa, anche senza assurgere mai agli onori delle guide Michelin. A Emma devo talmente tanto che rievocandola quasi mi sento soffocare per quanto mi manca, mentre scrivo queste righe sul piccolo leggio dove di solito preparo il conto ai clienti, davanti al mio troneggiante registratore di cassa. Ma non ce la faccio a rimanere triste troppo a lungo: quasi subito, con Mamadou e Leila che finiscono di sistemare la sala illuminata dalle gocce di sole del mattino, ecco rinascermi i calori. Mi sento ricca, ricchissima: tutto è ricoperto d’oro, dai bicchieri alle posate.
Non resisto, non riesco a non spiare Mamadou e Leila mentre apparecchiano. Di lui mi piacciono soprattutto le gambe e le braccia, tanto simili a quelle di sua madre. Di lei mi affascina il sedere, il più bello di Marsiglia, come un pomodoro succoso sotto la pelle tesa. A più di cent’anni, direte voi, certe cose non mi si addicono più, ma chi se ne importa, se a guardarli fremo interiormente: sono due provocazioni all’amore.
Di amore ne trovo ancora, sui siti di incontri delle mie frequentazioni notturne. Roba virtuale, d’accordo, ma mi fa comunque bene. A volte, dopo avere acchiappato qualcuno, mi degno di svelarmi: dovreste vedere la faccia terrorizzata degli uomini, quando accetto di incontrarli dopo averli lasciati a soffriggere per un bel po’.
L’ultimo è stato un settantenne grasso e alcolizzato, divorziato con sette figli, un agente assicurativo incontrato su un sito di appassionati dell’olio d’oliva. In rete andavamo molto d’accordo. Avevamo gli stessi gusti in fatto di cibo. Ci davamo del tu.
Sono rimasta delusa: mi aveva mentito sull’età. Sì, va bene, anch’io. Quando si è seduto davanti a me nel bar dove ci eravamo dati appuntamento, si è passato la mano davanti alla faccia come per scacciare una mosca, ha aggrottato le sopracciglia e ha ricominciato a darmi del lei: «È lei?».
«Ebbene sì.»
«Non somiglia alla foto.»
«Neanche lei.»
«Quanti anni ha, di preciso?»
«Ho l’età che ho e la tengo per me.»
«Mi scusi, ma dal vivo è molto più vecchia.»
Sono esplosa: «Senta, stronzetto. Se la faccia che ho non le va giù, la informo, nel caso non lo sappia già, che la natura non l’ha propriamente colmata di doni! No, dico, ma si è visto, schifo di una porcata di merda?!».
Più frequento gli uomini, più apprezzo le donne. Ma anche da loro mi è capitato di prendere dei bei pacchi, come dall’assicuratore obeso. Lo so, sarebbe meglio lasciar perdere l’amore prima che sia lui a lasciar perdere noi. Ma non riesco a farmene una ragione. Ecco perché non la smetto di imperversare su internet, sotto lo pseudonimo di «ruz-ladradicuori».
Una marea di internauti viene tutti i giorni a visitare la mia pagina, dove dico la mia sulle ultime dei personaggi famosi o sulle mie turbe di donna sola con frasi idiote infarcite di espressioni da gattina in calore. Sto bene attenta a usare solo parole ed espressioni di nuova generazione, come «assolutamente» e «fico». Sono una al passo coi tempi, io.
*
Alla Petite Provence, il mio ristorante di quai des Belges, proprio in fondo al vecchio porto di Marsiglia, non ci sono foto di Emma Lempereur né di quanti, in tempi più recenti, hanno condiviso il talamo di «ruz-ladradicuori». Eppure in questo locale è concentrata tutta la mia vita. Mi basta annusare le pietanze per vedermela sfilare davanti, o leggere il menu, dove tra gli altri piatti figurano il plaki di mia nonna, le melanzane alla provenzale di Barnabé Bartavelle e il crème caramel di Emma Lempereur. In sostanza, alla mia mamma adottiva devo gran parte delle ricette, che lei arricchiva – come me, del resto – di piante officinali.
Si ispirava a un antico libro del Seicento che consultava spesso, il Petit Albert, nel quale si vogliono svelati tutti i meravigliosi segreti della magia naturale e cabalistica. Ne conservo anch’io una copia al ristorante e ne seguo i consigli strampalati su richiesta dei clienti. Soprattutto per quanto riguarda le faccende amorose.
Il libro era talmente versato sul tema da ispirare la pubblicazione di un Albert moderne, in polemica contro il vecchio, accusato dagli autori del primo di avere contenuti un po’ troppo liberi e poco confacenti a quella decenza che si deve mantenere in ogni opera destinata al pubblico. Gli stessi autori si prendevano poi gioco della manifesta predilezione del loro predecessore nei confronti dell’astrologia e delle sue formule astruse per spalancare le porte dell’amore.
Il vecchio Albert raccomandava, per sedurre la persona amata, di farle mangiare estratto di ippomane, una membrana carnosa lunga dieci o quindici centimetri che si trova nel liquido amniotico delle giumente e non, come voleva Aristotele, sulla fronte dei puledri appena nati, senza trascurare i cuori di rondine e altri passeracei, i testicoli di lepre e i fegatelli di colombo. Per parte mia, mi accontento di piante officinali come l’Inula helenium, o enula campana, che cresce nei fossi e può raggiungere i due metri d’altezza. In polvere o sotto forma di decotto è molto efficace contro anemia, inappetenza, problemi di digestione, diarrea e disamore cronico.
La aggiungo alle mie ricette su richiesta, così come rucola, maggiorana, verbena, radici di finocchio selvatico e foglie di pioppo. Ogni volta, sento di far rivivere Emma Lempereur.
«Siamo ciò che mangiamo» diceva. «Per questo bisogna cibarsi d’amore, praticare una cucina d’amore.»
Consultava regolarmente anche un altro libro, Les plantes médicinales et usuelles di un certo Rodin, pubblicato dalle edizioni Rothschild e di cui ho trovato un esemplare datato 1876, in cui vengono decantate le virtù emollienti di altea e verbena, oltre agli effetti stimolanti di rosmarino e menta selvatica. Sia resa giustizia a quest’opera, tra l’altro, per la sua riabilitazione dell’ortica, tanto benefica per i bovini, i tacchini e gli esseri umani. Ne servo spesso un’eccellente zuppa.
È uno dei piatti preferiti di Jacky Valtamore, un vecchio ras di mia conoscenza nonché assiduo cliente del ristorante, assieme al pubblico ministero e al presidente del Consiglio regionale. È un bell’uomo dallo sguardo blu Mediterraneo, conoscitore e ottimo esecutore di moltissime arie d’opera italiane. Un romantico come piacciono a me. L’amante ideale, sopravvissuto contro ogni aspettativa a un attentato dove lo si era dato per spacciato. Peccato sia troppo vecchio per i miei gusti. Sopra i sessanta gli uomini e le donne non mi attraggono più, e lui è entrato già da un po’ nella cerchia degli ottuagenari.
Mi piace quando mi guarda con la sua aria protettiva. È la mia assicurazione sulla vita. Mi fa sentire forte. L’altra sera, due schifosetti col gel sui capelli sono venuti a cercarmi in cucina. Mi hanno proposto di versare nelle loro tasche una cifra mensile in cambio di una cosiddetta «assistenza infortuni».
«Mi state chiedendo il pizzo!» ho protestato.
«No, è un servizio che forniamo…»
«Parlatene con il mio procuratore. È lui a occuparsi di tutto.»
Ho fatto in modo che prendessero un appuntamento con Jacky Valtamore. Non ho più sentito parlare di loro. Alla sua sola vista, si sono completamente smontati.
Una volta Jacky mi ha detto di aver sbagliato tutto nella vita, allora gli ho chiesto quale tipo di uomo gli sarebbe piaciuto diventare.
Ha risposto senza esitazioni: «Una donna».
Data da un macho come lui, questa risposta sarebbe molto piaciuta a Emma Lempereur. Quando ero ragazza ho attraversato una fase in cui leggevo solo romanzi con protagoniste donne: Una vita di Maupassant, Madame Bovary di Flaubert, Nena di Ernest Pérochon o Maria Chapdelaine di Louis Hémon. Le eroine di questi libri erano tutte vittime degli uomini e della società da loro edificata a proprio uso e consumo. Un giorno ho confidato a mia madre adottiva quanto avrei preferito essere un uomo e lei me lo ha sconsigliato con orrore: «Non pensarci nemmeno, figlia mia! Vedrai, te lo insegnerà la vita: le donne discenderanno pure dalle scimmie, ma è la scimmia a discendere dall’uomo».
È scoppiata a ridere, poi ha aggiunto: «Bada, non parlo di Scipion. Lui è mio marito, mica un uomo come tutti gli altri».
14
La regina dei ruffiani
Alta Provenza, 1924. Una volta in cui era venuta a raccogliere albicocche assieme a me, Emma Lempereur è caduta dalla scala. Era l’anno della maturità e del mio diciassettesimo compleanno.
È stato anche l’anno in cui, a seguito della morte di Lenin, Stalin intraprese la scalata al potere assoluto. E ancora, l’anno in cui Hitler cominciò a scrivere Mein Kampf nella prigione di Landsberg, dove era stato incarcerato a seguito di un colpo di Stato fallito contro la Repubblica di Weimar, un tentativo così ridicolo da venire ribattezzato il «putsch della birreria».
Una quindicina di giorni dopo, mia madre adottiva è morta all’ospedale di Manosque in seguito a un ascesso spinale. Mentre tornavamo dal funerale, Scipion Lempereur mi ha detto, prima di salire in camera sua: «Adesso me ne vado anch’io».
Davanti alle mie proteste, ha risposto: «Non servirebbe a niente sforzarsi di vivere, si è aperta una falla in me. Non so se sia il dolore, la stanchezza, o la morte ad averla provocata, ma è talmente grande che non posso trattenere quello che sento colar via: è la fine».
Si è messo a letto vestito, con il cappello di paglia a coprire la faccia rivolta verso il muro in modo da isolarsi dal mondo. Non mi sono preoccupata più di tanto; non si può decidere per conto proprio quando morire, mi dicevo, è il buon Dio a fissare la data, e invece l’indomani mattina l’ho trovato immobile, con delle bolle di saliva secca sulle labbra; era entrato in coma.
Il tempo di andare a cercare un dottore e Scipion Lempereur era già morto. Senza un gesto, un brivido, una parola, nulla. È scomparso come aveva vissuto: clandestinamente. E così, mi sono ritrovata orfana per la seconda volta in vita mia.
I miei genitori adottivi avevano pensato a tutto, tranne che sarebbero morti a pochi giorni uno dall’altra prima della mia maggiore età. Mi è toccato quindi un tutore, Justin, cugino di Scipion Lempereur, sbarcato da Barcelonette quindici giorni dopo con la moglie Anaïs, un carretto e due grossi cani neri e rimbambiti.
L’inverno precedente Emma Lempereur mi aveva iniziata alla fisiognomica, arte trasmessaci da Pitagora e Aristotele, attraverso la quale si vuole determinare il carattere di una persona partendo dai tratti del volto. Nei nuovi arrivati, che non avevo mai visto prima di allora, ho subito ravvisato un misto di violenza, voracità e ipocrisia nel naso da cane da tartufo, nell’occhio maligno da faina in agguato e nei rotolini di grasso che, partendo dal labbro inferiore, avvolgevano le loro facce. Non sono stata smentita.
Fin dalla prima sera mi hanno annunciato che da quel momento la gestione della mia vita passava in mano loro e mi hanno elencato una serie di istruzioni riassumibili come segue: «Smetti di andare a scuola, tanto non ti servirà a niente, soprattutto perché sei femmina.
«Non guardare mai noi tutori negli occhi, se ci tieni a conservare i tuoi.
«Non usare mai il gabinetto dei tutori. I tuoi bisogni li andrai a fare dietro casa, in una buca che scaverai appositamente con le tue mani.
«Quando ti si parla tieni la testa china, gli occhi bassi e le mani dietro la schiena. Non ti lamentare mai e fa’ sempre tutto quanto ti si dice.
«Se rispondi, o metti in discussione gli ordini che hai ricevuto, le tue parole saranno considerate insolenze e castigate di conseguenza.
«Da questo momento lasci la tua stanza per cederla ai nostri cani: ci tengono a dormire vicino a noi. Da stasera stessa ti trasferirai nella stalla con i cavalli.
«Basta con le smancerie, i vestitini, le scarpe e tutto il resto. D’ora in poi porterai il grembiule e ti raderemo i capelli a zero perché non finiscano in quello che cucini, i capelli nel cibo ci fanno orrore».
E così Justin e Anaïs, che mangiavano per quattro e addirittura si svegliavano di notte dopo una cena sostanziosa per nutrirsi ancora, il giorno stesso del loro trasloco mi hanno trasformata in una sguattera, trascinandomi nella polvere più abbietta e mostrando considerazione soltanto per i cani, non meno famelici di loro ma in compenso intelligenti quanto una mosca cavallina.
A Justin e Anaïs piaceva soprattutto la carne, preferibilmente molto al sangue, ma non disdegnavano gli stufati, lo spezzatino, le fricassee e i pieds paquets, i piedini con trippa d’agnello alla marsigliese. Praticamente passavo la vita in cucina, a preparare il necessario per riempirgli la pancia, e mi pareva di annegare nel sangue.
Sono bastati pochi giorni al loro servizio perché puzzassi di carne alla griglia, di cadavere carbonizzato, di piaga sanguinolenta e bruciaticcia. Non riuscivo più a liberarmi di quegli odori, mi inseguivano dappertutto, perfino nella paglia della stalla quando andavo a dormire.
Justin e Anaïs non hanno aspettato molto per rivelare le loro vere intenzioni. Erano arrivati da sole tre settimane e già avevano venduto il cavallo e parte dei mobili dei Lempereur. Una madia, un tavolo, una pendola, due armadi e qualche poltrona. Mi depredavano viva. Quando li ho messi a parte delle mie preoccupazioni, Justin ha sospirato: «Abbiamo delle spese».
«Quali?»
«Per nutrirti.»
«Ma se non costo niente.»
«Più di quanto credi.»
«Per il cibo basta la fattoria, anzi, è fatta apposta.»
«Ci sono comunque delle spese» ha insistito Anaïs. «Sei troppo giovane per capire.»
Dopo questa discussione, Anaïs mi ha detto di lasciarli soli e da dietro la porta li ho sentiti confabulare finché mi hanno annunciato la loro decisione di punirmi, per aver risposto: avrebbero dato il mio gatto in pasto ai cani.
Avevo un gatto, un micione bianco d’angora che mi seguiva ovunque come un cane, tranne quando era in calore e correva dietro alle femmine. Fin dal loro arrivo avevo compreso che non sarebbe mai andato d’accordo con i due molossi e lo avevo sistemato nel granaio, da cui usciva soltanto di notte, mentre le due bestiacce dormivano in camera mia.
Justin salì nel granaio, lo prese e lo gettò ai cani come se fosse un avanzo di pollo. Preferisco non descrivere il suo grido mentre moriva, un grido di rabbia e ribellione che mi è risuonato a lungo nella testa. È passato quasi un secolo, ma a volte lo sento ancora.
«Così impari» mi rimproverò Justin dopo aver compiuto il misfatto. «Adesso conterai fino a dieci, spero, prima di dire fesserie.»
In modo altrettanto perentorio, venni dissuasa dal provare a scappare: i cani, addestrati a seguirmi ovunque mentre mi aggiravo per il terreno, non me lo avrebbero permesso e a detta di Justin mi avrebbero immediatamente riportata indietro per la collottola. Viva o morta, o meglio qualcosa a metà.
Inutile dire quanto rigassi dritto, dopo quella lezione. E mi sono anche ricordata di nascondere subito nel fienile Teo con la sua scatola. Continuavo a portare da mangiare alla mia salamandra, ma stavo bene attenta a non farmi scoprire. Altrimenti sarebbe toccata anche a lei la stessa sorte.
Era veramente imbufalita. Ogni sera, quando le portavo la sua dose quotidiana di insetti e lombrichi, tuonava: «Cosa aspetti a muoverti? Prendi un’iniziativa, razza di cesso!».
«Impossibile. Non sono io, a tenere il banco.»
