Lezzo insopportabile, povera gente ingobbita e nobili chiusi nelle loro portantine laccate, per evitare di sporcarsi i piedi nell’immondizia.
La lordura pareva divorare tutto.
Raphael si fermò per rifiatare ed ebbe la sensazione di continuare a camminare. Vacillò. Inspirò profondamente. Non doveva svenire, si disse, non adesso. Si appoggiò al muro e scivolò con la schiena lungo la parete abrasiva, fino a sedersi per terra, mentre il cielo, i cornicioni, le finestre e tutta la mondezza del mondo gli vorticavano attorno.
«Signore?».
Una voce di donna, come proveniente da un sogno…
«Vi sentite bene, signore?».
Oppure si trovava nell’aldilà e, alla fine, era stato ammesso in paradiso…
«Vi aiuto ad alzarvi».
Raphael avvertì il calore della luce sulle labbra, sulle palpebre, lo sentì irradiarsi, benefico, sulle guance e sulla fronte.
«Svegliatevi, signore. Non potete restare qui».
«Sto bene», dichiarò riaprendo gli occhi.
«Non sembra, signore».
«Che giorno è?». Si prese la testa fra le mani.
«Vedete che non state affatto bene?»
«È ancora mattina?»
«Sì. Apprendo con piacere che non avete trascorso la notte qui».
«No, per fortuna, l’ho passata dentro una bara».
«Avete dello spirito, signore». La donna, giovane e di bell’aspetto, ma con il volto solcato dalla fatica e le mani rese ruvide dal lavoro, gli scostò i capelli dal viso. «Lasciate che vi aiuti a rialzarvi».
«Grazie», disse Raphael con un filo di voce. «Ce la faccio da solo».
Ma lei lo afferrò per un braccio e lo sollevò. Per occuparsi di lui, aveva abbandonato a terra una cesta coperta da un telo, da sotto il quale spuntava un filone di pane. «Cosa vi è successo?»
«Non lo so». Notò che la ragazza era vestita in modo umile: indossava una veste lisa di cotone grezzo coperta sul davanti da un grembiule. Aveva capelli castani e occhi grandi che sembravano vagare senza meta, con dolcezza, fra le ciglia lunghe.
«Avete una casa, signore?»
«A Macel de’ Corvi», disse Raphael, espellendo dalla bocca asciutta un ricordo inatteso.
«Avete preso una botta in testa?», ridacchiò lei con gentilezza.
«Temo di no».
Dopo che lo ebbe rimesso in piedi, la ragazza si guardò attorno passandosi il dorso della mano sulla fronte. «Macel de’ Corvi non è lontano e mi risulta quasi di strada. Posso accompagnarvi per un tratto, se volete».
«No, grazie, non è necessario che vi disturbiate. Sto bene, adesso».
«Vi sbagliate».
«Posso avere l’onore di sapere chi è l’angelo che mi sta salvando?»
«Sono soltanto una che passava da queste parti. Presto servizio presso una famiglia molto rispettabile. Vi ho visto per terra, non mi siete sembrato un ubriacone, e così mi sono fermata per vedere se eravate morto».
Raphael annuì. «Sono vivo», disse, e dal tono della sua voce era evidente che non ci credeva. Nascose con la mano la giacca strappata e insanguinata. «Vi sono riconoscente. Come vi chiamate?».
Lei raccolse la cesta del pane, lo prese sottobraccio e lo aiutò a fare i primi passi, guardando istintivamente dove lui metteva i piedi, come se dubitasse che fosse in grado di alternarli correttamente. «Mi chiamo Ludovica», disse dopo un po’. «Ma perché vi siete addormentato sulla via? E cosa è successo alla vostra giubba?»
«Me l’hanno prestata», rispose. Raddrizzò la schiena e guardò avanti strizzando gli occhi contro il sole. Ogni passo stava riportando nelle sue gambe un po’ della forza originaria e pian piano cominciò a sentirsi meglio e più sicuro del proprio equilibrio. Ma non si distaccò dalla presa calorosa della ragazza. «Non so esattamente cosa mi sia successo», le disse. «Un malore, credo».
«E la giubba?»
«Ve l’ho detto, me l’hanno prestata».
La giovane emise un verso gutturale per esprimere il suo scetticismo e non replicò. «Fatevi forza. Macel de’ Corvi è a dieci minuti di cammino da qui».
«Sono a Roma da poco, devo aver smarrito la bussola».
«Oh, be’, io ci sono nata, eppure conosco solo questo quartiere e quelli vicini. Altrove mi perderei come è capitato a voi». Una pausa lunga venti passi, poi domandò: «Da dove venite?»
«Firenze».
«Firenze?», ripeté, incredula. «Ho sentito dire da chi ci è stato che è una bellissima città».
«È vero».
«Perché vi trovate a Roma?»
«Affari».
«Non vi vanno granché bene, vedo».
«Cosa vedete?».
Lo disse con semplicità infantile: «Che siete malvestito e malandato».
«Non posso darvi torto».
«Certo che non potete. Come vi procurate da vivere?»
«Sono un cacciatore».
«Pellicce?»
«No, no, ho grande rispetto per gli animali. In questo momento sto dando la caccia a certe opere d’arte».
«Siete un…?». Si voltò di scatto e lo guardò dritto negli occhi. «Siete un birro?»
«No, a meno che non mi si paghi bene per esserlo».
«Cercate opere d’arte?», ripeté lei, con il tono ammirato di chi pronuncia una parola per la prima volta. «Non vi aspettate che vi creda, vero?»
«Avete tutto il diritto di dubitare di me».
«E perché mai dovrei dubitare di un uomo con le gambe nude e pelose, la giubba lacera e sporca di sangue, che si addormenta per terra come un disgraziato ubriaco?».
Raphael rise. «Quanti anni avete, Ludovica?»
«Quattordici, più o meno».
«Siete molto giovane. Dove abitate?»
«In quella grande casa laggiù».
Seguendo la linea ideale che iniziava dalla punta del suo dito, gli occhi di Raphael si fermarono su una delle residenze più ricche di tutta Roma. «Palazzo Colonna?»
«Sì».
«Accidenti, prestate servizio per una delle più importanti famiglie italiane».
«E voi?»
«Io?»
«Come vi chiamate?».
Si staccò dal suo braccio e le fece un inchino da perfetto cortigiano. «Lazzaro», disse. Poi si allontanò dolorante, come una bestia ferita che ansando fa ritorno alla tana.
Arrivato a Macel de’ Corvi, notò subito che sul quartiere aleggiava una calma irreale.
Le porte e le finestre erano tutte serrate.
C’era un silenzio sconosciuto.
Nessuno per strada.
Era come se perfino i cattivi odori fossero corsi a nascondersi da qualche parte.
Raphael capì che tutta quella quiete non era un buon segno, ma neppure vedere il carro dell’Inquisizione fermo sulla piazza e il cavallo bianco legato al muro della sua casa lo trattenne dall’aprire la porta.
Era spossato, impaziente di gettarsi su un letto e dormire fino all’indomani.
Non aveva più una chiave da infilare nella toppa, ma gli bastò spingere la porta per aprirla.
Varcata la soglia di casa, si trovò di fronte quattro birri che stavano rovistando l’appartamento sotto lo sguardo attento di un frate domenicano.
Di sicuro un inquisitore del Santo Uffizio. Il religioso non stava facendo niente, contemplava la luce cadente dalla finestra.
«Pace a voi», disse Raphael, chiudendosi la porta alle spalle. Aveva un tale dolore allo stomaco che pensava al rogo come a una liberazione. «Cercavate me?».
L’inquisitore girò su se stesso, viso sbiancato e occhi chiari come il ghiaccio. «Messer Raphael Dardo?», chiese.
«Per servirvi».
«Pensavo che foste morto».
«Non eravate il solo a crederlo».
I birri si erano fermati e attendevano un segnale. L’inquisitore disse: «Aspettate fuori», e loro uscirono. Poi si rivolse di nuovo alla finestra e con voce algida e tono volutamente distratto chiese: «Dove eravate finito, messer Dardo?»
«Sono stato avvelenato. Mi pare che sia accaduto ieri. Mi sono risvegliato tra i morti dell’ospedale».
«Dite davvero?». Il frate si voltò, la faccia che sembrava di marmo, la bocca piegata in una smorfia inespressiva.
La sua figura androgina…
Gli occhi evanescenti…
Raphael aveva sentito parlare di quelle iridi color nulla. Un nome gli risuonò nella mente.
«Siete monsignor Arquez?»
«Sì».
Era lui, lo scagnozzo di Carafa.
Raphael gli indicò il disordine creato dai birri, le carte gettate alla rinfusa sul piano dello scrittoio e per terra, tutti i mobili rovesciati… «Che bisogno c’era di fare questo?».
Arquez ringhiò sommessamente, ma non reagì. Allungò una mano verso l’unica poltrona rimasta in piedi e disse: «Accomodatevi».
Raphael non eseguì. «Cosa stavate cercando a casa mia?»
«Sedete, vi prego».
Non lo fece, anche se era stanco. Desiderava con urgenza una pipa di tabacco e canapa.
«Avete una brutta cera», gli disse Arquez, indugiando sul suo aspetto. «Immagino che abbiate voglia di fare un bagno caldo e di riposare. Forse anche di mangiare qualcosa di buono. Non avete domestici?»
«No».
«Dov’è il vostro amico ebreo?»
«È partito».
«A ogni modo, non è mia intenzione arrecarvi disturbo».
«Allora perché siete venuto a perquisire la mia casa?»
«Vi sbagliate. Non sono stato io».
«Non siete qui per arrestarmi?»
«E per quale reato? Siete forse un bestemmiatore o un luterano o un negromante?»
«Perdonatemi, ma non riesco proprio a capire. Vi supplico: andate al sodo e, se dovete portarmi dal carnefice o sul rogo, fatelo subito. Sono molto stanco e non mi sento per niente bene».
«Cosa ne dite di uno scambio di favori, per un reciproco profitto?».
«Ecco, vedete, Raphael, dal momento che stiamo entrambi cercando con ardore la stessa persona, mi sono detto: perché non collaborare?»
«Prima cercate di uccidermi, poi chiedete il mio aiuto».
«Le vostre accuse, messer Dardo, potrebbero costarvi care. Io non ho mai avvelenato nessuno. Io sono un uomo di Chiesa. Ma voglio essere comprensivo. Sì, vi confido che ho cambiato idea su di voi. Ho pensato, in effetti, che foste un grosso problema. Ora, però, credo che possiate essere anche una grande soluzione. Il nostro incontro, qui, adesso, deve essere un segno della volontà di Dio. Se Lui vi manda da me, come posso ignorarlo?».
Raphael deglutì un bolo acido e annuì. «Va bene. Quali sarebbero i favori reciproci che dovremmo farci?»
«Voi mi aiutate a trovare l’Anonimo e il suo manoscritto, e io vi do notizie del vostro amico ebreo».
«Il mio amico ha lasciato Roma, non ci sono notizie che possiate darmi».
«Ne siete sicuro?».
Avrebbe voluto poter rispondere di sì, ma non aveva neppure la certezza di essere vivo. Forse, pensò spargendo sguardi perplessi attorno a sé, gettandoli qua e là sui mobili rovesciati per terra, sugli oggetti sparpagliati ovunque, come masticati e risputati con disgusto, forse sono all’inferno, e l’inferno è come il mondo reale. Dopotutto, il presente di quella casa somigliava in modo raccapricciante al passato.
Pensieri disordinati che andavano ad aggiungersi a tutta quella confusione.
«Va bene, parlate».
«Mi è giunta voce che la notte scorsa, proprio qui vicino a casa vostra, siano stati assaliti e derubati dei briganti che stavano portando via un forziere».
«Briganti?»
«La banda di donna Angelica. Ne avete mai sentito parlare?»
«No».
«Be’, c’è chi giura che il forziere sia stato precedentemente prelevato da casa vostra».
«Da qui?»
«E pare che ci fosse un uomo con quelli di donna Angelica, che ha iniziato a sparare contro gli assalitori con una pistola che non aveva bisogno di essere ricaricata. E io mi sono chiesto: potrebbe essere quell’alchimista e inventore ebreo, amico del signor Dardo? È possibile che nel forziere ci fosse quel che in troppi stiamo cercando?».
«Ditemi se è accaduto qualcosa di grave ad Ariel, o se è in pericolo».
«Non lo so».
«E la donna?»
«Quale donna?»
«Elena».
«Elena chi?»
«Niente, lasciate stare». Raphael si toccò la testa. Martellava come fosse piena di maniscalchi in ritardo con il lavoro. Raccolse una sedia da terra, la raddrizzò e si sedette. «Quindi, voi non mi avete fatto avvelenare, non avete ispezionato casa mia…».
«Ho ispezionato», lo fermò Arquez, «ma solo per accertarmi che i ladri non avessero lasciato qualcosa di interessante».
«Chi?»
«Le stesse persone che hanno torturato a morte Angelo Ruffo. Immagino che lo abbiate conosciuto, faceva parte del gruppo di messer Billi».
«Mai sentito nominare», mentì Raphael. «Credete forse che sia io il responsabile?».
Arquez disse un altro no sospirando e lo scrutò inclinando il capo di lato, come fosse davanti a un essere vivente mai visto prima. «Avete bisogno di cure, messer Dardo».
«Vorrei solo essere lasciato in pace e dormire».
«Se lo desiderate, vi lascio solo».
«No, restate, vi prego. Vi ascolto volentieri. Sono preoccupato per i miei amici».
«Ebbene…». Arquez cercò le parole guardando in alto. «Io so che avete incontrato un marchese, un certo messer Billi. È vero?».
Raphael annuì.
«Si dà il caso che alcuni suoi compari, sottoposti da me a interrogatorio, lo abbiano denunciato per eresia e pratiche stregonesche».
«Credetemi, non ne sapevo nulla».
«Vi credo. Ma, vedete, quando mi sono recato a casa di Billi per arrestarlo, ho trovato tutto sottosopra, come qui a casa vostra, e di lui non c’era traccia».
«Neppure di Daffo?»
«Chi sarebbe?»
«Il suo servo».
«Non ho trovato nessuno».
Raphael si prese le tempie fra le mani e poggiò i gomiti sulle ginocchia. Poteva credere alle parole di uno spietato inquisitore come Arquez?
E l’idea di collaborare con lui?
Era decisamente la cosa più paradossale e assurda che gli fosse capitato di sentire. Lui odiava il Santo Uffizio. Avrebbe fatto qualunque cosa per vederlo affondare in un oceano di infamia. Come avrebbe mai potuto stringere accordi con chi aveva distrutto la sua famiglia?
Eppure, Arquez era la prima persona, da quando aveva rimesso piede a Roma, ad apparirgli credibile. Abietto? Fanatico? Spregevole? Qualunque cosa fosse lo era sinceramente, con tutto il cuore, e oltre i suoi occhi senza colore non si intravvedeva l’alone cangiante tipico dell’inganno.
Raphael sentiva di potersi fidare di lui, e questo non era un fatto trascurabile nella situazione in cui si trovava.
Sì, in fondo il domenicano aveva ragione: un problema poteva anche rappresentare un’opportunità. Come per un dipinto, molto dipendeva dal punto di vista.
«Il fatto è», andò avanti Arquez, «che evidentemente qualcuno sta interferendo con le mie indagini. E credo di aver capito di chi si tratta. Mi piacerebbe che non lo capisse nessun altro all’infuori di me».
«State parlando di don Carlo Carafa e del suo amico, il cardinale Innocenzo del Monte, la Scimmia».
Arquez sorrise. «Voi siete sveglio, Raphael», e annuì. «Ho motivi per pensare che quei due vogliano mettere le mani sui quadri dell’Anonimo e, soprattutto, appropriarsi del suo manoscritto… Ne sapete qualcosa?»
«Sinceramente… No. Ma se quel manoscritto contenesse i segreti della pittura dell’Anonimo, varrebbe parecchio».
