Berlino, Lützowstrasse 49, giovedì 28 maggio 1914

 

 

Mamma carissima, eccomi qui, sana e salva. Prima di disfare i bagagli o fare qualsiasi altra cosa voglio scriverti due righe per dirti che ti voglio bene. Alla stazione ho spedito un telegramma, così saprai subito che nessuno mi ha sbranata durante il viaggio, come sembravi temere. È meraviglioso essere qui, per conto mio, come un giovanotto agli esordi della carriera. Avverto tutta la solennità di questa nuova, grande avventura. Kloster non può ricevermi fino a sabato, ma non appena avrò fatto un bagno e mi sarò data una rassettata tirerò fuori il violino e cercherò di capire se nel tragitto tra Londra e Berlino mi sono dimenticata come si suona. Se solo potessi stare tranquilla che non ti sentirai troppo sola! Mamma adorata, si tratterà solo di un anno, o anche meno, se lavorerò senza risparmiarmi e farò progressi; e, una volta trascorso, un anno non è poi così lungo. Oh, so bene che mi scriverai per dirmi che la cosa non ti dispiace neanche un po’ e che anzi ti fa piacere, ma vedi, non per niente la tua Chris ti ha vissuto tutta la vita accanto; ti conosce molto bene, o perlomeno conosce bene quella parte così cara e sacra di te che hai voluto mostrarle. So che cercherai di essere coraggiosa e tutto quanto, ma una persona può essere molto infelice mentre cerca di essere coraggiosa, e poi ammettiamolo con franchezza: quando non si soffre non c’è bisogno di essere coraggiosi. La cosa peggiore in assoluto è la nostra povertà, altrimenti avresti potuto accompagnarmi; avremmo affittato una casa e ce ne saremmo prese cura assieme durante il mio anno di studio. Beh, povere non lo saremo mai più, mamma. Io ti farò da figlio maschio, da marito e ti amerò con devozione, guadagnerò di che vivere per entrambe e mi prenderò cura di te per sempre. Tu hai badato a me finora, perciò adesso tocca a me. Non per niente sono un colosso di ventidue anni, alto un metro e settantacinque e grazie al cielo straordinariamente dotato per il violino. È una buona cosa che l’estate sia arrivata, o che presto arriverà, così potrai trascorrere molto tempo in giardino, perché so che è il luogo dove sei più felice; e quando giungerà l’inverno ti sarai abituata alla mia assenza, e poi ti si prospetterà l’attesa della primavera, e in primavera io tornerò a casa, e tutto sarà finito. Allora comincerò a dare concerti e a guadagnare, così avremo la casetta a Londra che abbiamo sempre sognato, e anche il nostro cottage, dopo di che saremo felici per sempre. Tutto sommato non è poi così male che ognuna abbia solo l’altra al mondo, perché così ognuna riceve tutto l’amore dell’altra in forma concentrata. Diversamente finirebbe spalmato in uno strato sottile su una dozzina di persone tra mariti, fratelli e altri. Nonostante questo, vorrei tanto che papà fosse ancora vivo e accanto a te.

La pensione è al quarto e ultimo piano di un edificio senza ascensore, perciò sono arrivata affannata, oltre che terribilmente malconcia e con gli abiti spiegazzati per la notte passata sul sedile in treno. Quando ho suonato è venuta ad aprirmi Frau Berg in persona: appena mi ha vista ha alzato al cielo le sue mani gigantesche e ha esclamato: «Herr Gott!»

«Nicht wahr?» ho risposto convenendo con lei, sapendo perfettamente di avere un aspetto terribile.

Poi, mentre me ne stavo lì sull’uscio tenendo stretta la custodia del violino e l’ombrello e il soprabito e un sacchetto di carta con dentro quel che restava dei biscotti allo zenzero con cui mi sono consolata durante la veglia notturna, mi ha detto che, non sapendo esattamente quando aspettarmi, aveva deciso di non aspettarmi affatto, avendo osservato che le cose che non ti aspetti accadono, mentre quelle che ti aspetti non accadono; inoltre è una donna molto indaffarata, e le donne indaffarate non sprecano comunque tempo ad aspettare chicchessia. Dopodiché mi ha detto «Entrate».