Al solito, Teo si accaniva dove faceva più male: benché contro i miei nuovi padroni ordissi complotti mai messi in opera, in realtà mi comportavo come una domestica docile se non addirittura servizievole. Ormai ero caduta così in basso da crogiolarmi nella mortificazione, diventando la regina dei ruffiani. E lo sarei rimasta ancora per anni, se l’amore non mi fosse cascato tra capo e collo in un bel giorno di pioggia.
15
Influenza d’amore
Alta Provenza, 1925. Il grande amore è come l’influenza. La prima volta che ho visto Gabriel sono stata scossa da capo a piedi da un brivido bestiale, che mi è arrivato al midollo. Un terremoto della spina dorsale da cui sono uscita devastata e con le gambe molli.
Tra l’altro faceva un tempo da ammalarsi. Pioveva da mesi e mesi. Il cielo si rovesciava sulla Terra e non sembrava avere nessuna intenzione di smettere. Il mondo era uno straccio in mezzo a un fiume in piena; ancora un po’ e si sarebbe dissolto.
Gabriel non ne poteva più di quella pioggia. È vero, stava all’asciutto nell’ovile, ma aveva il morale abbattuto e lavorava molto più a rilento. Da quando era arrivato alla fattoria di Sainte-Tulle in tarda mattinata, aveva finito solo centoventitré montoni. Le bestie erano nervosissime. Doveva castrarne ancora almeno il doppio.
Justin Lempereur non voleva aiutare il castrino; quel lavoro non gli piaceva, e poi era stanco. La sera prima aveva mangiato troppo: la mia fricassea di fegatelli di cacciagione gli era rimasta sullo stomaco. Perciò aveva mandato in aiuto a Gabriel il vecchio pastore della fattoria vicina, uno straccio d’uomo soprannominato appunto «Cencio», il quale diede forfait nel giro di venti minuti, con la scusa che una sua pecora non riusciva a partorire, cosa peraltro vera.
«Una pecora che figlia in questa stagione? Non sarà una malattia?»
«No no, è un agnellino.»
A Gabriel non capitava quasi mai di sbagliare l’operazione, ma ecco, quel maschietto si era messo a sanguinare a catinelle e a strillare neanche lo avessero sgozzato, mentre il rognoncino gli si svuotava come un pezzo di trippa. A quel punto l’animale si era sdraiato su un fianco con lo sguardo della bestia al macello. Teneva i denti tutti scoperti, come fanno le pecore quando sono sul punto di morire.
Ci voleva lo spago per fermare l’emorragia e Gabriel, una volta verificato di non averne più nella cassetta degli attrezzi, corse verso il casale e bussò a gran colpi. Quando gli ho aperto era ridotto da far pietà, con gli abiti zuppi da bracciante incollati al corpo, e con in testa un berretto più fradicio di una spugna gonfia d’acqua.
Era un ragazzo non molto alto, con capelli castani i cui boccoli mi avrebbero ricordato più tardi quelli dell’Apollo del Belvedere di Michelangelo. Certo non lì per lì, quel giorno la pioggia appiattiva qualsiasi cosa stesse sotto un berretto, testa compresa.
Ho paura di fargli torto, a descriverlo. La bellezza non si descrive, si vive. E poi la sua dolcezza, sensualità e premura balzavano agli occhi a prima vista. Aveva labbra tumide e socchiuse, talmente disegnate per l’amore da farmi venire subito voglia di baciarlo. Avevo il cuore sul punto di esplodere come un pomodoro nell’orto divorato dal sole, al culmine dell’estate.
Fossi stata una perfezionista avrei avuto da ridire sui piedi enormi, o sulla faccia apparentemente tagliata da un cieco con l’accetta, alla come viene viene. Ma in sua presenza si era subito catturati dagli occhi scuri, con cui ti trapassava da parte a parte: ho sentito come qualcosa che mi apriva in due, un misto di vertigine, esaltazione e panico allo stato puro.
Come gli sarò sembrata? Ero un vero e proprio oceano di vergogna, mi sentivo orrenda con il mio grembiule scolorito a quadratoni rossi, gli zoccoli infangati e il colorito scuro da ragazza di campagna. L’amore non avverte, e non avevo il tempo di farmi bella per sentirmi all’altezza di quello che mi stava capitando.
«Spago!» strillò. «Mi serve dello spago, presto!»
Sono corsa in lavanderia senza tante domande per ritornare immediatamente con un rotolo in mano. In seguito, Gabriel mi ha detto di avere deciso di sposarmi nell’attimo in cui glielo porgevo.
Io ero sempre un po’ fuori di me, non ci capivo niente. Avvertivo sensazioni mai provate prima di allora. Il cuore mi andava su e giù. Avevo la bocca secca e le labbra tremolanti, quasi fossero diventate un nido di vermi. Mi sentivo come gli ebrei dell’Esodo al momento della settima piaga (9, 24), quando su di loro «ci furono grandine e folgori in mezzo alla grandine». Tremavo di freddo, ma allo stesso tempo avevo talmente caldo che sudavo da tutti i pori. Avrei urlato di gioia e contemporaneamente volevo solo mettermi a dormire. Mi stavo innamorando.
Mentre tornava di corsa dalla sua pecora, con il rotolo di spago, l’ho richiamato per chiedergli se potevo raggiungerlo all’ovile per portargli del vin brûlé.
«Non dico di no» ha gridato senza voltarsi.
Pochi minuti dopo, quando la pecora era ormai fuori pericolo, mi sono presentata con un boccale fumante tra le mani che mi tremavano: «Questo la riscalderà, signore».
«Mi chiamo Gabriel.»
«Io Rose.»
Ci fu un silenzio. Non sapeva cosa dire. Nemmeno io. Sono stata presa dal panico, avevo paura che il discorso fosse già concluso e di essermi lasciata scappare il grande amore.
«Tu dimmi che razza di tempo!» ha ripreso lui, alla fine. «Un giugno del genere non si era mai visto.»
«Eh, già.»
«Ho ancora molto lavoro, non so se ce la faccio entro stasera. Dormirò qui.»
«Nell’ovile? Ma c’è puzza!»
«Non è vero, c’è anche un buon odore di latte e di lana, odore di bambino.»
«Eh, già» ho ripetuto.
Ero patetica, con il fiatone e lo sguardo perso nel vuoto, mentre cercavo di non farmi venire un infarto. Con un enorme sforzo su me stessa, sono riuscita a balbettare: «Cena con noi?».
«È negli accordi.»
Ero felice di saperlo insieme a noi per la cena, ma nello stesso tempo temevo il momento in cui avrebbe scoperto che ero soltanto la serva. La mondaverdure, la spargiletame, la svuotalatrine, terrore di tutti i rifiuti e lucidatrice di pavimenti, mobili, scarpe, nonché dell’ego dei padroni.
Mangiavo in cucina anziché in sala da pranzo, e solo dopo aver finito di servire.
«Il secondo!» gridò Justin quando venne il momento di passare al piatto forte.
«Allora, arriva o no?» grugnì Anaïs, esasperata per la lentezza del servizio.
Avevo preparato del pollo alla crema d’aglio e carciofi. Una ricetta di mia invenzione e, tra parentesi, una roba da ammazzare un bue. Dopo aver servito Gabriel e i Lempereur, sono rimasta per attendere il verdetto, con il cuore a mille.
«Non ho mai mangiato niente di più buono» ha detto Gabriel.
«Sì, è buono» si è degnato Justin.
«Peccato manchi di sale» ha commentato Anaïs.
Come premio, Justin mi ha permesso di restare con loro ad ascoltare Gabriel parlare del suo mestiere. Mi sono seduta su uno sgabello vicino alla finestra a bere le sue parole con sguardo rapito. Immagino di avere avuto più o meno la stessa faccia dell’Estasi di Santa Teresa d’Avila del Bernini, che ho visto nella cappella Cornaro della chiesa di Santa Maria della Vittoria a Roma e ai miei occhi resta una delle più belle rappresentazioni d’amore allo stato puro.
16
Il re della pinza Burdizzo
Alta Provenza, 1925. Gabriel Beaucaire era castratore professionista. Gli capitava di castrare anche quattrocento animali in un giorno solo. Era esperto, veloce e forzuto, perché il mestiere richiedeva forza, soprattutto nelle braccia.
Era anche un artista, la castrazione essendo in primo luogo un’arte e poi una scienza. Con gli animali bisogna saper essere dolci e decisi, in modo da evitare di provocare il panico con qualche gesto. Gabriel aveva la mano sicura e rassicurante.
Castrava di tutto. Agnelli, beninteso, ma anche vitelli, asinelli, porcellini e perfino coniglietti. Dominava una tecnica all’avanguardia, la castrazione con pinza Burdizzo attraverso lo schiacciamento del cordone spermatico.
Quello del castrino è un mestiere stagionale, che comincia alla fine dell’inverno e termina al ripresentarsi della brutta stagione. Secondo i suoi calcoli, Gabriel castrava una media di ottantamila animali all’anno. Era il re della pinza Burdizzo, attento a non ferire le bestie e a non farle soffrire troppo.
Fin dalla notte dei tempi gli esseri umani, non contenti di pascersi delle loro carni morte e piaghe sanguinolente, umiliano gli animali lungo l’intero corso della loro esistenza. Mentre le femmine sono sottoposte a ritmi infernali per produrre latte, cuccioli e uova, i testicoli dei maschi vengono massacrati senza pietà, in una specie di ecatombe genitale permanente.
La castrazione ha rappresentato a lungo un pericolo per gli animali da macello, che a volte morivano in seguito all’operazione. Ciononostante, è rimasta un’abitudine sistematica. Altrimenti le bestie sarebbero diventate come gli uomini, sempre a correre dietro al loro batacchio e ad arrampicarsi su qualunque groppa, in un susseguirsi di monte di femmine sfiancate. Come avrebbero fatto a crescere per diventare belli grassi?
Ecco perché, per molto tempo, i contadini tagliarono via con la lama i testicoli degli agnelli o schiacciarono a martellate i cordoni spermatici dei bovini, previo bloccaggio in mezzo a due bastoni. La pinza per la castrazione umanizzò la procedura, se così si può dire. E Gabriel fu uno dei protagonisti di questa rivoluzione testicolare.
Rivoluzione incominciata da un francese, Victor Even (1853-1936), inventore della prima tenaglia per castrare: stritolava i cordoni spermatici sottopelle, bloccando l’irrigazione sanguigna dei testicoli e provocando così la loro atrofizzazione naturale, senza ferite né rischi di emorragie e infezioni.
Pochi anni dopo l’italiano Napoleone Burdizzo, nativo di La Morra nel cuneese (1868-1951), perfezionò lo strumento, mettendo fuori mercato la tenaglia di Even grazie a quella inventata da lui, con ganasce più larghe e manico corto, dunque più leggera e maneggevole. Il principio tuttavia restava invariato: riducendo in poltiglia un segmento dei vasi sanguigni, si interrompeva la circolazione del sangue verso i testicoli e si provocava così la morte dei tessuti.
Gabriel cominciava con il palpare lo scroto dell’animale per trovare uno dei due cordoni, sopra i testicoli. Dopo averlo scovato, lo pizzicava per portarlo verso il lato del sacco scrotale e solo a quel punto lo piazzava tra le ganasce dalla pinza Burdizzo, che richiudeva poi per strattonare il vaso con un andirivieni del polso. Tutta l’operazione durava una decina di secondi. Era da moltiplicare per quattro, perché Gabriel schiacciava ciascuno dei due cordoni spermatici in due punti diversi, il secondo lievemente al di sotto del primo.
Durante i giorni successivi i testicoli dell’animale si gonfiavano, poi rimpicciolivano fino a trasformarsi poco a poco in brandelli di pelle rachitici e deprimenti. Gabriel non amava il suo mestiere, ma al contempo ne andava fiero. Quella sera, con un sorriso misterioso, ci spiegò che aveva la sensazione di compiere un’opera di pace: «Quando in una fattoria ci sono meno coglioni c’è anche meno violenza, meno conflitti. Ogni contadino lo sa».
«Bisognerebbe applicare lo stesso principio al consesso umano» disse Anaïs.
«Ci sarebbero meno guerre» approvò Justin.
«Contiamo su di lei per evitare la prossima» ho concluso io.
Tutti sono scoppiati a ridere, Gabriel più degli altri. Riconobbe di provare una certa ebbrezza ad attentare, tenaglia alla mano, a tante vite future. Aggiunse che gli avrebbe fatto piacere castrare un paio di generali o marescialli dell’ultima guerra: io ho subito pensato al maggiore Morlinier, quello che aveva condannato a morte Jules, ma la tenaglia non mi sembrava una punizione adeguata al suo delitto.
Dopo avere salutato Gabriel, i Lempereur e i cani sono andati a letto al piano di sopra, mentre io ho lavato i piatti e messo a posto la cucina in men che non si dica, con mano tremante e incapace di tenere a freno i pensieri. Ero un unico enorme brivido, dalla testa ai piedi. Una pazza. Sapevo di potermi riprendere solo tra le sue braccia.
Sarebbe stato troppo pericoloso andarlo a cercare prima di avere finito: avrei messo la pulce nell’orecchio dei Lempereur, talmente felici di rovinare sempre tutto da sembrare messi su questa Terra apposta per avvelenarmi la vita finché morte non sopraggiungesse.
Non potevo avere frainteso l’occhiata di Gabriel, sapevo cosa stava per succedere. E infatti, quando sono uscita dalla cucina, l’ho trovato lì fuori ad aspettarmi.
Non mi sono accorta subito di lui, la notte era troppo scura, ma appena ho richiuso la porta lui ha acceso un fiammifero. Era a un paio di metri dall’ingresso.
Aveva smesso di piovere da un po’, ma il cortile pareva un gigantesco scolo. Lui ha mosso due o tre passi gorgoglianti verso di me e ha detto: «Voglio passare con te il resto dei miei giorni».
Se mi avesse dato una mazzata in testa, l’effetto sarebbe stato identico. Non avevo idea di cosa rispondere.
«Vuoi condividere tutto con me, per il tempo concessoci da Dio?»
Ho aperto la bocca ma non ne è uscito alcun suono. Mi sentivo talmente idiota da provare l’impulso di scappare di corsa piangendo, ma alla fine sono riuscita ad abbozzare una specie di assenso con la testa, che lui non ha visto perché nel frattempo gli si era spento il fiammifero.
Per evitare di fargli prendere il mio silenzio per un rifiuto ho cominciato a tossire come per schiarirmi la gola finché, con voce strozzata, ho emesso qualcosa di vagamente simile a un sì.
Mi aspettavo di essere baciata, o che mi prendesse la mano, invece è rimasto lì imbambolato senza sapere che dire. Stava esattamente come me.
Mi ha chiesto se volevo accompagnarlo nell’ovile. Avrei preferito andare nella stalla. Gli odori lì sono molto più buoni: lo sterco dei cavalli sembra fatto con il miele e il tanfo provoca un pizzicore squisito ai polmoni che personalmente trovo inebriante, ma insomma, non mi sarei certo messa a fare la difficile.
Io e Gabriel abbiamo passato quasi tutta la notte in mezzo alle pecore, a dirci il nostro amore senza toccarci, senza nemmeno sfiorarci, ma sempre occhi negli occhi, anche se non si vedeva niente. Non oso riportare le nostre chiacchiere, erano troppo scipite e deficienti.
«Bisogna ritornare bambini ogni volta» diceva mia nonna. «Solo allora si ritrova ogni cosa. Dio, l’amore, la gioia.»
Certo però è strano, quanto l’amore renda scemi e allo stesso tempo felici.
17
Un abbraccio lungo settantacinque giorni
Sisteron, 1925. Gabriel aveva un programma piuttosto pesante, per i giorni successivi: trecento agnelli da castrare in un ovile a Sisteron, altri ancora a Les Mées e a La Motte-du-Caire.
Per quanto riguardava noi due, aveva predisposto tutto prima ancora di dichiararmi la sua passione. Non dubitava di niente, né di me né di sé né del nostro amore.
Aveva detto ai miei padroni di dover ripartire prestissimo al mattino, molto prima del risveglio loro e dei cani. Non voleva complicazioni durante la partenza.
Per evitare di svegliarli mentre tagliavamo la corda, aveva lasciato il carretto con il mulo abbastanza lontano dal casale, giù in riva al fiume, in un campo di trifoglio. Pensava sempre a tutto, il mio amore.