«A don Carlo il denaro non basta mai, i creditori lo assediano. È un soldato abituato a prendersi con la forza tutto ciò che vuole. E, quel che è peggio, è un depravato. E ora ha stretto amicizia con un altro depravato. Come potete ben immaginare, davanti al nipote del cardinale Carafa io mi ritrovo con le mani legate». Gliele mostrò, pallide, nodose. «Se lo accusassi, se lo arrestassi, otterrei l’opposto di ciò che desidero. Darei agli eretici sparsi per il mondo un motivo in più per attaccare la Chiesa di Roma, un nuovo argomento per il loro proselitismo. In questo momento, con il conclave in corso… Voi capite, non è vero?»
«Volete coprire le magagne del nipote del vostro padrone».
«No, solo scongiurare gli effetti nefasti che potrebbero avere sulla Chiesa».
«E a me cosa state chiedendo esattamente?»
«Vorrei che l’Anonimo, i suoi quadri, il manoscritto contenente le sue stregonerie e la setta di cui fa parte non fossero mai esistiti. Mi basterebbe che non se ne parlasse mai più. Allora, forse, quei due criminali si calmerebbero, e io avrei assolto il compito che mi è stato affidato».
«Dovrei uccidere l’Anonimo e distruggere il manoscritto, insomma».
«Non chiederei mai una cosa simile. Vi rimando al quinto comandamento».
«Ma con quale faccia tosta nominate il quinto comandamento, Arquez? Voi che torturate chi osa mangiare carne nei giorni di magro o chi osa pensare con la propria testa; voi che cospargete di sale le piante dei piedi di chi bestemmia e poi le fate leccare alle capre; voi che avete imprigionato, torturato e bruciato vivo mio fratello perché considerava idoli le immagini sacre e aborriva l’uso cattolico di adorarle. Come potete?»
«Io non partecipai in alcun modo alla cattura e al processo di vostro fratello, né tantomeno all’esecuzione capitale. Però vi sbagliate: il Santo Uffizio non condanna a morte gli uomini, bensì il male. Non è omicidio il nostro, è malicidio».
«Giocate con le parole. La verità è che don Carlo ha ucciso Lavinia Cenci, perché la ragazza aveva scoperto l’avvelenamento di papa Marcello».
Arquez corrugò la fronte, fece un passo avanti e porse un orecchio interessato. «Continuate».
«Don Carlo ha confessato il suo crimine a Lavinia mentre era ubriaco».
«È un’illazione o ne avete la certezza?»
«Lo so per certo».
«Allora, in nome di Dio, parlate».
«Don Carlo si deve essere accorto subito della leggerezza che aveva commesso, ma probabilmente era sicuro che Lavinia avrebbe tenuto la bocca chiusa. Invece, lei lo ha involontariamente riferito all’Anonimo, per il quale posava».
«Cosa vuol dire “involontariamente”?»
«L’Anonimo addormenta i modelli prima di ritrarli».
«E perché mai dovrebbe fare una cosa simile?»
«Per farli stare fermi a lungo, credo. L’Anonimo applica la filosofia naturale alla pittura».
«Alchimia?», sbottò incredulo il domenicano.
«Se preferite chiamarla così… Ma vi posso garantire che non c’è niente di diabolico nei suoi quadri».
Arquez fu come pietrificato da quelle rivelazioni, che confermavano i suoi peggiori sospetti.
All’improvviso scopriva di essere stato usato dal cardinale Carafa.
C’era una possibilità – voleva pensarlo, sperarlo – che il cardinale stesso fosse uno strumento inconsapevole nelle mani di suo nipote don Carlo. Ma restava comunque un tradimento imperdonabile.
Lui, un domenicano candido come la veste che indossava da quando era poco più che un bambino, trasformato in un vile complice di criminali. Lui, il cane da guardia del Signore, usato da dei ladri per cacciare di frodo. Gli avevano deturpato l’anima, lo avevano ingannato e tramutato in un boia del demonio.
Le parole di Raphael gettavano una luce bieca su tutta l’indagine, sull’integerrimo Gian Pietro Carafa, sul conclave, su ogni cosa.
Arquez sorrise. Lasciò che una lacrima grondasse liberamente dai suoi occhi eburnei, la ostentò, come in preda a una visione celestiale. «Non dovrei lasciare in libertà un uomo come voi. Siete un ficcanaso troppo efficiente». Si inginocchiò, gli prese una mano, gliela baciò, poi congiunse le sue e disse: «Perdonatemi, vi prego».
«Ma cosa dite!».
Nella testa di Raphael il fiume delle parole era secco. Quel che stava accadendo era inconcepibile: il Santo Uffizio ai suoi piedi che gli chiedeva perdono!
No, era un miraggio, stava di sicuro sognando. La spiegazione più ammissibile era che lui fosse ancora disteso per terra, sulla strada, oppure in un letto d’ospedale, sospeso tra la vita e la morte e perso in una specie di sogno, un estremo delirio.
«Vi sono immensamente grato per avere portato la luce nelle tenebre in cui ero caduto», disse Arquez rialzandosi.
«E ora cosa volete che faccia?»
«Non lo so».
«Voi cosa avete intenzione di fare?».
Arquez scosse la testa e si asciugò le lacrime con la manica della tonaca. «Pregare».
«E io posso ritenermi libero di andare?»
«Sì».
Raphael scattò in piedi come un ossesso e cominciò a frugare tra i vestiti sparsi sul pavimento. Calze di seta, brache di velluto, una camicia bianca con gorgiera, la giubba di pelle nera lunga fino al ginocchio e stretta in vita da una cintura… c’era tutto, anche se stropicciato e calpestato.
Si tolse senza pudore gli abiti rotti e sporchi che aveva addosso e cominciò a cambiarsi.
Non c’era tempo da perdere: Ariel, Elena, forse erano entrambi in pericolo, nelle mani di don Carlo e di Innocenzo.
D’un tratto il veleno aveva cessato di avere effetti sul corpo teso di Raphael. Il dolore alla testa e allo stomaco era sparito, ogni tratto delle sue vene era travolto e ripulito da una piena di furore.
«Prima che andiate, messer Dardo, ho un’ultima cosa da dirvi».
«Purché facciate in fretta. Ci sono degli amici che mi stanno aspettando».
«Riguarda vostro fratello».
«Sono andato a rileggere la documentazione d’archivio del Sacro Tribunale relativa al processo. Immagino che ci siano cose che vorreste sapere. Desiderate che ve ne parli?»
«No», rispose Raphael, ma i suoi occhi dicevano chiaramente il contrario.
Arquez sospirò e, da buon uomo di Chiesa, andò dritto al punto. «So che forse vi causerà un dolore, ma risulta che Leonardo fu denunciato da vostro padre, il signor Pietro Dardo».
Raphael sbiancò.
Impossibile. Che suo padre avesse fatto una cosa simile, che avesse consegnato Leonardo alle fiamme, era semplicemente impensabile.
«Non dovete biasimarlo, poveretto. È prassi comune denunciare un parente sospettato di eresia, per evitare che tutta la famiglia cada in disgrazia. Come credo sappiate, la condanna presso il Santo Uffizio implica il sequestro dei beni del reo».
«Nonché l’infamia di tutta la sua casa», aggiunse Raphael, soffocando la rabbia. «Siete sicuro di quel che dite?»
«Che motivo avrei per mentirvi?».
Raphael si prese la testa fra le mani e annuì. Arquez aveva ragione. E, a pensarci bene, la sua rivelazione gettava una luce nuova sugli eventi del passato. Adesso Raphael poteva immaginare la difficile situazione in cui si era trovato suo padre, combattuto tra il desiderio di proteggere la famiglia e quello di salvare un figlio. E per la prima volta riusciva a capire il suo gesto: il pover’uomo si era ucciso per il dolore e il senso di colpa, non per la vergogna di avere un figlio eretico.
«Ma non è tutto», disse Arquez, con la flemma di chi è abituato a infliggere dolore.
«Cos’altro c’è scritto in quelle carte?»
«In tribunale fu ascoltato messer Billi come testimone, perché si sapeva che frequentava la vostra famiglia. E la sua deposizione non aiutò di certo Leonardo: dichiarò di non volere avere più niente a che fare né con lui né con Pietro Dardo, negando di essere loro amico e che, per quanto ne sapeva, i quadri blasfemi era Pietro a farli, non suo figlio».
«Questo è falso!», sbottò Raphael. «Mio padre non ha mai dipinto quadri eretici».
«Non stento a credere che Billi abbia calunniato vostro fratello e vostro padre. Insomma, non poteva certo dire di essere complice di Leonardo! E allo stesso tempo ha cercato di fare ricadere le colpe su vostro padre, che aveva denunciato un membro della setta, mettendo a rischio tutta la congrega di stregoni. Mi capite?». Arquez fece una pausa e lo osservò con pietà. Vide pensieri di morte dietro lo sguardo carico di furia.
Messer Billi aveva infangato il nome di suo padre e non aveva fatto nulla per difendere Leonardo, condannandoli entrambi a morte con le sue parole vigliacche e velenose.
Ogni dito delle mani di Raphael aveva un sogno in quel momento: affondare nel collo di quel miserabile.
«Quando ho iniziato a indagare sull’Anonimo e la sua setta», andò avanti Arquez, «ero interessato solo al pittore, alla sua arte soprannaturale, alle eresie che diffondeva con le sue opere. Sospettai fin da subito che le realizzasse con l’aiuto del demonio, perché in breve tempo raccolsi una discreta quantità di indizi dai quali si poteva capire chiaramente che dietro di lui c’era un gruppo di persone dedito alla magia nera. Ho intercettato lettere, ho interrogato complici, ho letto e ascoltato delazioni di Familiari e di testimoni… Non ho impiegato molto tempo per venire a conoscenza di quale fosse il loro credo: adorano Lucifero e tutte le figure negative della Bibbia, da Caino a Giuda. Praticano anche la magia sessuale. Essi odiano profondamente Dio, insomma, e seguono al contrario i suoi comandamenti. Leggono “non uccidere” e interpretano all’inverso. Sono dei malvagi radicali. Più difficile, invece, è stato individuare i membri della setta. Ma adesso sappiamo chi sono: le stesse persone che furono ascoltate al processo di Leonardo. Io penso che vostro fratello sia caduto nella loro ragnatela, tessuta con malfidata scaltrezza da Billi e i suoi accoliti, i quali sanno blandire parlando di cristianesimo delle origini. Misteri. Vendono questo. E lui deve essere stato attratto dal luccichio di quei gioielli spirituali. Credetemi: rileggendo le carte con il senno di poi, si capisce chiaramente che Leonardo faceva parte del gruppo di Billi, il quale durante il processo ha preso le distanze da lui e da vostro padre per proteggere la setta».
«Quello che dite è assurdo, Leonardo non faceva parte di alcuna setta».
«Come potete affermarlo? Eravate lontano. Non sapete nulla, voi».
«So solo che mio fratello soffrì una pena atroce. E questo mi è sufficiente».
«Ecco, vedete? Non sapete niente. Leonardo non soffrì come credete. Fu strangolato per pietà quando era ancora in cella».
«Ma come è possibile? Mi fu detto che fu fatto salire sul rogo con la mordacchia, per impedirgli di parlare».
«Così era stato disposto dal giudice, in effetti. Ma qualcuno all’interno delle carceri, di sicuro il boia, deve aver compiuto un gesto di clemenza verso di lui».
«Potete farmi avere delle armi?». I pugni chiusi e duri che gli cadevano sui fianchi, adesso Raphael aveva in corpo un veleno molto più potente di quello che gli era stato somministrato alcune ore prima.
«L’ira è un peccato capitale», gli ricordò il domenicano, vedendolo fremere di impazienza. «Calmatevi, e pregate il Signore che vi aiuti».
«Voi trovatemi una spada e io sarò come l’arcangelo Michele, affronterò non un uomo ma Satana, come voi mi insegnate».
Arquez annuì. «Forse posso aiutarvi. Chiederò al bargello del governatore di farvi avere accesso al deposito del tribunale. Lì vengono conservati gli oggetti sequestrati ai criminali: troverete senz’altro qualcosa che faccia al caso vostro. Per difendervi, naturalmente. E per liberare i vostri amici».
«Naturalmente». Raphael lo prese per un braccio e lo trascinò fuori di casa. Si sarebbe concesso in un altro momento il tempo necessario a riflettere sul passato della sua famiglia. Avrebbe costruito una nicchia nel suo cuore, in cui custodire i bei ricordi, una fossa in cui gettare tutto il resto e seppellirlo per sempre. Puntò il dito fuori dalla porta di casa. «Quello è il vostro cavallo?».
Il corsiero bianco era ancora al suo posto; sbuffava mansueto, cambiando zampa d’appoggio e spazzando via le mosche con la coda.
«Sì», disse Arquez. «Prendetelo voi. Io vi faccio strada». Lanciò un fischio ai suoi birri, che si erano radunati all’angolo, e dopo poco si ritrovò in sella a un morello scalpitante. «Seguitemi», disse.
Il tragitto da Macel de’ Corvi al rione Ponte, in cui si trovava la casa del governatore di Roma, era breve, appena il tempo di recitare una preghiera, per Arquez.
Confiteor Deo omnipotenti, et vobis, fratres, quia peccavi nimis cogitatione, verbo, opere et omissione: mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.
Arquez si percuoteva il petto mentre cavalcava.
Raphael lo vedeva davanti a sé, curvo sul dorso dell’animale, come se stesse implorando il perdono, la salvezza della propria anima.
Ideo precor beatam Mariam semper Virginem, omnes Angelos et Sanctos, et vos, fratres, orare pro me ad Dominum Deum nostrum.
L’uomo sembrava sinceramente provato. Dopotutto, pensò Raphael, c’era da comprenderlo. Per un religioso tanto ossessionato dall’idea di seguire la retta via e così fortemente tormentato dal timore di sbagliare agli occhi di Dio, doveva essere stato un duro colpo apprendere di aver commesso dei reati gravissimi.
Temeva l’inferno.
Misereatur nostri omnipotens Deus et, dimissis peccatis nostris, perducat nos ad vitam æternam. Amen.
Arquez era stato incaricato di dare sepoltura in silenzio a una povera donna assassinata, e senza saperlo si era reso complice anche di un altro crimine, ancora più orribile: l’uccisione di un papa.
Aveva aiutato a coprire le malefatte del nipote di Carafa e di un cardinale indegno come Innocenzo, si era sporcato le mani e l’anima.
Adesso, ripensando a quel che il domenicano gli aveva detto poco prima riguardo il processo a Leonardo, Raphael sentiva la collera montare, invadergli la gola, esplodergli nel petto.
Billi doveva morire.
Billi il cainita.
Sporse la testa di lato e lasciò andare uno sputo in segno di disprezzo.
Il cainita.
Arquez aveva avuto la bontà di spiegargli cosa significasse quella parola, eppure non aveva spiegato un bel niente. Perché non c’era nulla al mondo che potesse darle un senso. Era pura e semplice depravazione.
Poi, la rabbia defluì lentamente dalle vene di Raphael, lasciando il posto a un’improvvisa sensazione di calma.
La memoria di Leonardo era salva.
Se Billi aveva preso le distanze da lui, probabilmente significava che suo fratello non gli aveva mai baciato il culo, e che non era un cainita. Raphael voleva sperarlo, voleva crederlo.
Davanti alla chiesa di Santa Maria in Posterula, Arquez alzò una mano per richiamare la sua attenzione e tirò le redini.
Lui fece lo stesso e saltò per primo giù dalla sella. Era impaziente. Ma dovette attendere che il bargello venisse istruito dal domenicano e che, dopo una lunga conversazione, andasse a riferire o a fare qualcosa dentro la casa del governatore e poi tornasse.
A quel punto Arquez se ne andò senza dire neppure una parola di commiato, e a Raphael fu concesso di entrare.
