«Di una setta più grande».
«Io voglio solo sapere dov’è stato portato mio figlio».
«Lo scoprirete».
«Voglio saperlo adesso!».
«Pregate per me».
«Guardatemi, restate sveglio».
«Io…».
Seguì il silenzio eterno.
«Aiutami», sospirò Raphael afferrandolo per le ascelle. «Prendilo per i piedi. Lo portiamo fuori».
Per Leccacorvo, sofferente nel letto, non poteva esistere un farmaco più potente delle notizie che gli stavano dando Raphael e Sara sull’uccisione di uno dei sicari di Ghislieri, mescolate con la soddisfazione e l’orgoglio per averne a sua volta catturato e neutralizzato un altro.
L’ex bargello era dolorante e, non sapendo ancora del rapimento di Ariel, si sentiva pieno di gloria.
«Come sta?», si informò Sara.
«Gli ho cucito la ferita», disse Panvinio, che era seduto su un panchetto accanto al ferito e cercava di fargli forza parlandogli dell’infinita misericordia di Dio. «Sono sicuro che si rimetterà nel giro di pochi giorni. È un uomo forte e caparbio».
«Faccio quest’impressione?», disse Leccacorvo, che al contrario si sentiva debole e non era per niente persuaso di riuscire a guarire rapidamente; pensava che, se gli fosse andata bene, avrebbe zoppicato per il resto della vita. Con uno sforzo si mise a sedere sul materasso e chiese per l’ennesima volta di poter avere la bottiglia di grappa che teneva in cantina. «Il frate non vuole farmi bere».
«Dobbiamo stare tutti lucidi e pronti a reagire», spiegò Panvinio. «Non penso che sia il caso di farvi notare quanto sia seria la situazione per ognuno di noi».
«Hai ragione», disse Raphael, però prese la grappa e la consegnò al legittimo proprietario. Qualche minuto prima si era affacciato in cantina per controllare che il gesuita assassino fosse ancora incatenato al suo posto; gli aveva dato acqua da bere; e si era ricordato della bottiglia che Giusto gli aveva chiesto. «Soltanto un goccio».
«Posso?», fece Leccacorvo, incredulo. «Davvero?». Afferrò la bottiglia per il collo con avidità, la stappò e si bagno le labbra con il liquido trasparente e infuocato, ne mandò giù prima un sorso, poi ne ingollò quasi la metà; e alla fine si lasciò cadere all’indietro espirando, appagato. «Ci voleva proprio».
Panvinio scoccò un’occhiata perplessa a Raphael e a Sara, però si limitò a una scrollata di spalle e li invitò a seguirlo nella stanza accanto. «Devo farvi vedere una cosa». Aveva in mano una Bibbia, una scatola di legno e dei fogli. «Ho ricopiato la lettera». Posò tutto sullo scrittoio, e accanto sistemò le candele. «Il papiro…», toccò la scatola, «è ridotto male, si deteriora col passare delle ore. Non so per quanto ancora resterà leggibile. Adesso il contenuto è al sicuro». Sfogliò sotto i loro occhi una serie di carte vergate in greco, con mano sicura e ordinata.
«Ottimo lavoro», fece Raphael, ammirato. Sottopose alla sua attenzione la sequenza di lettere e numeri appuntata sul quaderno trovato al conte Canossa.
gen18,21is57,2pro16,25mc16,5mt5,39mt6,3gv1,23mt20,21at9,11mt20,23mt25,33mt25,34mt26,64pro21,2mt27,38mt27,29mc10,37mt25,41mc14,62lc22,69lc1,11lc6,6lc20,42gen13,9gv21,6sir4,181sam2,6
«Stai pensando la stessa cosa che penso io?».
Panvinio alzò le spalle, ma subito il suo sguardo si concentrò sulla pagina. «Sì», disse pizzicandosi il labbro inferiore. «Mi suona familiare: gen18,21; is57,2; pro16,25; mc16,5; mt5,39; mt6,3; gv1,23; mt20,21…». Si grattò al centro della chierica e schioccò le dita. «Sono passi della Bibbia».
Raphael annuì convinto. «Con Gen si indica il libro della Genesi; con Is, il libro di Isaia; con Pro, i Proverbi…».
«Mc è Marco», continuò Panvinio, «Mt è Matteo, Lc è Luca, At sono gli Atti degli apostoli. Non ci sono dubbi». Controllò sulla Bibbia. Trascrisse rapidamente alcune frasi e le portò a Raphael.
Gen 18,21
Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!
Is 57,2
Egli entra nella pace: riposa sul suo giaciglio chi cammina per la via diritta.
Pro 16,25
C’è una via che sembra diritta per l’uomo, ma alla fine conduce su sentieri di morte.
Mc 16,5
Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura.
Mt 5,39
Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra.
Panvinio seguiva attentamente gli occhi di Raphael che scrutavano la superficie della carta. «Ci trovi una logica?», gli chiese.
Lui non rispose e continuò a leggere.
Mt 6,3
Invece, mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra.
Gv 1,23
Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia.
Mt 20,21
Egli le disse: «Che cosa vuoi?». Gli rispose: «Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno».
At 9,11
E il Signore a lui: «Su, va’ nella strada chiamata Diritta e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco, sta pregando…
L’elenco continuava.
«Allora?», lo interruppe Panvinio, ansioso di trarre le conclusioni, di vedere se quelle di Raphael coincidevano con le sue.
«Mi sembra chiaro», disse lui.
«Anche a me», disse Sara.
«Già da queste prime citazioni si capisce che si tratta di un percorso da seguire. Contengono tutte una parola che indica una direzione: diritta, sinistra, destra… Credo proprio che siano le indicazioni per entrare e uscire dal labirinto, forse perfino per trovare le tombe contenenti i manoscritti».
«A meno che…», disse, cauto, Panvinio, «quel pazzo di un mago non abbia soltanto preparato queste frasi tratte dalla Bibbia, prevedendo di usarle. Potrebbe non averlo mai fatto. E in tal caso la successione di queste frasi non avrebbe un significato preciso, non indicherebbe proprio un bel niente».
«Però», osservò Raphael, «il Vangelo di Marco è il primo a comparire, non quello di Matteo: non segue l’ordine della Bibbia». Guardò il frate, perplesso. «Virgilius non ha sfogliato le Sacre Scritture con ordine; è andato alla ricerca dei brani che gli servivano, contenenti le parole che indicassero una direzione da seguire».
«Sì, è vero. In effetti l’ordine delle citazioni non è esattamente quello di apparizione nella Bibbia. Qui, ad esempio, e qui e qui… sembra che Virgilius abbia seguito uno schema diverso».
«Nella citazione At 9,11 si parla di Paolo di Tarso», fece notare Sara. «Dice: “Cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso”. Può darsi che Virgilius non l’abbia scelta a caso e che indichi un punto della catacomba in cui sono custoditi dei testi riguardanti l’apostolo».
Panvinio si fregò le mani come una mosca sullo zucchero. «Abbiamo il punto di accesso alla catacomba, abbiamo il percorso sotterraneo: dobbiamo solo andarci e scoprirlo».
Per fargli capire quanto lo desiderasse e che cosa rappresentassero adesso per lui quella catacomba e i manoscritti che forse conteneva, Raphael lo mise al corrente di ciò che era accaduto ad Ariel e alle guardie svizzere che sorvegliavano casa sua. Guardandolo sbiancare gli mostrò il messaggio che gli era stato mandato dai rapitori.
Panvinio lo lesse diventando ancora più esangue, le mani scosse da tremiti che facevano sibilare la carta.
«Non noti niente?», gli chiese Raphael.
«Hai voglia di scherzare?»
«Leggi quello che non c’è scritto, Onofrio. Non mi viene chiesto di restituire il manoscritto che ho trovato a casa di Virgilius. Sembra che non lo sappiano. Non sanno neppure dove si trova la catacomba, non possiedono le istruzioni per trovare i manoscritti all’interno del labirinto sotterraneo».
«In effetti», rifletté Panvinio, «è possibile che Virgilius non abbia fatto in tempo a comunicarle ai suoi compari».
«Agli altri adepti. Più precisamente: al loro capo».
«Come dici?»
«Non compari, ma confratelli della setta. Altri Cainiti».
«Cainiti? Ma cosa dici?»
«Il cardinale Ghislieri, senza saperlo, era in combutta con degli eretici, nemici della Chiesa fin dai primordi. I Cainiti esistono ancora, Onofrio».
«Può darsi che siano dei matti convinti di essere Cainiti, di averne riesumato la dottrina, ma i Cainiti veri e propri non esistono più da secoli e secoli, Raphael. Nessuno oggi sarebbe in grado di reinventare una dottrina complessa come tutte le eresie gnostiche, perché…».
«Perché la Chiesa di Roma ha bruciato tutti i loro testi?»
«Sì, è così, per fortuna. È stata fatta un po’ di pulizia».
«E se la Chiesa non fosse riuscita a cancellare l’eresia fino in fondo?».
Panvinio ci pensò con lo sguardo rivolto al soffitto e dopo un po’ cominciò ad annuire. «Se quel che dici è vero… Be’, in effetti, ogni tanto lo gnosticismo è riemerso nel corso della storia. Penso ai Bogomili e ai Catari. E inoltre la pulizia contro l’eresia gnostica è stata fatta all’esterno della Chiesa, non all’interno. Purtroppo, una caratteristica degli antichi cristiani gnostici era proprio quella di infiltrarsi nelle altre Chiese, negli altri gruppi cristiani, camuffando la propria vera natura. Non di rado ne prendevano il controllo e cominciavano a convertire i fedeli. Si consideravano talmente superiori da riuscire a fingere, a vivere nel segreto perpetuo, interpretando le parole dei Vangeli a modo loro».
«Non ti seguo».
«Voglio dire che, se davvero i Cainiti esistono ancora, come tu sostieni, il loro cuore e la loro mente potrebbero trovarsi dentro la Chiesa di Roma. Da sempre».
«Non lo sostengo: è la verità».
«Mio Dio!».
«Il Vangelo di Giuda venerato dai Cainiti era fra i testi trovati da Virgilius e Canossa. E se qualcuno avesse scoperto un documento antichissimo che attesta l’esistenza di una catacomba gnostica con al suo interno dei Vangeli proibiti?»
«Un documento? No, è molto improbabile. Se una fonte come questa esistesse, io la conoscerei. Certo è, però, che per gli adepti di questa setta i vangeli rinvenuti da Virgilius rappresentano la possibilità di rinascere, di rimettersi in contatto con i padri antichi della Chiesa gnostica; le lettere di Pietro nelle loro mani sarebbero armi formidabili contro la Chiesa cattolica, per una vendetta, una resa dei conti, dopo così tanto tempo. Gli antichi Cainiti potrebbero aver conservato dei testi avversi alla Chiesa di Roma, in attesa che qualche loro fratello di un lontano futuro li riesumasse». Il frate guardava lontano adesso, all’interno della sua mente, nere distese di devastazione e fiamme.
«Devo trovare i manoscritti. Sperando di poterli davvero scambiare con la vita di Ariel. Non ho alternative».
«E il papa?»
«Sa del rapimento. Ma non mi permetterebbe per nessun motivo di consegnare i papiri a chicchessia, figuriamoci al suo nemico giurato Ghislieri. Li vuole per sé a tutti i costi. Mi ha detto chiaro e tondo che non devo cercare Ariel, che di lui si sarebbe occupato il governatore».
«Ma è assurdo!».
«Direi folle».
«Il Santo Padre, Gian Angelo Medici, è un mio caro amico. Mi stupisce che si comporti in questo modo crudele. Tu hai pienamente ragione ad agire così. Anch’io al posto tuo ignorerei i suoi ordini. Solo un mostro non lo farebbe».
«Se davvero Ariel è stato rapito dal cardinale Ghislieri, forse c’è qualche speranza. Ma se lo avessero preso i membri della setta di cui faceva parte mio fratello Leonardo…». Nella mente di Raphael ribollivano immagini di un passato che non sarebbe mai potuto diventare remoto. Il tempo non era in grado neanche di scalfire quel che si era impresso nella sua memoria.
Erano trascorsi nove anni, e neppure un frammento di ricordo era andato perduto.
Davanti agli occhi aveva ancora la bellissima cortigiana Elena, in piedi su un altare, pronta per il sacrificio, con il collo candido offerto al pugnale fremente del sacerdote.
Aver salvato quella donna incantevole, così piena di talenti, così avvenente, era l’unico ricordo buono a cui Raphael poteva aggrapparsi per non sprofondare in un baratro di malinconia.
Si era illuso che con la morte di Leonardo e del capo della sua setta fosse tutto finito, ma adesso…
Se le parole dei due sicari di Ghislieri erano attendibili, forse la realtà era un’altra. I Cainiti erano in tanti. Leonardo e tutti gli altri con cui Raphael aveva avuto a che fare durante la primavera del 1555 non facevano parte di un cenacolo di pochi stravaganti eretici: la loro congrega doveva appartenere a qualcosa di più vasto, la cui mente si trovava in Vaticano.
“Spero che lo abbia fatto rapire Ghislieri”, pensò serrando la mandibola con uno stridore di denti; in caso contrario, Ariel correva un pericolo più grande di quanto si potesse immaginare.
Perché i Cainiti sapevano perfettamente chi era Raphael Dardo e, forse, non aspettavano altro, da allora, che arrivasse il giorno della resa dei conti.
Raphael era il responsabile della morte del loro capo, di Leonardo e di tanti altri loro confratelli; aveva condotto gli inquisitori del Santo Uffizio nel loro luogo di ritrovo e lo aveva distrutto con le fiamme.
Se Raphael non poteva dimenticare fatti tanto gravi, neppure i Cainiti potevano.
Loro non avrebbero mai e poi mai liberato il bambino.
Vedendo Panvinio che aspettava spiegazioni, gli disse: «Praticano sacrifici umani, Onofrio. Ne sono stato testimone».
A Panvinio bastò guardarlo negli occhi per capire che non mentiva. «Cosa sai dei Cainiti?», gli chiese.
«Non molto», sospirò Raphael.
«Però sapevi che possedevano e seguivano il Vangelo di Giuda».
«Dopo la morte di Leonardo, dopo quello che scoprii, provai a documentarmi, con una certa riluttanza, e riuscii solo a capire che si sa ben poco su di loro».
Panvinio abbassò lo sguardo e si fece il segno della croce. Sospirò. «I Cainiti sono i peggiori ribelli che la storia abbia mai conosciuto», disse. «Secondo loro Gesù è stato mandato dal vero Dio per insegnare a noi uomini come liberarci dal ciclo delle reincarnazioni a cui ci ha costretto il Creatore».
«E come?»