Ho preso con me soltanto la scatola di Teo, i Pensieri di Pascal con dentro l’elenco dei miei odi, qualche vestito e un coltello da cucina per difendermi dai molossi, all’occorrenza.
Lungo la strada, mentre su di noi volteggiavano le cornacchie, ci siamo baciati talmente tanto che quando siamo arrivati a destinazione avevo le labbra e la lingua addormentate, quasi quasi non riuscivo più a parlare. I nostri discorsi erano sempre gli stessi. Lui mi chiedeva di sposarlo, io acconsentivo, lui mi supplicava ancora di concedergli la mia mano, io accettavo di nuovo e via così: voleva continue rassicurazioni, a gesti, a baci, a carezze.
Non c’è vero amore senza angoscia. L’angoscia di vedere tutto finire a ogni istante. L’angoscia che la vita si riprenda quanto ci ha dato. Ecco perché Gabriel sudava a dirotto. E anch’io. Ero tutta un rivolo, mi bruciavano gli occhi, non vedevo più niente.
Siamo rimasti in quello stato per diversi giorni di fila, incollati uno all’altra, tranne quando con la pinza sistemava i testicoli agli agnelli, che sembravano sempre umiliati da quell’operazione, ne uscivano zoppicanti e a testa bassa, con lo sguardo dei ragazzini in punizione.
Il giorno in cui arrivammo a Sisteron, da Aubin, un grosso allevatore di pecore nonché vecchia conoscenza di Gabriel, ho sentito una stretta al cuore: temevo che il nostro lungo, indissolubile abbraccio fosse già finito, invece mi sbagliavo.
Aubin era uno scapolo incallito sulla sessantina, con due occhietti giallastri sotto le palpebre unte. Dopo averci aperto è rimasto un attimo interdetto, poi ha detto qualcosa di incomprensibile, a causa del vento che andava a sbattere addosso alle montagne tutto intorno a noi. Ha scoccato un’occhiataccia su noi due, ci ha fatti entrare con un gesto borbottando all’indirizzo di Gabriel: «Non pensavo ti saresti fatto vedere, dopo quello che hai combinato. Altrimenti avrei avvertito la polizia».
«Ma perché, cosa avrei fatto? Me lo vuoi dire?»
Aubin andò a prendere un giornale in cucina e glielo piazzò sotto il naso. Il «Petit Provençal» riportava questo titolone in apertura:
Dramma a Sainte-Tulle.
Minorenne rapita da pericoloso maniaco.
L’articolo dava ampiamente voce a Justin e Anaïs Lempereur, i quali ribadivano più volte l’ingenuità di Rose, una loro parente sempliciotta e da sempre un po’ debole di testa, per la disperazione della famiglia. Secondo loro, non era alla sua prima fuga. «Ha il diavolo in corpo», commentava il giornalista, descrivendo tra l’altro Gabriel come un perfido maniaco sessuale, pluricondannato per i tanti oltraggi al pudore. «Bordille», come si dice in Provenza per designare la feccia dell’umanità: pattume, di cui Gabriel veniva dipinto come un rappresentante della peggiore specie.
«È grottesco» è sbottato Gabriel dopo aver letto l’articolo. «Grottesco e ridicolo. Aubin, lasciaci spiegare.»
«Non ce n’è bisogno» ha grugnito l’altro. «Ho già capito.»
Gabriel ha insistito e gli abbiamo recitato a due voci il resoconto delle nostre avventure. Alla fine Aubin ha detto: «Sì, va bene, però…».
Si è alzato ed è andato a prendere nella credenza tre bicchierini e una grappa di genziana. Dopo averci serviti, ha buttato lì: «Secondo me c’è un’unica soluzione, dovete andare alla polizia e raccontare quanto avete detto a me».
«Impossibile» ho risposto io. «I miei tutori sono talmente bugiardi che tra dieci anni rischiamo di ritrovarci allo stesso punto. Preferisco lasciar loro la fattoria e andare avanti per la mia strada.»
«In questo caso, se avete bisogno di un posto dove rintanarvi, potete restare qui finché si dimenticano di voi.»
Dopodiché ci ha invitati a metterci a tavola. C’erano uova sode, minestra al pesto e caprino stagionato sott’olio. Si mangiava tutto insieme, con grandi fette di pane da inzuppare o da condire. Era il suo menu di ogni giorno e non se ne stancava.
Aubin non levava gli occhi da Gabriel, un virtuoso della conversazione capace di animarla e rilanciarla senza posa, in una sarabanda di aneddoti e storielle.
Di notte, quando gli domandavo come facesse a sapere tutte quelle cose, mi rispondeva: «Dai libri. Su questa Terra ci sono solo la vita e i libri per insegnarci a migliorare la nostra esistenza. L’ho imparato da mio padre. È maestro di scuola. Mia madre invece è orticoltrice. Io ho preso un po’ da tutti e due. Il cielo e la terra».
«Sai tante cose, Gabriel. Come mai sei diventato castrino?»
«Non avrei potuto diventare nient’altro.»
«Tu puoi fare qualsiasi cosa.»
«Sono stato espulso dal liceo di Cavaillon al penultimo anno, per aver morso il professore di filosofia a un orecchio, così forte da staccargliene quasi un pezzo: ha fatto scalpore, e da allora sono segnato a dito.»
«E perché lo hai preso a morsi?»
«Perché aveva definito Spinoza un filosofo degenere.»
«Magari è vero.»
«È il mio filosofo preferito, ci ha insegnato che Dio è ogni cosa e viceversa. Quando scrive Dio è natura, non credo ci sia molto altro da aggiungere. La verità di questa frase può essere verificata in qualsiasi momento, basta guardare un filo d’erba alzarsi verso il sole.»
Teo amava Gabriel non meno di me, ed è tutto dire. Quando portavo da mangiare alla mia salamandra, mentre inghiottiva vermi, ragni e lumaconi mi ripeteva sempre: «Sposalo, Rose, sposalo subito. L’hai trovato, è l’uomo della tua vita».
Non credo di essere mai stata così felice come nei due mesi e mezzo passati a Sisteron. Né ho mai avuto tanta paura. Facevo di tutto per nascondere la mia felicità, anche a Gabriel, perché temevo di risvegliare gli spiriti maligni, pronti a disilluderci al primo segnale di allegria.
Il periodo a Sisteron è stato un unico abbraccio ininterrotto. Un abbraccio lungo settantacinque giorni. Non eravamo solo noi a non poter vivere uno senza l’altra: le nostre stesse labbra non sopportavano la lontananza, per quanto breve. Stavamo sempre appiccicati, come certe lumache che si mescolano talmente una con l’altra da risultare impossibili da separare. Quando guardavamo le pecore sui declivi delle prime pendici alpine. Quando venivamo sorpresi da furiosi temporali che prima ci tuonavano contro e poi riversavano su di noi i loro rovesci. Quando andavamo a cogliere le erbe di montagna per i miei piatti serali. Quando facevamo il bambino che un giorno ha cominciato a crescermi nella pancia.
18
Le mille pance di zio Alfred
Cavaillon, 1925. Gabriel abitava a Cavaillon, in una casetta di pietra all’ombra della cattedrale di Saint-Véran, una delle meraviglie della Provenza, che racchiude alcune tele di Nicolas Mignard, un grande pittore del Seicento innamoratosi di quella chiesa.
Un tempo le città si nascondevano. Dal calore e dagli invasori. Tutto il borgo della cattedrale di Saint-Véran viveva al buio, anche in pieno giorno e sotto il solleone. La topografia del luogo era tale che una casa di due piani non vedeva mai la luce.
Appena Gabriel ha girato la chiave nella toppa, la vicina del piano di sopra, una vecchia baffuta, si è precipitata giù con passo zoppicante, gridando: «Felice di rivederti, creatura mia, ma bada di non mettere radici. Le guardie ti cercano, sono passate molte volte, pare che tu sia accusato di un terribile delitto».
Si è prodotta in un sorriso sdentato, poi ha aggiunto: «Sarebbe lei, quella che hai rapito? Be’, complimenti davvero, piccolo mio. Hai ottimo gusto».
Mi ha piantato un bacio sulla faccia, lasciandomi con un odore di piscio, poi con la serietà di un’indovina ha predetto: «Vi amerete molto, lo sento, e farete bene: ad amarsi molto non si sbaglia mai».
La casa di Gabriel era sommersa dai libri. La loro marea arrivava fin dentro gli sportelli della cucina. Romanzi, cronache, trattati di filosofia.
«Li hai letti tutti?» ho chiesto.
«Mi auguro di leggerli tutti prima di morire.»
«A che serve morire colti?»
«A non morire idioti.»
Dopo aver chiesto alla vecchia di riportare mulo e carretto dai suoi genitori a Cheval-Blanc, un comune limitrofo, Gabriel si affrettò a riunire quattro cose in una valigia di cartone e un’ora più tardi eravamo sul treno per Parigi.
Aveva deciso che ci saremmo nascosti nella capitale, dallo zio Alfred, che in prime nozze aveva sposato la defunta sorella di sua madre e a detta di Gabriel era uno scrittore di prim’ordine, autore di saggi, romanzi, commedie e raccolte di poesia, praticamente un classico del Novecento.
Il mattino seguente, appena arrivati a Parigi, andammo subito da lui. Alfred Bournissard abitava in un palazzo signorile di rue Fabert, vicino agli Invalides. Stava facendo colazione e aveva le labbra lucide costellate di briciole di croissant. Quando la domestica ci ha introdotti al suo cospetto, lui si è alzato e ha abbracciato Gabriel con molta tenerezza.
Conosceva già la nostra storia e ci ha soprannominati «Romeo e Giulietta». Quello che colpiva di lui erano la vivacità della sua intelligenza, l’istinto per la risposta arguta, una sorta di buffonaggine benevola. Inoltre aveva uno sguardo limpido che metteva sempre l’interlocutore a proprio agio; era stato indubbiamente bello in gioventù, motivo per cui, dopo la morte per parto della sua prima moglie, nonché zia di Gabriel, era riuscito a sposare un’ereditiera.
Ma Alfred Bournissard aveva ormai ampiamente raggiunto la cinquantina, età in cui i tratti del volto dipendono dal carattere, e i suoi non sembravano predisporlo all’assoluzione nel giorno del Giudizio, tanto parevano forgiati da odio, mollezza e cupidigia.
La parola «mastodontico» pareva coniata apposta per lui. Gli crescevano pance dappertutto, sul mento, sulle guance, perfino sui polsi, contribuendo a dargli quell’aria soddisfatta e sicura di sé, insopportabile per i suoi nemici, che gli era costata l’ingresso all’Académie Française, dove aveva avanzato la sua candidatura in ben due occasioni. Ogni volta, le croci avverse erano state più numerose dei voti a favore del suo nome.
Alfred era un tipo spiccio per natura, e subito, senza chiedere il nostro parere, decise di fare di Gabriel l’assistente del suo segretario personale, mentre io sarei stata distaccata in cucina, per il momento con compiti da sguattera in attesa di mettermi alla prova.
*
Zio Alfred lavorava a un grande progetto, nel quale aveva deciso di coinvolgerci in qualità di negri. Lo chiamava «evento Drumont». Un saggio, una grande biografia e una commedia teatrale da far uscire contemporaneamente nel 1927, per il decimo anniversario della morte dell’esagitato grafomane autore di France juive, di cui lo zio era stato collaboratore negli ultimi anni di vita.
Ecco perché ho avuto modo di leggere e commentare insieme a Gabriel l’opera omnia di Édouard Drumont, giornalista, deputato e fondatore del comitato nazionale antiebraico, da cui tanto si sentirono attratti Charles Maurras, Alphonse Daudet e Georges Bernanos. Per non parlare di Maurice Barrès, non a caso soprannominato «l’usignolo dei massacri».
Io e Gabriel per poco non condividevamo il talamo con Drumont. Infinite volte ci siamo baciati o abbiamo fatto l’amore in mezzo alle sue opere, che in seguito ai nostri giochi e malgrado le precauzioni devono essere rimaste sgualcite o ricoperte di chiazze non propriamente innocenti. Gabriel era molto eccitato dalla mia gravidanza.
In questo modo ho potuto acquisire una certa intimità, nei vari sensi del termine, con quel figlio del romanticismo che nella France juive, uno dei grandi successi editoriali di fine Ottocento, scimmiotta volentieri Victor Hugo in uno stile fluido come lava, ma forse dovrei dire bava.
Era un esaltato. Nel 1917, poco prima di morire quasi senza un soldo e afflitto dalla cataratta, Édouard Drumont pare abbia detto a Maurice Barrès, il quale lo annotò nel suo diario: «Non mi capacito che Dio mi abbia fatto questo, a me, Drumont, dopo quanto ho fatto per Lui!».
Nella France juive descrive così i segni attraverso i quali riconoscere un ebreo: «Il ben noto naso ricurvo, le palpebre tremule, la mascella serrata, le orecchie sporgenti, le unghie quadrate anziché arrotondate a mandorla, il torso troppo lungo, i piedi piatti, le ginocchia tonde, la caviglia molto prominente, la mano morbida e dalla stretta molle degli ipocriti e dei traditori. E sostiene che presenta spesso un braccio più corto dell’altro».
Dopo aver letto il brano in questione, Gabriel aveva scherzato: «Ma è il mio ritratto sputato!».
Nel suo compendio dell’antisemitismo, Drumont ha annotato anche altri elementi: «L’ebreo possiede un’incredibile capacità di adattamento nei confronti di qualsiasi clima». E ancora: «Durante il Medioevo è stato constatato cento volte un fenomeno ripresentatosi poi in occasione delle epidemie di colera, secondo il quale gli ebrei sembrano godere di una speciale immunità nei confronti di qualunque contagio. a quanto pare recano in sé una pestilenza perenne, che li protegge dalle pesti ordinarie».
Ha scritto altresì: «l’ebreo sprigiona cattivo odore e i più danarosi emanano un’esalazione, fetor judaica, un tanfo, per dirla con Zola, che indica la razza e li aiuta a riconoscersi tra loro […]. È una cosa risaputa: “L’ebreo puzza” ha detto Victor Hugo».
Infine, sempre secondo Drumont, «la nevrosi è indiscutibilmente la malattia dell’ebreo. In questo popolo a lungo perseguitato, alle prese con ansie perpetue e complotti incessanti, in preda alle febbri della speculazione, abituato a esercitare professioni dove l’unica attività è quella cerebrale, il sistema nervoso ha finito per alterarsi. In Prussia, la percentuale degli alienati è molto più alta fra gli israeliti che fra i cattolici».
Édouard Drumont fornisce cifre sorprendenti in proposito: su 10.000 prussiani, si conterebbero 24,1 alienati tra i protestanti, 23,7 tra i cattolici e 38,9 tra gli israeliti. «In Italia» aggiunge, «si trova un alienato ogni 384 ebrei e solo uno ogni 778 cattolici.»
Drumont ha continuato a battere sullo stesso chiodo da un libro all’altro, mietendo sempre più successi: gli ebrei si sono abbattuti «come locuste su questo sventurato Paese», organizzando «lo sfruttamento finanziario più abietto mai visto al mondo». Sto citando dal libro La France juive devant l’opinion del 1886, in cui ritorna sul trionfo del suo ormai celebre saggio La France juive, uscito in quello stesso anno.
Non posso costringere nessuno a leggere le seguenti citazioni. Roba da Hitler ante litteram, in buono stile. Sappiate comunque che riassumono bene gli sproloqui ideologici su cui, prima di culminare nella Germania nazista, si sono basati tanti bravi patrioti come lo zio Alfred.
«La società francese di un tempo era cristiana» scrive Édouard Drumont nella France juive devant l’opinion «e aveva come parole d’ordine lavoro, sacrificio, abnegazione. La società odierna, che è giudaica, ha per parola d’ordine parassitismo, poltroneria ed egoismo. L’idea dominante non è più di lavorare per la collettività, per il Paese, come un tempo, ma di costringere la collettività, il Paese, a lavorare per noi.»