«Prego, messer Dardo», fece strada il bargello, «da questa parte».
Il capo dei birri accompagnò Raphael all’interno della grande casa in cui risiedeva e aveva gli uffici il governatore di Roma. Superate alcune stanze affollate di gente nervosa, di guardie e di notai indaffarati, fu condotto dove venivano conservate le prove dei reati, le armi sequestrate e tutto ciò che i birri prelevavano durante gli arresti e i sopralluoghi.
Non molto, a dire il vero. Qualche strano oggetto dal sapore stregonesco, probabilmente rinvenuto in casa di un mago, due libri presumibilmente proibiti e in attesa di sparire in un falò, un vestito maschile sporco di sangue, due coltellacci arrugginiti.
Era evidente che la giustizia del papa non si distingueva dalle altre, e si accaniva soltanto sulla povera gente.
«Non ci sono armi da fuoco?»
«Spiacente. Solo un paio di buone spade». Il bargello spostò una cortina di stoffa scura, che copriva la parte frontale di un armadio, a mo’ di tenda, e apparve una sciabola d’abbordaggio di manifattura spagnola, la lama leggermente curva e netta come una pennellata. Raphael la prese e la soppesò, il labbro inferiore premuto contro quello superiore in un’espressione ammirata. Era uno splendido esemplare forgiato dalle sapienti mani dei maestri di Toledo, affilatissima sul lato convesso della lama, la guardia pronunciata sull’impugnatura a protezione della mano. E accanto c’era una splendida spada da lato a striscia, di costruzione italiana, sottile, lunga, letale. «Il proprietario di queste armi se ne intendeva», commentò Raphael esaminandole dall’elsa alla punta. «Davvero magnifiche. Posso prenderle?»
«Certamente», fece il bargello, assottigliandosi la punta dei baffi con i polpastrelli, «avete il mio permesso, messer Dardo. Là sotto dovrebbero esserci anche i foderi e le cinghie per indossarle».
«Sì, li ho trovati. A chi appartenevano?»
«A un gentiluomo spagnolo. Lo abbiamo arrestato stanotte per avere ucciso un uomo in duello».
«E ora dov’è?»
«Trattandosi di un diplomatico, lo dovremo riconsegnare alla sua ambasciata. Sempre che sia sopravvissuto alle ferite». Indicò l’armadio. «Il suo nome dovrebbe essere scritto lì, su quel cartellino».
Il pezzetto di cartone, bruno come il legno, pendeva da un gancetto a lato del ripiano. Raphael lo voltò e lesse: Rodrigo Lopez.
Sentì le labbra assottigliarsi con il sorriso.
O si trattava di uno straordinario caso di omonimia, oppure era lo stesso uomo al quale aveva preso i vestiti e le scarpe, nella sala chirurgica dell’ospedale. «Non sapete se sia ancora vivo?».
Il bargello si strinse nelle spalle. «È stato ferito in modo serio. Questi diplomatici scavezzacollo ci danno un mucchio di grattacapi. Sapeste quante ne combinano. E non possiamo mai fare niente, perché si rifugiano nelle loro ambasciate, accampano franchigie e privilegi contro l’autorità papale, o perché interviene questo o quell’altro potente in loro difesa».
Raphael si allacciò la sciabola dietro la schiena, con l’elsa che gli spuntava sopra la spalla destra; e si legò in vita la spada da lato, facendosela cadere lungo la gamba. E con quegli strumenti di morte addosso, sentì di essere tornato a vivere.
«Vi ho preparato il permesso scritto di portare le armi per strada», disse il bargello consegnandoglielo.
«Vi ringrazio».
«E monsignor Arquez vi nomina Familiare stipendiato del Santo Uffizio. È stato lui stesso a dirmelo. Un notaio, di sopra, sta mettendo tutto per iscritto. Non dimenticatevi di firmare, prima di andare via. Sapete firmare? A ogni modo, basterà un segno in mia presenza. Eh, voi gli piacete, messer Dardo. Quel cocciuto di un domenicano è più duro, puro e freddo del diamante. Ma voi gli piacete, potete ritenervi fortunato». Si tirò il lobo dell’orecchio e sorrise.
Raphael, invece, era rigido, aveva gli occhi fissi, la mandibola caduta e inerte sotto la bocca aperta per lo stupore. «Familiare?», ripeté attonito, sentendosi il sangue raggelare sillaba dopo sillaba.
Non disprezzava nulla più di quella parola.
Lui, Raphael Dardo, un collaboratore, uno spione e un delatore dell’Inquisizione?
In quanto a sarcasmo, Dio si superava continuamente.
Era una cosa così assurda che gli venne da sospettare che Ariel avesse organizzato una messinscena per burlarsi di lui e della sua fissazione con l’Inquisizione.
«Non siete contento?», gli chiese il bargello. «D’ora in avanti sarete gli occhi e le orecchie del Sacro Tribunale, potrete cercare attivamente i colpevoli, e sarete ricompensato con benefici vari, con privilegi ed esenzioni d’imposta e giuridiche, e sarete riconosciuto come “buon cristiano”. Oltre a ciò, come ho detto, avrete un salario». Gli posò una mano sulla spalla. «Congratulazioni».
Raphael decise di non commentare. Strizzò la bocca, annuì, lo ringraziò per la grande disponibilità, poi gli chiese il permesso di andare.
«Dovete sottoscrivere la patente di Familiare».
«Non adesso».
«Si capisce: avrete cose importanti da fare. Be’, che Dio vi protegga, messer Dardo».
«E ricompensi voi».
Sì, era un incubo.
Si schiaffeggiò le guance, mentre si dirigeva ad ampie falcate verso la luce del sole. Un incubo. Il cavallo bianco prestatogli dall’inquisitore lo stava aspettando, immobile davanti alla casa del governatore, come una statua di sale confusa nei bagliori del giorno.
Svegliati, Raphael.
«Io non ho quello che state cercando!», ripeté Ariel, sforzandosi di non guardare lo strapiombo.
Il cielo era pieno di sole, un sole bianco e senza imperfezioni. L’aria era fresca, ma la paura di morire spremeva goccioloni di sudore dalla sua fronte, che gli scivolavano sui capelli e cadevano nel vuoto. Sentiva il peso del proprio corpo, voracemente attratto dal suolo, lontano, un centinaio di braccia, sotto di lui. Però non aveva perso la calma.
Gli restava ancora qualche carta da giocare. Ognuno di noi ha le proprie da usare nella vita, pensava, e lui ne aveva più degli altri e, soprattutto, sapeva come maneggiarle con abilità.
Quanto è vero che mi chiamo Ariel Colorni, stimato prestidigitatore e disprigionatore nelle più importanti corti italiane.
L’uomo che lo teneva a testa in giù per le caviglie, dal più alto dei ponteggi che fasciavano la basilica di San Pietro, simili a una colossale steccatura fatta da un aggiustaossa, gli diede uno strattone facendolo ondeggiare. «Dov’è la chiave?»
«Se mi uccidete, non lo saprete mai», rispose.
Arrivò un altro uomo. Ariel ne intravide soltanto l’ombra tra le fessure delle assi. «Parla, ebreo, o tra poco là sotto raccoglieranno i tuoi pezzi con la scopa».
«Volete che vi dica dov’è la chiave, così potrete lasciarmi cadere?»
«Parla oppure…». L’uomo gli lasciò andare una delle caviglie.
Per un istante, Ariel si sentì precipitare. «Non c’è nessuna chiave», disse boccheggiando, «solo io sono in grado di aprire il forziere».
In quel momento, mentre pendeva con la precarietà di un frutto troppo maturo, e il sangue gli martellava sulle tempie, maledisse quell’uomo e allo stesso tempo benedisse la sua forza. Non aveva potuto osservarlo nei particolari, ma doveva essere molto alto e molto grosso. Se Ariel sollevava appena la testa, poteva vedere chiaramente che l’uomo, il possente braccio proteso fuori dal ponteggio, lo stava tenendo con una mano sola.
Lo udì ancora parlottare con qualcuno che da quell’assurda posizione non riusciva a scorgere. Il vento che sibilava nelle orecchie come un lamento rendeva difficile ascoltare quel che si stavano dicendo. Ridevano, e più ridevano più lui sobbalzava sull’abisso. Poi, quello appena sopraggiunto sporse la testa fuori dalla pedana, guardando in basso, e disse: «Sei fortunato, ebreo: don Carlo vuole parlarti».
Dopo un tempo interminabile Ariel si sentì ascendere al cielo, come issato da un argano divino.
«Riportiamolo giù».
Fu depositato sulle tavole polverose. Lentamente si mise in piedi e rimirò il mondo dalla giusta prospettiva: le cupole e i campanili che non pendevano più dalla terra come goffe stalattiti in una surreale grotta celeste abbacinata dalla luce del sole. La visione, però, durò solo un istante. Una spinta alle spalle lo costrinse a camminare.
«Muoviti, animale», gli dissero.
Quella parola gli era rimasta incastrata nelle spire del cervello.
Animale.
Mentre cavalcava seduto alle spalle di uno sgherro, con le mani legate dietro la schiena, Ariel non riusciva a pensare ad altro. Aveva perfino smesso di chiedersi chi fossero gli uomini che lo avevano rapito.
Animale.
Superò Castel Sant’Angelo, attraversò il ponte Sant’Angelo, percorse un tratto della via Giulia, con le sue residenze cardinalizie, e giunse ai Banchi, zona di passaggio dei pellegrini e solitamente affollata di notai, scrivani e cambiavalute, ma a quell’ora ormai deserta.
Lì si erano svolte innumerevoli corse di giudei nudi, durante i carnevali, e Ariel ebbe chiaro che quella parola, animale, se riferita a un ebreo, assumeva un significato profondo, difficile da spiegare.
«Perché questo odio quando ci si potrebbe semplicemente amare?», chiese all’uomo che gli sedeva davanti, con le redini in pugno. «Dov’è finito l’insegnamento di Gesù?»
«Lavati la bocca, ebreo, prima di nominare il Salvatore».
«Lui era un giudeo come me».
«Sta’ zitto o ti faccio pendere la lingua dal culo».
Ariel si figurò la scena e gli venne quasi da ridere. In un’altra circostanza avrebbe apprezzato quell’uomo di spirito capace di partorire un’immagine così grottesca.
Se, invece, adesso restava serio e concentrato non era perché la paura gli avesse ottenebrato la mente, ma perché ognuno dei tanti individui che componevano la sua poliedrica persona era stato chiamato a raccolta e spedito in una difficile quanto delicata missione: liberare i polsi dalle catene prima di arrivare a destinazione.
Facile da dire, non da fare.
Negli spettacoli di disprigionamento che Ariel eseguiva per i nobili signori era tutto accuratamente preparato, e poteva contare sull’aiuto di complici. Gli spettatori, poi, di solito collaboravano inconsapevolmente, con la loro credulità, forse dovuta alla voglia di assistere a un prodigio mai visto prima, o forse a una predisposizione naturale dell’uomo a spiegare l’ignoto con i miracoli. Ariel non lo aveva ancora capito, tuttavia se ne serviva.
Un buon prestidigitatore, come prima cosa, doveva saper distrarre il pubblico al momento opportuno, per quell’attimo necessario all’artefice di illusioni a mettere in atto l’inganno senza essere notato.
Però adesso la faccenda era del tutto diversa. Aveva studiato le manette e i ceppi in uso a Roma e sapeva che quelle con cui era stato legato erano apribili con un colpo secco contro qualcosa di duro, perché il perno fuoriusciva facilmente, ma sfortunatamente non aveva a disposizione un’incudine o una pietra. E poi c’era un altro uomo a cavallo che li scortava, pronto a segnalare qualunque suo tentativo di divincolarsi dai bracciali di ferro e a intervenire.
Non poteva fare niente.
«Dove mi state portando?»
«Sta’ zitto».
«Chi è che vuole parlarmi?»
«Sta’ zitto, ho detto».
«È don Carlo Carafa?»
«Taci, animale».
Gli zoccoli dei cavalli continuarono a segnare il lento trascorrere dei minuti, come il ticchettare di un orologio meccanico. Si fermarono davanti a un portone aperto. Di una casa che Ariel non aveva mai visto prima. E sulla soglia apparve un uomo in saio nero.
Dove lo avevano portato?
Sperò con tutto il cuore di stare per incontrare don Carlo Carafa, o Piero Strozzi, o un qualunque nobiluomo, ricco e incline a lasciarsi affascinare dai giochi di prestigio, perché con quel genere di persone sapeva come comportarsi, sapeva come tenerle in pugno.
Ma il portone e quell’uomo parevano più un patibolo e un boia pronti ad accoglierlo, che l’ingresso a una festa di signori curiosi e annoiati.
Lo spinsero dentro, la grossa porta si richiuse con un tonfo polveroso.
E restò solo il buio.
Il cappuccio della giubba calato sulla fronte, Raphael passò davanti a Casa Strozzi ordinando al corsiero di procedere all’andatura più lenta. I ferri schioccavano con indolenza sul selciato. Era ancora giorno, ma in quella zona della città, popolata da banchieri e commercianti, brillavano già le torce e le lucerne.
Raphael lanciò un’occhiata oltre il bordo del cappuccio, all’ingresso della casa.
Il rapido sguardo fu sufficiente per capire che entrare, per verificare se Ariel ed Elena si trovavano lì, era un’impresa impossibile.
Un guardaportone, armato fino ai denti e vigile come una civetta, sorvegliava l’ingresso. Nell’androne e nel cortile, di cui riuscì a scorgere solo una parte, ogni accesso era sorvegliato da due uomini armati di spada e archibugio.
Passò oltre, con indifferenza, sotto lo sguardo immobile della guardia sulla porta.
Fare un secondo passaggio sarebbe stato rischioso quanto inutile: l’unico modo per superare un controllo così serrato sarebbe stato avere un invito da parte del padrone di casa. O del suo ospite, don Carlo. Il che equivaleva a dire che non c’era un modo.
Non restava che chiedere udienza.
Smontò di sella, assicurò il cavallo a una stecca di legno, accanto a un’altra cavalcatura, e si avvicinò al portone di Piero Strozzi.
Un cognome adatto a descrivere la sensazione che si sentiva nella gola.
Si fece scivolare il cappuccio sulle spalle.
«Fermo lì», ordinò il guardaportone. «Chi siete?».
Solo in quel momento Raphael si rese conto di non aver preparato una risposta a quella domanda. Ma non si rimproverò, perché sapeva che se anche l’avesse cercata non l’avrebbe trovata.
Si fermò.
L’altro spinse la testa in avanti e lo guardò con aria severa e valutativa, in attesa di ricevere una risposta.
Raphael non parlò.
«Via da qui, signore, chiunque voi siate».
«Non è questa Casa Strozzi?»
«Vi riguarda in qualche modo, signore?»
«Credo di sì».
«Voi credete?».
Si affacciò un’altra guardia, curiosa di capire cosa stesse succedendo. L’uomo allargò le gambe, si prese i fianchi tra le mani e chiese: «Tutto bene?»
«Il signore, qui, vuole sapere se questa è Casa Strozzi».
«Perché vi interessa?», domandò la guardia, barba ispida, occhi come carboncini sotto un cappello a tese ampie e flosce. «Avete un appuntamento?»
«Io…», balbettò Raphael. Provò a improvvisare e, non avendo niente di meglio da inventare, sputò fuori quel che aveva pensato poco prima: «Ho un invito», disse.
Il guardaportone si rilassò e abbozzò qualcosa di simile a una faccia amica. «Ah, ma il banchetto è domani, signore».
L’altro, invece, restò sospettoso. «Siete uno degli invitati al banchetto?», chiese esaminandolo dalla testa ai piedi, e di sicuro traendo la conclusione che la risposta “sì” fosse improponibile. L’uomo che aveva davanti, vestito di pelle nera e armato, non somigliava neanche un po’ ai ricchi e pingui signori, ricoperti di seta e di gioielli, che sarebbero arrivati il giorno dopo, come di consueto a bordo delle loro costose e variopinte carrozze.