«Seien Sie willkommen, mein Fräulein»1 ha proseguito con una sorta di austera cordialità allungando entrambe le mani per stringere le mie in un accogliente saluto quando ho varcato la soglia; ma essendo entrambe occupate ha afferrato quel che le è riuscito, ossia il sacchetto dei biscotti, che si è rotto.

«Herr Gott!» ha esclamato di nuovo Frau Berg mentre i biscotti rotolavano dappertutto sul pavimento di legno del corridoio. «Herr Gott, die schönen Kakes!»2 E si è messa a inseguirli; allora io ho posato le mie cose su una sedia e mi sono unita all’inseguimento. Ci crederesti che i biscotti sono usciti dagli angoli decisamente più puliti di quando ci sono entrati? Il pavimento ha pulito i biscotti, diversamente da Londra, dove i biscotti avrebbero pulito il pavimento, perciò puoi stare tranquilla, il posto è davvero lindo.

È una buona cosa che abbia imparato il tedesco fin da piccola poiché, per quanto al momento sia talmente arrugginito da consentirmi di pronunciare solo cose quali Nicht wahr, capisco tutto, e sono sicura che riuscirò a cavarmela senza problemi per almeno una settimana ricorrendo alle poche parole che in qualche modo mi sono rimaste in testa. Ho scoperto che sono: nicht wahr, wundervoll, natürlich, herrlich, ich gratuliere e doch.3

L’unica che evochi anche lontanamente la litigiosità, l’acidità, o una qualsiasi caratteristica che certo non ingrazia gli stranieri agli occhi dei nativi è doch.

La mia stanza sembra molto pulita; è spaziosa e confortevole, e sono certa che sarò felice di lavorarvi. Non riesco a dirti quanto mi elettrizzi la prospettiva di trovarmi qui per studiare sotto la guida del grande Kloster! E tu, mia diletta, adorata madre, che hai fatto ogni economia, privandoti di tutto, per darmi questa opportunità! Oh, se studierò! Studierò e ancora studierò. E nel giro di un anno, anzi no, non chiamiamolo un anno, diciamo tra pochi mesi, tornerò per non ripartire mai più, portando con me il mio raccolto. Spero tanto di mietere un raccolto, una messe bella e abbondante, da deporre ai tuoi piedi. Ora corro giù a imbucare la lettera. Ho visto una cassetta per la posta qualche metro più in là nella via. Poi mi farò un bagno e dormirò un poco, credo. Sono solo le nove del mattino, perciò ho davanti a me ancora ore e ore di questa giornata: suonerò nel pomeriggio e questa sera ti scriverò di nuovo. Perciò a tra poche ore, mamma carissima.

La tua felice Chris

 

 

28 maggio, sera

 

 

Qui è tutto molto buffo, ma decisamente confortevole. Non devi in nessun modo preoccuparti per il mio benessere, carissima madre. Ho cibo in abbondanza, e se anche non sono circondata dal lusso sprofondo tra le piume. Dovresti vedere quante ce ne sono nella trapunta di rasatello rosso scuro distesa sul mio letto! Dato che sei già stata in Germania per tentare di far curare il povero papà in tutti quei Kurorten, puoi ben immaginare l’aspetto bizzarro della mia camera da letto: sembra un salotto austero e solenne dentro cui a qualcuno sia saltato il ghiribizzo di metterci un letto. È una stanza molto alta: ha il soffitto molto alto, con gli angoli affrescati con nuvole azzurre e rosei cherubini – ah, inconfondibili tedeschi – ha le porte, ben tre, molto alte e le finestre altissime, addirittura due. Queste sono schermate da lunghi tendoni scuri di reps o altro tessuto tipo lana, oltre che da tendine di pizzo color caffè; in un angolo c’è una grande stufa di maiolica verde, e le pareti sono rivestite da una tappezzeria marrone scuro con un motivo a fiori dorati. In mezzo al soffitto, al centro di una rosetta di gesso colorato, è appeso un elaborato lampadario, tutto spirali e dorature, che però non si accende; quando fa buio Wanda, la cameriera tuttofare, mi porta una lampada a petrolio con il paralume di vetro verde. Il letto è corto e sormontato da una trapunta di rasatello rosso scuro cui il lenzuolo è fissato lungo i lati per mezzo di bottoni, un cuscino sistemato talmente alto sopra un rialzo infilato sotto il materasso che mi toccherà dormire in posizione quasi seduta, e, come tocco finale, il sacco di piume, che svolgerà alla perfezione il compito di tenermi ancorata al materasso quando avrò gli incubi. In un angolo, con l’aria di essere frutto di un ripensamento ancora più del letto, c’è un piccolo portacatino, e affissa alla parete retrostante, sopra la parte di tappezzeria che potrei schizzare la domenica mattina, quando si suppone debba lavarmi a dovere, una pezza di lino grigio con un motto ricamato in lana blu, Eigenes Heerd, Ist Goldes Werth,4 che è una frase carina se la prendi con il giusto spirito, altrimenti non lo è. Ma il sentimento è molto bello, non trovi? Sembra particolarmente di buon senso quando ci si trova in una stanza come questa, in un paese straniero. E la ragione per cui sono qui e per cui mi metterò al lavoro è proprio un eigenes Heerd, con noi due a riscaldarci felicemente i piedi a entrambi i lati del parafuoco. Non sarà meraviglioso, madre carissima, ritrovarsi di nuovo assieme in una casa tutta nostra? Con la possibilità di chiuderci dentro, di sbattere la porta in faccia al mondo e dire a tutti: «Oh, là».