Édouard Drumont non era un conservatore. Prova ne sia la sua previsione che «la Francia intera avrebbe seguito quel leader capace di rivelarsi un giustiziere e di colpire, invece della povera classe operaia come durante la repressione della Comune di Parigi del 1871, gli ebrei che nuotano nell’oro». Perciò anche Jules Guesde, uno dei grandi protagonisti della sinistra socialista, a un certo punto si sentì legittimato a partecipare ad alcune assemblee pubbliche con lui. Probabilmente condivideva l’analisi di Drumont sul capitalismo, che in quegli anni emergeva nell’intero Occidente: «L’idolo famelico del capitalismo ha saputo erigersi sulle solitarie rovine della Chiesa, fecondatore di se stesso al pari della mostruosa divinità di Ashtoreth, sempre occupata a riprodursi senza posa e a partorirsi quasi senza accorgersene, nel sonno, durante l’amore, al lavoro, nella lotta, soffocando, attraverso la sua esecrabile moltiplicazione, tutto quanto sia diverso da lei».
A Édouard Drumont si può rimproverare qualsiasi cosa, ma nessuno vorrà negargli l’incredibile dono della profezia quando, nell’intento di farla finita con il «sistema giudaico» scrive, più di cinquant’anni prima del tremendo terremoto che avrebbe devastato il Vecchio continente: «Il grande organizzatore destinato a riunire in un unico fascio tanto rancore, rabbia e sofferenza avrà compiuto un’opera destinata a riecheggiare per tutta la Terra. E a dare all’Europa un nuovo equilibrio per i prossimi duecento anni. Chi ci dice che non sia già al lavoro?».
Adolf Hitler non era ancora nato. Bisognava aspettare tre anni, fino al 1889, perché venisse al mondo quel rampollo di Édouard Drumont che, al pari dell’arcangelo, ne fu anche il nunzio.
19
La Petite Provence
Parigi, 1926. I miei rapporti con Teo sono alquanto peggiorati durante i mesi in cui abbiamo lavorato per lo zio Alfred. Quando portavo mosche e ragni alla mia salamandra, ormai sistemata in un acquario tutto suo, dovevo ripararmi da un diluvio di rimproveri: «Cosa ti è successo, Rose, in che stato hai ridotto la tua anima?».
«Cerco di sopravvivere, Teo, come chiunque altro.»
«E non potevi trovare una causa meno abietta?»
«Faccio quello che posso, fidati, ne uscirò.»
«Ma guardati! Sei diventata una pappamolla. Riprenditi, prima di finire scaricata nella tazza del cesso in cui ti sei infilata da sola.»
Le recriminazioni di Teo mi entravano da un orecchio e mi uscivano dall’altro. Lo zio Alfred era rimasto talmente contento del nostro lavoro su Édouard Drumont da elargirci una cospicua sommetta con la quale, pochi mesi dopo, aprii il mio ristorante.
Non potevo metterlo su da sola: avevo diciannove anni e all’epoca si era ancora minorenni, a quell’età. Perciò, nonostante fosse ricercato dalla polizia per il «rapimento» di Sainte-Tulle, Gabriel si assunse per me il rischio di registrare l’impresa a suo nome.
«Insieme faremo grandi cose, lo sento» disse lo zio Alfred accarezzandosi il pancione, contento. «Avete tutto. Talento, passione, ideali. Vi manca solo il successo, e a quello penserò io. Arriverà, piccoli miei, vedrete.»
Ci aveva chiesto di dissodare il terreno e preparargli gli appunti sull’autore della France juive. Sull’onda dello slancio e lavorando giorno e notte, avevamo già abbozzato la commedia, il saggio e la biografia, da lui ripresi più o meno tali e quali. Ma non dimenticò di ringraziarci profusamente nell’introduzione a entrambi i volumi.
«Siete la prova che esistono dei negri intelligenti» ironizzò zio Alfred con espressione orrendamente soddisfatta.
Le sue mille pance tremolavano di eccitazione e trascinato dall’euforia ci chiese di redigere un compendio degli ebrei francesi, ma noi declinammo l’invito. A parte che avevo ormai deciso di dedicarmi alla cucina anziché ai libri, il progetto non piaceva né a me né a Gabriel: lo compresi dalla sua espressione al momento della richiesta dello zio Alfred.
Gabriel era bravo e rifiutò con tatto, senza offendere suo zio: «Sarebbe un’opera titanica, non mi sento all’altezza. E poi tra pochissimo nascerà il bambino e non saremo più tanto disponibili, non vorremmo deluderti».
«Come volete, ragazzi miei.»
Lo zio Alfred non insisté. Aveva altre idee da sottoporci. Una biografia di Carlomagno, un saggio su Napoleone e gli ebrei, una storia delle mentalità europee, un atlante delle razze nel mondo e altro ancora.
«Carlo Magno mi è sempre piaciuto» ha detto Gabriel.
«Attenzione, però, bisogna concentrarsi sugli ebrei» ha precisato lo zio. «Il suo governo ne era strapieno, bisogna lavorare su questo e al contempo interrogarsi sulle sue origini.»
«Carlo Magno era ebreo?»
«Non lo so ma è probabile: gli ebrei si riconoscono perché si danno sempre lavoro a vicenda, si spalleggiano l’uno con l’altro, è una loro fissazione. Se li lasciamo fare, si accaparreranno tutto. Mettici pure che Carlo Magno era un cosmopolita, una specie di apolide militante, e una delle caratteristiche principali dell’animo giudeo è proprio quella di non riconoscersi in nessun luogo, di considerarsi ovunque a casa propria… in particolare qui da noi, purtroppo.»
«Per scrivere un’opera del genere» concluse Gabriel «ci vuole uno storico. Ho paura di deluderti.»
Lo zio Alfred non si diede per vinto. Era un vulcano di idee e ci propose subito di scrivergli la sceneggiatura per un film di cui aveva già titolo e trama: Moloch. Da un cassetto della scrivania tirò fuori una copia della rivista scientifica «Cosmos» datata 30 marzo 1885, in cui figurava l’incisione di un certo Sadler rappresentante «La tortura di un bambino a Monaco, che diede avvio al massacro dei giudei del 1285».
Il bimbo, spiegava il testo che accompagnava l’immagine, venne ritrovato su indicazione della donna che aveva fornito la vittima ai sacrificatori; lo avevano legato su un tavolo della sinagoga e, dopo avergli cavato gli occhi, trafitto per mezzo di stiletti. Il sangue era stato fatto raccogliere da altri bambini. Il popolo indignato si abbandonò a gravissimi eccessi contro gli ebrei della città e ci volle tutta l’autorità del vescovo per calmare l’agitazione popolare e far cessare il massacro.
«Ecco l’argomento del film» disse lo zio Alfred. «Potrebbe diventare un grande successo, perché susciterà una polemica su una realtà che ci si rifiuta di affrontare: gli ebrei amano il sangue, è un dato di fatto. Édouard Drumont ha ritrovato un Talmud pubblicato ad Amsterdam nel 1646, dove è scritto nero su bianco che versare il sangue delle giovani non ebree è un modo per riconciliarsi con Dio. Moloch, mostro eternamente avido di carne umana ben sanguinolenta, è la divinità semitica per eccellenza. Niente estingue la sua fame e la sua sete. Sacrifici come quello di Monaco ce ne sono stati dappertutto in passato, a Costantinopoli come a Ratisbona, e si praticano senza dubbio ancora oggi. È tempo di dirlo, anzi di gridarlo forte e chiaro: gli ebrei adorano il sangue caldo. Se così non fosse, nel Pentateuco non figurerebbe la proibizione di berne.»
Ero inorridita dal suono stridulo di quelle frasi fatte e al contempo mi sentivo intenerita dalla bontà dolorosa emanata da quell’uomo che voleva solo il nostro bene. Era odioso e toccante. In sua presenza mi sentivo fondamentalmente dilaniata e provavo a rifugiarmi dietro un sorriso stupido, lasciando la palla a Gabriel, più bravo di chiunque altro a giocare a rimpiattino con lui.
Non è una cosa di cui vado fiera, ma abbiamo chiamato il bambino Édouard proprio per via di Drumont, nostro benefattore postumo, e naturalmente per compiacere zio Alfred, che peraltro fece da padrino a quel bimbo concepito e nato nel peccato.
C’era da aspettare ancora due anni, prima di poterci sposare. Fin quando non avessi raggiunto la maggiore età, avrei dovuto chiedere l’autorizzazione dei miei tutori di Sainte-Tulle, per convolare a nozze. Tanto valeva andare direttamente alla polizia a costituirmi.
Il giorno della nascita di Édouard è stato il più bello della mia vita. Con tutto il rispetto, ma Chateaubriand doveva essere un maschio alquanto ottuso per riuscire a scrivere, nelle Memorie d’oltretomba: «Dopo la disgrazia di nascere, non ne conosco un’altra peggiore se non quella di dar vita a un essere umano».
Se fosse stato una donna, avrebbe conosciuto l’atroce gioia di dare alla luce. Una gioia sanguinolenta e di intima elevazione, venata di una sensazione di religiosità. Dopo il parto ero lì in estasi che piangevo, con Édouard addormentato sulla mia pancia sotto gli occhi di Gabriel; mi sembrava di essere al di sopra di me stessa. Avrei potuto restare in quella posizione fino alla morte.
Ma la vita mi reclamava. Dovevo guadagnarmi il pane e allattare mio figlio. Gli ho dato il seno fino a quando ha compiuto sei mesi, poi l’ho messo a balia dalla nostra vicina al sesto piano, un donnone ancora in grado, sette anni dopo la nascita del suo ultimo figlio, di produrre un litro di latte al giorno.
Alla fine dell’anno avevo preso un bugigattolo in rue des Saints-Pères, dalle parti di Saint-Germain. Aveva una sala di sedici metri quadrati e una cucina infinitesimale in cui potevo servire al massimo una trentina di coperti al giorno. Il ristorante si chiamava Le Petit Parisien, ma ne ho modificato l’insegna in La Petite Provence.
Ci preparavo le mie specialità, il plaki, la parmigiana, il crème caramel. E poi la mia zuppa di pesto, in cui non lesinavo né l’aglio né il formaggio. Nel giro di pochi mesi mi ero costruita una bella clientela di scrittori, intellettuali e gente del quartiere.
Alfred Bournissard veniva spesso a pranzo alla Petite Provence, quando aveva ospiti importanti. È grazie a lui se ho conquistato personaggi come la cantante Lucienne Boyer e scrittori come Jean Giraudoux o Marcel Jouhandeau. Per non parlare di un vecchissimo signore, Louis Andrieux, ex questore che era stato anche deputato, senatore, ambasciatore, ed era il padre naturale di Louis Aragon. Tutta bella gente che ha contribuito alla fama del mio ristorante.
Lo zio Alfred ci aveva dato tanto che riuscivo sempre a trovare qualche ragione per scusarlo quando se ne usciva con le sue mostruosità. Anche se mi guardavo bene dal contraddirlo, la sua generosità mi metteva a disagio. Dopo la morte della sua prima moglie si era risposato con l’ereditiera dei ferramenta Plantin, finita in poltiglia sotto un treno per non essere scesa in tempo dalla sua automobile, rimasta in panne in mezzo a un passaggio a livello. Alfred, vedovo per la seconda volta, non si era più ripreso. Era di lacrima facile e soffriva di carenze affettive che cercava di colmare in qualunque modo, perfino nello sguardo del suo bassotto, motivo per cui non riuscivo a odiarlo neanche volendo, né a immaginare che un giorno avrei potuto tagliare i ponti con lui.
Mi consolavo dicendomi che ricevere è molto più difficile che donare.
20
L’arte della vendetta
Marsiglia, 2012. Devo interrompere un momento il mio resoconto. Verso l’una di notte, mentre finivo di scrivere l’ultimo capitolo, Samir il sorcio ha suonato alla porta.
«Disturbo?»
Me lo ha chiesto con la spocchia di certe giovani facce da schiaffi che, sedute ai tavolini dei bar con gli occhiali da sole, provocano i poveri vecchi per i quali mettere un piede davanti all’altro rappresenta una vera tortura.
«Stavo andando a letto» ho risposto.
«Ho roba pazzesca per te.» L’ho odiato mentre mi diceva questa frase, lui e il suo sorriso ambiguo. «È dinamite» ha insistito. «Ho trovato un documento ufficiale: nel 1943 Renate Fröll è stata affidata a un Lebensborn. Lo sai cos’erano, i Lebensborn?»
«Non mi pare» ho risposto tranquilla prima di invitare Samir il sorcio a sedersi, cosa che con la sua proverbiale maleducazione avrebbe fatto comunque, senza chiedere il permesso.
Mi ha spiegato cosa fossero i Lebensborn, benché in effetti lo sapessi già: reparti maternità delle SS, creati da Himmler per sviluppare una «razza superiore» con bambini rapiti o abbandonati i cui genitori fossero ariani certificati, biondi, con occhi azzurri e via dicendo. La loro vera identità veniva cancellata ed erano dati in adozione a famiglie tedesche modello, allo scopo di rigenerare il sangue del Terzo Reich.
Lasciai passare un lungo silenzio, in modo da mettere a disagio Samir il sorcio, il cui sguardo venne infatti attraversato da un lampo di inquietudine: «Non mi fai i complimenti?».
«Sto aspettando il seguito.»
«Dobbiamo andare in Germania, per investigare insieme e vederci più chiaro.»
«Non posso partire, lo sai» ho obiettato. «Ho un ristorante, non so se te lo ricordi…»
«Bastano pochi giorni.»
«Ormai quello che volevo l’ho saputo, non mi va di indagare ulteriormente. Ti darò la console, come promesso, e siamo pari.»
«Ma io voglio continuare.»
«Perché?»
«Voglio scoprire chi erano i genitori biologici di Renate Fröll. Voglio sapere che fine ha fatto dopo essere stata affidata al Lebensborn. Voglio capire perché ti interessi tanto a lei.»
Ero agghiacciata dal misto di ironia e di allusività nel suo sguardo. Avevo la sensazione che sapesse più di quanto diceva.
«Merda di uno schifosissimo porco» ho urlato all’improvviso, «che razza di scherzo è, bastardello? Continua così e ti arriva un ceffone che ti riduce la faccia in polpettine, sai? Perché non mi lasci respirare, eh? No, dico, lo sai quanti anni ho? Non pensi di dovermi almeno un po’ di rispetto?»
Samir il sorcio si è alzato di scatto e mi ha puntato contro un indice minaccioso: «Piantala immediatamente, Rose. Mi hai offeso e mi devi delle scuse».
Ci ho pensato un momento. Mi dispiaceva avere perso le staffe.
«Scusa» ho detto per chiudere l’incidente. «Sto scrivendo la storia della mia vita e mi tocca rimestare in una quantità di ricordi, alcuni non propriamente allegrissimi. Perciò ho i nervi a fior di pelle, capisci?»
«Va bene» ha risposto. «Ma non riprovarci. Non parlarmi mai più con questo tono, chiaro? Mai! Altrimenti sarà peggio per te.»
Per fare ammenda, gli ho offerto un’acqua e menta che abbiamo bevuto sul mio balcone, davanti al cielo stellato. Era una di quelle notti così luminose da sembrare giorno, in cui si indovina Dio in fondo all’universo, in quella specie di velo di luce che fa tremolare il mondo.
Samir il sorcio pareva un lecca lecca, ci ho dovuto mettere tutta la buona volontà per evitare di prenderlo, sgranocchiarlo e succhiarlo. Lui si è accorto del fuoco che aveva attizzato nella mia carcassa centenaria, e a giudicare dall’espressione ridanciana era abbastanza divertito.
«Sei una strana ragazza» ha detto alla fine. «Mi sa che investigherò anche su di te.»
«Non ti servirà a niente. Ben presto saprai tutto, ti basterà leggere le mie memorie.»
«Hai davvero intenzione di rivelare tutto?»
«Tutto.»
«Anche su quelli che hai ucciso?»
Aveva superato il limite. Non ho detto niente, l’ho solo guardato con disprezzo per metterlo in soggezione e mostrargli quanto mi avesse delusa.
«Hai ucciso delle persone, lo so» ha ricominciato lui poco dopo, «ti si legge negli occhi. A volte c’è una tale violenza nel tuo sguardo da mettere paura, giuro.»
«Questa non l’avevo ancora sentita.»
Avrei chiuso il discorso volentieri, ma arrivati a quel punto non potevo. C’è stato un altro silenzio, rotto sempre da lui: «Per star bene bisogna sapersi vendicare, non dici sempre così?».
«Sì, è vero. La vendetta è la sola vera giustizia, chi dice il contrario non ha vissuto. Tra l’altro secondo me non si può perdonare davvero se non dopo essersi vendicati. Ecco perché ci si sente tanto bene, dopo. Guarda come sono in forma alla mia età. Non ho rimorsi né rimpianti, perché per tutta la vita ho seguito la legge del taglione e ho sempre reso pan per focaccia.»