«Vi chiedo di perdonarmi», gli disse Raphael inchinandosi. «Arrivo dopo un lungo viaggio da Firenze, e devo avere sbagliato giorno. Me ne scuso».
La trovata di dichiararsi proveniente da Firenze funzionò oltre le aspettative. Era la città di Piero Strozzi e Raphael vi aveva trascorso abbastanza tempo da avere assimilato un po’ della parlata toscana e risultare credibile. La guardia divenne affabile, scese i gradini e gli andò incontro. «Sono lieto di fare la vostra conoscenza, signore».
Anche il guardaportone torceva il collo e annuiva nella sua direzione, come a dire che adesso pure lui approvava la sua presenza.
«Sapevo di essere in anticipo, ma non di così tanto», disse Raphael, e si stupì di riuscire a simulare una risata verosimile. «Mi trovavo a passare da qui e volevo accertarmi che fosse questa Casa Strozzi». Riverì con un cenno del capo e fece per andarsene, ma la guardia col cappello lo fermò.
«Aspettate, vi prego».
«Dite».
«Il mio signore potrebbe punirmi se venisse a sapere che un suo amico di Firenze, reduce dal viaggio, non è stato accolto nella sua casa. Gli amici di Piero Strozzi sono sempre i benvenuti, e non sbagliano mai giorno. Lasciate almeno che lo informi della vostra presenza».
«Siete molto gentile, ma non è necessario che lo disturbiate. Tornerò domani».
«Come desiderate, signore, ma ditemi almeno il vostro nome, nel caso mi domandasse».
«L’Anonimo».
«Come?»
«Ditegli che è stato qui l’Anonimo, lui capirà».
Il cappellaccio volò via come un corvo dalla testa della guardia, che salutò con un profondo inchino. «Ai vostri ordini, signore. Dio vi accompagni».
Il cielo si rannuvolò all’improvviso. Un’oscurità precoce ingrigiva la città, simile a un brutto presentimento. Raphael alzò gli occhi al convegno di nubi nere che si stava tenendo sulla sua testa, come un sabba delle streghe, e pensò che l’elezione del nuovo pontefice potesse essere vicina.
Raggiunse piazza Navona e fermò il cavallo. Davanti alla chiesa di Santiago degli Spagnoli, in quel momento si stava tenendo una cerimonia silenziosa, con molte persone vestite con un saio nero e con i ceri accesi in mano. Lui se ne tenne debitamente lontano e puntò dritto verso la residenza dell’ambasciatore. Era difficile da digerire, ma doveva discutere di nuovo con un guardaportone. E questo, per giunta, era carico di armi e corazzato, aveva l’aria minacciosa, ed era possibile che non capisse una parola di italiano.
L’uomo mostrò il palmo della mano. «Fermo».
Per lo meno una parola la conosceva, pensò Raphael. «Devo incontrare l’ambasciatore».
«Questo no es un confesional, señor».
«Don Pedro Vargas. Me entiendes?»
«Sì, entiendo. Avete un appuntamento?»
«Dite a sua signoria che Raphael Dardo vuole parlargli con urgenza».
L’armigero schioccò la lingua per richiamare l’attenzione di un compagno. «Raphael Dardo», gli disse, e con la testa gli fece segno di andare a riferire alla svelta. «Esperar aquí», ordinò poi a Raphael, riassumendo una posizione statuaria, lo sguardo fisso davanti a sé.
L’attesa non si protrasse abbastanza da vederlo muoversi. L’altro milite tornò poco dopo dicendo che messer Dardo poteva entrare, l’ambasciatore era lieto di riceverlo.
Lo accolse nel cortile interno, un portico quadrato con una fontana al centro, dove, disse, quando ne aveva il tempo amava passeggiare o leggere un buon libro allietato dalla musica e dal gorgoglio dell’acqua.
E, come per non smentirlo, un musico seduto sotto un arco iniziò a tessere una filigrana sonora con uno strumento a corde, simile a un liuto, che pizzicava con le dita della mano destra. Era una melodia malinconica, dal sapore arabo, priva di urgenza, l’opposto del tamburo da guerra che stava rullando impetuosamente nel petto di Raphael.
«Allora, messer Dardo, portate notizie per me?»
«Sì, vostra eccellenza».
«Riguardano il pittore anonimo, come vi avevo chiesto?»
«In un certo senso».
«Spiegatevi».
«Prima avrei una richiesta da fare».
«Ma certo, dite pure».
«Vi chiedo di trovare un modo per farmi entrare in Casa Strozzi».
«Messer Piero Strozzi?»
«Sì».
«Stiamo parlando di un uomo praticamente intoccabile, amico del re di Francia, e avverso agli spagnoli. Mi piacerebbe potervi aiutare, ma non so come».
«Domani vi si terrà un banchetto. Forse voi riuscite a farmi avere un invito». Spiegò che, se Ariel ed Elena erano ancora vivi, potevano trovarsi in quella casa e che, se invece non lo erano, in quella casa c’era il responsabile della loro morte.
«Potrebbero essere ancora vivi», lo rassicurò don Pedro. «Secondo i miei informatori, un uomo che corrisponde alla descrizione del vostro amico è stato portato a Casa Strozzi. E quindi credo anch’io che possano entrambi essere tenuti prigionieri lì».
Raphael sospirò di sollievo nell’apprendere quella notizia da una fonte tanto autorevole e bene informata come l’ambasciatore di Spagna. Date le circostanze, non poteva chiedere di meglio. Adesso non restava che sperare nella furbizia di don Carlo, che forse non avrebbe ucciso l’unica persona in grado di aprire il forziere; e in quella di Ariel, che forse non lo avrebbe aperto senza ricevere garanzie sulla propria vita. E, conoscendolo, anche su quella di Elena, se era con lui.
«Devo entrare in quella casa», disse.
«Vi capisco, però non vedo proprio come potrei aiutarvi a liberarli».
E allora Raphael gli disse del forziere contenente i quadri del duca Cosimo, il quale gli sarebbe stato di sicuro molto riconoscente, nel caso le preziose opere d’arte fossero state recuperate e sottratte alla distruzione grazie al suo tempestivo aiuto.
«Un congegno di sicurezza?»
«Tutto andrebbe perduto, eccellenza».
L’ambasciatore poteva anche essere indifferente alla sorte di un uomo e di una donna che neppure conosceva, ma non al nome di Cosimo de’ Medici e all’occasione diplomatica che gli si stava presentando in quel momento.
Soppesò le opportunità guardando il quadrato di cielo che si oscurava sempre di più, poi abbassò lo sguardo e valutò i rischi e gli svantaggi, emettendo dei mugugni interlocutori, come stesse ricevendo degli avvertimenti dallo spirito di un vecchio saggio. «Vedrò cosa posso fare», disse alla fine rialzando la testa. «Forse ho un’idea».
Cominciò a piovere.
L’architettura del patio creava al centro un cubo di gocce crepitanti.
Raphael e don Pedro continuarono a passeggiare girando intorno al giardino, al riparo del portico, e il musico non smise di spargere per l’aria i suoi arabeschi di note.
«Il vostro interesse per l’Anonimo era giustificato», cominciò Raphael. «Avevate visto giusto, eccellenza. Seguendo le sue tracce mi sono imbattuto in un intrigo ordito dalla fazione antispagnola ai danni di papa Marcello ii. Ho scoperto che il pontefice è stato ucciso con un veleno a base di digitale da don Carlo Carafa e dal cardinale Innocenzo del Monte. Stanno tramando per fare eleggere a tutti i costi lo zio di don Carlo, il cardinale Gian Pietro Carafa».
«Questo non avverrà mai», obiettò don Pedro. «L’imperatore Carlo v ha posto il veto sul nome di Gian Pietro Carafa».
«Eppure, sembra che la fazione sostenitrice, con don Carlo e Piero Strozzi in testa, ne sia sicura».
«Voi credete che il banchetto di domani sia stato organizzato per festeggiare l’elezione di Carafa?»
«Non ci avevo pensato, eccellenza. Ma potrebbe darsi».
«E l’Anonimo… come vi ha condotto a questa scoperta?».
Raphael raccontò che tra don Carlo e Lavinia Cenci c’era stata una relazione amorosa, se così la si poteva definire, e che la donna posava per il pittore senza nome e veniva addormentata, per via della misteriosa tecnica che richiedeva l’immobilità assoluta per un tempo di posa molto lungo. Spiegò che Lavinia aveva parlato durante quel sonno artificiale in cui era costretta a sprofondare, rivelando così all’Anonimo quel che le era capitato di ascoltare da don Carlo. Per questo l’aveva uccisa, perché l’Anonimo e la sua setta avevano colto la palla al balzo, minacciando il cardinale Carafa di rivelare il segreto, se l’Inquisizione non avesse smesso di accusarli di eresia e di perseguitarli, compromettendo in tal modo la sua elezione.
Raccontò tutto nei dettagli. Tutto, tranne del manoscritto di Leonardo e della reale identità dell’Anonimo. In fondo, era chiaro che al diplomatico non interessava granché. Si era incuriosito dell’Anonimo solo perché aveva capito che dietro di lui si agitava qualcosa di interessante per le relazioni internazionali.
E alla fine, dopo averlo ascoltato con grande attenzione, don Pedro si fermò, fece un passo indietro per osservarlo da capo a piedi, sorrise e batté delicatamente le mani. «Sono ammirato», gli disse. «Se solo tra i miei exploratores potessi vantarne un paio come voi, tutto sarebbe più semplice!».
«Non sono meritevole di simili complimenti, vostra eccellenza. Ho avuto fortuna, se si può considerare tale l’essere scampato per due volte a un tentativo di omicidio».
«Solo fortuna?». Scosse la testa. «No, messer Dardo, la fortuna è un’arte, bisogna saperla praticare».
«Vi prego, eccellenza. Sarei onorato se mi chiamaste Raphael».
«Allora, basta con questo “eccellenza”. Qui mi chiamano tutti, semplicemente don Pedro Vargas. A me piace. Andrà bene anche per voi».
Raphael assentì con un ossequioso cenno del capo. «Metterò tutto per iscritto in una relazione per il duca Cosimo e per voi. Io stesso ho bisogno di fare ordine nei fatti e nei ricordi. Tutto è accaduto così all’improvviso che stento a credere a quel che vi ho appena riferito».
«Avete un’aria molto provata. Dovete riposare. Consideratevi mio ospite. Nel frattempo io provvederò a farvi avere un invito al banchetto di domani».
«Ecco, io…». Raphael esitò. Rifiutare l’ospitalità di un uomo tanto importante e amichevole non era cosa da potersi fare a cuor leggero. E in effetti non aveva soltanto un’aria molto provata: lo era, fin nei penetrali del corpo, e avrebbe pagato oro per potersi abbandonare su un materasso.
Ma la memoria di Leonardo aveva bisogno di lui e della sua voglia di vendetta.
Da qualche parte, là fuori, c’era messer Billi, ancora in attesa di pagare il suo conto.
Vedendolo eclissarsi, don Pedro sporse la testa in avanti e scrutò con curiosità nei suoi occhi assenti. Sembrava che stesse cercando di scorgere i pensieri che gli attraversavano la testa, come fossero dei pesciolini sotto il pelo dell’acqua, poi gli afferrò un braccio e lo scosse. «Su, su, Raphael, dovete reagire», gli disse. «Ho un buon medico qui. Sarà bene che vi facciate visitare».
Se un indovino gli avesse predetto che un giorno avrebbe rifiutato l’ospitalità di un uomo come don Pedro Vargas, mentre era più morto che vivo, Raphael gli avrebbe riso in faccia.
«Don Pedro, io credo che…».
«Un bagno caldo? Un letto soffice con lenzuola croccanti? Una donna calorosa? Non avete che da chiedere. Cosa potrebbe farvi piacere?».
Raphael, le pupille immobili tra sottili saette di sangue, le contò sulle dita le cose che voleva: «Un cavallo nero. Armi da fuoco. Polvere da sparo. E munizioni».
A casa, a Macel de’ Corvi, non c’era nessuno. Raphael ispezionò ogni stanza, infilando con cautela i piedi fra le cose disseminate sul pavimento, ridiscese anche in cantina, salì a dare un’occhiata alla mansarda, ma non trovò traccia del passaggio recente di Ariel.
In cucina ritrovò la caraffa di porcellana che conteneva ancora il vino che lo aveva quasi ucciso. Avrebbe forse dovuto conservarla, così com’era, per permettere a uno speziale esperto di esaminarne il contenuto e dirgli a quale veleno era scampato. Invece, la rovesciò fuori dalla finestra, poi si voltò e la scaraventò con violenza contro il muro, restandosene a guardare la rosa bianca di schegge che si spandeva nell’aria e ricadeva a terra come una pioggia di ossa.
E uscì.
Arrivato davanti a quella che era stata l’abitazione di Elena, si trovò davanti un paesaggio ancora più desolato: una finestra contornata da una barba di fuliggine, spalancata e buia come una bocca che abbia appena esalato l’ultimo respiro. Bussò alle porte vicine. Domandò di Elena. Ma nessuno l’aveva più vista.
Allora rimontò in sella al cavallo arabo, elegante e nero come il novilunio, e scivolò nell’oscurità profonda della notte romana fino a casa di messer Billi, sfruttando le poche chiazze di luce rada proiettate dalle finestre dei palazzi.
Trovò il portone solo accostato. La serratura era stata rotta con un oggetto usato a mo’ di ariete, di cui si vedevano i segni circolari stampati tutt’intorno alla toppa.
Raphael entrò. Si fermò ad ascoltare. Il silenzio si spartiva il dominio del luogo con il buio.
Sapeva come arrivare alla stanza con i quadri dell’Anonimo e a quella con il ripostiglio dissimulato nella parete, ma prima decise di controllare le parti della casa che non aveva mai visitato. Malgrado l’assenza di luce, a Raphael risultò subito evidente che l’abitazione di Billi era stata messa a soqquadro dalle stesse mani che avevano rivoltato casa sua.
La ricerca al piano terra non fruttò nulla.
Salì al piano superiore, dove era già stato, e senza difficoltà ritrovò la stanza in cui Billi custodiva i quadri dell’Anonimo, e che adesso era più spoglia di un albero in autunno. Come ci si poteva aspettare.
Davanti a quelle quattro pareti desolate, rischiarate appena da spruzzi di luce lunare, Raphael pensò che in quelle ore, da qualche parte, qualcuno stava festeggiando per il ricco bottino. Qualcuno che aveva interferito con le indagini di Arquez, che aveva avuto accesso a informazioni riservate e sapeva che Billi sarebbe stato arrestato.
Don Carlo.
E la Scimmia.
Chi altri?
Il dito indice di Raphael si piegò fino a chiudersi, bramava con urgenza un grilletto da premere davanti alle loro luride facce.
La piccola porta nascosta nel muro era chiusa a chiave, e la statua di marmo che prima le stava davanti era sparita, come ogni altra cosa di valore nella casa.
I ladri dovevano essere arrivati con un paio di grossi carri, per riuscire a portare via tanta roba.
Quale organizzazione. Che efficienza. Quasi veniva da pensare che non potesse trattarsi di due debosciati come don Carlo e la Scimmia, per quanto potenti potessero essere. Don Carlo, dopotutto, era a Roma da poche settimane, e Innocenzo, oltre a essere vincolato dal conclave, era stato destituito da ogni carica dopo la morte di Giulio iii.
A meno che…
Una spiegazione poteva esserci. Grazie a Innocenzo, che in quanto cardinale stava per l’appunto prendendo parte al conclave, don Carlo era riuscito a comunicare con suo zio e gli aveva fatto sapere in quale pasticcio si trovava…
Più si guardava intorno, più ci pensava, e più Raphael si convinceva che il cardinale Gian Pietro Carafa doveva aver prestato uomini del Santo Uffizio, alcuni dei cani più fedeli, a suo nipote Carlo, il quale ne stava approfittando per arricchirsi com’era sua abitudine.