«Peccando a più non posso. Credevano di dover compiere tutte le azioni possibili, in modo da pagare il prezzo prestabilito per avere la libertà definitiva dal mondo materiale e poter tornare finalmente a riunirsi con la luce del vero Dio. Secondo l’assurda teologia dei Cainiti, il Dio della Bibbia è soltanto un mostro cosmico, è il nemico. Per questo, tutti i personaggi negativi che si trovano nelle Sacre Scritture, a cominciare dal serpente che tentò Eva, sono per loro buoni. Anche Caino, ovviamente. Quel che è bene è male, e viceversa. Mi capisci, Raphael? Erano persone terribili. Dei pazzi. Quindi, non stento a credere che tu abbia assistito a un sacrificio umano».
Per Raphael, costretto a immaginare un fratello imbevuto di dottrine così stravaganti e pericolose, non era facile ascoltare con distacco; avvertiva una stretta alla bocca dello stomaco, un profondo disgusto. «Basta così», disse.
«I Cainiti compivano azioni innominabili, Raphael».
«Ho capito».
«Sperimentavano ogni cosa possibile. Specialmente se si opponeva a quel che insegna la Bibbia: negare il Creatore, uccidere, rubare…».
«Posso immaginare il seguito».
«Devi sapere con chi abbiamo a che fare».
Raphael aveva sentito fin troppo, era stanco delle parole, bramava di scendere in quella maledetta catacomba a cercare i manoscritti per il riscatto.
Ora la pioggia batteva con meno insistenza sulle tegole e sui vetri, e il vento sembrava essersi chetato, tuttavia non era consigliabile avventurarsi di notte in aperta campagna alla ricerca di pertugi in cui calarsi. E c’era anche da mettere insieme un po’ di attrezzatura, prima: sarebbero servite molte luci, pennelli e pittura per marcare i cunicoli della catacomba, parecchie braccia di corde, cibo e acqua, e a pensarci bene chissà cos’altro.
Panvinio, intanto, lo fissava con un’espressione addolorata e un mezzo sorriso di compassione. «Ordina, e io eseguo, Raphael. Qualsiasi cosa».
«Credi che sia il caso di chiamare un medico per Giusto?», gli chiese Sara.
«No, sta bene. Il sangue fuoriusciva copioso dalla ferita, ma non a fiotti. L’ho cucito come si deve. E a quest’ora si sarà già scolato tutta la bottiglia di grappa. Domattina ce ne occuperemo. Adesso dobbiamo pensare a riposare. Raphael, tu sei esausto. Non ti farebbe male dormire un paio d’ore. Sei un essere umano, non puoi ammalarti, non adesso. Ariel ha bisogno del miglior Raphael Dardo che si sia mai visto».
A lui, sentendo quelle parole così enfatiche, venne da ridere e non si trattenne. O meglio: pensava di ridere, e rimase sorpreso quando vide che, invece, stava piangendo.
«Va’ a letto, Raphael». Panvinio gli fece sentire il calore della propria mano sulla spalla e lo scosse. «Coraggio, mio nobile amico».
Uscirono dallo studio di Leccacorvo.
Nella camera da letto, lui stava dormendo con la bottiglia vuota sul petto. La fasciatura della ferita sembrava asciutta.
Guardandolo, Raphael chiese a Panvinio: «Tu sai chi c’è in cantina?»
«Sì, lo so. Giusto mi ha raccontato quel che è successo».
«Quel farabutto deve restare dov’è».
«Posso portargli da bere?»
«Ho già provveduto io», disse Raphael, «e gli ho dato anche una coperta», aggiunse mentendo, per sgravarlo da qualsiasi senso di colpa e, soprattutto, per evitare che la pietà lo spingesse a commettere qualche imprudenza. «Ora andiamo a riposare. Domattina prenderemo l’occorrente e andremo a cercare questa maledetta catacomba».
«Posso farlo io da solo. Tu occupati di cercare Ariel».
«All’alba ci andremo insieme, Onofrio. Trovare quei papiri potrebbe essere l’unico modo per salvare Ariel».
Sara sbatté le palpebre. «E io non vengo?»
«Tu dovrai fare una cosa altrettanto importante qui a Roma».
«Come vuoi, conta su di me».
Panvinio fece un solenne cenno di assenso e posò una mano sulla spalla di entrambi. «Amici miei», disse, «abbiate fede».
17 dicembre
Prima che su Roma si affacciasse il fioco bagliore dell’alba, Raphael e Panvinio scivolarono fuori dalla casa di Leccacorvo come ombre notturne in fuga per l’imminente arrivo del giorno. Avevano i cappucci tirati sulla testa e portavano ognuno un grosso sacco sulla spalla, tenendolo dall’estremità con entrambe le mani.
Un’ora dopo stavano lasciando il cortile della casa di Panvinio, seduti su un carro tirato da un mulo.
Avevano recuperato un piccone, una vanga, torce, lanterne e candele in abbondanza, pennelli e pittura per tracciare i cunicoli della catacomba, e acqua da bere.
Sopra di loro, le nuvole compatte sbiadivano lentamente. Però in quella circostanza la scarsità di luce era un bene, non solo perché in un modo o nell’altro favoriva l’anonimato: presto si sarebbero calati in un mondo ctonio, dove i raggi del sole non erano mai entrati; tanto valeva avere gli occhi già abituati all’oscurità.
Raphael e Panvinio oscillavano e sobbalzavano sulla strada dissestata, ognuno assorto nei propri pensieri. Ma avevano in mente parole simili: pregavano di trovare i Vangeli proibiti e gli altri testi sepolti, nella speranza che i rapitori bramassero talmente tanto quei papiri da restituire Ariel vivo e vegeto.
Uscirono dalle Mura Aureliane passando dalla Porta Salaria e imboccarono la via Salaria Nova.
Non incontrarono anima viva lungo il primo tratto di strada. Solo vicino alla basilica di San Silvestro incrociarono tre contadini. Gli uomini riconobbero Panvinio, il cercatore di catacombe, e lo riempirono di ossequi, chiedendogli se di recente avesse scoperto qualcosa di nuovo sottoterra.
«Niente», rispose lui, e domandò se avessero visto strani individui passare da lì negli ultimi giorni.
«No», risposero.
«Cavatori di tesori», precisò Panvinio.
«Non si vedono da un po’».
«Prima sì, invece?»
«Sì, frate».
«Quei farabutti mi seguono per scoprire i punti in cui scavo, e poi vanno a saccheggiare. Non hanno scrupoli neppure per le sante reliquie dei martiri che giacciono da secoli indisturbati nei sepolcri!».
«Le riconosciamo le facce di quei ladri di tombe. Se li vediamo di nuovo all’opera, ve lo faremo sapere, fratello Panvinio. Che Dio vi protegga».
Li ringraziò. «Che Dio vi benedica, figlioli». E fece correre un’onda lungo il cuoio della briglia, che finì con uno schiocco. Il mulo ripartì.
Ricominciarono a ondeggiare sul carro che sussultava, mentre l’alone chiaro del disco solare saliva lentamente nel cielo, come una candela dietro una tenda di velluto grigio.
«Prima», disse Panvinio gettandosi il pollice dietro la spalla, «ho mentito a quelle persone».
«A che riguardo?»
«Nelle catacombe non ci sono più i corpi dei martiri. Ma io dico che ci sono ancora, in modo che questi luoghi straordinari siano rispettati e non vengano profanati e depredati».
«Non ci sono più corpi dentro i loculi e nei sarcofagi delle catacombe?»
«Sì, le tombe sono ancora quasi tutte intatte e contengono i resti delle persone sepolte. Ma le reliquie dei martiri furono traslate in massa nell’ottavo secolo. Furono tolte dai cimiteri sotterranei e portate a Roma, al sicuro».
«Al sicuro da cosa?»
«Dai barbari, che profanarono le tombe dei martiri e trasformarono alcuni cimiteri in stalle».
«A quel tempo si seppelliva ancora nelle catacombe?»
«No. Quando il cristianesimo divenne l’unica religione ammessa nell’impero romano, i cristiani presero a seppellire i loro morti in superficie. E i cimiteri sotterranei divennero dei santuari, mete di pellegrinaggio. Si veniva a Roma anche e soprattutto per venerare le reliquie dei martiri che vi erano sepolti. Dopo la traslazione dei martiri, però, le catacombe furono abbandonate e dimenticate».
Proseguirono in silenzio.
Fra il terzo e il quarto miglio, il frate fermò il carro e disse a Raphael di scendere. «Il posto deve essere da queste parti».
«Sei già stato qui a scavare?»
«Se ci sono stato?». Staccò il mulo e lo impastoiò. «Ho scoperto una catacomba enorme, proprio qui vicino, sotto la basilica di San Silvestro. Ma non l’ho ancora detto a nessuno. Comunque, il punto che Canossa ha indicato con una x sul suo bigliettino si trova da queste parti. Se quei criminali sono riusciti a trovare un accesso, non sarà difficile individuarlo».
Ma dopo un’ora stavano ancora camminando nei campi intrisi di pioggia, con i sacchi e gli attrezzi in spalla, alla ricerca di un indizio, come ad esempio l’immancabile montagna di terra e di detriti derivanti dai lavori di scavo.
Lì non si vedeva niente di niente.
«Sei sicuro che sia il posto giusto?», domandò Raphael.
«Deve esserlo». Panvinio posò il fardello a terra e scrutò in lontananza. «A meno che il disegno che hai trovato nella tasca del vestito preso a nolo da Canossa non indicasse qualcos’altro, magari un punto in cui intendevano scavare».
«Uno di quelli che a Virgilius venivano suggeriti dagli spiriti», annuì Raphael, pensoso. Sì, era possibile. Canossa aveva detto che l’accesso alla catacomba con i manoscritti era lì, ma poteva aver mentito.
Bevvero un sorso d’acqua, solo uno, perché bisognava razionarla in previsione di un’esplorazione sotterranea. Non avevano ancora perso le speranze.
«Se consegneremo i papiri a Ghislieri, come io spero», disse Panvinio, «il papa ci farà squartare vivi».
«Nessuno sa che sei qui con me».
«Ma lo direi a testa alta. Io sto salvando un bambino, perdio! Non ti lascerei mai salire sul patibolo da solo».
Raphael sentì un sorriso morirgli sulle labbra. Il nome di suo figlio gli pulsava nella testa.
Ripresero la ricerca e a mano a mano che il sole saliva cominciarono a pensare che, semmai avessero trovato l’accesso, sarebbero stati così stanchi da dover rimandare al giorno dopo l’esplorazione della catacomba.
Poi Panvinio drizzò il collo e indicò la monotona distesa di erba. «Lo vedi?»
«No».
«Quell’avvallamento».
Seguendo la direzione indicata dal dito di Panvinio, Raphael notò un solco nel terreno, una depressione naturale, larga all’incirca due passi, che correva per un lungo tratto fino a una collinetta rocciosa, che si riusciva a vedere in lontananza. Il solco era stranamente interrotto in un tratto, dove lo si poteva attraversare camminando, senza dover saltare, come se qualcuno l’avesse riempito di terra.
«Se non è lì, mi arrendo», disse Panvinio, dirigendovisi a grandi falcate. «Quella deve essere la terra rimossa dall’entrata. Di sicuro l’hanno ricoperta per occultarla». Individuò un punto e cominciò a cercare, picchiettando il suolo con il manico del piccone. «Qui è più soffice», disse, e continuò a battere con il legno. «Anche qui».
Toc.
La terra emise un rumore sordo.
Toc.
Panvinio sgranò gli occhi. «Ci siamo». Posò un ginocchio sull’erba cosparsa di rugiada e ascoltò. Sembrava soddisfatto. Quindi, prese la vanga e si mise al lavoro. D’un tratto il frate studioso si trasformò in un rustico pieno di vigore e avvezzo alla fatica. Tolse due palmi di terriccio e alla fine la vanga cozzò contro una superficie metallica.
Non era una tavola di legno, come ci si poteva aspettare, bensì una lastra di ferro.
Raphael afferrò il piccone e cominciò a tracciarne il perimetro con la punta, ma dovette smuovere altra terra, perché la lastra era più larga di quel che sembrava.
Alla fine si resero conto che non era una semplice placca di ferro adagiata a terra e sepolta, ma un vero e proprio uscio a due ante dall’aspetto robusto e vetusto, con tanto di maniglia e di cardini.
C’erano due figure uguali in rilievo, una su ogni anta: un busto umano con testa di gallo e due serpenti al posto delle gambe, un frustino nella mano destra e uno scudo rotondo nella sinistra.
«Questo simbolo rappresenta l’Abraxas», disse Panvinio, incredulo.
«Cosa sarebbe?»
«Iao Abraxas Sabaoth, il sommo eone degli gnostici, il Dio che creò se stesso e il mondo dello spirito, contrapposto al Dio della Bibbia, che creò il mondo materiale». Il frate scosse la testa e alzò uno sguardo preoccupato su Raphael. «Ho paura che tutte quelle storie sui Cainiti, su tuo fratello e la setta di cui faceva parte siano vere». Tornò a fissare l’Abraxas e a rabbrividire. «Questo non è l’ingresso a una normale catacomba».
Per Raphael era un’ottima notizia. Forse significava che avevano trovato il posto giusto. «Sei sicuro di voler entrare?»
«Genesi 18,21», disse Panvinio ruotando la maniglia con cautela. «Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me…». Tirò con forza verso di sé. «Lo voglio sapere!». E l’anta, più leggera del previsto, si spalancò con uno sbuffo tiepido e umido.
Sotto i loro occhi, un antro oscuro che tutto poteva sembrare, tranne l’accesso a un luogo abbandonato da secoli.
Era stato frequentato di recente.
Accesero il fuoco, lo trasferirono su due fiaccole, fecero passare i sacchi e gli attrezzi nell’apertura, poi, dopo essersi accertati che nessuno li stesse osservando, iniziarono a scendere.
«Isaia 57,2», lesse Panvinio, sentendo la propria voce che veniva risucchiata dalla galleria, «egli entra nella pace: riposa sul suo giaciglio chi cammina per la via diritta».
Andarono dritto.
Ai lati del cunicolo si aprivano anfratti oscuri, vi gettarono dentro le fiamme delle torce, ma non videro che stanze vuote o altre gallerie; rinunciarono a ispezionarle e continuarono seguendo le istruzioni criptate di Virgilius.
«Proverbi 16,25: C’è una via che sembra diritta per l’uomo, ma alla fine conduce su sentieri di morte».
La frase sembrava dissuadere dall’imboccare la via diritta. Decisero di imboccare il cunicolo di sinistra, essendo l’unica alternativa. Ma prima Panvinio marcò la via già percorsa con una x di vernice bianca per terra e altrettanto fece con quella che stavano per imboccare.