«Grazie della conferma.»
«Non confermo un bel niente. Ci si può vendicare benissimo senza uccidere, Samir. Esiste tutta un’arte della vendetta, da praticare con lentezza, sadismo e intelligenza, spesso senza spargere nemmeno una goccia di sangue.»
Lui ha scosso la testa a più riprese, poi ha sospirato alzando le spalle con ostentazione: «Rose, sei la prima a non credere a una parola di quello che hai detto. Il sangue si ripaga solo con il sangue».
«No, anche col cervello.»
Ero molto soddisfatta della mia battuta, rappresentava una chiusa perfetta e bisognava finirla lì. Per provare a Samir il sorcio la mia buona fede, gli ho proposto di rientrare in salotto e leggere i primi capitoli del libro.
Si è rivelato un prodotto tipico della nostra epoca, dove l’ignoranza in materia di letteratura peggiora di giorno in giorno. Benché si sia affrettato a sostenere il contrario, sono convinta che non avesse mai letto un libro in vita sua, nemmeno quelli obbligatori per la scuola, di cui al massimo doveva aver scorso il riassunto su internet per poi ricopiarlo pari pari.
Ci ha messo più di un’ora, inciampando spesso nelle parole, a leggere il prologo e i primi diciassette capitoli del libro. Alla fine era devastato. Non dal mio genio, ma dalla stanchezza; pareva aver compiuto uno sforzo sovrumano.
Prima di andare a dormire ha detto soltanto, neanche fosse un avvertimento: «Dovremo riparlarne a quattr’occhi».
Non ho capito bene cosa intendesse, ma non sono riuscita a dormire.
21
Omelette ai funghi
Parigi, 1930. Andava tutto troppo bene, dovevo per forza buttare all’aria la nostra felicità quotidiana per soddisfare i bassi istinti che mi agitavano le viscere.
Me lo ero ripromesso. Soltanto Teo era a conoscenza dei miei progetti, che peraltro approvava entusiasticamente.
Io e Gabriel nuotavamo come due pesci nelle calde acque della beatitudine. Eravamo sposati ormai da più di un anno e di lui mi piaceva ancora tutto, compresi i suoi genitori, incontrati per il nostro matrimonio e da cui ero rimasta incantata. Erano due filosofi provenzali, esattamente come Emma e Scipion Lempereur.
Bisognava goderseli in fretta, non sarebbero diventati tanto vecchi, ci dicevamo a torto, visto che per noi la vita era appena cominciata. Édouard aveva tre anni, io ventidue e Gabriel ventisei, quando ho deciso di chiudere il ristorante per le vacanze di Pasqua.
Ho detto di avere qualche faccenda privata da sistemare in Provenza e Gabriel non mi ha domandato cosa: era troppo discreto per chiedermi, e comunque riusciva a entrare nella mia mente come un coltello nel burro. Gli ho lasciato in pegno Teo.
Il nostro amore sarebbe durato per sempre, non ne dubitavo. In quella mansarda al sesto piano di rue Fabert non volava mai una parola di troppo, nemmeno dopo le notti in cui Édouard ci aveva messo alla prova, il che capitava spesso, tra sinusiti, laringiti e tutte le malattie da cui sono perseguitati i bambini.
Gabriel sapeva benissimo cosa avevo in mente. Conosceva gli attacchi d’odio che a volte mi impedivano di respirare. Quando lui e Édouard mi hanno accompagnata alla Gare de Lyon, ha aspettato di vedermi con un piede già sul predellino e poi mi ha detto all’orecchio: «Sii prudente, amore mio. Pensa a noi».
La prudenza non era il mio forte, e l’abilità di Gabriel consisteva appunto nel colpevolizzarmi. Non si opponeva ai miei progetti; ne valutava i rischi e fissava i limiti. Se non mi avesse detto quella frase, forse non avrei fatto sosta a Marsiglia prima di prendere il treno per Saint-Tulle. Sarei semplicemente corsa dietro al bisogno impellente che ero decisa a estinguere al più presto.
A Marsiglia sono andata dal parrucchiere e mi sono fatta tagliare i capelli alla Giovanna D’Arco, dopodiché ho comprato un cestino, della carne e abiti da uomo. Pantaloni, camicia, giaccone, un berretto e anche una sciarpa per coprirmi il volto almeno in parte.
Dopo essere scesa alla stazione di Sainte-Tulle, ho imboccato la strada verso il casale dei Lempereur, tagliando per un boschetto di querce in cui sapevo dove trovare dei funghi da mettere nel cestino. Qualche spugnola in cima, ma fondamentalmente due specie mortali, il cui odore e gusto traggono in inganno le vittime da generazioni: l’amanita falloide e l’inocybe rimosa. Roba da ammazzare un reggimento.
Quando i due molossi mi sono venuti contro, ho gettato loro la carne previamente infarcita di cicuta dal fiore ceruleo. L’hanno inghiottita con la stupida voracità tipica dei cani, dei maiali e degli uomini. Un tempo i lupi si ammazzavano così. Il risultato è garantito. Nel giro di pochi minuti sono crollati al suolo scossi da spasmi, con gli occhi fuori dalle orbite e la bava alla bocca. Sembravano morire di freddo a fuoco lento, se così si può dire…
«Mi dispiace per voi, ma non dovevate ammazzarmi il gatto.»
Mentre agonizzavano in cortile, sono andata a bussare alla porta dei miei vecchi tutori, con il cestino dei funghi in una mano e una pistola nell’altra. Si trattava di un’Astra 400, una semiautomatica di origine spagnola comprata da un amico giornalista nel quartiere latino.
Mi ha aperto Justin. A parte il colorito, un tempo rosso mattone e ora tendente al violaceo, non era cambiato. Mi ha riconosciuta subito, nonostante il travestimento, e mi ha stretto la mano mantenendo le distanze, circospetto e timoroso.
«Cosa è successo ai cani?» ha chiesto, nel vedere i molossi dimenarsi a pancia all’aria.
«Un’indisposizione.»
Ha finto di non notare la pistola e ha continuato: «Mi fa piacere vederti. Qual buon vento?».
«Sono venuta per il gatto.»
«Il gatto?»
Aveva la bocca secca e la voce strozzata, ma cercava di fare buon viso, visti i rapporti di forza: aveva una pistola puntata contro e i suoi cani agonizzavano alle mie spalle.
«Se è solo per questo, te ne regalo un altro, sai quanti se ne trovano, qui è pieno di gatti…»
«Ho accettato tutto da parte vostra, tutto, ma il gatto no» ho detto mentre lo spingevo in cucina. «Chiama la cicciona che adesso si mangia, è ora. Vi faccio un’omelette ai funghi come ai vecchi tempi, ricordi?»
«Eccome se me ne ricordo! Sei la regina dell’omelette ai funghi…»
«… E di molte altre cose.»
Anaïs, incuriosita dal rumore, si è presentata con passo pesante. La ritenzione idrica le aveva trasformato le caviglie in damigiane. Quando mi ha vista in cucina con l’Astra 400 in mano, ha gridato forte per lo spavento e sarebbe cascata all’indietro, se suo marito non l’avesse riagguantata all’ultimo.
«Perché ti presenti con una pistola?» ha chiesto Justin, con voce lamentosa perfettamente adeguata alle circostanze.
«Non volevo correre rischi, con voi due. Ci sono state troppe incomprensioni tra noi, avevo paura che non afferraste il senso della mia venuta, lo spirito di pace e di amicizia.»
«Che peccato, non esserci capiti.»
Justin era talmente contento di questa frase che l’ha ripetuta due volte.
«Ecco l’ultima occasione» ho detto io «per riconciliarsi e partire da zero.»
Ho mondato e tagliato i funghi sotto i loro occhi, ho sbattuto le uova, quindici in tutto, e ho amalgamato gli ingredienti. Ho tolto l’omelette dal fuoco ancora piuttosto liquida, come piaceva a loro, e ne ho servito un grosso pezzo per ciascuno, pregandoli di non ingurgitarlo come al solito ma di masticare bene, per gustarsi meglio il sapore, in ricordo dei vecchi tempi. Hanno ubbidito agli ordini, con l’ingordigia consumata dei porci all’ingrasso.
«Volevo molto bene a quel gatto» ho sussurrato, mentre mangiavano l’omelette.
«Anche noi, cosa credi.»
«E allora perché lo avete ucciso?»
«Ma non siamo stati noi, sono stati i cani» ha ribattuto Justin, «anche se avremmo fatto meglio a non lanciarglielo, è stato un gesto idiota, ci dispiace.»
Quando si furono riempiti ben bene la pancia, ho preparato il caffè. Mentre cominciavano a sorbirlo ho notato le prime sudorazioni e ho detto loro che stavano per morire: il processo avrebbe avuto inizio nel giro di pochi minuti e sarebbe durato diverse ore.
Sono rimasti di sale. Immaginavano qualche brutto scherzo, ma non di stramazzare a causa del loro peccato di sempre: la gola.
«È per il gatto» ho detto. «Dovevo vendicarlo, ci pensavo in continuazione, mi avvelenava la vita.»
Justin si è alzato, ma l’ho costretto a risedersi sotto la minaccia della semiautomatica. Li ho abbandonati al loro destino al sopraggiungere di nausea, vomito, diarrea e vertigini, poco prima che arrivassero le convulsioni e gli scoppiasse il fegato: sono vendicativa, non sadica.
Ho svuotato parte degli avanzi dell’omelette nelle ciotole dei molossi e ho lasciato la padella sul tavolo della cucina ancora piena per un quarto, in modo da non lasciare dubbi sulle cause della morte dei Lempereur e dei loro cani, dopodiché me ne sono andata.
Due settimane più tardi, da Parigi mi hanno convocata al commissariato di Manosque. Sono dovuta ritornare in Alta Provenza per farmi interrogare da un ispettore molto sospettoso, che per quasi un’ora mi ha bombardata di domande in presenza di un suo collega, ma senza ricavare alcun elemento a mio carico.
Si chiamava Claude Mespolet e aveva il naso come un punteruolo affilato, piantato in mezzo a una faccia da vecchia mummia inacidita su un corpicino da marionetta. Avrà avuto a malapena trent’anni e indossava una giacca unta su una camicia sgualcita, ma con i gemelli d’oro. La faccenda dell’avvelenamento da funghi lo lasciava estremamente scettico, era arrabbiatissimo con il mondo intero e in particolare con me.
«Quando ci si trova davanti a un omicidio» mi disse «bisogna innanzitutto cercare il movente. E lei ne ha uno.»
«Avrò anche un movente, ma non mi pare ci sia stato un omicidio.»
«Niente prova la sua affermazione.»
«Niente prova il contrario.»
«Invece sì, cara signora: nei cadaveri dei cani sono state rinvenute tracce di cicuta. Di conseguenza, posso ipotizzare l’azione di qualcuno che, nel tentativo di imbastire una commedia, abbia intenzionalmente riempito le loro ciotole con gli avanzi dei funghi velenosi.»
L’ispettore Mespolet piantò gli occhi nei miei, costringendomi ad abbassare lo sguardo.
«Si tratta solo di una supposizione, certo» concluse, «ma insomma, converrà che c’è del marcio in tutta la storia…»
Senza volere, Claude Mespolet mi aveva appena impartito una lezione. Non sarà stato un poliziotto geniale, ma nemmeno io ero una virtuosa del crimine. D’ora in avanti, basta con le commedie: destavano troppi sospetti. Meglio improvvisare.
Alcuni mesi dopo, ho ricevuto una lettera dal notaio di Manosque, in cui mi si comunicava, a seguito della «tragica scomparsa» di Justin e Anaïs Lempereur, che ero l’unica erede della fattoria di Saint-Tulle. Gli ho risposto di volermi disfare della proprietà, perciò, essendo ormai maggiorenne, lo incaricavo di venderla alle migliori condizioni possibili.
Alla fine dell’anno, con il ricavato ho potuto comprare un appartamento di tre stanze in rue du Faubourg Poissonnière, per me, Gabriel e Édouard. Lì, per oltre dieci anni, sono stata la donna più felice del mondo.
22
Ritorno a Trebisonda
Parigi, 1933. La felicità, diceva Emma Lempereur, non si può raccontare. È come una crostata di mele, si deve gustare fino all’ultima briciola, da raccogliere sul tavolo per poi leccarsi la crema sulle dita.
La felicità non va nemmeno esibita. Il modo migliore di trasformare gli amici in nemici è proprio mostrarsi gioiosi. La felicità è un’opera d’arte da mantenere segreta a tutti i costi: bisogna tenerla per sé, se non ci si vuole attirare inimicizie e malasorte.
Io e Gabriel siamo arrivati all’apice della felicità quando abbiamo dato a Édouard una sorellina, Garance, biondina e con gli occhi azzurri come sua madre, ma dal volto assai più fine e in grado di manifestare fin da tenerissima età una passione sfrenata per la danza. Già me la vedevo ballerina all’Opéra.
Per parte sua, Édouard voleva entrare in polizia o fare il ferroviere, tranne le volte in cui optava per il direttore d’orchestra. Era un tuttologo allegro e vivace, che odiava le etichette e i cassetti chiusi. Mi è sembrato subito talmente lontano dalla mentalità francese da indurmi a temere per lui.
Mi scuserete, ma non posso dire altro su Édouard e Garance. Nelle pagine seguenti eviterò di parlare dei bambini. Bisogna capirmi: mi basta stendere i loro nomi sulla carta per ritrovarmi con la faccia inondata di lacrime e il petto scosso dai singhiozzi.
Mentre scrivo queste righe l’inchiostro si mescola al pianto, con il risultato di trasformare le frasi in chiazze bluastre sui fogli del mio quaderno. Non ho iniziato a raccontarvi la mia storia per farmi del male. Ma appena cerco di mettere i bambini sulla carta tutto si confonde, mi manca la terra sotto i piedi. Dopo la tragedia non mi sono più usciti dai pensieri, ed è meglio se restano lì.
Non so perché, ma ricordare Gabriel mi è più facile, benché abbia condiviso la stessa sorte. A quei tempi faticava parecchio. Almeno sul lavoro. Non solo mio marito era ormai diventato il segretario di zio Alfred a tutti gli effetti, ma continuava a fargli da negro, inondando di stile alla Bournissard la stampa antisemita dell’epoca, come «La Libre Parole», «L’Ordre National» e «L’Antijuif».
Non me lo ha mai confessato, ma capivo quanta vergogna provasse per quel lavoro, e detto tra noi non mi dispiaceva affatto: non ne parlava quasi mai o se per sbaglio tirava fuori l’argomento lo faceva a occhi bassi, con labbra e sorriso sempre alterati da una piega amara. Era complice di una cosa di fronte alla quale inorridivo, senza contare che lo sapevo nato per ben altre imprese. Per questo lo perdonavo, e anche perché era alla ricerca di un impiego d’altro tipo, per esempio si occupava delle critiche musicali del «Figaro» in assenza del titolare.
Nella primavera del 1933, quando a cinquantadue anni Alfred Bournissard morì per un ictus da molto tempo in agguato a causa dei suoi congestionatissimi capillari cerebrali, Gabriel cercò di liberarsi degli squallidi estremisti di destra con cui intrallazzava suo zio. Per qualche tempo collaborò con Jean Giraudoux, autore della Pazza di Chaillot, spesso accusato di antisemitismo ma al quale molto si deve perdonare per aver scritto che «la razza francese è una razza composita» e che «non c’è solo il francese di nascita ma francesi si può anche diventare». Puzzerà un po’ di bruciato, ma non ho mai voluto collocarlo sullo stesso piano degli altri.
Alcuni mesi dopo, sempre a caccia di un lavoro fisso, Gabriel accettò un posto da redattore alla «France Réelle», un fogliaccio la cui sola vista mi dava il vomito. Ma non sarei stata certo io a scagliare la prima pietra contro mio marito. La clientela del mio ristorante era composta essenzialmente da gentaglia dello stesso tipo.