Arquez doveva aver capito l’entità del tradimento che era stato ordito ai suoi danni e, soprattutto, ai danni dell’istituzione di cui era servitore.
Senza saperlo, il cardinale Carafa si era reso servo del nipote e complice dei suoi crimini. Figurarsi cosa sarebbe potuto accadere se fosse davvero diventato papa!
L’uomo a capo dell’Inquisizione, il decano dei cardinali, considerato il più collerico, il più inflessibile, integerrimo e astuto prelato della Chiesa cattolica, era in realtà un individuo debole, suggestionabile e ingenuo, in sostanza uno facilmente manipolabile.
Ecco perché, si disse Raphael, sarebbe diventato lui il prossimo pontefice.
“Vecchio” e “malleabile” erano due aggettivi che definivano egregiamente il candidato considerato ideale dagli altri cardinali votanti.
Raphael scacciò via quei pensieri inutili e si concentrò sulla realtà che lo riguardava più da vicino, sul momento presente.
Doveva aprire quella porta per accertarsi che i quadri di Leonardo fossero ancora lì dentro. E il fatto che fosse chiusa a chiave lasciava ben sperare.
Ancora non aveva deciso cosa ne avrebbe fatto di quei dipinti. Forse se ne sarebbe sbarazzato, ma non poteva andarsene senza almeno vederli.
Ci avrebbe pensato il giorno dopo, alla luce del sole.
Ridiscese al piano di sotto. Trovò a tastoni le cucine, nelle quali non era mai entrato, e cominciò a frugare ovunque. Alla fine, riuscì a scovare quello che stava cercando: l’occorrente per accendere il fuoco. Si appoggiò su un ripiano e si applicò con la solita determinazione, facendo scintillare la pietra e l’acciarino con ritmo. Però gli mancava la calma necessaria. Gli ci vollero alcuni minuti prima di vedere sorgere le prime fiamme. A quel punto accese una candela, poi un candelabro e tutti gli stoppini e le teste di torcia che incontrava sul suo cammino.
Dall’oscurità emerse pian piano lo sfacelo lasciato dai ladri, ogni cosa rovesciata a terra anche senza motivo. Qualcuno aveva acceso un fuoco al centro della sala da pranzo; restavano un mucchio di cenere e i residui di carte bruciate.
Raphael immaginò messer Billi, o Daffo, che facevano sparire delle lettere compromettenti prima di scappare.
Ma come aveva fatto Billi a sapere che gli uomini di don Carlo stavano per venire a casa sua per saccheggiarla?
Era una delle cose che gli avrebbe chiesto, se mai lo avesse rincontrato.
Poi, tra i pezzi di cornici che erano state staccate dalle tele e gettate via, Raphael individuò una colonnina di alabastro spezzata in due metà.
Poteva fare al caso suo.
Si chinò, raccolse la metà più grossa e pesante, e la portò nella stanza del ripostiglio.
Il primo colpo della pietra sul legno riecheggiò come uno sparo.
Colpì ancora.
Ancora.
La piccola porta resistette fino al quinto assalto di quell’ariete improvvisato, poi dovette cedere.
Raphael posò per terra il pezzo di alabastro, prese il candelabro e fece luce dentro.
Eccetto un afrore di urina, che attribuì al passaggio di un animale, forse un ratto, tutto gli parve identico a come lo aveva visto la prima volta.
Il cuore gli sussultò in fondo alle viscere nel trovare i quadri di Leonardo ancora coperti e al loro posto.
Stava quasi per toglierli da lì e portarli in una stanza in cui avrebbe potuto vederli tutti insieme, esposti alla luce di decine di candele. Invece, appoggiò la schiena al muro e si lasciò cadere scivolando come una grossa goccia di carne. E poi chiuse gli occhi.
Era sfinito.
Per quel giorno poteva bastare, si disse. Avrebbe dormito lì, a guardia dei quadri, e all’alba si sarebbe chiesto cosa fare e dove andare. L’idea di partecipare a un banchetto in Casa Strozzi con la speranza di potersi intrufolare nelle camere o nelle segrete del palazzo per cercare Ariel ed Elena non gli appariva più così tanto buona.
Cosa credeva di poter fare?
Se anche fosse riuscito a passare inosservato e a infiltrarsi tra gli invitati, era escluso che il servizio di sorveglianza gli avrebbe permesso di gironzolare liberamente per la casa.
Scosse la testa, sentendo i capelli scricchiolare sotto la nuca, contro la parete.
Adesso gli occhi si rifiutavano perfino di piangere, volevano solo smettere di funzionare per qualche ora, e così anche la sua mente. Le palpebre pesavano e scivolavano verso il basso inesorabilmente, come lisce placchette di piombo.
I pensieri si disciolsero in un oblio dolcissimo, in un annientamento liberatorio, simile alla morte che sopraggiunge alla fine di una vita di sofferenze e ingiustizie.
Ormai stava quasi dormendo quando le sue orecchie ancora tese captarono un rumore.
Aprì gli occhi di scatto, restando immobile, trattenendo il respiro per ascoltare.
Cos’era stato?
Ascoltò ancora.
Niente.
Eppure lo aveva sentito. Qualcosa di simile a un colpo di tosse, un suono inconfondibilmente umano.
Si mise in piedi, lentamente, tenendo le spade per non farle sferragliare. Prese il candelabro e andò verso la porta. Era quasi uscito dalla stanza quando lo riudì, lo stesso rumore di prima, un rantolo, una voce strozzata. Proveniva dalle sue spalle, adesso.
Lo udì ancora, più chiaramente. Come una richiesta di aiuto. Veniva dal ripostiglio.
«Chi c’è?», chiese infilandosi dentro e facendo luce oltre la schiera di quadri.
«Sono Daffo», rispose una voce che pareva riemergere dagli abissi.
Il servo di Billi era sotto un telo nero, un fascio di ossa rannicchiato in un angolo. Stava male. Forse non beveva e non vedeva la luce da due giorni. Raphael lo dedusse dal fatto che la porticina non era apribile dall’interno e romperne le spesse assi di legno con cui era fatta avrebbe richiesto una forza e degli strumenti che Daffo non aveva.
«Ce la fate ad alzarvi?», gli chiese Raphael.
Lui rispose biascicando un grazie. Gli si aggrappò per tirarsi su stringendogli forte il braccio e gli sorrise. «Devo pisciare», disse.
«Credevo che sarei morto lì dentro». Daffo, di spalle, ansimava ancora per la paura, e guardava l’orinale in cui stava svuotando la vescica come fosse la cosa più bella che avesse mai visto. «Mi avete salvato la vita, messer Dardo».
«Non cantate vittoria. Se volete sopravvivere, dovete dirmi dov’è il vostro padrone».
Daffo si sedette al tavolo, versò dell’acqua nel boccale con la mano che gli tremava. Bevve e si tamponò le labbra con la manica della giacca, poi si strinse nelle spalle scheletriche e alzò il viso, magro, spigoloso, macchiato dalle ombre. I suoi occhi erano lontani, sprofondati in due fosse nere. «Come posso sapere dov’è messer Billi?»
«Come potete non saperlo», lo corresse Raphael.
«È uscito in fretta e furia, dicendo che aveva ricevuto una soffiata da un notaio del Santo Uffizio e che stavano per venire ad arrestarlo. È fuggito ordinandomi di bruciare delle lettere e altre carte. Non mi ha detto dove stava andando. Può darsi che abbia lasciato la città».
Raphael si prese il mento fra le dita e rifletté: se Billi aveva avuto una soffiata da un notaio del Sacro Tribunale, significava che chi era stato a casa sua per cercare il manoscritto e rubare i quadri lo aveva fatto con l’aiuto dei birri dell’Inquisizione.
Dunque, Arquez aveva ragione: a sua insaputa, qualcuno nel Santo Uffizio, su richiesta di Gian Pietro Carafa, stava agendo al servizio di don Carlo e di Innocenzo del Monte, i quali stavano interferendo con le indagini regolari; più che interferendo: le stavano spudoratamente usando per scoprire chi possedeva il segreto dell’Anonimo e impossessarsene.
«Perché eravate chiuso nel ripostiglio?»
«Ho sentito che dabbasso stavano sfondando il portone e sono corso a nascondermi lì. Ma poi mi sono reso conto che da dentro non si poteva più aprire. A un certo punto ho quasi pregato che i birri mi scoprissero. Mentre perquisivano la casa, io ero lì, combattuto tra lo stare zitto e il mettermi a urlare. È stato terribile. Davvero non so come ringraziarvi. Vi sarò riconoscente per sempre».
Raphael non fu mosso a compassione neanche un po’ dal suo piagnucolare: ormai sapeva di quanta ipocrisia fosse capace il buono, pacifico e servilissimo servo di Billi.
Quel porco di Raphael Dardo.
Aveva detto così, il giorno prima, quando credeva di averlo chiuso fuori dalla porta. E Raphael ricordava bene anche il disprezzo con cui aveva simulato uno sputo, dopo quelle parole.
«Ditemi dov’è messer Billi o vi stacco le unghie una per una, poi passo ai denti e, se siete ancora vivo, ma suppongo di sì, vi cavo gli occhi e ve li faccio mangiare crudi».
«Messer Dardo, voi…». Scandalo e terrore sul volto di Daffo. «Voi siete una brava persona, timorata di Dio». Congiunse le mani, come due ragni in una lotta. «Perché dite questo?»
«Dov’è Billi?»
«Ve l’ho detto. Se è riuscito a sfuggire all’arresto, ha di sicuro lasciato Roma. Chissà dov’è a quest’ora. Credetemi, vorrei esservi d’aiuto, ma non so rispondere alla vostra domanda. Messer Billi potrebbe essere ovunque».
Raphael annuì e si impose di stare calmo. «Cosa sapete della sua setta?»
«Di che cosa?»
«La setta».
«Di quale setta state parlando?».
Per tutta risposta, Raphael raccolse il candelabro dal tavolo e glielo scrollò davanti alla faccia, aspergendogliela di cera fusa e bollente.
Ripeté la domanda.
«Non ci vedo più!», piagnucolò Daffo, tastando l’aria davanti a sé con gli occhi chiusi, come un bambino terrorizzato dal buio. «Perché state facendo questo, proprio voi?»
«Perché non mi state aiutando, ecco perché».
Daffo gemette per un po’ e alla fine sbatté le palpebre alla ricerca di luce. Ci vedeva ancora, ma lacrimava copiosamente, gli occhi gli bruciavano. «Non credevo che foste così malvagio».
«Vi ho chiesto di parlarmi della setta».
«Cosa vi fa pensare che io possa saperne qualcosa?».
Una parte di Raphael stava per spiegargli che aveva visto quali rituali si tenevano in quella casa, anche in sua presenza. Un’altra parte stava per assestargli un violento manrovescio.
Prevalse la seconda.
«Parlate».
Daffo si toccò la crepa che si era aperta sulla sua guancia, poi si guardò la mano insanguinata e annuì. «Va bene».
Raphael si sedette.
«Ho la vostra parola che dopo non mi ucciderete o non mi farete del male?»
«Avete la mia parola».
«Quando Messer Billi ha scoperto che voi avevate trovato e trafugato il manoscritto di Leonardo, vi ha venduto», cominciò a raccontare Daffo.
«A chi?»
«A un certo don Carlo Carafa. Sapete chi è, immagino. Billi gli ha detto che il manoscritto lo avevate voi e che lo stavate per portare via da Roma con un forziere, insieme a dei quadri di grande valore. In cambio ha chiesto l’impunità per se stesso e per gli altri adepti, promettendo che avrebbero smesso di denunciare pubblicamente i Carafa tramite i cosiddetti “quadri dell’Anonimo”. Pare che don Carlo abbia accettato».
«E Tremadio è stato rilasciato?»
«Sissignore».
«E Sarfatti?»
«Anche lui».
«Se quel che mi state dicendo è vero, perché don Carlo avrebbe saccheggiato la casa di Billi?»
«Non lo so. Voi vi fidereste della parola di don Carlo Carafa? Fareste accordi con lui? Sapete chi è e di cosa è capace? E poi, quanto è vero Iddio, qui dentro sono venuti i birri del Santo Uffizio, non i mercenari di don Carlo o di chicchessia. C’erano anche un inquisitore e un notaio con loro. Li ho sentiti parlare. A me sembrava una perquisizione in piena regola, con tanto di sequestro delle opere eretiche che messer Billi custodiva in alcune stanze».
«Dunque, il forziere lo ha rubato don Carlo», disse Raphael, come pensando ad alta voce.
«Sì, per quel che ne so. Ma mi limito a riferirvi il poco che ho potuto ascoltare».
«E di Ariel, il mio amico, che cosa avete sentito dire?»
«Messer Billi e gli altri avevano escogitato un piano: permettere a don Carlo di prendersi il forziere, ma senza dirgli che Ariel era l’unico a saperlo aprire. In questo modo avrebbero potuto estorcere del denaro in seguito, in cambio della chiave, oppure, ancora meglio, lasciare che il manoscritto con tutti i segreti che contiene andasse distrutto. Tanto l’Anonimo era in grado di riscriverlo inserendovi anche i numerosi progressi che aveva fatto da allora».
«Voi sapete chi è questo Anonimo?»
«No. Lo giuro. So solo che è amico del mio padrone».
«E messer Billi come faceva a sapere che il forziere era protetto con un sistema autodistruttivo e che solo Ariel era in grado di aprirlo?»
«Lo sapeva».
«Come?»
«Loro hanno molti informatori dappertutto. Anche tra gli uomini di donna Angelica».
«Capisco».
«Vi scongiuro di credermi: non so molto, non faccio parte della combriccola del mio padrone. Lo vedete. Mi ha abbandonato qui. Non conto niente, io».
«Dove si riuniscono?»
«Qui, oppure in un’altra delle loro case, dipende».
«Non hanno un luogo di ritrovo e di culto?»
«Lui non sa che io so. Mi fa portare avanti e indietro i suoi bigliettini da anni, ormai, confidando nel fatto che io non so leggere. Ed è vero che sono analfabeta. Ma non sono stupido. Qualche volta…». Abbassò la voce e si guardò attorno, come fanno i pettegoli. «Qualche volta mi sono fatto leggere il contenuto dei biglietti da degli scrivani pubblici, poche parole per ciascuno, così che nessuno di loro potesse cogliere il senso dell’intero messaggio».
L’astuzia di Daffo strappò alle labbra secche di Raphael un sorriso di ammirazione.
Il servo andò avanti con la confessione. Disse che messer Billi e i suoi si ritrovavano in una piccola chiesa sconsacrata, fuori dal centro abitato, di cui si erano appropriati.
Era plausibile, pensò Raphael. A Roma c’erano molte più chiese del necessario, e di tanto in tanto una veniva abbandonata o cambiava spontaneamente destinazione d’uso.
«Sapete dove si trova?»
«Se messer Billi sa che ho parlato mi uccide. Chi mi proteggerà quando voi ve ne sarete andato via da Roma?»
«Sapete dov’è la chiesa sconsacrata, sì o no?»
«Sì, io…». Daffo non fece in tempo a finire la frase.
Raphael lo prese per il braccio e lo sollevò di peso dalla sedia. «Ora mi porterete lì», gli disse, dandogli una spinta fra le scapole, «e farete bene a non fingere di sbagliare strada o a tentare di prendervi gioco di me, perché vi scorticherei vivo».
«Ma è buio pesto, non si vede niente là fuori».
«La luna è quasi piena, stanotte si può cavalcare. Conoscete la strada, no?»
«Io non credo di essere in grado di arrivarci con il buio, ci sono stato una volta sola, per la curiosità di vedere il posto, ed era giorno. E non ci sono mai entrato. Potreste trovare persone di guardia, armate. Chi lo sa? Meglio andarci domattina».