«Perché non ci sono dei segni?», si chiese Raphael, sospettoso. «Se Virgilius fosse davvero stato qui e avesse scoperto la via per raggiungere il cuore del labirinto, avrebbe anche lui marcato la strada come stiamo facendo noi».
«Può averlo fatto in un altro modo. Magari con delle pietre o della polvere».
Continuarono.
Fino a quel punto, le pareti non erano tempestate di loculi, come quelle delle catacombe, e non si vedevano neppure pitture; si aveva la sensazione di trovarsi in una sorta di passaggio segreto al di sotto di un castello. Non si poteva fare altro che avanzare per scoprire dove conduceva.
Panvinio aveva contato centodue passi dall’ultima deviazione quando la galleria si aprì in uno spazio ampio. Una sala rettangolare, con la volta più alta rispetto a quella delle gallerie, con false colonne in rilievo ai quattro angoli e un altare a parete, sormontato da una figura scolpita nella roccia: un serpente con la testa di leone, la lingua di fuori, e una corona a sette raggi.
«Questo è il serpente gnostico Chnufis», sussurrò Panvinio facendo luce sul muro. «Sotto c’è una parola, è in greco». Ne sfiorò le lettere con le dita. «Significa Dimenticanza».
Raphael scosse la testa e si guardò attorno.
Esclusa la direzione da cui stavano arrivando, avevano a disposizione tre aperture: a destra, a sinistra, davanti.
«Proseguiamo?».
Panvinio annuì e consultò le indicazioni: «Entrate nel sepolcro, videro un giovane, seduto sulla destra, vestito d’una veste bianca, ed ebbero paura».
Marcarono con una croce l’inizio della galleria a destra, e cominciarono a percorrerla. Via via risultò lunga e tortuosa; compiva continue deviazioni ad angolo retto, a destra e a sinistra, annientando completamente quella vaga illusione che avevano di potersi orientare. Alla fine si trovarono davanti a un muro.
«Vicolo cieco», disse Panvinio. «Dobbiamo tornare indietro».
«Forse Virgilius ha fatto qualche errore».
«Può darsi».
«Se le sue istruzioni non sono corrette e affidabili, rischiamo di inoltrarci troppo e perderci».
«C’è una possibilità». Panvinio alzò la fiaccola e rilesse attentamente le istruzioni dall’inizio. «Ecco, qui». Toccò con la punta del dito la seconda indicazione. «Potremmo aver fatto un errore interpretando il passo Proverbi 16,25: C’è una via che sembra diritta per l’uomo, ma alla fine conduce su sentieri di morte. Noi siamo andati a sinistra, essendo la sola via alternativa a quella diritta, immaginando che potesse condurci sul sentiero sbagliato. Ma credo che non dobbiamo interpretare: semplicemente Virgilius ha estrapolato delle frasi dalla Sacre Scritture contenenti le parole destra, sinistra, diritto».
Raphael approvò l’ipotesi, perché era sensata e perché non ne aveva un’altra migliore.
Invertirono la marcia e segnarono l’inizio di quella galleria con una seconda croce: vicolo cieco. Poi, tornati al punto in cui avevano sbagliato strada, andarono diritto.
«Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra».
Svoltarono a destra.
Qui la galleria curvava verso sinistra, in modo graduale e continuo. Ancora nessun loculo, solo scabre pareti di pietra. Raphael lo fece notare a Panvinio, ma lui gli disse di non essere affatto stupito dalla mancanza di sepolture. Si fermò, lo fissò con occhi di vetro e aggiunse: «Questa non è una catacomba».
Ascoltarono le viscere della terra, il silenzio che ronzava nelle orecchie.
«I Cainiti», spiegò lo studioso, bisbigliando, «non credevano nella resurrezione dei corpi alla fine dei tempi. Per loro, che erano cristiani gnostici, il corpo umano, la materia in generale, rappresentava il male. Non davano alcun valore alla “custodia”, all’“involucro”, come loro chiamavano il corpo. Non seppellivano i morti, li bruciavano. Sarebbe stato un controsenso. Capisci?».
Raphael annuì. Aveva più paura di uscire da lì senza qualcosa da scambiare con la vita di Ariel, per cui riprese a camminare.
Le gambe di Panvinio erano mosse dalla curiosità, oltre che dal desiderio di salvare Ariel, e nonostante fosse terrorizzato non fu necessario pregarlo.
Alla prima deviazione andarono a sinistra, poi presero un cunicolo a destra, perché le indicazioni dicevano: mentre tu fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra.
Si ritrovarono in una sala rettangolare del tutto simile alla precedente, con le colonne scolpite ai quattro angoli e altre tre aperture sui lati, oltre quella da cui provenivano. Lì mancava l’altare, ma c’era una figura scolpita nella parete.
«Ti presento il serpente gnostico Xnovmis», disse Panvinio.
Era quasi uguale a quello visto prima, salvo per la corona, che aveva dodici punte anziché sette, e per la parola che vi era scritta sotto: Malizia.
«Cosa significa tutto questo?», si chiese Raphael alzando la torcia e ruotando la testa. «Che razza di posto è?»
«Credo che sia un luogo di iniziazione ai misteri gnostici, un tempio. Forse gli iniziati e gli iniziandi venivano qui sotto per compiere azioni nefande».
«Da che parte si va?»
«Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaia».
Procedettero avanti, sempre segnando una x di vernice a terra, a ogni incrocio.
Era un percorso chiaramente concepito per scoraggiare gli intrusi dall’addentrarvisi.
Che quell’impressione fosse fondata risultò evidente non quando trovarono il primo scheletro per terra, ma quando videro il secondo, e il terzo, e il quarto.
In tanti avevano perso la vita cercando prima un tesoro e poi l’uscita da quel labirinto. Lo si capiva dagli attrezzi di ferro usati per scavare, ancora integri accanto alle ossa.
Oltrepassarono i resti di quegli sfortunati e andarono avanti.
Giunti al bivio successivo, Panvinio lesse: «Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno».
I sacchi e gli attrezzi cominciavano a pesare sulla schiena.
«Su, va’ nella strada chiamata Diritta e cerca nella casa di Giuda un tale che ha nome Saulo, di Tarso; ecco, sta pregando…».
A tratti, il senso di occlusione faceva girare la testa e mancare il respiro.
«Il mio calice, lo berrete; però sedere alla mia destra e alla mia sinistra non sta a me concederlo».
A mano a mano diventava la cosa più normale del mondo recitare frasi della Bibbia, sottoterra, imboccando aperture ignote e seguendo gallerie che conducevano soltanto ad altre gallerie.
All’improvviso si trovarono a passare davanti a una fenditura nella parete. Si fermarono a esaminarla e dedussero che doveva essere stata praticata dai saccheggiatori di tombe di cui avevano incontrato gli scheletri. I poveretti non erano riusciti a ritrovarla.
Andarono avanti.
«E porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra… Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra… Vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza… Agli occhi dell’uomo ogni sua via sembra diritta…».
Al termine di quella serie di gallerie, incontrarono un’altra sala rettangolare.
C’era un altare, sormontato da entrambi i serpenti che avevano visto prima.
Sotto le due figure campeggiavano tre parole: Stoltezza della carne.
Si fermarono a riprendere fiato e a far riposare le spalle. Immersi nel silenzio più profondo. Giusto il tempo di bere un sorso d’acqua, poi si rimisero in cammino.
«Insieme a lui vennero crocifissi due ladroni, uno a destra e uno a sinistra», lesse Panvinio.
Continuarono così, una citazione biblica dopo l’altra, finché arrivarono in una quarta sala.
La figura in rilievo sulla parete stavolta era un Abraxas, la parola incisa sotto era Gelosia.
Non si fermarono.
A ogni deviazione avevano diligentemente marcato le vie percorse e la cosa più incredibile, anche per uno come Panvinio, il quale di dedali sotterranei ne aveva visti tanti, era il fatto che non fossero mai passati due volte nello stesso punto.
Significava che il labirinto era parecchio esteso.
E anche che le indicazioni di Virgilius, se non altro, avevano una logica.
Camminando a passo svelto, Panvinio continuò a leggere: «Apparve a lui un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso… C’era là un uomo che aveva la mano destra paralizzata… Siedi alla mia destra… Non sta forse davanti a te tutto il territorio? Se tu vai a sinistra, io andrò a destra; se tu vai a destra, io andrò a sinistra… Allora egli disse loro: “Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete”».
E troverete.
Si fermarono davanti a quella che, secondo le istruzioni di Virgilius, doveva essere l’ultima galleria, prima di accedere al centro del labirinto.
Erano sfiancati e non avevano idea di quanto tempo fosse trascorso da quando erano entrati.
«Però sembra che ci siamo», disse Raphael.
Panvinio si inoltrò nella galleria e lesse l’istruzione successiva: «Ma poi lo ricondurrà su una via diritta e lo allieterà, gli manifesterà i propri segreti». Senza fermarsi, si voltò verso Raphael e annuì, gli occhi che scintillavano.
Proseguirono diritto per una cinquantina di passi e si trovarono davanti a una scalinata che correva in basso sfumando nel buio.
Fremendo per l’inquietudine, esasperati da un misto di curiosità e titubanza, di angoscia e desiderio di arrivare alla fine, lessero l’ultima istruzione lasciata da Virgilius: «Il Signore fa morire e fa vivere, scendere agli inferi e risalire».
«E speriamo che ci aiuti», aggiunse Raphael.
Era una grande sala circolare, con le pareti rivestite di mattoni. La volta a cupola ricordava quella del Pantheon, ma i cassettoni erano più piccoli e più numerosi. Con un rapido calcolo, Panvinio stabilì che erano 365, come i giorni dell’anno: cinque ordini da settantatré cassettoni ciascuno. Al centro della cupola c’era un’apertura circolare, dalla quale non entrava luce, ma oscurità.
Il pavimento era di prezioso porfido grigio.
Prima che le torce morissero, accesero due lanterne, quindi cominciarono a cercare.
Davanti ai loro occhi, al centro dello spazio, si manifestarono due enormi statue di Abraxas, affiancate, le teste di gallo in torsione che si guardavano a vicenda, le corna e le gambe fatte di serpi. Panvinio distolse lo sguardo schermandosi gli occhi con la mano.
«Andiamo subito via da qui», disse.
Raphael si infilò in una nicchia, non trovò niente. Facendo il giro della sala individuò altre quattro aperture lungo tutto il perimetro. Una aveva l’accesso sormontato da un arco.
«Vieni a vedere», sussurrò Panvinio.
La lanterna di Raphael si unì alla sua gettando più luce su uno spettacolo macabro.
Invece dei papiri, avevano trovato una fossa piena di scheletri.
Alcuni avevano ancora resti di vestiti attorno alle ossa, e non abiti contemporanei, ma tuniche da antico romano; se ne potevano vedere di uguali affrescate nelle catacombe riscoperte da Panvinio, dipinte dai fossori millequattrocento anni addietro.
Impossibile stabilire la profondità di quella voragine di orrore.
Panvinio fu assalito dal panico e cominciò a tremare. «Voglio uscire subito», disse. «Adesso. Questa è la casa di Satana!».
Raphael continuò la perlustrazione.
Nella camera con l’ingresso ad arco trovò finalmente un oggetto che poteva contenere qualcosa. Un enorme sarcofago. Alto quasi quanto una persona. Raphael ne aveva visto uno simile nel mausoleo di Costanza, adiacente alla basilica di Sant’Agnese fuori le mura, però quello era di porfido rosso e aveva sculture in altorilievo sui fianchi; questo, invece, era di porfido nero e non era scolpito. «Onofrio!», chiamò.
«Voglio uscire immediatamente».
«Aiutami a spostare il coperchio».
«Andiamo via».
«Proprio adesso?»
«Ma… Quegli scheletri … Hai visto? O mio Dio! Quegli eretici, quei mostri, attiravano le persone ignare qui sotto e le usavano per commettere le loro azioni innominabili. E poi le uccidevano. O Dio santissimo e benedetto».
«Aiutami».
Riluttante, con le mani tremanti, Panvinio spinse l’alto coperchio del sarcofago nell’angolo diametralmente opposto a quello di Raphael. La grossa pietra, a sezione trapezoidale, scivolò ruotando lentamente sul bordo della cassa sottostante. Un cupo stridore risuonò nell’aria.
Ma non era una sepoltura.
Conteneva sei anfore di terracotta, in piedi l’una accanto all’altra, come soldati posti a guardia di un segreto, tappate e perfettamente sigillate, tranne una; e c’erano anche quattro urne di bianco alabastro la cui superficie brillava come un firmamento sotto le fiamme delle torce.
Ne aprirono una e vi trovarono dentro papiri e pergamene, accuratamente avvolti in teli di cotone imbottiti col sale, per proteggere il contenuto dall’umidità.
Stapparono un’anfora e constatarono che conteneva a sua volta papiri.
I manoscritti non erano arrotolati, ma in forma di codice, con le pagine rilegate e chiuse da copertine di cuoio.
Neppure quella visione strabiliante riuscì a scuotere Panvinio dalla paura che lo aveva assalito. Continuava a farsi il segno della croce e a ripetere che voleva andarsene subito da lì. Una voce interiore gli ordinava di lasciare tutto e scappare.
Ma Raphael voleva prendere i manoscritti e metterli dentro i sacchi, prima di andare via.
Poi fu improvvisamente chiaro che le paure del frate non erano esagerate.
Dei cani uggiolavano e abbaiavano, da qualche parte, nelle spire del labirinto. I loro versi eccitati diventavano sempre più forti, si avvicinavano rapidamente.
«Ci hanno trovato», balbettò Panvinio saltellando con le mani congiunte. «Vengono a prenderci».
Si capiva che erano animali grandi e feroci; il rumore prodotto dalle loro gole fameliche e dai pesanti tonfi delle zampe era inequivocabile.
Arrivavano desiderosi di spargere sangue.
«Entra qui», disse Raphael a Panvinio, indicandogli il sarcofago.
«Qui?»
«Presto!». Lo sollevò di peso e lo gettò letteralmente fra le anfore e le urne. Lì i cani non avrebbero potuto raggiungerlo; arrampicarsi su quella pietra liscia sarebbe stato impossibile anche per un gatto. «Non muoverti e non fiatare».
«E tu?», mormorò Panvinio.
Raphael estrasse le pistole e l’archibugio. Il sacchetto con la polvere da sparo era già appeso alla sua cintura. Caricò le armi con la polvere e i proietti. Le pallottole di piombo scivolarono giù lungo le canne.
Avrebbe dovuto compiere la stessa operazione a ogni sparo, perché quelle non erano le pistole con tiro a ripetizione costruite dal padre di Sara, armi straordinarie, capaci di emettere dieci condanne a morte con un’unica ricarica.
I cani ansavano, sempre più vicini.
L’odore di prede succulente li stava guidando.