Lo schifo nei loro confronti, molto ben dissimulato, era forse l’unico limite alla nostra felicità, sempre bisognosa di restrizioni per meglio essere gustata. Gabriel non aveva niente in comune, lo sapevo bene, con quella manica di scalmanati e sedicenti patrioti che brulicavano in Francia negli anni Trenta, ed ero ben contenta di vederlo rifarsi una coscienza lavorando a una biografia in memoria di Salomon Reinach, originario di una famiglia ebrea di banchieri tedeschi, archeologo e umanista, esperto di storia delle religioni e una delle più belle menti dell’epoca, morto un anno prima dello zio Alfred.
Nulla avrebbe potuto scalfire l’armonia del nostro matrimonio. Né i miasmi dell’epoca né le difficoltà sul lavoro di Gabriel. Non c’era nemmeno bisogno di parlare, per capirci.
Mio marito mi leggeva nel pensiero, come la volta in cui ha accettato di buon grado di restare da solo con i bambini durante la chiusura annuale della Petite Provence, nella prima quindicina di agosto: dal suo sorriso d’intesa ho compreso che sapeva già cosa avevo in mente, quando gli ho comunicato la mia intenzione di andare a Trebisonda, nei luoghi della mia infanzia, «per sistemare alcune faccende private».
*
Il 1933 è stato anche l’anno di nascita del Terzo Reich. Vide la luce il 30 gennaio, in seguito alla decisione del presidente Paul von Hindenburg, vecchio rimbambito al pari della sua repubblica in fin di vita, di consacrare Adolf Hitler nominandolo cancelliere. La mela era guasta e tutto il cesto avrebbe finito per marcire.
Alcune settimane più tardi, in seguito all’incendio del Reichstag, Hitler si arrogò i pieni poteri per poter difendere il Paese contro un presunto complotto comunista, e il 20 marzo Himmler, capo della polizia di Monaco, annunciò di lì a due giorni l’apertura presso Dachau del primo campo di concentramento ufficiale, con una «capacità di cinquemila posti», destinato ad alloggiare gli elementi antisociali per impedire loro di suscitare agitazione o mettere in pericolo la propria salute, se non la vita.
Al liceo di Manosque avevo scelto tedesco, come prima lingua straniera. Vi ero stata iniziata da Emma Lempereur, che era innamorata della cultura germanica e mi aveva messo in mano I dolori del giovane Werther di Goethe. Il seguito era venuto da sé. Bach, Schubert, Mendelssohn e compagnia bella.
Ma il germanismo di cui mi nutrivo non mi aveva aiutata ad accorgermi dell’astro nascente del nazismo, né peraltro mi preoccupavo dei cinque, sei o sette milioni di morti causati in quello stesso periodo dalle grandi carestie sovietiche.
Il 22 gennaio 1933 Stalin, uno dei peggiori criminali della storia dell’umanità, firmò con la complicità di Molotov una direttiva in cui si ordinava ai contadini dell’Ucraina e del Caucaso del Nord di non abbandonare i loro territori, condannandoli a morire di fame su due piedi, con l’assoluta proibizione di andare a cercare altrove il pane di cui erano privati, mentre l’Unione Sovietica esportava diciotto milioni di quintali di grano.
La furia genocida aveva preso il via; nulla avrebbe più potuto fermarla. Sotto l’egida di Hitler e Stalin, avrebbe stritolato via via, e a volte tutti insieme, ebrei, ucraini, bielorussi, popolazioni baltiche, polacchi e molti altri ancora.
Se mi fossi presa la briga di informarmi su tutto ciò, il 1933 mi avrebbe lasciata con l’amaro in bocca. Invece quell’anno mi ha regalato una delle più grandi gioie della vita. Ha cominciato a nascere in me proprio nell’estate del 1933 quando, dal ponte della nave, ho visto avvicinarsi Istanbul.
La gioia mi è rimasta dentro per i tre giorni di scalo nell’antica Costantinopoli, che nel 1930 aveva cambiato nome e dove mi sono subito sentita a casa. Non so se è stato per via dei profumi nell’aria o per la gentilezza degli sguardi delle persone, ma camminando per strada avevo la sensazione di ritrovare una parte di me, persa dai tempi in cui avevo lasciato il Mar Nero.
Dov’erano gli assassini della mia famiglia? A questo mondo, i boia fanno presto a diventare vittime e le vittime boia. La folla era così bonacciona che nemmeno per un momento riuscivo a immaginarla intenta a trucidare in blocco il mio popolo. Ero una turca in mezzo ai turchi… anzi, mi verrebbe da dire che ero turca per i turchi: gli uomini mi sembravano molto più belli che a Parigi, ma non ho ceduto alla tentazione.
Anche se ci è mancato poco. Un tipo mi ha seguita nel grande bazar di Istanbul, dov’ero andata a comprare regali per tutta la famiglia. Alla fine mi ha abbordata per chiedermi se volevo passeggiare insieme a lui, ma non gli ho dato corda.
Sono andata a pregare nella moschea di Santa Sofia, per più di dieci secoli uno dei monumenti fondamentali del cristianesimo, dal 537 al 1453, data della sua islamizzazione. Quello era l’ultimo anno in cui fu un luogo di culto, prima che la trasformassero in un museo. Ero rapita. Mi è sembrato di percepire un soffio divino nel biancore lucente che entrava dalle vetrate e andava a cozzare contro le pareti della cupola.
Pochi giorni dopo la mia gioia raddoppiò, quando la nave giunse al largo del porto di Trebisonda, stagliato in fondo al mare latteo che si squagliava in un cielo basso e spumoso.
Era però una gioia mista ad angoscia, come nel momento in cui ci troviamo per la prima volta davanti all’amore, aprendo la porta della camera dove ci aspetta un letto di piaceri. Solo che stavolta sarebbe stato un letto di morte.
Sapevo chi dovevo incontrare, ma non avevo ancora deciso come comportarmi.
23
Una gita in barca
Trebisonda, 1933. Ali Recep Ankrun aveva tante pance quante quelle dello zio Alfred, più una sul naso, simile a un pomodoro del Caucaso spiaccicato in mezzo alla faccia.
Era monco ed era uno di quei mutilati che si rifiutano di ammettere la perdita dell’arto: di tanto in tanto tendeva a far volteggiare il gomito per sottolineare l’importanza di quanto andava dicendo. Ho fatto non poca fatica per resistere alla voglia impellente di chiedergli come mai glielo avessero amputato.
Sudava molto, soprattutto in faccia, motivo per cui aveva sempre con sé un fazzoletto a scacchi grande come un canovaccio, con cui si tamponava il volto. In compenso, odorava di buono. Emanava un profumo di lokum, caramello e latte di mandorla, tanto da farmi quasi venir fame.
Il sindaco di Trebisonda mi accolse precipitandosi verso di me con l’entusiasmo volgare e ottuso dei politici, come se aspettasse il mio arrivo da sempre: «Fa benissimo a interessarsi alla nostra città».
«Quando “Le Figaro” mi ha proposto di scrivere un’inchiesta su Trebisonda, ho subito accettato.»
«Questo prova la grande serietà del suo giornale, cosa peraltro a me già nota.»
Ha abbassato il tono e si è prodotto in un sorriso mellifluo: «Complimenti, parla benissimo il turco. Dove l’ha imparato?».
«A scuola. Mio padre era affascinato dall’Impero bizantino.»
«Allora saprà già che per più di duecento anni la nostra città è stata la capitale di un altro impero, detto appunto di Trebisonda.»
«Sì, e so anche che è stata fondata dagli antichi greci, tantissimo tempo fa.»
«Ah!» sospirò. «Con i greci non siamo mai andati d’accordo. Sono dei cristiani ottusi, ossessionati dalla loro fede idiota e fissati con le croci, devono metterle per forza ovunque. Da quando se ne sono andati, ammettiamolo, si sta molto meglio qui da noi.»
Anche se ne avevo una gran voglia, non potevo rispondergli che il governo turco aveva trattato la questione greca esattamente come aveva fatto tempo prima con quella armena: attraverso l’eliminazione radicale. Tra il 1916 e il 1923 il genocidio dei greci aveva causato trecentocinquantamila vittime in tutta la regione. Il cristianesimo era stato debellato dalla faccia della Terra e le campane cancellate dal canto dei muezzin.
Comunque non ero venuta per discutere con Ali Recep Ankrun, ma per qualcosa di molto più importante. Ecco perché annuivo con l’aria di una bambina sottomessa e affascinata.
«Proprio grazie a questa purificazione la vostra città è potuta ripartire su solide basi.»
«Ripartire non è la parola esatta, io parlerei piuttosto di rinascita, addirittura di boom economico. Sono pronto ad accordarle un’intervista esclusiva per parlare di tutto ciò e dei miei numerosissimi progetti, che spaziano dall’industria all’istruzione alla religione.»
Mi magnificò le moschee di Trebisonda, assolutamente da visitare senza indugio, poi passò a parlare di pesca, una delle attività fondamentali di una città che, a sentir lui, era praticamente la capitale di ogni cosa. Acciughe e papaline, cefalo rosso ma anche nocciole, tabacco, mais e patate.
Passarono un’ora e poi due. Ali Recep Ankrun non sembrava intenzionato a metter fine al nostro primo incontro. Una specie di secondino si affacciava a intervalli regolari con due occhi così: la delegazione di imprenditori georgiani da lui lasciata a fare anticamera si spazientiva, a breve dovevano ripartire per Erzurum, dove avevano una serie di appuntamenti.
Prima di salutarci, il sindaco di Trebisonda mi invitò a cena per la sera stessa e io accettai, fingendo un fremito in tutto il corpo che gli fece molto piacere, almeno a giudicare dalla dilatazione delle sue pupille. Approfittai del pomeriggio per passeggiare per le vie di Trebisonda, in particolare a Uzun caddesi, con le orecchie ricolme delle grida dei pescivendoli e le narici pregne dell’odore di lavash, il pane armeno. Nel giro di poco mi sono sentita talmente piena di vento, di effluvi, profumi e colori da dimenticare il motivo per cui ero venuta.
Dopo tante morti, non era cambiato nulla in questa città sempre brulicante, alle pendici di una montagna. La vita aveva ripreso il suo corso e trascinava anche me attraverso la folla indaffarata. Nonostante i miei preconcetti, cedevo al fascino di Trebisonda. Mi sentivo riconciliata con me stessa.
Quella sera, nel miglior ristorante della città dove Ali Recep Ankrun mi aveva invitata, dovetti resistere con tatto agli approcci del sindaco, evidentemente deciso a farmi la festa subito dopo il dolce. Non per vantarmi, ma me la sono cavata niente male.
«Mai, la prima sera» dissi, prendendogli la mano sudaticcia nella mia. «Mi perdoni, ma… devo essere sicura, prima di impegnarmi. Sono una sentimentale, capisce, e poi sono sposata.»
Si trattava solo di rimandare. Ali Recep Ankrun mi ha proposto un picnic per l’indomani sulla sua barca e io ho subito accettato sbattendo le ciglia, leccandomi le labbra ed emettendo una specie di rantolo, magari un po’ rozzo ma certo piuttosto eloquente. Per poco non gli ho detto che per allora sarei stata pronta a chiudere la pratica, ma ci hanno pensato bacino e glutei, con pochi leggeri tremolii, a farglielo capire.
«Non dica a nessuno chi sono» mi raccomandavo. «Tengo a mio marito e non voglio scandali.»
«Nemmeno io. Stia tranquilla, sarò molto discreto. È nel mio stesso interesse.»
«Vorrei che in barca ci fossimo soltanto noi due. Niente domestici, sapete come sono fatti. Sempre a chiacchierare.»
«Ma certo, e poi sono troppo timido per sopportare la presenza di chicchessia, quando le farò la mia dichiarazione.»
Mi ha rivolto una strizzatina d’occhio e un sorriso salace. Ho posato la mano sulla sua e gliel’ho accarezzata piano, per confermargli le mie intenzioni.
Abbiamo incominciato a darci del tu.
«Non vedo l’ora di provarti i miei sentimenti» ho detto.
«Ti amo.»
«Sento che è l’inizio di una grande storia d’amore.»
Il giorno seguente, sono salita sul suo motoscafo per la nostra crocierina con la mia semiautomatica Astra 400 nascosta in fondo alla borsetta, anche se contavo di non averne bisogno. Come ho già detto, avevo deciso di improvvisare.
Per cominciare gli ho chiesto di andare verso il largo e il sindaco ha ubbidito senza storie, anche perché, ho precisato, per non turbare il mio grande pudore dovevamo mettere più distanza possibile tra noi e la riva, prima di dare inizio ai preliminari.
Quando ha spento il motore e ha lasciato il motoscafo andare alla deriva ben lontano da terra, l’ho soddisfatto come si conviene, era il minimo: ci volle pochissimo, il tempo di uno starnuto, ma il sindaco mi è sembrato quasi emozionato. Anch’io, ma non per lo stesso motivo. Ero nello stato di agitazione tipico di quando sto per partorire.
Dopo aver sbrigato la pratica, si è messo a leccarmi le tette con l’avidità di un neonato. Capii che stava rifacendo la punta alla matita e ho finto che l’amore mi avesse stimolato l’appetito.
«Va bene» ha detto, «mangiamo, ricominciamo, e via così.»
Ali Recep Ankrun ha preso il cestino e ha tirato fuori una serie di focacce turche, in particolare certi pide con feta e spinaci da resuscitare i morti. Quando alla fine del pranzo si è piazzato sul bordo del motoscafo per pisciare, ho preso uno dei remi di emergenza e l’ho spinto in mare con quello. Mentre si agitava in acqua ansimando come un cagnolone, gli ho detto: «È per la morte di mio padre».
«Tuo padre?»
«Era un contadino di Kovata.»
«Non me lo ricordo.»
«Era armeno. L’hai ammazzato prima di ordinare l’uccisione di mia madre, di mia nonna, dei miei fratelli e delle mie sorelle. Presto o tardi, la dovevi pagare. Per lui e per tutti gli altri.»
L’invalidità lo ostacolava, tra l’altro sapeva nuotare a malapena. Gli mancava il fiato, si stava facendo prendere dall’angoscia. Tra una parola e l’altra lanciava orrende grida da animale al macello, una via di mezzo tra muggiti, guaiti e nitriti.
«Ci godevi, eh, a buttare in mare tutta quella gente, donne, bambini?»
«Eseguivo gli ordini.»
A giudicare dall’espressione della bocca, con il labbro inferiore molto prominente, sembrava stesse piangendo, ma non potrei giurarci.
«Se mi salvi la vita» è riuscito a gridare in un ultimo sforzo «ti darò tutti i soldi…»
Ha gorgogliato ancora qualcosa, si è agitato un altro po’, ha biascicato qualche gridolino da coniglietto scuoiato, poi un’onda lo ha sommerso ed è andato giù.
Mi dispiaceva non avergli chiesto se fosse riuscito a mettere le mani sul gruzzolo della signora Arslanian. La gente dice sempre la verità, quando sta per morire.
Ho riacceso il motore e appena scesa sul molo sono corsa all’albergo a riprendere la mia roba, per poi tornare subito al porto, dove mi sono imbarcata sulla prima nave in partenza.
Ho comprato a caro prezzo un posto da clandestina. Si trattava di una nave da carico, trasportava uvetta, lana e cuoio. Il primo scalo era in Romania da dove, innocente come un agnellino, ho ripreso il treno per la Francia.
24
L’ebreo che non sapeva di esserlo
Parigi, 1938. Spesso ci si rende conto troppo tardi di quanto si è felici. Io non ho questo difetto. Mi sono goduta appieno i cinque anni successivi, di cui saprei dire solo che sono stati bellissimi. Poi un giornale ha accusato Gabriel di essere ebreo, e la nostra vita si è trasformata in tragedia.
Secondo l’autore dell’articolo gli ebrei erano ovunque, non solo tra giornalisti e banchieri, ma anche tra la folla con cui è stato loro consentito di mescolarsi cambiandosi il cognome.
Tutto era cominciato con l’Impero austroungarico. Per porre fine all’abitudine ebraica di darsi soprannomi ereditari, l’amministrazione li aveva dotati, volenti o nolenti, di cognomi germanici spesso molto belli, come Morgenstern (stella del mattino), Schönberg (bel monte), Freudenberg (monte gioioso), oppure di nomi di città: Bernheim, Brunschwig, Weil, Worms.
In Francia, con il decreto napoleonico del 20 luglio 1808, i funzionari civili si videro assegnare il diritto di scegliere essi stessi il cognome da attribuire agli ebrei immigrati. Alcuni vennero arbitrariamente chiamati Anus, che cambiarono in seguito in Agnus. Altri, come di là dal Reno, si videro imporre nomi di città: Caen, Carcassonne, Millau, Morhange.