«Ci andiamo adesso».
Nella grande stanza disabitata dei Palazzi Apostolici, l’angelo dell’affresco parlò ancora una volta con la voce invecchiata e stanca del cardinale Carafa: «Presto ci sarà l’ultima votazione, Arquez. Sento che siamo vicini al verdetto divino». Dal pertugio nel muro uscì il tenue soffio di un sospiro. «Non ne posso più di stare chiuso qui dentro. Se non fosse un peccato capitale, proverei invidia per voi, che ve ne andate di qua e di là facendo domande alla gente. Vorrei respirare l’aria fresca, e non vedere più le stesse facce».
«Prego affinché lo Spirito Santo illumini presto i cuori e le menti dei cardinali», disse Arquez. Stavolta non era in ginocchio, parlava con le spalle rivolte all’opera d’arte, sovrastato dalla grande sala vuota che faceva riverberare le voci.
«Allora, siete riuscito a mettere l’Anonimo e la sua setta in condizioni di non nuocerci?»
«Se ne sta occupando direttamente vostro nipote don Carlo, illustrissimo».
«Come sarebbe a dire?»
«Un soldato abile e senza pietà come don Carlo saprà mettere a tacere l’Anonimo e la sua setta meglio di quanto possa fare io. Immagino che il vostro problema sia ormai risolto».
«Cosa insinuate, Arquez?»
«Avrei molte cose da dire, ma preferisco tacere e rimettermi alla vostra volontà».
«Parlate, invece. Di cosa mi state accusando?»
«Io non vi accuso. Mi avete incaricato di svolgere un’indagine, e mi limito a riferirvi quel che ho scoperto».
«Parlate, allora».
«Don Carlo ha ucciso Lavinia Cenci, la modella, la giovane il cui cadavere voi, illustrissimo, mi avete chiesto di fare sparire. Io pensavo che le vostre preoccupazioni fossero legate al fatto che ultimamente la si vedeva spesso insieme a don Carlo e che non voleste noie durante il conclave, perché qualcuno avrebbe potuto sospettare di lui ingiustamente. Io l’ho fatta sparire, come avete chiesto».
«E io ve ne sarò sempre grato. Sono certo che non l’abbia uccisa mio nipote. Mi ha giurato di non saperne niente, che era solo una sgualdrina a pagamento».
«Vostro nipote ha ucciso anche papa Marcello, illustrissimo. La ragazza lo aveva scoperto. Per questo è stata ammazzata».
«Ma cosa dite? Cosa vi state mettendo in testa? Siete impazzito?»
«Ne sono sicuro».
Ci fu un lungo silenzio, oltre il muro.
«Mio nipote avrebbe ucciso il…?»
«Insieme a Innocenzo del Monte, illustrissimo. Avvelenato con la digitale».
«Come fate a saperlo?»
«Indagare e scoprire fanno parte del mio mestiere».
«Certo, certo». Carafa fece una lunga pausa. «Arquez, ci siete sempre?»
«Sono qui».
«Vi giuro che non lo sapevo».
«Vi credo, illustrissimo».
«Cosa sta facendo, adesso, mio nipote?»
«Sta cercando di aprire un forziere. Sembrerebbe che contenga dei quadri appartenenti al duca Cosimo de’ Medici, e un manoscritto in cui sarebbero depositati i segreti della pittura dell’Anonimo, le ricette per ottenere quella strabiliante verosimiglianza».
«Cosimo de’ Medici?». L’angelo, adesso, soffiava un respiro affannato. «Quel furfante di mio nipote sta creando un putiferio, come al solito!».
«Cosa volete che faccia?»
«Non lo so».
«Suggerisco di non agire. Don Carlo e Innocenzo hanno avuto ciò che volevano, ormai. Si calmeranno. Ho incaricato un nostro Familiare di occuparsi della faccenda. Se Dio vuole tutto andrà per il meglio».
«Cos’ho fatto, Arquez, cos’ho fatto?»
«Ve lo dico io: avete usato il Santo Uffizio per raggiungere i vostri scopi personali, per ascendere nelle gerarchie ecclesiastiche; lo avete fatto fino all’ultimo, è un tratto peculiare della vostra persona. E siete riuscito a raggiungere lo scopo finalmente. Io mi inchino all’imperscrutabilità di Dio».
«Come osate?».
Arquez ignorò la sua indignazione e la sua rabbia. «Ricordate l’agente d’arte di cui mi avevate chiesto notizie, Raphael Dardo?»
«Ricordo. Ma le vostre parole avranno la punizione che meritano».
«Ricordate del processo a cui fu sottoposto suo fratello, il pittore Leonardo Dardo? Diceste di aver seguito l’istruttoria personalmente. Ebbene, sono andato a studiare i documenti, ho fatto domande e sapete cos’ho scoperto?».
Carafa non rispose.
«Volete saperlo?»
«Parlate, vi ascolto».
«Ho scoperto che Leonardo Dardo fu portato sul rogo già morto. Nei verbali è scritto che fu strangolato in cella dal boia, prima di essere condotto nel luogo dell’esecuzione».
«E con questo? Lo si fa per clemenza, e voi lo sapete».
«Certamente. Ma allora, se era già morto, perché quando lo hanno issato sul palo aveva la bocca serrata dalla mordacchia e la metà inferiore del viso coperta? Come voi sapete bene, questo è un accorgimento che serve a impedire ai condannati di lanciare bestemmie o di predicare dal patibolo».
«Non capisco dove vogliate andare a parare, Arquez. Io sono esausto. Ora desidero congedarmi. Questa conversazione ha preso una piega che non mi piace. Mi occuperò in un altro momento del vostro atteggiamento insolente».
«No, aspettate. Rispondete alla mia domanda. Perché aveva la mordacchia, se era morto? Vi sfuggì quel dettaglio?»
«Io seguii da vicino le indagini e parte del processo. Mi disinteressai alla questione ben prima dell’esecuzione capitale del reo, dell’eretico impenitente, di quel demonio. E non so perché gli abbiano applicato la mordacchia. Se voi lo sapete, ditelo senza girarci tanto attorno».
«Non lo so, ma posso immaginarlo: per camuffarne l’aspetto. Credo che l’uomo che salì sul rogo non fosse Leonardo Dardo. Forse era il cadavere di uno che gli somigliava, ucciso a questo scopo, poi introdotto nelle carceri di Tor di Nona da complici del Dardo e scambiato con lui. Il boia, alcuni birri e un notaio corrotti, forse essi stessi adepti della setta di cui faceva parte il pittore. Durante quel processo non si parlò mai di questa setta. L’ho scoperta di recente indagando sull’Anonimo».
«Dunque il pittore blasfemo potrebbe essere ancora vivo?»
«Sì, potrebbe. Non era un semplice eretico, sapete. Ho ragione di credere che già al tempo del suo arresto fosse un adepto della setta che stiamo cercando adesso, un seguace dell’Anonimo».
«Ne avete le prove?»
«No. Solo una bella lista di indizi. In compenso ho le prove che tutto quello che sta accadendo è per colpa vostra».
«Vi garantisco che chi ha sbagliato in quel processo e i funzionari corrotti saranno puniti severamente. Non appena uscirò da qui me ne occuperò di persona. Io stesso farò penitenza. Avete la mia parola».
«Non ne dubito, illustrissimo»
«Sono disposto a perdonare la vostra insolenza e le vostre malcelate accuse. Ho sbagliato gravemente e me ne pento. Non posso darvi torto. La vostra indignazione nei miei confronti è più che giustificata».
«Grazie».
«Se don Carlo sa che avete scoperto i suoi crimini, voi siete in serio pericolo, Arquez».
«Sono così abituato a incutere timore che non so più come si fa ad avere paura».
«State all’erta. Chiudetevi da qualche parte. Aspettate che il conclave finisca. E io sistemerò tutto».
«Sistemerete anche me, non è vero?»
«Smettetela di fantasticare e dire sciocchezze».
Arquez staccò la schiena dall’affresco e si incamminò lungo la stanza vuota. «Che Dio vi perdoni», disse, non a voce alta, ma quanto bastò per giungere fino all’altra parte del tubo di piombo che correva dentro il muro.
«Come?».
Non gli rispose.
«Dove siete andato?», sussurrò Carafa. «Arquez!», chiamò, senza usare la sua voce stridula e possente, lanciando urla soffocate che riverberavano fra le pareti affrescate come quelle di un fantasma rabbioso. «Tornate qui immediatamente! Non vi ho dato il permesso di andarvene!».
Gli rispose l’inequivocabile tonfo di una porta sbattuta con violenza.
«arqueez!».
La luna sembrava una moneta dimenticata sul telo nero di un astrologo. La sua luce tenue, come di una fiamma sotto un globo di vetro, rischiarava la notte permettendo di cavalcare senza l’ausilio delle lanterne.
Tutto era silenzioso a quell’ora.
«Mi state portando verso il rione Monti», disse Raphael,
«Sì, stiamo andando a San Pietro in Vincoli», rispose Daffo, che cavalcava aggrappato a lui, e dopo poco tese il braccio e indicò davanti. «Quella lì», disse.
«La chiesa accanto alla basilica?»
«È lì che si riuniscono da un po’ di tempo».
Attonito, Raphael fermò il cavallo.
Era possibile, si chiese, che una setta eretica ricercata dal Santo Uffizio si riunisse accanto a una basilica?
Certo, ci si poteva porre la stessa domanda per le prostitute che, si diceva, offrivano i loro servizi lì dentro. Però, da che mondo era mondo, certe cose si tolleravano più di altre.
«Siete sicuro che sia il posto giusto?».
Daffo si irrigidì sulla sella. «Io lì non entro».
«Se volete andare, fate pure. Ma il cavallo lo tengo io».
Daffo annuì e smontò goffamente, quasi si stesse calando da una grande altezza. «Non entro».
«Restatemi vicino», disse Raphael prendendolo per il braccio rinsecchito. «Prima di lasciarvi andare devo accertarmi che lì dentro ci siano le persone che cerco e che voi non vi stiate prendendo gioco di me».
«Posso dirvi che da qualche tempo messer Billi incontra gli altri in quella chiesetta. Di questo sono sicuro. Lì dentro dovrebbe esserci un passaggio che conduce a un’antica domus romana, proprio sotto la basilica. È la nostra…», si corresse, «la loro chiesa. A me non è mai stato permesso di accedervi. Però so che è lì. Solo che non posso garantirvi che messer Billi si trovi là sotto anche adesso».
«Andiamo a controllare». Raphael lo spinse avanti e gli fece sentire la punta della sciabola al centro della schiena. «Fate strada».
Le gambe lunghe e sottili di Daffo si mossero traballando. «Ho bisogno di mangiare qualcosa», disse, «non mi sento bene». Continuò ad avanzare verso il portale della piccola chiesa, procedendo a fatica, come se stesse per venir meno da un momento all’altro. Ansimava. Ogni respiro suonava come un lamento.
Vedendolo così spossato, Raphael ebbe l’impressione di camminare alle spalle di un corpo appena uscito da una tomba, o in procinto di entrarci, e rinfoderò la sciabola.
Ma Daffo non aspettava altro. Scattò di lato e si voltò indietro con una rapidità imprevedibile. Per un istante il suo sguardo da lepre saettò negli occhi di Raphael, ma le sue lunghe gambe avevano già iniziato a spingere.
Un attimo dopo era di schiena, a una decina di passi, diretto verso l’arco della scalinata dei Borgia.
Raphael puntò l’archibugio. Era carico. Guardò Daffo rimpicciolire velocemente sul mirino. L’indice sfiorò il grilletto. Avrebbe potuto centrarlo facilmente, se l’arma datagli da don Pedro fosse stata precisa quanto la sua mira. Bastava una leggera pressione del dito per verificarlo.
Scosse la testa e si rimise l’arma in spalla. Ormai Daffo era solo un servo senza padrone. Un pover’uomo a cui presto avrebbero chiuso la bocca. Non era il caso di esplodere un colpo che avrebbe potuto attirare l’attenzione di tutti mandando all’aria l’effetto sorpresa. Restò a guardarlo mentre scompariva nel vano oscuro della scalinata, il cosiddetto vicus sceleratus, un luogo perfetto per andare incontro a una brutta fine: lì la crudele Tullia Maior aveva fatto uccidere suo marito e suo padre, Servio Tullio, il sesto re di Roma, per conquistare il trono insieme al suo amante e cognato, Tarquinio il Superbo; e vedendo il padre agonizzante lo aveva schiacciato ripetutamente sotto le ruote del suo carro.
Così narrava la leggenda.
Raphael scrollò le spalle e tornò al presente. Daffo non era un problema. Quindi, si diresse verso la chiesa sconsacrata.
Il portale era chiuso, ma un bagliore arancione divideva le due ante, segno che dentro c’erano delle candele accese; e si udivano chiaramente delle voci, dei gemiti di piacere.
Bussò, pronto a estrarre la sciabola.
Si aprì uno spioncino nel legno decrepito del portale, una finestrella larga un palmo e alta mezzo che doveva essere stata ritagliata da chi sfruttava il posto per i suoi affari. Le sopracciglia di un uomo apparvero nella fessura; occhi bruni osservavano attentamente ogni dettaglio della persona all’esterno.
Quale prostituta avrebbe potuto permettersi una sentinella?, si chiese Raphael.
L’uomo dall’altra parte non disse una parola e richiuse. Dopo qualche istante, però, aprì il portone e sporse fuori la testa. «Benvenuto, signore», disse.
Raphael non riuscì a prestargli attenzione. Era completamente abbacinato dalla visione che gli si era parata davanti agli occhi, attraverso lo spiraglio dell’anta. Veli leggeri e variopinti fluttuavano nella navata lasciando intravedere ombre sinuose di amplessi; e al posto dei fedeli riuniti in preghiera, c’erano uomini in attesa del loro turno.
«Non facciamo entrare persone armate qui», disse la sentinella, un uomo attempato, ma con tutti i capelli in testa, grosso e ancora prestante, con un vago accento germanico. «È la regola».
«Potete tenermele voi?».
L’uomo assentì ma non lo fece entrare. Prima sporse fuori la testa e controllò la strada. «Siete solo?»
«Sì». Raphael gli consegnò le armi e gli allungò anche il denaro: una somma più che generosa e di sicuro al di sopra dell’onorario richiesto per la prestazione offerta.
«Non vi ho mai visto», fece quello soppesando il metallo. «Come mai da queste parti?»
«Mi hanno detto che qui ci si diverte».
«Non solo qui, signore».
«Di solito frequento il bordello della Veneziana. Ma mi piace cambiare».
L’uomo allentò le labbra scoprendo un confuso rimasuglio di denti. Si capiva solo dagli angoli degli occhi che il suo voleva essere un sorriso. «Chi va dalla Veneziana ha buon gusto e denaro», disse. «Prego, accomodatevi». Spalancò il portone e gli indicò quelli che potevano essere i gradini della sacrestia, usati dai clienti come sedili. C’erano altri quattro uomini seduti, gli sguardi assenti, persi in chissà quali pensieri.
Raphael entrò guardandosi attorno. L’aria odorava di sudore, franchincenso e profumi floreali.
I gemiti delle due donne che erano all’opera oltre i veli riecheggiavano nella chiesa come una predica del demonio.
Ringraziò la sentinella con un cenno del capo e andò a unirsi agli altri, sui gradini di pietra.
Nell’attesa studiò il posto, per quanto possibile, perché la vista era impedita dai numerosi veli colorati, che parevano appesi a un intrico di fili. Riuscì comunque a scorgere subito qualcosa di importante: la presenza di altri due uomini, in aggiunta alla sentinella.
Sorvegliavano semplicemente il lavoro delle prostitute?
O facevano la guardia a qualcos’altro?