Chiunque avesse escogitato il piano di lasciar entrare lui e Panvinio nel labirinto, per poi farli seguire dai cani e trovare così la sala principale, senza aver bisogno delle indicazioni di Virgilius, era abbastanza astuto da meritare considerazione, pensò Raphael.
L’olfatto degli animali, insieme ai segni che loro due avevano lasciato per terra…
Raphael annuì, irritato e ammirato allo stesso tempo. Non lo avevano seguito da Roma fin lì: lo stavano aspettando sul posto, che evidentemente conoscevano già, sorvegliando giorno e notte l’accesso al sotterraneo; avevano lasciato che fosse lui a faticare e a rischiare per trovare il cuore del labirinto.
Ormai, i rantoli mortali e il sordo trotto delle bestie erano molto vicini.
Il vero problema, però, sarebbero stati gli uomini che di sicuro li stavano seguendo.
Non si udivano voci umane, né rumore di passi, ma qualcuno doveva pur averli portati fin lì e sguinzagliati.
Le armi da fuoco erano cariche.
Raphael illuminò la grande sala circolare sistemando per terra le lanterne e le torce, così da poter vedere i cani e le persone, quando fossero arrivati, poi tornò ad appostarsi dietro il sarcofago, nel buio. Imbracciò l’archibugio e attese.
I cani sopraggiunsero presto.
Appena entrati nel cerchio, si fermarono ad annusare, frementi, eccitati. Girarono intorno alle grandi statue di Abraxas mugolando.
Erano due.
Uno sparì nel cubicolo dove si trovava la fossa piena di scheletri, ma ne uscì subito e si unì all’altro.
Raphael, l’occhio dietro la miccia accesa dell’arma, li vedeva chiaramente, quando non sparivano dietro le statue o nelle parti in ombra del pavimento. Erano grossi mastini dagli occhi di fuoco, alti e robusti come leopardi.
Uno si fermò proprio davanti a lui, perfettamente a tiro, in mezzo alle due statue: sondava l’aria col naso guardando verso la camera del sarcofago.
Raphael sperò che il boato facesse scappare il secondo cane, una volta colpito il primo, o tutti e due, nel caso lo avesse mancato.
Trattenendo il respiro, preparandosi al rinculo, tirò il grilletto e fece fuoco. Immediatamente lasciò cadere a terra l’arma e impugnò una delle due pistole. Ma la nuvola di fumo generata dal primo colpo non gli permise di vedere se aveva o meno colpito l’animale o se fossero scappati.
Silenzio.
Gli sibilavano le orecchie.
Quando il fumo davanti ai suoi occhi si diradò, come un fantasma emerso dalla nebbia di una palude, apparve la sagoma nera di un mastino. Ringhiava. Non lo vedeva, ma sapeva che era lì. L’odore della polvere da sparo, tuttavia, disturbava il suo olfatto facendolo esitare.
Raphael sparò ancora.
Stavolta seppe di averlo colpito, perché lo sentì uggiolare e poi stramazzare al suolo.
L’altro cane gli piombò addosso come una furia, non lasciandogli il tempo di afferrare la seconda pistola. Raphael fu scaraventato con la schiena a terra, ma il cane, invece della sua gola, addentò la pistola scarica e all’improvviso si allontanò con un balzo, guaendo. Doveva aver morso la canna bollente dell’arma scottandosi la lingua.
Lo cercò muovendo gli occhi, ma restò fermo dov’era. Raccolse una delle pistole e la ricaricò mettendo polvere e pallottola nella bocca della canna, e pressando con una verga di ferro. La miccia bruciava ancora, pronta a muoversi insieme al grilletto e a far brillare la polvere.
Tra un guaito e l’altro, il cane emetteva versi poco rassicuranti. Riapparve all’improvviso, sgusciando fuori da chissà dove, rapido, silenzioso, grondante di bava; Raphael ne scorgeva a malapena la sagoma, vedeva le sue orecchie appiattite contro la testa; forse lo stava fissando. Nell’istante in cui il cane rizzò di nuovo le orecchie, Raphael sparò, ma il colpo andò a vuoto. E il cane gli fu sopra. Lo schiacciava con il suo peso abnorme, cercava punti vitali da mordere. Raphael aveva rannicchiato le gambe cadendo all’indietro e riuscì a distenderle di scatto scagliandolo lontano. Nell’impatto, il mastino lanciò altri guaiti e provò a rialzarsi rapidamente, ma doveva essersi ferito alle zampe posteriori. Non riusciva a sollevarle da terra. Ciò nonostante, era talmente rabbioso che non distolse l’attenzione da Raphael e continuò a ringhiargli contro.
Nel dubbio, avrebbe dovuto ucciderlo, adesso che era vulnerabile, ma non se la sentì. Si limitò a ricaricare una delle pistole tenendolo d’occhio.
«Onofrio, vieni fuori, presto!».
«Sei sicuro?», balbettò lui.
«Dobbiamo sbrigarci, stanno arrivando».
Il frate saltò fuori dal sarcofago e si guardò intorno con le mani premute sulla testa. «Oddio».
«Metti i manoscritti nei sacchi, svelto».
Scuotendosi dalla confusione, Panvinio cominciò a svuotare le urne e poi passò a stappare le anfore.
Raphael andò a recuperare le lanterne e le torce che aveva sistemato al centro della sala. Passò accanto al mastino ferito, che digrignava i denti. Ma quando gli fu abbastanza vicino lo sentì emettere piccoli guaiti di sottomissione, e vide che abbassava le orecchie.
Lo lasciò al buio.
Caricò le armi. Stava finendo di pressare la polvere nella canna della seconda pistola, e aveva già la mente impegnata a raffigurarsi l’uscita dal sotterraneo, quando due voci irruppero nella grande sala.
«Quei bastardi hanno ucciso i cani, hanno ucciso i cani!».
«Io li ammazzo!».
Le torce che i due uomini avevano in pugno gettavano ombre enormi sulle pareti.
«Un mastino è ancora vivo!». Anziché accarezzarlo, gli passò una lama sotto la gola, lo spinse via con una pedata e poi gli sputò sopra. «Bestiaccia inutile».
Panvinio tremava bisbigliando preghiere a occhi chiusi.
«Dardo!», disse l’altro uomo, che guardava verso il cubicolo illuminato. «Venite fuori».
«Se fate un solo passo, brucio i manoscritti», rispose Raphael. «State fermi dove siete». Li vedeva, erano davanti alle statue di Abraxas, armati di archibugi.
«Non fate sciocchezze, Dardo».
«Gettate a terra le armi, tutte! Altrimenti, potete dire addio ai Vangeli».
Quelli si guardarono titubanti e, dopo un po’, decisero di posare gli archibugi per terra.
«Tutte le armi», precisò Raphael.
Due spade e due pugnali sferragliarono sul porfido.
«Non abbiamo altro».
«Spingetele da questa parte con un calcio».
Fecero come richiesto. Le armi strisciarono sul pavimento e si fermarono appena fuori dal cubicolo.
«Abbiamo messo i papiri nei sacchi», li avvisò. «Qui c’è olio e fuoco in abbondanza. Quindi, stendetevi a terra, pancia sotto, le mani dietro la nuca».
«Porca miseria», fece uno.
Anche l’altro era riluttante. «Se bruciate i papiri, siete un uomo morto».
Per fargli vedere che non scherzava, Raphael pescò un codice a caso da uno dei due sacchi e gli diede fuoco. Lo lanciò verso di loro. «Fate come vi ho detto!».
Panvinio si premette le mani sulla chierica, poi sulla bocca, e con gli occhi strabuzzati osservò il testo antico che si dissolveva. Ma fu solo un riflesso inconsapevole del suo corpo e del suo spirito di studioso. Fece un cenno di assenso a Raphael: era pronto a bruciare il secondo.
I due si stesero a terra, come richiesto.
Raphael e Panvinio avevano portato con loro delle funi, nel caso avessero dovuto calarsi per raggiungere un livello inferiore della catacomba. Non potevano immaginare che si sarebbero ritrovati all’interno di un maestoso tempio gnostico risalente all’alba del cristianesimo, ancora intatto. Ora, però, quelle funi si rivelavano utili.
Raphael tenne sotto tiro uno dei due e chiese a Panvinio di legare l’altro a una gamba di una delle statue ciclopiche. «Ben stretto», disse.
Il frate eseguì il compito in modo egregio, senza recitare neppure una preghiera. D’un tratto sembrava si fosse liberato del terrore. Legò anche il secondo uomo, a una gamba dell’altra statua. Poi andò a raccogliere quel che restava del papiro bruciato e ci soffiò sopra lasciandosi sfuggire un verso di disappunto.
Raphael si accertò che i due uomini fossero assicurati a dovere e alla fine dell’esame annuì soddisfatto.
Li guardò dall’alto in basso.
Adesso, da vicino, poteva notare il loro abbigliamento costoso, i capelli puliti e ben curati. E riusciva a scorgere anche la paura di morire, in fondo agli occhi scuri come schegge di ardesia. Uno aveva una trentina d’anni, barba corta e ben disegnata con lunghi baffi appuntiti; l’altro era più giovane, guance rasate di fresco, naso tozzo e mandibole larghe. Non li aveva mai visti prima. «Chi siete?»
«Vostro fratello Leonardo», disse quello coi baffi, «era mio amico».
«Ah, sì?»
«Slegateci immediatamente. State commettendo un grave errore».
«Chi vi manda?».
Dopo un momento di esitazione, l’uomo lo guardò fisso negli occhi e rispose con una franchezza spiazzante: «Il papa».
Raphael abbassò la testa e sbuffando si strofinò i capelli nervosamente con entrambe le mani, inondato da un eccesso di assurdità. «Cosa significa? Perché, allora, volevate ucciderci?».
I due uomini si guardarono a vicenda e risero. Erano divertiti dallo sconcerto che stava deformando i connotati di Raphael e ancora di più dalla reazione scettica di Panvinio.
«Avevamo ordine di recuperare i manufatti antichi a tutti i costi», disse uno.
Poi, quando videro che Raphael si immobilizzava e tendeva l’orecchio, come se avesse udito un rumore, cominciarono ad annuire.
«Adesso ci penseranno loro», disse il più giovane.
«Loro chi?»
«I birri del papa».
«Come ci avete trovato? Ci stavate aspettando qui fuori?»
«Il conte Canossa ha fornito delle informazioni, questa notte. Sapevamo dove cercarvi. Abbiamo visto il carretto col mulo…».
«Avete detto che conoscevate mio fratello Leonardo».
«Sì».
«Fate parte della sua setta?»
«No. Lui e il suo gruppo facevano parte della nostra, messere».
«E cosa c’entrate voi, eretici, con il Santo Padre?».
Non risposero.
L’aria che scorreva nei penetrali del sotterraneo portava un rumore flebile, lontano e confuso, ma inequivocabile: un gruppo nutrito di persone stava sopraggiungendo, preceduto da cani.
Si trovavano ancora, presumibilmente, nel primo tratto di gallerie.
Raphael prese rapidamente la sua decisione, anche perché c’era solo una cosa da fare: tornare alla galleria in cui avevano visto l’apertura nella parete, fatta dai saccheggiatori di sepolture di cui avevano incontrato gli scheletri, e provare a uscire da lì. Forse lui e Panvinio sarebbero riusciti a raggiungere il punto prima degli uomini che stavano arrivando dalla parte opposta.
La conversazione con i due che sostenevano di essere Cainiti al servizio del papa era interessante, ma bisognava rinunciarci.
Raccolsero i sacchi, le luci, si liberarono dei pesi superflui e uscirono dalla grande sala circolare più leggeri di quando vi erano entrati.
«Da questa parte», disse Panvinio, che correva e guizzava fra i cunicoli come una lepre inseguita dai cani.
Cani che ansavano e uggiolavano, in rapido avvicinamento.
Voci umane si mescolavano ai loro versi concitati, si udiva il calpestio sempre più rumoroso di parecchie persone: che fossero guardie lo si intuiva dallo sferragliare che producevano a ogni passo.
«Di qua».
Raphael seguì Panvinio; il frate sembrava lucido e attento, adesso, stava sfoderando tutta la sua esperienza di esploratore di catacombe e si muoveva con una sicurezza che in quel momento a Raphael parve una benedizione.
«Destra».
Mentre ansimava con lo sguardo fisso sulla schiena dell’amico, Raphael si rese conto che senza di lui non avrebbe mai potuto trovare l’uscita. Non che fosse difficile seguire le gallerie segnate con la vernice o leggere a ritroso le indicazioni di Virgilius, ma si rendeva conto che a lui sarebbe mancata la velocità necessaria in un momento come quello; anche perché la confusione si era impadronita della sua mente dopo aver udito la parola “papa” fuoriuscire dalla bocca di un maledetto sgozzatore di cani.
«Sinistra».
Correvano veloce, sebbene cercassero di essere silenziosi, e andavano incontro a chi arrivava nella direzione opposta avvicinando il fatidico momento dell’incontro.
Eppure il tratto di labirinto con la breccia nella parete non arrivava mai. Ma sapevano di essere sulla strada giusta.
«Dritto».
«Più veloce», gli disse. «Corri!».
«Sinistra».
Ormai le persone in arrivo e i cani si trovavano a poche decine di passi. Si vedeva già il buio sbiadire a contatto con le loro torce.
Mancava poco all’incontro.
«Dritto».
Percorsero altre gallerie, apparentemente infinite, poi quando giunsero in vista della breccia nel muro, apparvero anche i cani.
Panvinio si infilò per primo nell’apertura. Raphael lo seguì.
Forse avevano fatto in tempo a sparire prima di essere visti, ma erano perfettamente consapevoli di non poter sfuggire all’olfatto degli animali. Per cui non rallentarono, nonostante bisognasse stringere le spalle per non farle raschiare contro la pietra. I saccheggiatori di tombe avevano scavato – era il caso di dirlo – lo stretto necessario, quanto bastava per strisciare dentro ed esplorare possibili fonti di lucro.
Panvinio si fermò all’improvviso.
«Cosa c’è?», chiese Raphael, che non poteva vedere davanti, mancando lo spazio di lato e in alto per sporgersi.
«Bisogna arrampicarsi».
Fino a un momento prima, se si fossero fermati, non avrebbero udito altro che il sangue pulsare nelle orecchie, adesso invece erano assordati dall’abbaiare assatanato di un grosso cane.
Li aveva fiutati.
Raphael si abbassò sulle ginocchia. «Ce la fai salendo su di me?»
«Credo di sì».
Panvinio gli montò sulle spalle e si aggrappò a qualcosa che Raphael non poteva vedere. Ma doveva essere un appiglio abbastanza solido, perché la suola delle sue scarpe si staccò dalle spalle e fluttuò in alto fino a sparire. «Ci sono», disse, «dammi i sacchi».