Anche il cognome Picard non ha niente a che vedere con la Piccardia. Si tratta più spesso di una libera traduzione di Bickert o Bickhard. Come Lambert o Bernard, francesizzazione di Bär, sono cognomi da cui è facile lasciarsi confondere. Lo stesso zio Alfred lo aveva scritto una volta: gli ebrei si nascondono ovunque, persino dietro cognomi francesi.
Alla fine degli anni Trenta, alcuni scrittori affermati si diedero il compito, sulla scia di Henry Coston, di braccare gli ebrei fin nelle roccaforti dei cognomi dietro cui si celavano. Con una smania da cacciatori andarono a stanare i Cavaillon, i Lunel, i Bédarrides e i Beaucaire.
Per nostra sfortuna, Gabriel si chiamava appunto Beaucaire. L’8 gennaio 1938 l’«Ami du Peuple», un fogliaccio che per diverso tempo ha vantato una tiratura di un milione di copie, denunciò in prima pagina le origini ebree di mio marito con un articolo a firma di Jean-André Lavisse, che proseguiva all’interno occupando quasi un intero paginone. Caddi dalle nuvole. E lui pure.
L’articolo, apparso nella rubrica Scovate l’ebreo e venefico quanto bene informato, rivelava che Gabriel discendeva per parte di padre da un’antica famiglia ebraica: venivano citati una quantità di cognomi, c’era perfino un albero genealogico. Era un attacco apparentemente inoppugnabile, che risaliva al 1815, data dell’arrivo in Francia dei suoi avi. Sembrava un dossier della polizia.
L’«Ami du Peuple» annunciava anche che Gabriel stava nascostamente lavorando all’agiografia di Salomon Reinach «ebreo e calunniatore del cristianesimo». Lo accusava di essersi malevolmente infiltrato negli ambienti dell’estrema destra per conto della Lica, la Lega internazionale contro l’antisemitismo, di cui avrebbe frequentato da tempo e in segreto numerosi dirigenti.
Sempre secondo Jean-André Lavisse, Gabriel era un informatore e collaboratore dei servizi di polizia del vecchio presidente del Consiglio socialista Léon Blum, un «ibrido etnico nonché ermafrodita», di cui era intimo e per il quale stilava rapporti, oltre a fornire informazioni di ogni genere a nemici dei francesi doc, Lica in testa.
Il giornale faceva i nomi e devo dire che ne conoscevo almeno uno, quello di Jean-Pierre Blanchot, uno dei migliori amici di Gabriel, da lui presentatomi come professore di storia e mai in qualità di colonna portante della lega, cosa che in effetti era.
Il giorno in cui usciva l’articolo sull’«Ami du Peuple», Gabriel si presentò inaspettatamente alla Petite Provence. Stavo rompendo le uova nel tegame con il latte, per preparare il mio famoso crème caramel, quando l’ho visto entrare in cucina. Aveva la faccia stravolta e ho subito capito la gravità della situazione. Dopo essermi fatta spiegare la faccenda, gli ho domandato: «Lo sapevi, di essere ebreo?».
«Certo che no. Nessuno in famiglia lo sapeva. Altrimenti secondo te saremmo stati accolti a quel modo dallo zio Albert, antisemita com’era?»
«Mi incuriosisce una cosa, però, a cui non avevo mai pensato: il tuo nome di battesimo. Non ti pare strano che ti abbiano chiamato Gabriel?»
«Un sacco di non ebrei si chiamano Gabriel. È il nome dell’arcangelo, lo si ritrova nella religione ebraica come nel cristianesimo e nell’islam. Senti Rose, so benissimo quanto poco te ne importa, ma se avessi saputo di essere ebreo te lo avrei detto subito comunque. Dov’era il problema? Per chi mi hai preso?»
Allora gli ho chiesto se davvero faceva il doppio gioco con l’estrema destra, come lo accusava l’«Ami du Peuple», e lui ha risposto con un’altra domanda, come era sua abitudine nonché, secondo lo zio Alfred, una delle caratteristiche principali degli ebrei in società: «Ti sembro capace di fare il doppio gioco?».
«A dire la verità un po’ mi stupirebbe… ma, insomma, mi avrebbe fatto un gran piacere, non te lo nascondo.»
Gabriel è rimasto zitto; mi ha solo baciata delicatamente al solito posto, tra la tempia e l’occhio. Oso sperare di avere bene interpretato il senso di quel gesto, ma non riuscii a chiedergliene conferma. Tra l’altro ero sconvolta. Avevo appena ricevuto una grande lezione di vita: non si conosce nessuno, nemmeno quando si vive insieme.
Se era riuscito a nascondermi le sue convinzioni politiche, potevo aspettarmi altre sorprese. Cominciai a immaginare che mi tradisse. Mentre io ero affaccendata in cucina, niente gli impediva di usare il suo talento mistificatorio al servizio di una doppia vita amorosa, anche perché dopo svariati anni sentivo il suo desiderio scemare.
Passava all’azione sempre meno, e si sbrigava sempre più in fretta. Di notte, mentre mi dormiva accanto, fantasticavo spesso di sue presunte infedeltà e già lo vedevo cavalcare qualche ragazza facile, sul genere di quelle da cui era circondato alle feste, sempre a pendere dalle sue labbra e a mendicare un suo sguardo.
Ancora ancora potevo sopportare la fantasia di lui che si dimenava sopra un’altra, ma quando arrivavo a immaginare gli ansimi e le grida di piacere era troppo anche per me. Quella tortura notturna era diventata una sorta di atroce incantesimo da cui non ero capace di liberarmi, tanto che ogni mattina mi alzavo dal letto come una specie di cadavere.
Più ci pensavo e più mi convincevo che Gabriel fosse il perfetto marito adultero. Non parlava mai di cosa faceva durante il giorno, né dipendeva da orari stabiliti, lavorava molto ma sempre secondo una tabella decisa da lui. Inoltre, al contrario di me, non andava soggetto a sbalzi d’umore e non dimenticava mai certe piccole attenzioni, per esempio un mazzo di fiori, che mi facevano arrossire di piacere e di cui i mariti farfalloni si servono, noi donne lo sappiamo benissimo, per lavarsi la coscienza a buon mercato. L’agenzia investigativa Duluc Détective di rue du Louvre, tuttavia, dopo un mese di pedinamenti mi rassicurò sull’assoluta innocenza di Gabriel.
In seguito alle rivelazioni dell’«Ami du Peuple», Gabriel si ritrovò senza lavoro dall’oggi al domani: antisemita per gli ebrei ed ebreo per gli antisemiti, non aveva più nessun appiglio. Confesso di averlo fatto soprattutto per tenerlo d’occhio, comunque sono riuscita a convincerlo a venire a lavorare con me.
Avevo venduto il locale in rue Saints-Pères per prendere un nuovo ristorante molto più grande, in place du Trocadéro, che doveva aprire di lì a poche settimane sempre sotto l’insegna della Petite Provence. Qui, io e Gabriel diventammo per qualche tempo i re di Parigi insieme al gatto Sultan, che avevo comprato apposta per dare la caccia ai topi e ricopriva il ruolo con tecnica consumata e un’eleganza senza pari.
25
Giorni spensierati
Parigi, 1938. Pochi giorni dopo l’uscita del pezzo sull’«Ami du Peuple» destinato a cambiarci la vita, Hitler annetteva l’Austria alla Germania. Appena il tempo di lasciar entrare le truppe tedesche nel Paese natale del Führer, e il 13 marzo veniva decretata l’Anschluss.
Mentre Hitler ululava parole di vittoria dalla loggia di Hofburg sulla Heldenplatz davanti a una moltitudine festante, Himmler chiudeva le frontiere e prendeva in trappola topi, pidocchi, ebrei e tutti i nemici del regime, in modo da poterli cancellare dalla faccia della Terra.
L’evento non mi colpì più di tanto. Io e Gabriel parlavamo del nazismo senza preoccuparci troppo. Berlino era un immenso crogiolo di cultura a cui sognavamo di abbeverarci. La cultura tedesca, in piena esplosione creativa grazie a Thomas Mann e Bertolt Brecht, sembrava immune da qualsiasi male.
Sono sicura di non avere nemmeno letto i giornali in cui si raccontavano le ultime malefatte di Hitler. Ero fiduciosa quanto oberata di lavoro. Nel grosso registro del ristorante, su cui annotavo tutto, ho ritrovato proprio nel giorno dell’Anschluss una prenotazione a nome di Édouard Frédéric-Dupont, deputato del XVI arrondissement, dove si trovava il mio nuovo ristorante e che allora funzionava come circoscrizione elettorale, per una tavolata di quaranta persone. Di quell’avvocato difensore delle portiere a titolo gratuito si diceva che sarebbe stato deputato fino alla fine dei suoi giorni, solo per diventare senatore subito dopo.
Era un personaggio con testa a martello, modi da millepiedi e uno sguardo da faina. Mi piaceva molto e lui ricambiava frequentando assiduamente La Petite Provence. Se devo credere al conto segnato in fondo alla prenotazione, aveva ordinato un menu unico il cui piatto forte doveva essere la mia inimitabile brandade di baccalà alla provenzale con aglio e patate. Alla mia età, posso finalmente rivelare il segreto della ricetta: aggiungo sempre del peperoncino fresco.
Anche il 30 settembre 1938, quando vennero firmati gli accordi di Monaco con cui si avallava lo smembramento della Cecoslovacchia a vantaggio della Germania nazista, avevo la testa altrove: era il compleanno di Garance, e come sempre lo festeggiavamo al ristorante con il mio ineguagliabile soufflé di granchio in salsa di astici, il suo piatto preferito. Mi ricordo ancora che al tavolo accanto c’era Yvette Guilbert, a cena con due anziane signore, e quando nostra figlia ebbe spento le candeline venne a cantarci Madame Arthur:
Ognun vuole lei, damigella
Ognun la corteggia, e perché?
Non è che sia davvero bella
Ma ha sempre quel suo non so che.1
Mentre lavoravo mattina e sera alla Petite Provence, al di là del Reno gli eventi precipitavano. Non ricordo cosa ho fatto tra il 9 e il 10 novembre 1938, durante la Notte dei cristalli, quando in tutta la Germania venne aperta la caccia all’ebreo. Probabilmente non stavo facendo l’amore con Gabriel, perché la cosa era diventata piuttosto rara. L’ipotesi più verosimile è quella di un tentativo di annegare una terribile insonnia in una bottiglia di Porto.
A quanto pare, quel pogrom gigantesco dev’essere passato completamente inosservato ai miei occhi. Dopo le sinagoghe incendiate, i negozi saccheggiati e i trentamila ebrei arrestati, avrei dovuto almeno preoccuparmi per Gabriel. Soprattutto perché, sull’onda dell’entusiasmo, gli ebrei tedeschi sono stati obbligati a vendere a prezzi ridicoli i loro beni, le case, le imprese e le opere d’arte prima dell’inizio dell’anno nuovo. Ed è stato loro vietato in aeternum l’accesso a piscine, cinema, concerti, musei, telefoni, scuole e patenti di guida.
Vivevamo spensierati, io e Gabriel, pronti a morire per i nostri due bambini, o al massimo per il ristorante. Siccome tutte e tre le cose andavano a gonfie vele, la vita ci sembrava procedere a meraviglia nel migliore dei mondi possibili, per riprendere una stupida massima. Mio marito ce l’aveva sempre in bocca, e quando mi vedeva scatenata davanti ai fornelli mi raccomandava di leggere i grandi sapienti dell’antichità come Epicuro, di cui citava di continuo questa frase: «A chi non basta il poco, nulla basta».
Un giorno mi sono data un tono rispondendogli con un’altra citazione da Epicuro e ha dovuto chiudere il becco per un bel po’: «Meglio cedere alle tentazioni, prima che ci abbandonino».
E infatti vi ho ceduto, una sera che Gabriel era rimasto a casa con i bambini. Si trattava di un socio importante dei negozi di alimentari Félix Potin. Un omaccione con due spalle da taglialegna e un odore di sigaro e acqua di Colonia, l’interprete ideale per recitare al cinema il ruolo di Maupassant. Mangiava sempre da solo, e negli ultimi tempi sembrava restare apposta per aspettare il momento in cui passavo a salutare i clienti prima della chiusura. Mi ero resa conto di essere nelle sue mire la settimana precedente, quando dopo aver posato una mano sulla mia si era messo a farfugliare qualcosa che io, capendo fin troppo bene, non gli avevo chiesto di ripetere.
Quella sera il ristorante si era svuotato prima del solito, non era ancora mezzanotte quando avevo mandato a casa il personale visto che in sala era rimasto un solo cliente, seduto vicino alla porta a fantasticare davanti a un bicchiere di Armagnac: Gilbert Jeanson-Brossard, così si chiamava la mia tentazione.
Mi sono versata un Armagnac a mia volta, sono andata a berlo insieme a lui e l’ho finito in cucina, dopo essermi fatta prendere in piedi, da dietro, addossata al bancone. Non era tipo da dedicarsi troppo a chi montava, ma mi era piaciuto molto lo stesso e quando finì mi scappò di dirgli: «Grazie».
«Non è la donna a dover ringraziare, ma l’uomo, perché la donna dà, mentre l’uomo per parte sua riceve e basta.»
«Mi scusi, ma temo sia il contrario.»
«No. Forse lo sarà fisicamente, ma in realtà le cose non stanno affatto così, lo sa anche lei.»
Gilbert Jeanson-Brossard, con la sua fronte alta, i tratti del volto regolari e i capelli castani, era un gran bell’uomo. Non ho mai più stretto tra le braccia un corpo così ben fatto. Le sue manone da faticatore mi eccitavano da morire. Bastava sentirmele addosso, sotto la camicetta, per farmi venire subito la pelle d’oca.
A parte tre argomenti su cui si dimostrava inesauribile, nella fattispecie cavalli, ristoranti di Parigi e locali della Costa Azzurra dove si recava ogni estate, non era un gran conversatore. Anzi, era decisamente l’opposto dell’intellettuale. Gilbert Jeanson-Brossard aveva qualcosa di rozzo e bestiale che cascava a fagiolo per distrarmi dalle premure di Gabriel. In due o tre occasioni mi ha lasciato sul collo dei segni violacei, in seguito ai quali ho avuto la conferma di non essere guardata più da mio marito, benché mi fossi premunita di nasconderli sotto foulard del tutto fuori stagione.
Gilbert Jeanson-Brossard cominciò a venire ogni giovedì sera, giorno in cui Gabriel si prendeva il riposo settimanale per stare un po’ con i bambini. Era sposato anche lui e, sebbene mi trovasse bella e sempre più desiderabile, in me cercava solo una cavalcatina settimanale, grazie alla quale condivo di piacere la mia felicità di quel periodo.
1 Chacun voulait être aimé d’elle / Chacun la courtisait, pourquoi? / C’est que sans être vraiment belle / Elle avait un je-ne-sais-quoi!
26
Dichiarazione di guerra
Parigi, 1938. Per diverse settimane Gilbert Jeanson-Brossard non solo mise del sale nella mia vita coniugale, ma se possibile aiutò il legame tra me e Gabriel a rinsaldarsi. O almeno, così credevo.
Dopo ogni cavalcata con lui, alla sua maniera rapida e selvaggia nella cucina del ristorante, tornavo al talamo nuziale in preda a vere e proprie vampate d’amore nei confronti di mio marito, a cui davo subito seguito sotto le coperte, anche se non sempre i miei sforzi erano coronati da successo.
La colpevolezza, scoprivo, può rivelarsi uno dei migliori terreni di coltura per l’amore. A condizione di concedersi all’amante ma senza mai donarsi, senza lanciare la relazione a briglia sciolta: una specie di adulterio di convenienza, all’unico scopo di godersi la vita nel rispetto di ciascuno, come si fa a Marsiglia. Il generale de Gaulle ha scritto che l’uomo non è fatto per la colpevolezza. La donna invece sì. Mi piaceva sentirmi pungere da quella sensazione di slealtà.
Invece non mi piaceva affatto dover subire le reprimende di Teo, il cui acquario troneggiava nella cucina del ristorante e sotto il cui sguardo fornicavamo: «Ma cosa mi combini? Non si tradisce il marito, razza di cesso! Comunque non a trent’anni. Dove andremo a finire?».