Difficile stabilirlo da dove si trovava lui, però tanta sorveglianza gli parve eccessiva, per quanto il posto fosse pittoresco e le donne brave nel loro mestiere. Al bordello della Veneziana, ad esempio, era sufficiente un solo uomo di guardia, che oltretutto cercava in ogni modo di non fare avvertire la sua presenza.
Raphael alzò lo sguardo al crocifisso che, ovviamente, non si trovava più da molto tempo al suo posto, alle spalle dell’altare. Non c’erano neppure statue o immagini di santi, né dipinti. L’ambiente era spoglio, con le pareti a tratti intonacate di bianco e a tratti scrostate, e ricordava una chiesa di campagna. Solo le ombre provenienti dai giacigli si agitavano sulla volta come un tenebroso affresco vivente.
«La prima volta?».
Raphael impiegò un po’ a tornare alla realtà e a capire chi gli aveva rivolto la domanda. Il cliente che gli sedeva accanto aveva la testa ruotata verso di lui e lo stava fissando con un sorriso languido. «La prima volta che venite qui?»
«Sì», rispose Raphael. «E voi?».
L’uomo scosse la testa, il sorriso invariato; era come inebetito dall’atmosfera melliflua.
«Non si scelgono le ragazze in questo bordello?».
Quello disse soltanto: «Vi piacerà». Poi si alzò. Era finalmente giunto il suo turno.
Raphael aveva sentito parlare più volte di quel lupanare così singolare, ma vederlo con i propri occhi era diverso. Lo aveva sempre immaginato come un ritrovo di poveri ubriaconi disperati che compravano a buon mercato i servizi di un paio di mentecatte. Invece era pulito e curato, il caldo e pacato erotismo che vi si praticava faceva pensare a un culto antico, a Bacco, a Priapo… Benché non fosse un campione di virtù e di fede, Raphael era scosso dal vedere un luogo di culto cristiano usato in quel modo.
E gli tornarono alla mente le parole di Arquez: praticano la magia sessuale…
Di qualunque cosa stesse parlando il domenicano, per quanto alle orecchie di Raphael suonassero come parole prive di senso, quell’affermazione sembrava consona alle circostanze. Forse, si disse, Daffo lo aveva portato nel posto giusto. Scoccò un’occhiata alle guardie e se lo disse ancora. Da quelle parti doveva esserci l’accesso a un altro ambiente.
Si alzò anche il secondo cliente, dopo un po’ fu il turno dell’ultimo, e lui restò solo. Durò poco, perché arrivò un altro uomo, con una giubba a spalle larghe, la berretta, la barba a punta, che gli si sedette accanto. «Quello lì non voleva farmi entrare perché è tardi e la baracca sta per chiudere». Sembrava contento, e non disse altro. Anche se avesse voluto, non avrebbe potuto: il braccio nudo di una delle due ragazze spuntò dai veli invitando il prossimo cliente a entrare nel labirinto di tende; la mano chiamava a sé con la grazia e l’eleganza di una danzatrice, mentre il resto del corpo era ombra sul tessuto.
Raphael si alzò e le andò incontro. Varcò quella cortina sottile, quasi evanescente; la scostò con la punta di un dito e si ritrovò dentro. Non dovette fare neppure un passo, eppure fu come percorrere una distanza abissale in un battere di ciglia.
D’un tratto gli sembrò di trovarsi altrove, in un luogo in cui era già stato: il bordello della Veneziana, nella stanza di Aurora.
Lei era lì, inginocchiata sul giaciglio, e lo guardava dritto negli occhi con il dito premuto sulle labbra.
Aurora lo fece sdraiare e gli si distese a fianco. Ci volle un po’ prima che staccasse il dito dalla bocca e disse: «Cercavi me o sei capitato qui per caso?»
«Per caso», rispose lui con un sussurro.
Lei sorrise e gli si mise sopra a cavalcioni. «Sapevo che prima o poi saresti arrivato», bisbigliò solleticandogli l’orecchio. «Io gli uomini li conosco bene».
«Fai parte della setta?»
«Mio malgrado».
«Per questo mi hai fornito quelle informazioni?»
«Ho pensato che tu avresti potuto mettere fine alla follia di cui sono prigioniera».
«Perché non hai denunciato tutto?»
«Al Santo Uffizio? Avrei solo messo a repentaglio la mia vita e quella delle mie amiche. L’Anonimo e i suoi seguaci sanno come muoversi per sguisciare via dalle mani dell’Inquisizione come anguille. Hanno amici ovunque, in particolar modo nelle confraternite, nelle carceri».
L’ombra della sentinella si stagliò sul telo. «Tutto bene?», chiese.
«Sì», rispose Aurora.
La sagoma scura si dissolse lentamente fino a sparire.
«C’è un passaggio?», chiese Raphael. «Loro sono qui?». Abbassò gli occhi per indicare il pavimento. «Qui sotto?».
Aurora annuì.
«Quanti sono gli uomini di guardia?»
«I tre che hai visto».
«Secondo le mie informazioni, la chiesa dell’Anonimo si trova sotto la basilica, qui accanto».
«Non ci sono mai entrata».
«Chi credi che potrò trovarci a quest’ora?»
«Il diavolo».
Lui la fece atterrare con le spalle sul materasso e le si mise sopra. «Spiegati meglio». Si tolse la giacca di cuoio. Sul petto restò la croce di bretelle che sorreggevano le pistole.
Non era stato perquisito, e questo era un bene. Aveva anche un pugnale, che gli aderiva allo stinco sinistro, sul davanti, così da fungere anche come protezione.
Aveva tentato la fortuna, ma sapeva per esperienza personale che le guardie tendevano ad avere fiducia in chi non destava particolari sospetti, era remissivo e si disarmava da solo con gentilezza e spirito di collaborazione.
Però adesso capiva perché lo avessero lasciato accedere con tanta facilità, senza fare troppe domande. Alla sentinella era bastato sentire parlare del bordello della Veneziana, forse sapeva che Aurora lavorava anche lì.
Raphael scosse la testa incredulo, mentre le scandagliava il fondo delle pupille. Non avrebbe mai immaginato di trovare proprio lei. «Tu non sei mai scesa nel sotterraneo?»
«Noi ragazze veniamo portate dappertutto bendate, solo quando serviamo, ed è sempre stomachevole». Glielo sussurrò nell’orecchio: «Sono dei mostri».
«Perché mi aiuti?»
«Aspettavo da tempo un liberatore. Ti ha mandato Dio».
Raphael ignorò le allusioni messianiche. «Messer Billi è ancora a Roma?».
Aurora fece un cenno affermativo. «Era qui poco prima che tu arrivassi».
«Il mio amico Ariel, Elena, sai dove sono?».
Annuì ancora, tristemente. «Ho paura per lei. Ho sentito la sua voce. Era qui, insieme a Billi».
Tornò l’ombra sospettosa della sentinella. «Tutto bene là dietro?». Lo spettro nero della mano si avvicinò al velo.
Aurora recitò un mugolio di piacere.
L’uomo si allontanò.
«L’accesso al sotterraneo deve essere qui», disse Raphael. «I due laggiù sono armati?»
«A quelli manca solo la pietà».
«Voglio che tu e la tua amica usciate subito da qui». Raphael si rimise la giubba con calma e scese dal letto. «Pensi di poterlo fare?».
Lei sbirciò oltre la tenda per cercare la risposta. L’altra aveva appena finito con il cliente, ma gliene restava ancora uno. «Credo di no», disse.
«Allora resta qui, a terra, e non ti muovere. Io non posso aspettare». Uscì a passo deciso lasciandosi dietro una scia svolazzante di veli. Passò accanto al recinto di ombre dell’altra alcova e puntò dritto verso la sentinella.
L’uomo stava per allungare una mano sulle sue armi, per restituirgliele, ma vedendolo arrivare con troppa determinazione, la ritrasse e staccò le natiche dallo sgabello rizzandosi in piedi. «Qualcosa che non va?»
«No», disse Raphael, «è tutto a posto. Sono in ritardo a un appuntamento».
«A quest’ora, signore!». L’uomo si rilassò e ammiccò. «Voi la sapete lunga in fatto di divertimenti».
«Già», fece Raphael.
«Le armi ve le riconsegno all’esterno. È la regola».
«Va bene, vi seguo».
I passi risuonarono tra le mura disadorne della chiesa, insieme ai versi della prostituta, che era alle prese con l’ultimo cliente della notte. Oltre il velo che segnava il recinto di Aurora non c’era più la sua ombra.
Raphael continuò a seguire la tozza figura della sentinella germanica.
L’uomo, che teneva in una sola mano la spada a striscia, la sciabola e l’archibugio carico, si fermò davanti al portale. Sollevò il grosso passante di legno dai ganci e aprì l’anta sinistra.
Fuori, la notte scolorita dalla luna.
Aria fresca.
Silenzio.
Prima che la sentinella si voltasse per consegnargli le armi e porgergli i suoi saluti, Raphael le assestò una pedata alla base della schiena, spingendola oltre la soglia e facendola ruzzolare giù per i gradini. Rapidamente richiuse il portale e fissò il passante. Quindi, andò incontro alle altre due guardie.
Era giunto a metà e stava passando accanto alle ombre lascive sui teli, quando l’uomo chiuso fuori cominciò a percuotere il legno dell’uscio con forza e a strillare, mettendo in all’erta i due.
Raphael incrociò le braccia sul petto, infilò le mani sotto il bavero della lunga giubba di pelle, avvinghiò i calci delle pistole, e continuò a camminare, mentre i due uomini gli si rivolgevano contro con facce minacciose.
Ora che li vedeva da vicino riusciva a riconoscerli: i loro volti li aveva già visti a casa di messer Billi.
Uno aveva sfoderato la spada e anche un ghigno malefico; l’altro, più indietro, gli puntava contro una balestra carica.
Un’arma silenziosa, pensò Raphael. Certo, lui non aveva avuto quell’accortezza, aveva portato armi da fuoco e si era già lasciato sfuggire Daffo. Ma stavolta, decise, il rumore non sarebbe stato un problema insormontabile.
Estrasse le pistole.
Appena il tempo di vedere gli sguardi attoniti dilatarsi sulle loro facce, e il tamburello d’acciaio della prima arma scattò sotto la pressione del grilletto e girò rapido su se stesso, fregando la pietra focaia; il cane si abbassò sul bacinetto, lo strofinio sprigionò le scintille, la polvere si accese.
Così fece, quasi contemporaneamente, l’altra arma nel pugno di Raphael.
Due boati in rapida successione assordarono l’aria, i proiettili sibilarono e andarono a conficcarsi nelle carni designate con due piccoli tonfi e una precisione più che soddisfacente, il sangue sprizzò dalla coscia sinistra del primo, armato di spada, e dalla spalla sinistra del secondo, che imbracciava la balestra, le armi volarono via dalle loro mani e caddero a terra.
Raphael le allontanò con il piede facendole strisciare sul pavimento di marmo. Con la coda dell’occhio vide l’ultimo cliente che saltava fuori dai veli e si rivestiva correndo verso l’uscita. «Fermo!», intimò.
L’uomo ubbidì e gli rivolse un’espressione terrorizzata.
«Non aprite», gli disse Raphael.
Quello annuì e non si mosse.
L’uomo all’esterno continuava a picchiare contro il portale lanciando maledizioni in un miscuglio di italiano e tedesco.
Raphael si rivolse ai due feriti, che erano indecisi sul da farsi e cercavano di infilare occhiate minacciose fra le smorfie di dolore. «Dov’è il passaggio?».
Non risposero, ma furono traditi dai loro stessi occhi che spontaneamente indicarono un punto a terra, in fondo al braccio absidale destro del transetto.
«Se volete vivere, è sufficiente che ve ne andiate, insieme al vostro amico là fuori», propose Raphael.
I due si consultarono senza parlare, tenendosi premute le ferite per non farle sanguinare troppo, e subito assentirono con rapidi movimenti del capo. Poco dopo erano fuori, seguiti dall’ultimo cliente e dalla ragazza, che non si era neppure rivestita, e filava via verso la salvezza con le sue cose appallottolate in mano.
Il tedesco non entrò. Forse scoraggiato dalla vista dei due compagni feriti, più giovani e forti di lui.
Aurora venne avanti uscendo dai veli. Il suo viso era un misto di paura e ammirazione, di contentezza e smarrimento, ma dopo qualche istante sorrise e corse incontro a Raphael. «Sei ferito?»
«No».
«Grazie al cielo». Gli baciò i dorsi delle mani, come fosse un sant’uomo. «Tu sia benedetto».
Raphael posò a terra le pistole. «Credi che possano avere udito gli spari?», le chiese, e raccolse la balestra: silenziosa e consona al suo cognome. La faretra con i dardi era ancora per terra, accostata al muro, nel punto in cui il balestriere faceva la guardia.
«Penso di no», rispose Aurora tendendo l’orecchio al fondo della chiesa. «Ma quelli che hai mandato via torneranno presto».
Raphael puntò il dito. «Credo che si scenda da lì». Andò a verificare e trovò una botola. Rimase qualche istante ad ascoltare, poi tornò dicendo che non si sentiva arrivare nessuno. «Sai cavalcare?», le chiese.
«Sì».
«Forse qui fuori c’è ancora il mio cavallo. Prendilo, e vai a Santa Maria sopra Minerva, al convento dei domenicani, e chiedi di monsignor Arquez. Digli che ti mando io, e di venire subito con dei birri. Ma prima di uscire accertati che qualcuno di quelli non sia ancora qui fuori».
«Lo conosco», disse Aurora.
«Chi?»
«Arquez».
«L’inquisitore?».
Annuì. «Mi usava come informatrice. Lui non è un corrotto. Io ho collaborato per quel poco che ho potuto. Forse ho perfino fatto arrestare qualcuno. E il domenicano mi ha chiesto anche di te».
Raphael non ne fu sorpreso e, in quel momento, attribuiva all’informazione scarso valore. Il tempo, che scorreva inesorabile, gli assottigliava la gola.
Prima di andare, lei lo afferrò per un braccio e cercò i suoi occhi. «Elena e io eravamo d’accordo», disse. «Ci siamo parlate dopo averti incontrato, e abbiamo deciso di aiutarti. Per questo lei ti ha inviato il biglietto proponendoti un incontro. Ma Elena non sapeva nulla di questo posto, né di quel che fa il gruppo di Billi e dell’Anonimo. Tu le piacevi davvero».
«Spero di trovarla ancora viva», disse Raphael. «Adesso va’, sbrigati».
Lei corse verso il portale e, dopo aver controllato dallo spioncino si precipitò fuori.
Tredici passi, Raphael li contò uno per uno, e si trovò con le punte dei piedi che lambivano il bordo della botola. Per terra, accanto, c’era una cassa con dentro delle torce usate. Ne prese una, la passò su un cero, e quando la fiamma si assestò cominciò a scendere illuminando i gradini scivolosi, scavati nella terra.
La balestra in una mano, la torcia scoppiettante nell’altra, Raphael si infilò nel cunicolo e cominciò a percorrerlo in punta di piedi, attento a ogni piccolo suono proveniente dal fondo oscuro.
Ma fortunatamente la gola di terra taceva.
Si udiva solo il lievissimo scorrere di un refolo tiepido, come un respiro lontano.
Il passaggio era ampio e permetteva di camminare in piedi, senza doversi abbassare, e Raphael ebbe la sensazione di trovarsi in una catacomba paleocristiana, anche se qui bastava alzare la mano per toccare la volta, non c’erano aperture laterali o nicchie per la sepoltura nelle pareti. Era uno scavo recente, giudicò accarezzando la fiancata scabra, del tutto simile a quelli effettuati dai predatori di antichità sepolte.
Continuò a camminare. Percorse esattamente la distanza che si aspettava, quella stessa che in superficie separava la chiesa sconsacrata dalla basilica di San Pietro in Vincoli. Proprio come gli aveva detto Daffo. E più avanzava più si convinceva che gli spari che aveva esploso non fossero stati sentiti fin lì.