Raphael eseguì prontamente.
Ondate di fuoco gli percorrevano le vene.
Il cane era stato liberato e correva verso di lui.
Dopo avergli passato anche il secondo sacco, insieme al piccone che avevano deciso di riportare in superficie, guardò in alto, la mano di Panvinio che pendeva dal buio.
«Afferrala», lo spronò il frate.
Raphael, però, decise di affrontare prima il cane. Ormai l’animale era troppo vicino. Nella migliore delle ipotesi, gli avrebbe azzannato il polpaccio mentre lui cercava di issarsi nel pertugio.
«Sbrigati!».
Estrasse il pugnale. Lama robusta triangolare, lunga un palmo, punta aguzza.
Ma all’ultimo istante ci ripensò.
Lui non era un vile sgozzatore di cani.
Rinfoderò l’arma e con uno scatto di reni afferrò la mano di Panvinio. Puntellò i piedi sulla parete e spinse nel tentativo di sottrarre la parte inferiore del proprio corpo alla voglia di uccidere del cane che aveva sotto.
Non lo guardò, non lo avrebbe fatto neppure se ci fosse stata la luce sufficiente. Sentì il suo alito caldo salire dal basso e sfiorargli la caviglia sinistra.
Panvinio tirava con tutta la forza di cui disponeva e gemeva nello sforzo. Resistette anche quando il peso crebbe.
Il cane aveva afferrato uno stivaletto di Raphael. Il tacco. Poi anche la carne sottostante. Il dolore sprizzò lungo le ossa fino al cervello.
Lentamente, resistendo alla fitta lancinante, riuscì a sfilare il piede dallo stivale e a issarsi fino al cunicolo in cui si trovava Panvinio.
«Andiamo via!», disse.
«Sei ferito?»
«No, vai!».
Panvinio si mosse tenendo il sacco sulla schiena e l’impugnatura della lanterna fra i denti.
In quella parte di cunicolo bisognava procedere carponi. Per fortuna, dietro di loro c’era un silenzio irreale e miracoloso, adesso.
Continuarono ad avanzare come goffe talpe, senza emettere un lamento.
«Fine», disse a un tratto Panvinio.
«Cosa?»
«Il cunicolo finisce qui».
«Come sarebbe?»
«Dobbiamo scavare». Prese il piccone e passò subito ai fatti. «Dalle radici direi che non siamo distanti dalla superficie». Le ultime parole si mescolarono alla terra che gli cadeva sulla faccia.
Anche se Raphael avesse voluto, e se avesse avuto a disposizione un altro piccone, non avrebbe potuto aiutarlo per mancanza di spazio.
Tutto quello che poteva fare era attendere.
Aveva la migliore guida possibile.
Dopo qualche minuto e parecchi sputi da parte di Panvinio, la punta del piccone aprì una fessura di luce. La stessa luce grigia che si erano lasciati alle spalle prima di entrare.
«Non piove», disse il frate ridendo per la gioia, e si mise a picchiare con più vigore sulla propria testa.
Pian piano, la piccola fessura divenne larga abbastanza da permettere di scivolarci attraverso.
Quando Panvinio fu passato, Raphael alzò lo sguardo ed ebbe la sensazione di resuscitare.
L’aria aperta aveva il profumo della libertà, della vita.
Una volta fuori, constatò con sollievo che la ferita era meno grave di quel che gli era sembrato: il calcagno e parte della caviglia risultavano parecchio gonfi, ma i denti del cane non erano affondati nella carne. Posò il piede sinistro a terra, vi caricò tutto il peso del corpo saggiando l’intensità del dolore.
Per il momento era sopportabile.
Raccolse il sacco e si incamminò nel campo, sorretto da Panvinio.
Cercavano la strada da cui erano arrivati, il carro e il mulo, e poco dopo avvistarono il punto in cui si trovava l’accesso al labirinto, dal quale erano scesi sottoterra; distava alcune centinaia di passi. Si nascosero dietro un masso e osservarono. Si vedevano cinque uomini in piedi, di sicuro posti a guardia dell’apertura, e un discreto numero di cavalli.
Decisero di avvicinarsi ancora un po’ per studiare meglio la situazione.
«Ce la fai a raggiungere quel cespuglio?», chiese Panvinio.
«Sto bene», disse Raphael. «Non ho niente, è solo un livido».
Il vento scorreva piacevole sulla pelle, portava odori e suoni meravigliosi, il cinguettio degli uccelli, un lieve sentore d’aglio, il placido sfrigolio delle fronde.
I Cainiti si sbagliavano, pensò Raphael: il regno della materia, il Creato, questo mondo, non era poi così malvagio.
In lontananza videro il carretto. Era ancora al suo posto, sul ciglio della strada di terra battuta. Dopo un po’, Raphael e Panvinio avvistarono anche le lunghe orecchie del mulo, che non si era spostato di molto da dove loro lo avevano lasciato e stava ancora brucando l’erba in tutta tranquillità.
Due uomini armati di archibugi cercavano di non farsi notare, ma le canne delle loro armi spuntavano maldestramente dalla pietra che avevano scelto come nascondiglio.
«Ci stanno aspettando», disse Panvinio.
Raphael annuì. Ipotizzò che potessero essere delle guardie svizzere, probabilmente senza uniforme. Poi, però, vide il governatore Pallantieri che sbucava dal terreno e dava ordini, e capì che dovevano essere tutti suoi birri.
Le parole del governatore non erano udibili da quella distanza. Tuttavia si capiva dai gesti che stava chiedendo ad alcuni suoi uomini di sparpagliarsi per il campo e cercare i fuggiaschi. Indicava tutt’intorno, come stesse dicendo che dovevano essere riemersi da un buco nel terreno, da qualche parte.
Due birri imbracciarono le armi da fuoco, montarono in sella e cominciarono la ricognizione. Procedevano lentamente, ispezionando l’area circostante con gli sguardi.
«Oh oh», fece Panvinio schiacciandosi a terra, «vengono proprio da questa parte… Arrivano».
«Resta qui e non ti muovere», gli ordinò Raphael. «E prega».
«Sì, sì, sta’ attento per favore».
Raphael balzò in piedi e cominciò a correre lontano dai birri, puntando verso un gruppo di querce da ghianda.
I birri lo videro, lanciarono versi di incitamento ai cavalli e lo seguirono al trotto.
Per fortuna, l’azzardo di Raphael stava funzionando: i due gendarmi si sentivano sicuri di poter portare al loro capo la preda richiesta, e come previsto non chiamarono aiuto. Anzi: fecero in modo che gli altri non si accorgessero di nulla. Preferivano prendersi tutto il merito della cattura.
Però Raphael zoppicava malamente, ogni passo era come una coltellata sotto il piede sinistro. Strinse i denti e cercò di andare più svelto. I papiri non erano molto pesanti, ma seminare due cavalli correndo quasi su un piede solo e con le mani impegnate a tenere i sacchi era un’impresa impossibile.
“Non devi seminarli, devi solo raggiungere l’ombra nera sotto quegli alberi e fare il tuo lavoro”.
Dopo le prime fitte lancinanti, posare il piede divenne via via sempre meno doloroso. Adesso si poteva dire che stesse correndo.
I cavalli si avvicinavano veloci. Non erano ancora a distanza di tiro. Ma mancava poco.
L’ingresso di Raphael nel sottobosco fece allertare una famiglia di maiali che stava grufolando in santa pace, scalzando e frugando la terra con il muso alla ricerca di ghiande.
Lui si fermò dietro il primo tronco, il più grande, che però non era abbastanza largo da nascondere anche i due sacchi. Fece del suo meglio per tenerli davanti a sé e non farli sporgere. Poi i maiali scapparono, i cavalli irruppero nella penombra sbuffando dalle froge e nitrendo.
«Eccolo!», urlò un birro.
Si avvicinava dalla parte destra. Raphael non lo vedeva ma lo sentiva. Afferrò un sacco con entrambe le mani, poi si sporse di scatto oltre il tronco ruotando di novanta gradi sul piede sano e glielo scagliò contro.
Il cavallo, spaventato, si impennò sulle zampe posteriori disarcionando il cavaliere, al quale partì un colpo d’archibugio.
L’altro birro smontò di sella e prese la mira. «Vieni fuori», disse. «Tu stai bene?», chiese all’amico.
Il birro caduto a terra non gli rispose. Era immobile. A Raphael bastava ruotare un poco gli occhi per vederlo. Sembrava fosse morto sul colpo, forse battendo la testa su una pietra. Ma non si poteva escludere che fosse soltanto svenuto e che potesse rialzarsi da un momento all’altro. Il suo cavallo si era fermato sul limitare del boschetto.
Forse non era visibile ai birri che piantonavano l’ingresso al labirinto e magari lo sparo era stato attutito dalla fitta chioma delle querce, sperò Raphael.
Aveva bisogno che la realtà fosse quella, gli serviva quel cavallo.
Il secondo birro di Pallantieri si avvicinava cauto, alle sue spalle. Da sinistra, stavolta.
Raphael non poteva rischiare che anche quel cavallo scappasse.
Tenne il sacco in posizione verticale, pronto a lanciarlo lungo una traiettoria orizzontale nel tentativo di farlo sembrare una persona in fuga, con la speranza che il birro scaricasse l’archibugio contro il finto bersaglio.
Fece volare il sacco.
Non ci fu neppure il tempo di dire uno che arrivò lo sparo.
Raphael sgusciò da dietro l’albero con il falcetto in pugno. La sua faccia indemoniata, i suoi muscoli tesi dalla disperazione, gli occhi che rigurgitavano una luce di lava, dovettero risultare una visione troppo spaventosa per il birro, che invece di provare a sfoderare la spada alzò le mani e si lasciò cadere sulle ginocchia.
«Non voglio morire», supplicò.
«Finché restate in ginocchio non morirete», gli disse Raphael. Prese le redini del cavallo, lo portò a mano verso un sacco, poi andò a raccogliere l’altro e montò in sella.
Sperare non era servito a nulla: i due spari avevano eccome richiamato l’attenzione degli altri birri.
Ne stavano arrivando tre o quattro.
Raphael spronò il cavallo e galoppò fuori dal boschetto in direzione di Panvinio.
I birri erano ancora abbastanza lontani.
Il frate non si era mosso.
«Onofrio!», urlò.
Un colpo secco attraversò l’aria, e dopo un istante una pallottola ronzò come un calabrone dietro la testa di Raphael.
Il frate lo vide arrivare e si alzò. Battendo i piedi per terra, aspettò il momento di poter saltare in sella dietro di lui.
Un altro sparo. Poi un terzo.
Raphael fermò il cavallo, tese la mano libera a Panvinio, lo issò in groppa e gli diede in consegna i sacchi, quindi ripartì incitando l’animale con la voce e con l’unico tacco che aveva. Però non si diresse verso la strada. Tornò al bosco per recuperare il cavallo scosso: in due su una cavalcatura non sarebbero andati molto lontano.
I birri – Raphael non aveva fatto in tempo a contarli – ormai si trovavano quasi a distanza di tiro.
Il cavallo del primo birro disarcionato nel bosco era tranquillo, adesso, brucava l’erba con indifferenza. L’altro birro, invece, se l’era data a gambe per evitare di dover dare scomode spiegazioni al governatore.
Panvinio passò da una sella all’altra senza toccare terra, prese in consegna uno dei due sacchi e partì in testa cavalcando con sicurezza. «Conosco una strada alternativa», disse.
E Raphael, proprio come aveva fatto nel labirinto, si lasciò guidare.
Nella valle tra il Viminale e l’Esquilino, nei pressi della basilica di Santa Maria Maggiore, Sara tirò le redini e fece fermare il cavallo nero. Era arrivata davanti al cancello di legno e bronzo della vigna di Ghislieri.
La tenuta era recintata da un muro alto, che non permetteva di vedere all’interno.
«Devo consegnare un messaggio al cardinale Ghislieri», disse restando in sella.
«Girate alla larga», le rispose uno dei due birri del Santo Uffizio che stavano sorvegliando l’entrata del casale. L’altro, invece, la guardava sorridendo.
«Devo consegnare un messaggio al Sommo Inquisitore», insistette Sara.
«Andatevene, ho detto».
Il cavallo non si mosse.
«Se non vi togliete dai piedi, donna insolente, vi faccio mettere in ceppi e portare a via di Ripetta».
«Se non mi fate consegnare il messaggio», ribatté Sara, coraggiosa, «il Sommo Inquisitore porterà voi in prigione».
L’uomo sogghignò. «Dite?»
«Sì, dico».
«E, sentiamo, perché?»
«La persona che mi manda possiede qualcosa che il cardinale desidera».
«Da parte di chi è il messaggio?», domandò l’altro birro, col sorriso.
«Raphael Dardo».
«Chi sarebbe?»
«La guardia del corpo del papa».
Gli armigeri ruotarono le teste e si guardarono a vicenda. Poi riportarono l’attenzione su Sara.
«Aspettate qui», disse quello burbero. Si fece aprire il cancello dall’interno e sparì.
«Come vi chiamate?», sorrise l’altro.
«Sara».
«Sara come?»
«Colorni. E voi?»
«Avete già qualcuno che vi…?»
«Vi cosa?»
«Che vi… sì, insomma, avete capito».
«Vi conviene mordervi la lingua», disse lei a muso duro.
«Oh, accipicchia!». L’uomo si fece una risata piegando la schiena all’indietro, per quanto gli era permesso dalla corazza. «Che caratterino!».
Sara tese il braccio destro verso di lui e aprì la mano con il palmo rivolto verso il basso. «Vedete?»
«Non sono cieco».
«Io dico che lo siete», ribatté lei, e in un battito di ciglia nella sua mano apparve uno stiletto scintillante.
L’uomo, spaventato, fece un passo indietro e urtò la schiena contro il muro, con un suono di pentolame. «Che diavoleria è questa? Voi siete una maledetta strega».
«No, sono una pittrice».
«Vade retro!».
«Non avete mai assistito a giochi di prestidigitazione? Mio padre era il più grande maestro di quest’arte che si sia mai visto».
«Siete la figlia di uno stregone». Non potendo arretrare, scivolò di lato lungo il muro per allontanarsi, le mani strette attorno all’asta di frassino della picca. «Dovrebbero issarvi su una catasta di legna, legarvi a un palo e darvi fuoco, come si confà alle streghe».
Improvvisamente, spuntò un secondo stiletto nella mano sinistra di Sara. «Preferisco essere considerata una strega piuttosto che una puttana. E adesso, se non la finite di insultarmi, smonto di sella e vengo a infilarvi uno di questi nel didietro».
L’uomo si era portato a distanza di sicurezza. Sotto le corte tese di ferro del suo copricapo c’era uno sguardo spaventato. Stava per scappare e lo avrebbe fatto, se proprio in quel momento non avesse visto tornare il birro che era andato a riferire il messaggio. Riprese il suo posto e tenne il cancello aperto al compagno e alla persona che lo seguiva.