Non potevo dire niente a mia discolpa, perciò cambiai posto all’acquario in modo da risparmiare a Teo lo spettacolo dei nostri amori. Non per questo smise di farmi la predica, ma almeno con toni più moderati.
In qualità di maître del ristorante, Gabriel conosceva bene Gilbert Jeanson-Brossard, ormai diventato un assiduo cliente della Petite Provence, e li vedevo spesso disquisire insieme. Sembravano accomunati da qualche segreta complicità. Avevo paura di vederla crescere alle mie spalle, ma mio marito non mi ha mai degnata di insinuazioni né allusioni di sorta da cui potessi dedurre che avesse la pulce nell’orecchio.
Fino a un indimenticabile giovedì, in cui mi annunciò di voler restare al ristorante per il turno serale.
«E i bambini?» gli ho chiesto.
«È tutto sistemato. Dormono dalla tata. Io e te abbiamo bisogno di tempo per parlare.»
«Di cosa?» ho detto, con un’espressione di finto stupore abbozzata male e il labbro che mi tremava.
«Lo sai benissimo» ha risposto con aria stanca.
Quella sera posso affermare, senza timore di essere smentita, di aver servito i piatti peggiori di tutta la mia carriera, almeno per quanto riguarda quello che ho preparato al momento. Diversi clienti si sono lamentati. Uno ha addirittura rimandato indietro un pollo ruspante quasi crudo, con coscia e sovraccoscia praticamente in un lago di sangue. Sono andata di persona a presentare le mie scuse a quel manico di scopa in papillon, ma lui non le ha accettate: «Con questi prezzi, signora, c’è una sola cosa da dire: è vergognoso. Vergognoso!».
Ma io sapevo trattare con certi culi stretti. Per calmarlo, mi è bastato dire che quella sera offriva la casa e che a mo’ di risarcimento avremmo stappato per lui una bottiglia di champagne.
All’ora di chiusura, durante il solito giro dei tavoli, mi sono fermata come se niente fosse da Gilbert Jeanson-Brossard, il quale si è messo una mano davanti alla bocca, quasi temesse che Gabriel potesse leggergli le labbra, e ha sussurrato: «Cosa ci fa qui, lui, me lo puoi dire?».
«Non lo so.»
«Sa di noi?»
«Temo di sì.»
«Vuoi che resti?»
«Non mi sembra una buona idea.»
Quando tutti se ne sono andati, Gabriel ha chiuso la porta girevole e mi ha raggiunta in cucina, dove mi affaccendavo con un bicchiere di Pinot nero. Si è avvicinato senza dire niente e mi ha presa da dietro, come faceva Gilbert Jeanson-Brossard.
Dopo aver chiuso la pratica, mi ha guardata dritto negli occhi e ha detto, riallacciandosi la patta: «Allora?».
«È stato bello» ho sussurrato terrorizzata, lanciandogli un finto sguardo d’amore.
«Non hai altro da dire?»
«No.»
«Non pensi di dovermi una spiegazione?»
«Prima dovrei sapere di cosa mi si accusa.»
«Di avermi tradito, Rose.»
«Non so di che stai parlando.»
«Mi sembra di essere stato molto chiaro.»
«Hai troppa fantasia, Gabriel.»
Il miglior modo per farsi perdonare una colpa è negare l’evidenza. Non so dove l’ho imparato, ma mi è servito parecchio, nella vita.
Lui insisteva: «Puoi guardarmi negli occhi e affermare di non avermi mai tradito?».
«Certo che posso.»
Me lo ha fatto ripetere di nuovo. Ho detto le stesse identiche parole. Sembrava profondamente abbattuto.
«Bugie» ha affermato con voce strozzata.
Non era vero. Amavo lui e soltanto lui, anche quando io e Gilbert Jeanson-Brossard compievamo una quantità di sciocchezze senza ripercussioni ai miei occhi: l’amore con lui non era amore.
Una passeggiatina fuori dalla porta di casa non nuoce all’amore. Anzi, lo risveglia, lo nutre, lo allena. Se i cornuti lo sapessero, si dannerebbero l’anima molto meno.
Gli uomini farebbero bene a capirlo, invece di inalberarsi tanto, come Gabriel, per certe quisquilie adulterine, certe avventurette senza ripercussioni. Invece si rovinano la vita e la complicano a noi.
«Sono sempre stata una donna fedele» gli ho detto, con gli occhi limpidi della buona fede.
«Sì, fedele al marito e agli amanti.»
Non so da chi lo avesse saputo, forse un cameriere che avevo licenziato di recente, comunque Gabriel sapeva cosa succedeva il giovedì sera tra me e Gilbert Jeanson-Brossard. Conosceva anche i più piccoli e scabrosi particolari, come mi aveva appena dimostrato, eppure non lo ha mai detto in modo esplicito, nemmeno dopo avermi comunicato con tono dignitoso e ferito di volersene andare via di casa e chiedere il divorzio.
«Dopo quello che mi hai fatto» ha detto, «devi almeno lasciarmi i bambini.»
«Non puoi» ho gridato.
Ho cominciato a tremare.
«Sei colpevole, devi espiare» ha insistito.
Tremavo sempre più forte.
«Non puoi» ho detto ancora.
È rimasto a lungo a fissarmi in silenzio, poi ha detto: «Hai passato la vita a fare concessioni agli altri. Non puoi farne una a me, visto che sei pure in torto?».
Il tremito era diventato incontrollabile.
«È una questione etica» continuava lui. «Riesci a capirlo?»
«Farò quello che vuoi.»
«Ti lascio il ristorante e la casa, ma voglio i bambini.»
Ero devastata. Non ricordo la data esatta in cui ci siamo lasciati, ma erano i primi di settembre del 1939 e devo ammettere di essermi interessata davvero poco, il 3 dello stesso mese, alla dichiarazione di guerra di Francia e Gran Bretagna contro una Germania nazista reduce dall’invasione della Polonia.
Gabriel aveva pensato a tutto. Quella sera stessa ha lasciato il tetto coniugale e fin dal giorno dopo ha cominciato a lavorare al Dôme, uno dei grandi ristoranti di Montparnasse. Quanto a me, ho pianto ininterrottamente per ventiquattro ore, poi a intermittenza durante i giorni a venire.
Ho provato di tutto, pur di non pensare. Mi sono lanciata nella fitoterapia, lo studio delle piante officinali, ispirandomi in particolare agli insegnamenti di Emma Lempereur, di mia nonna, di Ippocrate e di Galeno, medico di corte dell’imperatore Marco Aurelio. Sotto il marchio «Rose» ho creato una mia linea di pillole contro la fiacchezza e l’insonnia, con un logo a fiori disegnato da me. Ho incominciato a prendere lezioni private di tedesco e di inglese da un ragazzo fresco di concorso, dal fisico stupendo ma senza alcun effetto su di me. Mi sono messa a studiare anche l’italiano, con un vecchio professore. Al ristorante facevo straordinari a non finire, mi ero sistemata una brandina in sala, dormivo direttamente lì e buonanotte.
Ma senza risultato. Perdere l’amore è come perdere uno dei genitori: non ci si riprende mai più. Tanti decenni dopo, la ferita è ancora aperta.
27
A mo’ di esempio
Parigi, 1940. Quando Gabriel se n’è andato di casa portando i bambini con sé, un nodo ha cominciato a marcirmi nella pancia. Ho dato un nome al dolore che ci divora le carni e che ciascuno è destinato a subire almeno un paio di volte, nella vita: tumore del tormento.
Mi aveva disseminato le sue metastasi ovunque, soprattutto nel cervello, sempre intento a girare a vuoto e in tondo, senza requie né costrutto. Ma non bisogna dimenticare i polmoni, quasi incapaci di respirare, né la gola, stretta al punto da non lasciar passare niente, o le budella, spesso stritolate da crampi atroci.
Anche quando le crisi di pianto sono finite il nodo è rimasto lì e il tormento è continuato. Dopo tanti decenni ne avverto ancora le cicatrici, in un posto ben preciso del petto, sotto i polmoni. Sono sicura di avere un cancro, lì. Grazie a Dio non si è sviluppato. Merito della mia gioia di vivere. Merito anche di Teo, che mi ha aiutata a tenere botta. Quando le ho dato la notizia, la mia salamandra ha risposto: «Idiota. Te l’avevo detto».
«Non mi riprenderò mai più.»
«Spero che vorrai ascoltarmi, d’ora in poi. Sorridi, sorridi sempre e vedrai, andrà meglio.»
Ho seguito il suo consiglio e un po’ ha funzionato, anche se per molto tempo, anzi fino a oggi, sento ancora una specie di sfogo interiore, un’eruzione interna, un prurito sentimentale.
Perché Gabriel tornasse da me, sono andata ad accendere un cero a Notre-Dame due volte a settimana, sempre con il mio bravo sorriso. Niente. Se sentivo un rumore fuori dalla porta, mi dicevo che la Madonna aveva finalmente esaudito le mie preghiere e aspettavo, col cuore in gola, di sentire il raschio della chiave nella toppa, invece no, era sempre qualche vicino oppure mi ero semplicemente sbagliata.
Quando vedevo Gabriel per riportargli i bambini o per andarli a prendere, lo trovavo teso come una corda di violino. Non ha mai alzato la voce con me, ma aveva la faccia scura e parlava con un tono gutturale del tutto nuovo, a denti stretti, sembrava un ventriloquo. Faticavo a capirlo e gli chiedevo spesso di ripetere quanto aveva appena detto.
Diciotto giorni dopo esserci lasciati, mi è tornata un poco di speranza. Gli avevo lanciato uno sguardo supplice, lui mi aveva imitata con aria sprezzante e aveva detto: «Non credo alla resurrezione. Né dei morti né dell’amore».
«Le rinascite esistono, però.»
«Non è vero. L’albero morto si può riprendere dalla radice, ma non ricresce mai come prima.»
Di nuovo Gabriel aveva articolato male le parole, e gli ho chiesto di ripetere con una formula già all’epoca in disuso e purtroppo ormai pressoché scomparsa: «Perdonami…?». Gli ho strappato un sorriso indefinibile, nel quale mi è sembrato di notare una certa tenerezza e da cui ho tratto la speranza che non tutto fosse ancora perduto, tra di noi.
Da quando era diventato irraggiungibile per me, lo amavo più che mai. Avevo la bocca secca tutto il giorno, come al culmine dell’innamoramento. Gabriel non mi usciva più dalla testa, tanto da volergli essere di nuovo fedele e troncare dall’oggi al domani ogni rapporto con Gilbert Jeanson-Brossard, la cui sola vista mi suscitava orrore e che su mia richiesta smise di frequentare il ristorante.
Finché Gabriel non fosse tornato da me, con l’amore avevo chiuso. Se un uomo cominciava le manovre di avvicinamento, mi saliva subito una sensazione di disgusto e per scoraggiarlo sussurravo in tono misterioso: «Mi perdoni, ma sono già impegnata».
Per mesi ho scritto a Gabriel una lettera di scuse al giorno, rafforzando le mie frasi con citazioni del Vangelo. Non ho mai ricevuto risposta. Poi, una domenica sera del 1940 sono passata a riportargli i bambini e lui mi ha presa da parte: «Perché vorresti il perdono da me?».
«Per la redenzione, Gabriel. Tutti abbiamo un dovere di redenzione.»
«Purché la cosa sia reciproca. Le belle frasi del Vangelo non sono tanto credibili quando escono dalla tua bocca, Rose. Tu sei pestifera, vendicativa, hai sempre esecrato l’idea del perdono. Come potrei perdonare qualcuno da sempre incapace di farlo?»
«Non so di cosa parli.»
Per tutta risposta Gabriel ha sospirato, poi ha citato il Deuteronomio: «Il tuo occhio non avrà compassione: vita per vita, occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede. È la tua filosofia, no?» mi ha chiesto.
Mi conosceva bene, il mio Gabriel. In quel momento ho avuto un’illuminazione. Ho capito cosa dovevo fare per sentirmi meglio. Ci sarebbero voluti un paio di giorni, non di più. La mia salvezza aveva un nome, quello del maggiore Morlinier che, per aver rovinato gli ultimi anni dei Lempereur mandando a morte il loro figlio, meritava di figurare in cima all’elenco dei miei odi.
Sapevo dove trovarlo e allentare un po’ il nodo del mio tormento. Da anni raccoglievo informazioni su Charles Morlinier. I pieni poteri al maresciallo Pétain, altro virgulto cresciuto nel carnaio della Grande guerra e di cui l’allora maggiore Morlinier era stato compagno di orge e di battaglie, avevano ridato slancio alla sua carriera. Il nuovo capo di Stato lo aveva nominato al consiglio di Stato ed eletto commendatore dell’ordine della Legion d’onore, mentre adesso era in corsa per presiedere il consiglio d’amministrazione delle Poste.
Charles Morlinier era diventato generale nel 1925 e fino ad allora aveva vivacchiato coprendo una carica di secondo piano all’Amministrazione forestale e delle acque, ma nel frattempo aveva presieduto per tre anni l’Associazione amici di Édouard Drumont, motivo per cui l’avevo incontrato diverse volte, quando io e Gabriel preparavamo l’«evento Drumont». Era un personaggio rigido dal colorito giallastro, con un naso simile a un coltello da cucina e le orecchie a sventola. Ogni volta che si muoveva, sembrava passare in rivista le truppe. Lo si sentiva sempre arrivare per via dei rinforzi in ferro sotto le suole, che sbattevano a terra come zoccoli di cavallo.
Siccome non era aristocratico, il generale Morlinier riempiva la sua bocca da buzzurro ignorante di discorsi sulla nobiltà. Nobiltà in combattimento, nobiltà di sentimenti, nobiltà della razza francese. Aveva una voce bassa e tesa, come se un nido di vipere gli si contorcesse nello stomaco. In più, manteneva l’espressione immobile delle statue ottocentesche a imitazione delle sculture classiche.
Me la sono sbrigata presto. Avevo deciso di lasciare le chiavi della Petite Provence a Paul Chassagnon, un omaccione paonazzo nonché mio secondo al ristorante. Con lui in cucina tutto sarebbe filato liscio, ne ero sicura. Ma gli eventi sono precipitati, fremevo dalla testa ai piedi e non sono riuscita a controllarmi. Alla fine, ci ho messo meno di un’ora.
Charles Morlinier abitava in rue Raynouard, a Passy. Mi sono conciata da vecchia cicciona con tanto di parrucca bionda e cuscini cuciti dentro il cappotto, e prima dell’alba sono andata ad appostarmi davanti al palazzo haussmanniano in cui si trovava il suo appartamento, con l’idea di seguire per ventiquattro ore tutti i suoi spostamenti e poi passare all’azione. Faceva freschetto, ma mi sentivo calda e rossa in viso, quasi in preda ai calori.
Alle sette e mezzo del mattino Morlinier è uscito di casa di gran carriera, ho dovuto accelerare il passo per non farmelo scappare. Camminava verso rue de Passy e quando è arrivato all’incrocio sono corsa verso di lui e l’ho apostrofato tirandolo per una manica: «Jules Lempereur, il ragazzino di Sainte-Tulle fucilato a mo’ di esempio, se lo ricorda, generale?».
Morlinier non ha avuto il tempo di rispondere. Ha emesso uno strano grido, una specie di belato, forse non capiva cosa stesse succedendo, poi ha strabuzzato gli occhi ed è rimasto a bocca aperta per la sorpresa o il dolore, infine è stramazzato sul marciapiede come un sasso. Sembrava morto prima ancora di sanguinare. Morto di paura.
Stavo per recuperare il coltello che gli avevo conficcato e rigirato in petto neanche fosse un cacciavite, ma poi l’ho lasciato in mezzo a tutti quei gorgoglii sanguinolenti: non avevo voglia di sporcarmi.
Ho attraversato i giardini del Trocadéro e ho buttato nella Senna i guanti sporchi, li ho guardati galleggiare tra i flutti in direzione di Rouen e poi ho gettato anche parrucca, cappotto e cuscini.
A quel punto sono tornata al ristorante. Mi sentivo talmente bene, così libera da ogni male, da indurre Paul Chassagnon, arrivato poco dopo al ristorante, a dirmi: «Signora, non so cosa le sia successo ma è una bellezza vederla di nuovo così allegra».