Poi iniziò a percepire i primi rumori che non fossero il suo respiro, il suo cuore accelerato, gli scricchiolii delle suole o gli schiocchi della fiamma accanto all’orecchio.
Il cunicolo curvò.
In fondo, lontano all’incirca dieci passi, apparve lo specchio di un’apertura, un rettangolo ricolmo di luce.
Raphael si fermò e spense la torcia soffocandola contro il muro. Poi caricò la balestra. Per sua fortuna, non avrebbe fatto alcun rumore: era un modello a staffa, perciò tendere la corda richiedeva semplicemente un po’ di forza, diversamente dai modelli a mulinello, a martinetto o a leva, più adatti ai campi di battaglia. Puntò la balestra in basso, infilò il piede nella staffa, per tenere l’arco schiacciato al suolo, e armò la corda tirandola verso l’alto fino al punto di aggancio, poi alzò l’arma e mise il dardo sul teniere.
L’operazione richiedeva solo qualche minuto, ma durante un combattimento poteva risultare un tempo eccessivamente lungo. Quindi, anche se dalla faretra legata al suo fianco spuntavano diverse penne, avrebbe fatto bene a contare solo su quell’unico dardo.
Richiamò le dita sotto la chiave di scocco, pronto a premerla, e continuò ad avvicinarsi furtivamente.
Ogni muscolo del suo corpo era teso e duro come la corda che gli passava davanti agli occhi. Adesso mancava un piccolo passo per varcare l’apertura ed entrare nella zona luminosa. Esitò, poi lo fece, restando appostato dietro l’arma, osservando la scena che gli si parava davanti attraverso la tacca di mira. E quando si sporse oltre l’angolo, appena le pupille abbacinate tornarono a dilatarsi, ogni suo muscolo si allentò di colpo.
La visione era difficilmente decifrabile.
Una quantità abnorme di fiamme illuminava a giorno lo spazio interno di una domus romana, delimitato dal peristilio con le sue colonne ancora perfettamente integre, al centro del quale c’era un altare coperto da paramenti di raso nero. Sopra l’ara, una donna vestita solo della propria pelle, con il capo coperto da una testa di capra era costretta a stare in piedi da un tutore, a cui era stata legata come fosse il tronco di una pianta. Due cordicelle sottili e colorate di nero, che si vedevano a stento, le cingevano i polsi e le tenevano le braccia aperte. Ai piedi della donna, un calice. Tutt’intorno, quattordici uomini con tonache di raso di colori diversi, con le ali d’angelo sulla schiena, tutti inginocchiati, e rivolti alla donna con le mani giunte. Uno degli angeli sosteneva una croce di legno, ma capovolta.
Fiamme ovunque, a centinaia, montate su impalcature e moltiplicate da specchi.
La visione era talmente verosimile da mozzare il respiro.
Continuò a strizzare gli occhi increduli.
La scena gli ricordava qualcosa.
Ma cosa?
Dopo un po’ gli venne in mente un’opera pittorica monumentale che conosceva bene per averla vista direttamente nella cattedrale di San Bavone, a Gand, nelle Fiandre: il Polittico dell’Agnello Mistico dei fratelli Jan e Hubert van Eyck.
L’animale, però, era sostituito da una donna con la testa di capra, l’altare era nero, e la croce era tenuta a testa in giù. Per il resto, la somiglianza sembrava voluta e ricercata fin nei dettagli delle vesti e delle luci.
Proprio in linea con l’apertura del cunicolo in cui si trovava Raphael, c’era una costruzione di legno, una sorta di scatola gigantesca dotata di porta con maniglia, posta tra due colonne sotto il porticato. Il punto ideale in cui si sarebbe posizionato un pittore, pensò. E si ricordò della tecnica per catturare la luce, racchiusa nel manoscritto di Leonardo, e della camera oscura, del foro stenopeico, del bitume della Giudea e di tutte le altre stramberie che gli aveva spigato Ariel.
Poteva mai essere?
Tutto suggeriva una risposta affermativa.
Dalla parte diametralmente opposta alla possibile camera oscura, alle spalle dell’altare, Raphael riusciva a scorgere chiaramente la figura di un uomo che si stava avvicinando alla donna.
Non riusciva a vederlo in volto, ma dalla corporatura pensò che potesse essere messer Billi. E poco dopo ne ebbe la certezza.
Il marchese aveva un telo di lino nero appoggiato sulla testa e indossava una tunica bianca, come un antico sacerdote del deserto. Dalla mano destra gli spuntava un oggetto scuro, che a tratti brillava nella luce, come una scheggia di cristallo nero.
«Gioite, fratelli!», esclamò, con tono trionfante. «Questo momento solenne sarà eternato dalla nostra macchina!».
«Il miracolo di Lucifero!», risposero gli angeli in coro.
«Grazie ai nostri progressi, in pochi battiti di ciglia, l’anima di costei e la luce magica di Baphomet saranno assorbiti dallo specchio e vivranno in eterno, per la nostra Chiesa. Lei non morirà, egli vivrà».
«Amen», dissero gli angeli.
La voce toglieva ogni dubbio: era messer Billi.
Spalancava le braccia e rialzava la testa, e cominciava a declamare: «Gloria a Lucifero nell’alto dei cieli, e pace in terra agli uomini di buona volontà…».
Ora Raphael riusciva a vedere meglio l’oggetto che Billi teneva stretto nella mano: una lunga lama nera, che luccicava come fosse fatta di vetro.
«Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo, ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente».
Rabbrividì al pensiero che Billi potesse avere intenzione di conficcarla nel corpo della donna. Ma allo stesso tempo lo sperò: se quei pazzi stavano per ucciderla, significava che lei era ancora viva.
«Signore, Figlio unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del Padre, Stella del Mattino…».
Approfittando del momento di raccoglimento, Raphael entrò nel peristilio.
E intanto teneva la sommità della testa di messer Billi esattamente davanti alla tacca di mira della balestra, in modo che, secondo le leggi della balistica, alla fine di una lieve curva discendente il dardo si sarebbe conficcato nel suo petto.
«Tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi».
Lei era visibilmente addormentata, se non morta. Lo si capiva dalla totale assenza di reazioni, malgrado non fosse possibile vederla in volto. E qualcosa suggeriva a Raphael che sotto la testa di capra ci fosse il viso addormentato di Elena.
Aurora aveva detto di aver sentito la sua voce quella stessa sera, nella chiesa sconsacrata…
«Perché tu solo il Santo, tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo: Lucifero con lo Spirito Santo nella gloria di Dio Padre».
«Amen».
Poi, Billi accostò la lama nera al collo della donna e lanciò un segnale a qualcuno che, a giudicare dalla direzione del suo sguardo, doveva trovarsi all’interno della camera oscura, proprio di fronte a lui.
E a Raphael.
Chi altri poteva esserci dentro la camera oscura, se non l’Anonimo?
Il momento richiedeva una decisione rapida.
Messer Billi era pronto a pungere il collo della vittima sacrificale, ma aveva tutto il corpo proteso di lato, come se fosse in procinto di accendere una miccia e scappare.
Raphael non ebbe difficoltà a immaginare quel che stava per accadere: Billi avrebbe aperto la vena sul collo della donna e si sarebbe scostato rapidamente, così che l’Anonimo potesse catturare la scena con la sua macchina; il fiotto di sangue che fuoriusciva dalla ferita e cadeva nel calice da messa, proprio come nel Polittico dell’Agnello Mistico di van Eyck.
Stava assistendo alla realizzazione di un’opera delirante.
Dentro la casupola di legno sotto il porticato qualcuno lanciò un grido: «Adesso!».
E Billi si accinse a ferire a morte l’agnello sacrificale, il capro espiatorio, la donna, chiunque essa fosse. Lo avrebbe fatto, se l’urlo di Raphael non gli avesse ordinato di fermarsi, se il dardo non fosse volato silenzioso nella luce e non gli avesse colpito il cuore con una precisione che, più che il frutto di un’abilità del tiratore, sembrava in quel momento l’esito di una volontà superiore: mani invisibili guidarono la freccia e la depositarono nel torace di Billi facendolo accasciare mestamente ai piedi dell’altare.
Raphael gettò via la balestra, non c’era tempo per ricaricare: tutti gli angeli si erano alzati in piedi e qualcuno incombeva già su di lui; poi la porta della camera oscura si spalancò bruscamente e ne saltò fuori un uomo armato di una lunga lama.
Non ci fu il tempo di pensare. Raphael si limitò a ripetere per l’ennesima volta e alla cieca la mossa di scherma più adatta alle circostanze, tra le tante che aveva imparato e praticato fino alla nausea. I pochi passi che separavano la lama dell’Anonimo dalla sua testa gli lasciarono tutto il tempo di chinarsi, di estrarre il pugnale dal fodero che aveva legato alla gamba, di compiere una rotazione completa su se stesso per schivare il colpo dell’avversario e di rialzarsi affondandogli una stoccata letale sotto le costole.
Non avrebbe voluto che finisse in quel modo.
Fu quello il suo primo pensiero.
Il secondo fu per la donna. Ma lei non si era accorta di nulla ed era ancora immobile.
Gli angeli fremevano come mosche prese in trappola nel perimetro del peristilio. Nessuno era capace o aveva intenzione di battersi con l’intruso, a quanto sembrava: si agitavano alla ricerca di una via di fuga, con le mani sulla bocca o fra i capelli.
Raphael non si interessò a loro: chiunque fossero, potevano andarsene, pensò, e con un po’ di fortuna avrebbero trovato Arquez e i birri sulla loro via di fuga.
Corse dalla donna. Le liberò i polsi e sentì le sue braccia gelide. Ma il resto del corpo era caldo e palpitante. Le tolse la maschera, lentamente, scoprendo con delicatezza un volto che conosceva bene, di una bellezza ineffabile. Il volto di Elena.
Per fortuna o per sfortuna era lei.
La slegò dal palo e la distese sull’altare, poi ascoltò il suo respiro. Era regolare. Di tanto in tanto emetteva un verso, un piccolo rantolo, segno che stava dormendo un sonno profondo.
Un lampo di felicità attraversò la mente concentrata di Raphael.
La lasciò lì e andò a cercare Ariel. Ispezionò il porticato. Trovò le aperture che immettevano nelle stanze della domus, ma solo una era aperta, le altre non erano state scavate. Entrò. Un’unica camera vuota.
Tornò dall’Anonimo. Lo cercò a terra, nel punto in cui lo aveva colpito poco prima, ma non lo vide. Alcuni angeli, intanto, stavano scappando per l’apertura da cui Raphael era entrato; altri, invece, erano saliti sulle impalcature piene di ceri, e stavano cercando di fuggire attraverso altre aperture che presumibilmente si trovavano al di sopra del colonnato, dalla parte della camera oscura. E tra loro, Raphael vide l’uomo che aveva appena ferito: camminava a malapena, curvo sul proprio addome, trascinato da due angeli.
Il disperato tentativo di salvare il proprio maestro, pensò.
L’Anonimo era spacciato.
E, come se il destino gli avesse letto nel pensiero, lo vide crollare sulle ginocchia, poi cadere scivolando via dalla presa degli angeli, e rovinare giù dall’impalcatura tonfando a terra davanti alla sua camera oscura. Con un gesto impulsivo e disperato, nel precipitare aveva cercato di aggrapparsi a qualcosa e si era trascinato dietro una pioggia di cera fusa e di fiamme.
Raphael si scostò per evitare di esserne investito, poi accorse dall’uomo. Gli si inginocchiò accanto. Lo trovò boccheggiante, con la faccia rivolta al suolo. Lo afferrò per la collottola e lo trascinò più lontano possibile dalle fiamme, che in un attimo stavano iniziando a divampare incontrollate, divorando tutto quello che capitava a tiro, partendo dalle impalcature e dalla camera oscura.
Con la stessa rapidità il fumo cominciava a saturare l’aria rendendola irrespirabile.
L’Anonimo, le punte dei piedi che strisciavano per terra su una scia di sangue, gridava: «Nooo!», e indicava la sua macchina, la sua chiesa. «Spegni il fuoco», supplicò con l’ultimo fiato che gli restava. «Spegni…».
Raphael non ascoltò la sua richiesta; lo adagiò a terra e lo girò verso di sé per guardarlo in volto.
Sorpresa e orrore.
Non è possibile, pensò mentre cadeva in ginocchio. «Tu?»
«Sono io», biascicò l’uomo con un filo di voce, e mosse le dita per chiedergli di avvicinarsi.
Raphael prese coraggio e si chinò su di lui. Sul fantasma.
«Tu sei morto», gli disse.
«Stavolta sì, per davvero», tossicchiò, rigurgitò sangue.
«Resisti. La ferita non è grave, te la caverai».
Ma Raphael sapeva di mentire.
Per anni aveva sognato Leonardo quasi ogni notte, lo aveva visto dimenarsi sul rogo. E per anni aveva sognato a occhi aperti di poterlo rincontrare e abbracciare con il cuore traboccante di gioia.
Invece, adesso che l’impossibile stava accadendo, lui non sentiva altro che dolore, un dolore profondo, un abisso di dolore.
«Perché volevate uccidere quella donna?», gli chiese. «Tu sei un assassino di innocenti!».
Leonardo assentì gemendo. «Tu non puoi capire».
«Cosa c’è da capire? Perché hai fatto tutto questo? Perché non sei morto? Perché non mi hai mai fatto sapere che eri ancora vivo?».
Leonardo aprì la bocca, forse per osare una risposta semplice a questioni troppo complicate, ma si immobilizzò nell’atto di respirare. La sua testa divenne pesante. Gli occhi si spensero.
«Mi hai tradito!», urlò Raphael battendo i pugni sul suo petto. «Perché mi hai fatto questo?». Poi scattò in piedi e continuò a scaricare la rabbia prendendo a calci la parete fino a farsi male. «Ti ho ucciso io!», urlò, disperato. Gli fece vedere le mani sporche del suo sangue. «Guarda cos’hai fatto?».
Avrebbe voluto stendersi a terra e lasciarsi morire accanto a lui.
Il dolore e lo sconforto erano così grandi, che forse Raphael non avrebbe più trovato un motivo per andarsene da lì e per continuare a vivere. Ma la voce di Elena, che chiedeva aiuto gemendo, lo fece scuotere da quello stato di abbandono.
Corse da lei.
Si stava svegliando. Sudava copiosamente. Tossiva. Ormai non c’era più aria lì dentro, il calore stava diventando insopportabile. Se la caricò in spalla e la portò via.
Lo sguardo gli cadde per un attimo sul cadavere di messer Billi; non portava il copriocchio, la cavità dell’orbita era un antro oscuro. Il dardo spuntava per metà dal suo costato, all’altezza del cuore. L’uomo non doveva aver sofferto.
Uscendo da quell’incubo fatto realtà, Raphael si soffermò sulla camera oscura che si stava riducendo in fretta a un grosso tizzone ardente, poi infilò l’apertura da cui era venuto, scavalcò il corpo privo di vita di suo fratello, senza guardarlo, senza odiarlo, e corse più veloce che poté lontano dal calore, incontro all’aria fresca.
Da dietro le spalle gli giunse la voce assonnata e confusa di Elena, che chiedeva cosa stava succedendo e dove si trovava.
«Ce la fai a camminare?», le chiese.
«Sei Raphael?»
«Sono io».
«Ma dove siamo?»
«All’uscita dell’inferno», disse lui. La mise giù. La sorresse aiutandola a ritrovare l’equilibrio. «Stai bene?»
«Sì», rispose lei.
In alto si sentiva la voce di Arquez che lanciava ordini ai birri. «Portateli via tutti!», gridava, eccitato come un cacciatore affamato a cui stessero piovendo miracolosamente le prede dal cielo.
Raphael disse: «Non parlare», poi chiuse anche le proprie labbra affondandole nella pelle liscia e calda di lei. La strinse forte a sé. E cominciò a piangere.