Sara lo riconobbe subito. Era padre Teofilo, il sacerdote che aveva fatto entrare lei e Raphael nel palazzo del cardinale Cesi, colui che stava per dare alle fiamme tutti gli oggetti dei congiurati.
«Sorpresa?», domandò il prete.
«Lo sarei se aveste la faccia da unicorno e le ali sulla schiena», rispose lei. «Invece, ho già visto esseri come voi».
Il religioso arrossì e strinse i pugni lungo i fianchi. «Un giorno o l’altro, la vostra impertinenza vi si ritorcerà contro. E allora vi passerà la voglia di dare libero sfogo alla lingua».
Sulla mano di Sara apparve magicamente una lettera, ma padre Teofilo non arretrò spaventato, come aveva fatto il birro: si limitò a sgranare gli occhi per lo stupore.
«Siete venuta per consegnare un messaggio?»
«Al cardinale Ghislieri».
«Potete dare a me».
«No, solo a lui».
«Questo, mi dispiace, non è possibile».
«Io credo di sì». Soffiò sulla lettera facendola sparire nel nulla. «O a lui o niente manoscritti».
«Riferirò».
«Posso attendere».
Padre Teofilo varcò nuovamente il cancello e rientrò nel casale.
I birri si allontanarono da Sara e ripresero posizione solo quando, qualche minuto dopo, il gesuita fu di ritorno.
«Madamigella Sara, potete entrare», le disse. «Sua eccellenza reverendissima è lieto di ricevervi».
Lei era titubante e non smontò.
«Allora?», la esortò Teofilo.
Entrare, pensò Sara, sarebbe stato troppo rischioso; poteva significare concedersi al Sommo Inquisitore come ulteriore ostaggio, magari da scambiare con il sicario che era stato catturato da Leccacorvo e che attendeva il suo destino in cantina.
«Cosa state aspettando?»
«Fate uscire il cardinale», disse lei, a testa alta. Fiera in sella a un cavallo nero che luccicava come metallo, pareva la statua equestre di un imperatore cui avessero messo in capo una parrucca. «Oppure me ne vado».
Padre Teofilo lanciava fiamme dagli occhi, l’insolenza della donna gli risultava intollerabile. «Se è così, andatevene».
Sara esitò. Certo, entrare nel podere del cardinale comportava dei rischi, per se stessa e, quindi, anche per Ariel. Ma allo stesso tempo, andarsene senza consegnare il messaggio di Raphael avrebbe rappresentato il fallimento della sua missione e, quasi certamente, anche della trattativa per liberare il piccolo.
Era giunto il momento di rischiare il tutto per tutto. Solo varcando quel cancello avrebbe potuto scoprire se il Sommo Inquisitore era interessato a trattare.
Schiacciò il piede sinistro sulla staffa e saltò giù da cavallo. La sottana ricadde sbuffando come un sipario sulle sue gambe affusolate e avvolte dalle calzebrache da uomo, nere e attillate. Si diresse verso l’ingresso della tenuta.
Teofilo le fece strada.
All’interno c’erano altri birri, ma disposti lungo il muro di cinta e perciò a distanza.
«Seguitemi, da questa parte». Teofilo mise le mani nelle maniche, abbassò la testa e prese un sentiero coperto dalle acacie, che portava dritto verso la cappella. La si poteva scorgere in cima alla collina, circondata da cipressi.
Quando arrivarono, e Teofilo le fece segno di entrare, Sara oltrepassò la soglia con riluttanza. Già sentiva il portone chiudersi alle sue spalle. Non aveva davanti la navata di una piccola chiesa con l’altare in miniatura e il crocifisso nel minuscolo abside, aveva di fronte una possibile trappola, ma doveva a tutti i costi mettere nelle mani del cardinale la lettera di Raphael.
Lei ne ignorava il contenuto. E ignorava dove si trovassero in quel momento lui e frate Panvinio.
Si inoltrò nella chiesetta, il portale si richiuse.
L’ambiente era rischiarato da ceri e candele, e dal rosone non entrava neppure un raggio di sole.
Scorse tre guardie armate, in piedi e immobili, una all’angolo alla sua sinistra, un’altra a destra, e una in fondo a sinistra, vicino a una porta che presumibilmente dava accesso a una piccola sacrestia.
Escludendo l’altare con il tabernacolo, il crocifisso e quattro file di panche, l’unico altro oggetto d’arredo era il confessionale, in fondo a destra, dove non c’erano guardie. Sara non ne aveva mai visto uno come quello. Era una sorta di grosso armadio, con una porticina sul davanti e un inginocchiatoio al lato, con una lastra di ferro traforata.
«C’è nessuno?», domandò.
«Avvicinatevi», disse un uomo da dentro il confessionale, «siete la benvenuta». La voce era attutita, ma arrivava pacata e soave.
«Devo essere sicura di parlare con il cardinale Ghislieri».
«Sono io, figliola, avvicinatevi senza paura».
«Preferirei di no». Controllò alle sue spalle. Le guardie non si muovevano, non guardavano, non ascoltavano, sembravano automi senza carica. «Devo consegnarvi una lettera».
«So che siete un’eccellente pittrice».
«Mi lusingate».
«Il vostro amico Raphael Dardo vi ha mai raccontato di suo fratello Leonardo?»
«Sì, certo».
«E vi ha detto che dipingeva quadri blasfemi?»
«Sì».
«Messer Dardo è un uomo saggio, a quanto pare».
«So che Leonardo realizzava opere incredibili per la verosimiglianza, e che voi lo accusavate di avvalersi dell’aiuto del Diavolo».
«Sì, è vero. Il Diavolo è mio nemico. Voi volete essere mia amica? Venite, Sara, vi ascolto con molto piacere». Parole lievi volarono nell’aria come un tripudio floreale sulla statua di un santo in processione. «Da quanto non vi confessate?»
«La settimana scorsa», mentì prontamente lei.
«Inginocchiatevi, se non vi dispiace».
Le dispiaceva, però si arrese e posò le ginocchia sul cuscino. Si ritrovò col viso davanti alla lastra forata. Sentiva l’uomo respirare dall’altra parte, ma non poteva vederlo. «Vostra eccellenza reverendissima, non sono venuta per confessare i miei peccati, né per ascoltare quelli altrui, ma solo per consegnare un messaggio».
«Leggetemelo, per favore».
«Preferirei darvelo e andarmene subito».
«Vi sto chiedendo così tanto?»
«No, reverendissimo. È che non so cosa ci sia scritto, e non voglio saperlo».
«Vi capisco. Ma non avete nulla da temere da me. Qui siete al sicuro».
Sara, nel sentire quella voce piena di pace, si disse che dall’altra parte del divisorio non poteva esserci altri che Ghislieri. Oltretutto, la cappella era un luogo consacrato, il piccolo ritiro spirituale del proprietario di casa. Perché mai un uomo austero e potente come lui avrebbe dovuto permettere a qualcun altro di prendere il suo posto in una faccenda tanto delicata e riservata?
Decise di spezzare il dischetto di ceralacca e aprire la busta. La mano le tremava mentre sfilava il foglio.
«Leggete».
Si schiarì la gola.
Vostra eccellenza reverendissima, se un uomo buono come voi fa rapire un fanciullo innocente, deve avere le sue ragioni. So che è Dio a ispirare e a guidare il vostro agire. So che non siete un uomo malvagio. Ho capito cosa vi ha mosso a tanto. Tuttavia, vi prego, dite a chiunque abbia rapito Ariel Dardo che ho in ostaggio un agente dell’Entità, Giuseppe Castiglioni, e sono disposto a liberarlo, purché mi venga consegnato mio figlio. Ditegli che ho trovato i papiri e sono disposto a consegnarli, come richiesto per il riscatto. Lo aspetto questa sera al tramonto, nel Vicolo dell’Inferno, nel rione Campo Marzio. Che non faccia scherzi, altrimenti non solo ucciderò il suo sicario, ma consegnerò gli antichi papiri ai luterani. Come voi ben sapete, essi sostengono che il papa di Roma non sia il successore di Pietro, ma un usurpatore. Ebbene, nelle Lettere di Pietro a Giacomo, che io posseggo, c’è la prova che i luterani hanno ragione. Dunque, se non volete che i Vangeli sconosciuti e certe lettere inaudite, da me rinvenuti oggi stesso in un tempio sotterraneo risalente all’alba del Cristianesimo, diventino libri a stampa e siano distribuiti in tutto il mondo, aiutatemi a riavere mio figlio. In cambio, vi giuro che nessun altro, a parte voi, reverendissimo, leggerà mai quei testi.
Raphael Dardo
L’uomo nel confessionale sospirò e restò per un po’ in silenzio. Poi disse: «Avete una prova qui con voi?»
«No», rispose lei con un sussurro, accostando le labbra al divisorio. «Avrete quanto richiesto. Ora spetta a voi mantenere la parola data».
Silenzio.
«Lo farete?».
Ancora silenzio.
Sara si alzò in piedi.
«Aspettate».
«Sì?»
«Dardo ha davvero trovato i manoscritti?»
«Questa sera ve li consegnerà direttamente».
«Vicolo dell’Inferno, avete detto?»
«Sì».
«Il posto più povero e degradato di questa difficile città. Stretto, buio, sporco, regno di esalazioni pestifere e di abiezione».
«Messer Dardo sa quel che fa».
«Oh, lo vedo».
«Allora, qual è la vostra risposta?».
Un altro lungo silenzio, poi l’uomo nel confessionale disse: «Va bene. Potete andare, Sara».
«E Ariel?»
«Il fanciullo sta bene».
«Lo giurate?»
«Portatemi i papiri e lo riabbraccerete».
Gli uccellini avvelenati giacevano ancora sul fondo della gabbia, in cucina, come un mesto promemoria. E un biglietto sul tavolo, lasciato da Sara, informava Raphael che purtroppo Markus Egger aveva fatto la stessa fine.
Dava anche notizie di Leccacorvo: il vecchio testardo era ancora a letto, con la febbre; il medico aveva notato che il pugnale usato dal sicario puzzava di cipolla, e Giusto sosteneva che la lama fosse stata sporcata di proposito. Ma siccome la ferita era stata lavata prontamente con l’acqua piovana, il dottore non disperava per una pronta guarigione, con l’aiuto di un po’ di teriaca e di qualche salasso.
Markus non ce l’aveva fatta, pensò Raphael sentendosi avvampare di rabbia. Gli sembrava impossibile che fosse morto, insieme ai suoi uomini, per aver mangiato dei biscotti.
E c’era senz’altro un che di ironico nel fatto che anche Leccacorvo stesse rischiando la pelle a causa di un alimento.
Cipolla sulla lama, pensò: un modo tanto antico quanto semplice e subdolo per far infettare le ferite da taglio.
Panvinio bisbigliava: «Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome…», continuò a pregare in silenzio e a mettere polvere e pallottole nelle canne, per la buona sorte di tutti.
Pulirono e caricarono ogni arma da fuoco disponibile. Ce n’era una cassa piena nelle cantine, per cui l’operazione richiese un po’ di tempo.
Il frate studioso, che fino a quel giorno non aveva mai visto una pistola o un archibugio da vicino, maneggiava le armi pregando, ma in volto aveva la risolutezza di un mercenario pronto alla battaglia.
Era intenzionato a non farsi ammazzare dai birri del papa o dai sicari di Ghislieri, ed era pronto a uccidere piuttosto che soccombere sotto le trame di eresia e fanatismo di quei due.
Poco prima, tenendo una pallottola fra i polpastrelli e guardandola, aveva detto: «Mostrami come si fa».
Svelto com’era di cervello, gli era bastato esplodere qualche colpo di pistola nel cortile per imparare a mirare e mandare in frantumi la statua della fontana.
Quando ebbero finito di ricaricare, disposero dieci pistole e otto archibugi carichi sulla tavola della cucina, allineati come le sbarre di una grata, insieme ai sacchetti di povere da sparo e a quelli con le sfere di piombo.
I due sacchi con i papiri si trovavano nella stalla, adesso, confusi fra altri simili.
Si sedettero di fronte alla finestra aperta e stettero a guardare le persone che attraversavano la piazza, spensierate, ignare di quanto potesse essere strana e complicata la vita per alcuni.
«Markus non meritava di morire così giovane», disse Raphael con un sospiro dolente. «Era un vero gentiluomo, una guardia ineccepibile».
«Lo conoscevi bene?»
«Ha frequentato questa casa per mesi. Andava molto d’accordo con Ariel».
«Però, così tanto ineccepibile non è stato».
Raphael ruotò la testa e guardò il frate, che a sua volta scrutava il cielo. «Cosa intendi?»
«Tu sai chi era Markus Egger?»
«Una giovane guardia svizzera».
Anche Panvinio ruotò la testa verso Raphael. «Cos’altro sai?»
«Non parlava mai di sé, né della sua famiglia. So quel poco che mi ha detto il papa; mi ha raccontato che il padre di Markus si era distinto per valore nel corpo delle guardie pontificie».
«E chi ha assegnato il giovane alla custodia di casa tua?»
«Il papa».
«In persona?»
«Sì, perché?»
«E se lo avesse installato a casa tua per spiarti?»
«Non posso escluderlo».
«L’Inquisizione deve avere qualche prova in mano per accusare di eresia nientemeno che il papa. A questo punto mi viene da pensare che Pio iv potrebbe essere addirittura un Cainita, magari il capo supremo della setta».
«Ah», Raphael cacciò via quelle parole con un gesto della mano. «Non ci crederei neppure se avessi le prove».
«Da sempre gli gnostici si infiltrano nei gruppi rivali e fingono di appartenervi. Potrebbe essere meno assurdo di quanto crediamo».
Panvinio tornò a guardare il cielo e non aggiunse altro. Lasciò che Raphael traesse da solo le conclusioni.
In effetti, pensò lui, Markus poteva essere qualcosa di più di una guardia. Poteva essere una spia e perfino un adepto Cainita. Forse tutte le guardie svizzere addette alla sorveglianza della casa appartenevano alla setta eretica. Il che avrebbe spiegato il loro avvelenamento da parte del Sommo Inquisitore: Ghislieri era un uomo terribile, ma non avrebbe mai fatto ammazzare delle guardie innocenti. Lui, per missione, uccideva gli eretici.
«Non voglio crederci», disse alla fine.
«Neppure io», sospirò Panvinio.
Tacquero.
Il silenzio si riappropriò della casa. Il tempo prese a scorrere come un liquido corrosivo sull’anima.
Faceva sera.
«Dovresti esaminare il contenuto dei manoscritti».
«Sì, dovrei», sospirò Panvinio. Il desiderio di farlo era grande quanto la stanchezza che si sentiva addosso e la delusione che gli lievitava nel petto. «Mi piacerebbe ricopiare almeno qualche testo, prima che vada perduto per sempre, ma non lo farò».
«Perché no?»
«Non lo so».
«Qui a casa ci sono carta e inchiostro in abbondanza. Dovresti farlo, invece. Puoi tenere i testi che vuoi studiare, non siamo costretti a consegnare tutto».
«Ma che senso ha?»
«Cosa vuoi dire?»
«Che senso ha tutto questo? Io credevo di conoscere il papa! Era così interessato ai miei scavi, voleva sempre sapere cosa avessi rinvenuto, e dove! Mi aveva fatto giurare solennemente che non gli avrei nascosto nulla e pretendeva di essere ragguagliato regolarmente. Adesso ho il sospetto che non fosse interessato alla storia della Chiesa, ma a quella dei suoi avversari primordiali. Forse mi ha usato biecamente, così come ha usato te. Ma resta comunque il fatto che voleva farci ammazzare e che ha dato più importanza ai papiri che alla vita di tuo figlio».
«Io sospetto che sapesse della congiura e che mi abbia allontanato dal Vaticano di proposito, per dare campo libero ai cospiratori, in modo da farli uscire allo scoperto e mettere Ghislieri in difficoltà. Ma Pelliccione ha mandato all’aria i suoi piani, denunciando tutto».
«Perché il Sommo Inquisitore aveva sguinzagliato dei sicari contro i congiurati, dopo aver scoperto che alcuni di loro erano spie del papa, e che avevano rinvenuto dei papiri eretici di enorme valore».
Raphael sospirò, lo sguardo rivolto alle nuvole compatte. «Poi Sua Santità mi ha chiesto di investigare, perché voleva mettere le mani sui papiri prima di Ghislieri».
«Magari Virgilius doveva dare al papa la Lettera di Pietro e, vedendosi braccato dai sicari di Ghislieri, l’ha invece occultata nel muro di casa».
«Lo credo anch’io», disse Raphael.
Panvinio indicò il cielo. «Dio ha voluto che Virgilius rinvenisse il tempio sotterraneo e i manoscritti proprio scavando con le persone che aveva il compito di sorvegliare!».
«Ghislieri ne è venuto a conoscenza. Magari ha anche scoperto che l’eresia di Gian Angelo Medici andava al di là della volontà di concedere il matrimonio ai preti e quant’altro».
«O magari», disse Panvinio, «lo sapeva già da molto tempo. Stiamo pur sempre parlando di un papa che da giovane è stato un pirata».
«Che tu e io abbiamo sempre apprezzato».
«Buffo, vero?»
«A me piaceva il fatto che fosse un pirata».
«A me un po’ meno. A ogni modo, non aveva fatto i conti con la determinazione di Ghislieri. Il Sommo Inquisitore è uomo infervorato e spietato, ma ora possiamo supporre che avesse i suoi buoni motivi per contrapporsi a Pio iv fino al punto da volerlo uccidere».
«Però gli assassini di Ghislieri avevano messo sulla sua lista anche te, Sara e Leccacorvo. E una volta ottenuti i papiri avrebbero eliminato anche me».
«Noi avevamo scoperto che il Sommo Inquisitore era a capo di una congiura contro il papa. Adesso, però, le cose sono cambiate; ora sappiamo perché lo ha fatto».
«Spero che tu abbia ragione», annuì Raphael.
La conversazione fu interrotta. Arrivava una persona a cavallo. Per fortuna non erano i birri del Santo Uffizio venuti a condurli in prigione, e neppure quelli del papa venuti a impedire lo scambio con Ghislieri, ma Sara.
«Ci siamo», fece Raphael alzandosi.
«Sembra che sorrida», disse Panvinio.
«A me sembra che pianga».
Lei smontò di sella e corse dentro a portare le notizie tanto attese. Le lacrime le scendevano sul viso sorridente, mentre parlava sforzandosi di stare calma. «Siete vivi!», disse. «Ce l’avete fatta, grazie al cielo». Trasse respiri profondi e raccontò l’incontro avuto con Ghislieri; riferì ogni dettaglio, compreso il fatto che non aveva potuto guardarlo in volto.
Raphael, vedendola attraversata da fremiti, la abbracciò, la baciò sulla testa e la tenne stretta. Poi le raccontò quel che era accaduto a lui e a Panvinio, e infine guardandola negli occhi lucidi le disse: «I manoscritti sono qui».
Sara si era fatta spesso delle domande circa la sua smisurata ammirazione per Raphael, si chiedeva se fosse giustificata o se, al contrario, non fosse l’infatuazione a farle vedere di lui soltanto i pregi, magari esagerandoli. Le piaceva come uomo, lo desiderava, e tutto ciò, pensava, poteva averla indotta a non giudicare correttamente, a credere in un’illusione. Ma adesso scopriva che l’ammirazione per lui non era mai stata abbastanza. «Sei ferito», gli disse notando il piede scalzo e gonfio.
«Non è niente di grave», tagliò corto Raphael. «Ora non c’è tempo da perdere. Vai nella stalla. Prepara un cavallo per Onofrio. Poi raggiungetemi nel luogo stabilito all’ora stabilita».
Sara annuì. «Vado». Prima di uscire abbracciò anche Panvinio, schiacciandogli la guancia sulla spalla, senza dire niente, poi saltò fuori dalla finestra, montò in sella e partì al galoppo, fiera e selvaggia come un’amazzone.
Le campane suonavano l’ora decima.
Mancava poco al tramonto.
Nel vicolo dell’Inferno regnava la sporcizia, la povera gente bruciava sterco secco di cavallo per riscaldarsi, e l’aria era appestata da un vapore mefitico.
Raphael si addentrò zoppicando fra i bagliori arancioni di quei miseri fuochi. Tra baracche di legno e fango, scorse bambini malati, luridi e seminudi, che vagavano come storditi in mezzo ai liquami, con il ventre gonfio per la fame; e vide uomini e donne vestiti di stracci che raccoglievano da terra avanzi di cibo raccattati chissà dove e se li portavano alla bocca con avidità.
Si tirò i sacchi sulle spalle e continuò a camminare. Non potendo calzare una scarpa, si era bendato il piede gonfio con garza e unguento, lo aveva avvolto in abbondanti giri di stoffa e insaccato in una pelle di capretto che si era legato al polpaccio con una cordicella di canapa.
Anche se di certo erano in molti a domandarsi cosa ci fosse dentro i sacchi, nessuno gli rivolse la parola. Si limitarono a seguirlo con quegli occhi vitrei e disperati.
Alcuni di loro conoscevano quel cavaliere che ogni tanto si recava nel vicolo insieme a una giovane donna per portare pietanze squisite, abiti e denaro in elemosina. E chi, invece, lo vedeva comparire per la prima volta, doveva aver notato che qualcosa in lui non andava.
Un uomo zoppo e armato fino ai denti.
Con due sacchi in spalla.
A quell’ora.
All’inferno.
Fiutavano il pericolo, e cominciarono a bisbigliare fra loro domandandosi cosa stesse succedendo.
Raphael udì dei vagiti e si avvicinò a una finestrella. Scostò un telo incerato che fungeva da vetro per guardare dentro. C’era una donna giovanissima che si accingeva ad allattare un bambino. Gli altri sette figli erano rannicchiati sulla paglia, per terra, attorno a un buco nel pavimento usato come braciere. «Per voi», disse alla donna lanciando dentro una moneta d’oro. Richiuse la tendina e proseguì lungo il vicolo.
Poco più avanti incrociò un uomo imbacuccato e curvo che spingeva una carretta. «Strisce golose!», diceva. «Strisce al cetriolo!».
Un ragazzo lo fermò e gli mostrò timidamente il palmo della mano.
«No», gli disse l’uomo toccando la piccola botte che portava nella carretta, «se vuoi gustare questa delizia ti servono due denari, due piccioli, mi hai capito?». Diede una sistemata alle tante strisce di cuoio che portava appese a un filo e ripartì sbuffando.
«Buonasera», gli disse Raphael. Lo aveva già incontrato. Si chiamava Zrcaldo. Era originario di Praga. Un romeo che vent’anni prima aveva fatto il suo pellegrinaggio a Roma e non era più tornato a casa.
«Uhm», fece quello. Si fermò e lo squadrò dalla testa ai piedi. «Volete comprare?»
«Quanto costa?»
«Con due piccioli si ha diritto a succhiare due volte una di queste strisce da immergere nel succo di cetriolo sottaceto». Toccò la botte con orgoglio. «È così delizioso che una volta il sommo Bartolomeo Scappi, il cuoco del papa, mica uno qualunque, mi ha chiesto la ricetta. Non ci credete? Peggio per voi. Ma io mi guardo bene dal rivelare il mio segreto a chicchessia». Rise tossendo. Sputò. «Allora, avete deciso se succhiare o no?»
«Tenete».
L’uomo porse la mano aperta e vi vide cadere sopra trenta denari sonanti, l’equivalente di trecentosessanta succhiate.
«Offro per tutti», gli disse Raphael.
«Davvero?». L’uomo non credeva ai suoi occhi.
«Date la precedenza ai più piccoli e bisognosi. Mi raccomando, Zrcaldo».
L’uomo chiuse le dita attorno alle monete e si inchinò facendosi il segno della croce. «Grazie, signore, grazie. Che Dio vi benedica. Farò come desiderate».
Raphael continuò a camminare. Poco dopo udì alle sue spalle la ressa che si formava attorno alle strisce di pelle e al succo di cetriolo, e sorrise soddisfatto.
Lì iniziava la parte più vecchia del vicolo dell’Inferno, dove le case erano più grandi e in muratura. Ma la miseria era sempre la stessa.
Nel punto in cui la strada si allargava in uno spiazzo, Raphael spinse un portoncino lasciato accostato, perché privo di serratura, e salì le scale che portavano fino al terzo piano.
Si udivano bambini strillare, adulti che litigavano e altri che cantavano in coro battendo le mani e i tamburelli, nel tentativo di dimenticare l’indigenza a cui li aveva destinati la vita.
Raphael bussò a una porta del primo piano, una di quelle dietro le quali si udivano dei bambini.
La aprì un uomo, che vedendolo stirò le labbra in un sorriso completamente sdentato e poi chinò la testa. «Messer Dardo, Dio vi benedica, che grazia vedervi!». Si fece il segno della croce e arretrò, sempre chinato in avanti, come se si stesse guardando i piedi nudi. Indossava brache larghe, lise e sdrucite, che sul davanti lasciavano intravedere le pudende.
«Ciao, Iacopo», gli disse Raphael entrando.
Venne a salutarlo anche sua moglie, che come sempre prese le mani di Raphael e le baciò sul dorso, ringraziando la Vergine Maria per averlo mandato.
«Lieto di vederti, Vannina», le disse lui.
Arrivarono anche i sei figli che vivevano in casa con loro: «Raphael, Raphael!», strillavano contenti.
«Ciao», disse lui, accarezzando teste sporche e pidocchiose. «Come state, ragazzi?»
«Bene!», esultarono.
«Ci racconti una delle tue storie?»
«Oggi no».
«Perché?».
Raphael diede due quattrini a ognuno, e in cambio chiese loro che si ritirassero nell’altra stanza e che lo lasciassero un po’ da solo con i genitori.
«Un’altra volta», disse regalando carezze.
I fanciulli rinunciarono a malincuore ai racconti divertenti, ma ubbidirono.
«Sono ragazzi in gamba». Raphael prese una mano di Vannina e ci mise sopra uno scudo. «Per le necessità», disse chiudendole le dita.
L’oro che le luccicava in mano lasciò la donna senza parole.
«Iacopo, questi sono per te», disse Raphael all’uomo cavando da uno dei sacchi i tre abiti che Accolti, Canossa e Manfredi avevano preso a nolo prima di recarsi all’udienza fatale con il papa. «Credo che la misura ti vada bene».
«Per me?». Iacopo li spiegò e li ammirò con gli occhi strabuzzati, portandoli vicino alla fioca luce di una candela – anche quella un regalo da parte di Raphael. «O, messer Raphael, è troppo, non possiamo accettare».
«Dovete».
«Oh, grazie, messere. Voi siete l’uomo più buono della Terra. Come potremo mai sdebitarci di tanta generosità? Hai visto, Vannina? Tre vestiti nuovi, da gran signori. Per me».
Vannina si tamponò gli occhi con la manica della veste. «Tutto ciò che possiamo fare è dire grazie».
«Stavolta ho bisogno del vostro aiuto».
«Comandate».
Un frastuono di zoccoli e ruote di carrozza annunciò l’arrivo di persone troppo importanti per un posto come il vicolo dell’Inferno.
Ghislieri, sperò Raphael con tutto il cuore.
Dalla finestra scalcinata di Vannina e Iacopo vide apparire in strada le luci di alcune fiaccole, tenute in mano da uomini a cavallo: due precedevano una carrozza nera, altri due la seguivano. Ai lati del veicolo, poi, c’erano due grosse lanterne che spandevano un bagliore rossastro sui cavalli più che sulla via. Niente bardature lussuose, cocchiere senza livrea… La tetraggine, pensò Raphael, era degna dell’austero capo dell’Inquisizione.
La gente sparì all’istante, tutte le imposte si chiusero.
Al pensiero che dentro quella carrozza ci fosse suo figlio, Raphael si sentiva impazzire. Il desiderio di scendere e affrontare i quattro birri del Santo Uffizio era insopprimibile.
Guardò all’altro capo della via.
Sara e Panvinio stavano sopraggiungendo, puntuali come gli esattori di un credito. Lei portava una fiaccola accesa.
Fecero fermare la carrozza proprio davanti all’uscio dell’edificio in cui si trovava Raphael, come stabilito.
Poi Sara smontò da cavallo e si parò di fronte al piccolo convoglio.
Dalla carrozza non scese nessuno.
Raphael fremeva, impaziente, le vene incapaci di contenere il torrente di sangue che gli scorreva in corpo, la testa che ribolliva annebbiandogli la vista, prosciugandogli la bocca, serrandogli la gola.
«Dov’è Ariel?», chiese Sara ad alta voce.
Panvinio, ancora in sella dietro di lei, aveva lasciato le redini e impugnato due pistole. Le teneva senza farle vedere, come gli aveva insegnato Raphael, e si era coperto il volto con una maschera bianca per non farsi riconoscere dal Sommo Inquisitore.
Dalla carrozza, nessuna risposta.
«Dov’è il fanciullo?», ripeté Sara, lo sguardo fermo davanti a sé.
Il silenzio esacerbava l’inquietudine.
Raphael ormai era sul punto di cedere alla tentazione, e scendere in strada a controllare se Ariel fosse realmente nella carrozza. Poi, finalmente una voce calma e sottile proveniente dall’abitacolo disse: «Prima i manoscritti».
«No, prima Ariel», ribatté Sara con fermezza. «Voglio vederlo e accertarmi che stia bene».
A giudicare dal fatto che lei non aveva battuto ciglio udendo la voce del suo interlocutore, pensò Raphael, doveva trattarsi dello stesso uomo con cui aveva parlato attraverso il pannello forato del confessionale.
«Dov’è Giuseppe Castiglioni?»
«Sta bene e verrà liberato non appena riavremo il fanciullo».
«Perché non lo avete portato con voi?»
«Questo non faceva parte della vostra richiesta per il riscatto. Lo libereremo quando tutto sarà risolto».
«Dove sono i manoscritti?»
«Li abbiamo qui».
«Qui dove?»
«Più vicino di quanto immaginiate». Per dimostrare che non mentiva, Sara diede un codice di papiro a uno dei birri a cavallo, il quale lo consegnò subito al suo padrone invisibile.
Era uno dei manoscritti più intatti fra quelli che Raphael e Panvinio avevano riportato a Roma.
Il libro sacro per i Cainiti: il Vangelo di Giuda.
Molti altri papiri, invece, si erano letteralmente sbriciolati dentro i sacchi durante la fuga dal tempio sotterraneo.
L’uomo nella carrozza taceva.
«È sufficiente a persuadervi?», chiese Sara.
Raphael la guardava dall’alto ed era ammirato dal suo coraggio.
«Ora fatemi vedere il bambino», disse lei.
«Non è qui con me», fu la raggelante risposta.
A Sara si ruppe la voce quando pretese di sapere dov’era, e non riuscì ad apparire minacciosa quando disse che non erano quelli gli accordi.
«Sta bene», la rassicurò l’uomo nella carrozza. «Lo rivedrete presto».
A quel punto Raphael decise di passare al piano di riserva. Si rivolse a Iacopo.
«Comandate, messere».
«Se ti faccio un segno, lancia questi sacchi dalla finestra. Altrimenti tienimeli qui finché non torno».
L’uomo annuì.
Raphael scese in strada.
Poteva essere sicuro che Iacopo e Vannina non lo avrebbero tradito, e poi il contenuto di quei sacchi era privo di valore per loro.
Quando aprì leggermente il piccolo portoncino sghembo e spiò attraverso lo spiraglio, si trovò davanti lo sportello della carrozza, come voluto.
Il piano principale prevedeva che Ariel fosse consegnato e che contemporaneamente i sacchi cadessero dalla finestra di Iacopo. Ma non era andata così.
Aprì di più l’anta tirandola verso di sé. Doveva fare piano, perché strideva sui cardini arrugginiti.
«Sto aspettando», disse Sara.
Alla sua destra, Raphael vide il cocchiere e i due birri a cavallo, e più in là Sara e poi Panvinio; a sinistra solo gli altri due birri di retroguardia.
Sembrava che, a parte quei quattro e il cocchiere, il Sommo Inquisitore non avesse portato altri uomini di scorta con sé. O, se c’erano, si stavano nascondendo bene nel buio in fondo al vicolo.
Raphael non poteva escludere che ce ne fossero un paio nell’abitacolo.
Era costretto a correre il rischio.
Impugnò lo stiletto.
Con il piede ferito, sapeva di non avere la rapidità necessaria ad attraversare lo spazio che lo separava dallo sportello della carrozza senza farsi vedere. Tuttavia doveva agire, e in fretta, perché da un momento all’altro la carrozza avrebbe potuto invertire il senso di marcia nello spiazzo e andarsene.
Poi un colpo di tosse e uno sputo sonoro fecero voltare indietro i birri di retroguardia.
Arrivava il vecchio Zrcaldo, spingendo la carretta.
Raphael approfittò dell’attimo di distrazione e si lanciò contro la fiancata della carrozza, aprì lo sportello e balzò dentro facendola oscillare.
L’unico uomo all’interno trasalì, schiacciò la schiena contro la spalliera del sedile e sollevò il mento guardando in basso, la lama che gli lambiva la gola.
«Non muovetevi», gli disse Raphael.
L’abitacolo era illuminato da quattro cubi di vetro con dentro dei ceri.
Si potevano vedere chiaramente l’enorme naso appuntito, che disegnava un triangolo rettangolo simile a una vela, gli occhi rotondi e scuri, senza ciglia né sopracciglia, la barba larga e candida.
Era il cardinale Ghislieri in persona.
«Ariel è a casa vostra», balbettò il Sommo Inquisitore, la testa premuta contro la parete dietro di lui, nel vano tentativo di sottrarre la gola alla punta dello stiletto. «Sta bene e vi aspetta».
«Non vi credo».
«Consegnatemi i manoscritti, e al vostro ritorno lo troverete lì».
«Ordinate alle vostre guardie di andare via».
«Perché?».
Gli fece sentire quanto era aguzza la lama.
Il cardinale diede l’ordine.
Ma uno dei birri si accostò allo sportello. «Cosa succede, reverendissimo?».
Ghislieri disse: «Potete andare».
«Come sarebbe, reverendissimo?»
«Ho detto che voi birri potete andare. Torno a casa da solo».
«Ma siete sicuro?»
«È tutto risolto», insistette Ghislieri, gli occhi sempre abbassati sulla mano di Raphael. «Andate a dormire. Buonanotte».
«Come desiderate, reverendissimo».
I quattro birri si allontanarono galoppando nella stessa direzione da cui erano venuti.
«Che succede?», domandò Sara.
Raphael le rispose che andava tutto bene e chiese a lei e a Panvinio di seguire la carrozza senza prendere iniziative. Poi urlò: «Iacopo!».
«Sì, messere», rispose lui dall’alto.
«Lancia».
I sacchi tonfarono accanto alla carrozza.
«Ignazio!», chiamò Ghislieri.
«Sì, reverendissimo», rispose il cocchiere.
Raphael si sentì raggelare.
«Raccogli quei sacchi e passameli».
Ignazio scese. Quando aprì la portiera per consegnare i sacchi al suo padrone, quello vero, trasalì trovandosi di fronte Raphael che lo fissava con un ghigno rabbioso. Non disse nulla.
«Portaci in piazza del Popolo», gli ordinò Ghislieri.
«Subito».
«Tanto conosci già l’indirizzo», gli disse Raphael.
La portiera si chiuse e qualche istante dopo la carrozza ripartì.
Raphael mise via lo stiletto e si accomodò sul sedile di fronte al Sommo Inquisitore. «Un padre farebbe qualunque cosa pur di salvare suo figlio».
«Lo capisco».
«Se lui non è a casa, io vi uccido. Lo sapete questo?»
«Sì».
«Con tutto rispetto, reverendissimo. Se avete fatto del male ad Ariel, io…».
«Posso vedere cosa c’è dentro i sacchi?»
«Fate pure».
Ghislieri ne passò in rassegna il contenuto molto rapidamente. «Vangelo di Giuda Didimo Tommaso», disse leggendo un titolo posto in calce a uno dei testi. «Vangelo di Maria, Vangelo degli Ebrei, una lettera di Pietro a Giacomo, un’altra, e un’altra ancora, il Vangelo di Verità, il Vangelo di Filippo, l’Apocalisse di Paolo… C’è di che scuotere il mondo».
«Credo di sì».
«Non manca niente?»
«No, è tutto qui».
«C’è anche il Vangelo degli Ebioniti».
«Non conosco il contenuto di quei sacchi».
«Se è così, non posso che rallegrarmene».
Subito dopo la carrozza cominciò a rallentare, mentre il cocchiere lanciava versi di comando alla pariglia e tirava con forza le briglie, e poi si fermò sobbalzando.
«Ariel, Ariel!», gridò Sara.
«Sara!», urlò Ariel.
Raphael non si affacciò, ma sentì che il tono della sua voce era tranquillo e vivace come e più del solito. Ariel esultava dicendo che era felicissimo di rivederla e che gli era mancata; e chiedeva dove fosse suo padre, urlando che voleva ringraziarlo della bella sorpresa che gli aveva fatto mandandolo in un posto meraviglioso. «Devi vederlo, Sara! Ci sono i puledri! Un ruscello limpido! E ho conosciuto un cacciatore al servizio di un cardinale, che mi ha insegnato a realizzare molte trappole per catturare gli uccellini e altri animali, senza far loro del male. Pensa, ho perfino imparato a pescare!».
«Sono lieta di saperlo, Ariel. Voglio che mi racconti tutto per filo e per segno».
«Sì! Quando arriva mio padre?»
«Sarà qui a momenti. Adesso entriamo in casa».
Ghislieri si chinò in avanti e sfiorò con le dita un ginocchio di Raphael. «Cosa vi avevo detto? Andate da lui. Vi sta aspettando. Grazie di tutto. Anche se forse non ne capirete mai l’importanza, sappiate che avete fatto molto per la Chiesa. Mantenete il segreto, e io vi prometto che dimenticherò ogni cosa, compreso lo stiletto alla gola, e saprò essere riconoscente con voi».
«Ho solo una cosa da chiedervi».
«Prego, vi ascolto».
«Dovete promettermi che Sara, frate Panvinio e Giusto Leccacorvo non saranno più sulla lista dei vostri sicari».
«Avete la mia parola».
«Va bene», disse Raphael, asciugandosi sulle gambe i palmi delle mani bagnati di lacrime e alzando lo sguardo sul Sommo Inquisitore. «Addio».
«Ci rivedremo, messer Dardo».
«Spero di no». Scese dalla carrozza e richiuse la portiera facendola sbattere.
Zoppicando e scivolando sul selciato infangato, asciugandosi le lacrime di gioia con il dorso delle mani, si diresse più veloce che poteva verso casa.
Non vedeva l’ora di ricominciare a vivere.
25 dicembre
Ghislieri, nel cortile del suo palazzo, stava pensando a Raphael. Uno come lui si sarebbe potuto rivelare utile prima o poi, si diceva, gli occhi incantati dalle fiamme che salivano dal mucchio di papiri antichi.
Si toccò sotto il mento e, sentendo l’asperità della piccola crosta lasciata dalla lama, sorrise.
Tutto era andato secondo i piani: Gian Angelo Medici era un uomo solo, adesso, scoperto e fragile. Roma avrebbe avuto presto un nuovo vescovo, un successore di Pietro, sinceramente cattolico e apostolico.
I Vangeli ai suoi piedi stavano bruciando per il bene del mondo.
Poco distante dal palazzo di Ghislieri, Pio iv guardava se stesso riflesso nello specchio. Aveva di fronte un uomo improvvisamente invecchiato. Qualcosa era cambiato dentro di lui. Non riusciva a spiegarsi come avesse potuto dare più importanza alla rivalità con Ghislieri che alla vita di un fanciullo, per di più il figlio di un amico fedele. Si era reso colpevole di un gesto talmente vile che non sarebbe mai più riuscito a guardarlo in faccia per domandargli perdono.
La dimensione del proprio fallimento era la misura del peccato commesso, pensava.
Cercò Raphael con l’immaginazione, e lo trovò a Firenze, intento a raccontare al duca Cosimo come il papa si era comportato con lui.
Pio iv si inginocchiò davanti all’altare e promise che sarebbe diventato un uomo pio, degno del nome che si era scelto per ascendere al soglio di Pietro.
Lui, il papa pirata, l’eretico, d’ora in avanti avrebbe combattuto l’eresia.
Raphael, Sara e Ariel non vedevano nuvole da una settimana, da quando avevano lasciato Roma. Le strade erano ovunque asciutte, e un sole accecante splendeva nel cielo azzurro.
L’aria era tiepida.
Qua e là fioriva perfino qualche viola.
Ormai erano giunti in vista delle mura di Firenze, e i pensieri di Raphael erano rivolti al duca. Presto Cosimo avrebbe ricevuto un resoconto accurato dei fatti che avevano costretto il suo agente a lasciare Roma in modo repentino e furtivo e ad abbandonare l’importante incarico che gli era stato assegnato.
Conoscendo la scaltrezza di Cosimo i de’ Medici e la sua abilità di giocatore sulla scacchiera del mondo, Raphael poteva facilmente prevedere la nascita di una nuova alleanza fra lui e Ghislieri, e anche immaginare che quest’ultimo sarebbe diventato papa, prima o poi, avendo salvato la Chiesa di Roma e il primato di Pietro, e che un giorno avrebbe depositato il titolo regio sulla testa di Cosimo.
Dopo tutto, Ghislieri, diversamente da Pio iv, piaceva al re di Spagna. E chissà, magari per garantirsi l’elezione nel prossimo conclave aveva conservato e nascosto qualcuno dei papiri più pericolosi, per tirarlo fuori al momento più opportuno.
La carrozza, intanto, continuava a correre verso Firenze, rumorosa.
Sara intonò una canzone, ma non fece in tempo a finirla, perché arrivarono alla porta cittadina. Gli uomini di guardia ordinarono alla carrozza di fermarsi.
«Il vostro nome, per cortesia», disse uno aprendo la portiera.
«Dardo».
«Messer Raphael Dardo, cavaliere dell’ordine di Santo Stefano?», domandò leggendolo sulla busta di una missiva da cui pendevano parecchi sigilli.
«Sì», rispose lui. «C’è qualche problema?»
«Non so, messere. Ho solo l’incarico di consegnarvi questa». Gli porse la missiva. «Ci è stata recapitata da un corriere a cavallo che, evidentemente, vi ha anticipato di qualche giorno».
Raphael ringraziò. La carrozza ripartì. Sotto gli sguardi curiosi di Ariel e Sara, con le mani che gli tremavano, aprì la lettera.
Proveniva dal tribunale del Santo Uffizio.
Ruppe i sigilli e lesse ad alta voce.
Spero che il viaggio sia stato buono, Raphael, e mi auguro che vogliate farmi sapere quando tornerete a Roma. Auspico che accada presto, e di poter contare sulla vostra amicizia e sui vostri servigi, d’ora in avanti. C’è sempre un gran bisogno di persone come voi.
Dite alla vostra amica Sara che la aspetto nella mia casa, quando tornerà a Roma, in quanto desidererei essere ritratto da lei.
E, vi prego, se non chiedo troppo, date un bacio al vostro bambino da parte mia.
So che non mi deluderete.
Il Sommo Inquisitore
Cardinale Michele Ghislieri
«Ecco», disse Ariel con il broncio, «ve ne andate di nuovo».
Sara, invece, era ammutolita e sognava già la fama.
Raphael strappò la missiva con rabbia e ne gettò i brandelli al vento. Era l’offerta più spiacevole e assurda che avesse mai ricevuto.
Diventare un servo dell’Inquisizione?
Proprio lui che l’aveva sempre combattuta?
No, si disse, mai.