Appeso a un chiodo sopra il motto eigenes Heerd c’è un piccolo specchio, collocato così in alto che se non avesse trovato in me una sua pari in quanto ad altezza non sarei in grado di vedermi altro che le sopracciglia. Mentre nella posizione in cui è riesco a vedermi fino al mento. Perciò, finché abiterò in Lützowstrasse, non saprò mai quale sarà il mio aspetto da quel punto in giù. All’esterno, molto più in basso dato che l’edificio è composto da una successione verticale di alte stanze e io mi trovo proprio in cima, i tram percorrono la strada quasi senza sosta, scampanellando. Sembrano molto più aggressivi di qualsiasi altro tram che abbia avuto modo di sentire, oppure chissà, forse questa sera ho le orecchie troppo stanche. Ma ci sono delle doppie finestre, che quando mi eserciterò terranno fuori il rumore esterno e dentro quello interno. Se Kloster me lo permetterà ho intenzione di esercitarmi per otto ore al giorno, anche dodici, se necessario, ragion per cui ho deciso di scriverti solo la domenica; questo perché se non mi do delle regole ferree finirei per scriverti ogni giorno, e in tal caso che ne sarebbe di quelle otto ore? Inizierò da domani, con l’intento di presentami sabato al cospetto del grand’uomo il più preparata possibile. Al riguardo sono terribilmente nervosa e intimorita perché, pur consapevole che in qualche modo e per non so quali vie ho ricevuto questo talento per suonare il violino, così tanto dipende da quell’incontro. Sa il cielo da dove è arrivata questa mia dote, se si pensa che, malgrado tu sia un’ascoltatrice di prim’ordine, non hai mai sviluppato un particolare talento per suonare uno strumento, dico bene? Quanto a papà, preferiva di certo stare in una stanza dove non ci fosse musica. Ricordi quando ci diceva che non riusciva a capire da quale estremità del violino uscissero i suoni, e che qualunque fosse la risposta avrebbe preferito che di suoni non ne uscissero affatto? Ma che benedizione, che gran benedizione e via d’uscita alle nostre difficoltà che io possieda almeno questa dote che forse mi permetterà di combinare qualcosa di buono. Di questo ringrazio Dio dal più profondo del cuore.

Qui con me ci sono altri quattro pensionanti: tre tedeschi, di cui due donne, e una svedese. Ci sono poi altre cinque persone che ogni giorno vengono da fuori per pranzare, tutti tedeschi, di cui quattro uomini. Per pranzare utilizzano le così dette Abonnementskarten, un tanto al mese. Frau Berg gestisce un «ristoro a menù fisso» per il mezzogiorno – come pubblicizza un cartello appeso all’inferriata sulla strada – e offre il pranzo a 1 marco e 25 pfennig con abbonamento mensile, 1 marco e 50 pfennig se pagato di volta in volta. Perciò tutti optano per l’abbonamento mensile, e credo che sarà piuttosto divertente. Oggi, con una certa solennità, sono stata presentata ai commensali, prima collettivamente da parte di Frau Berg come «Unserer junge englische Gast, Mees...»5 no, non riesco a scrivere come ha storpiato Cholmondeley, ma un giorno o l’altro ci proverò; capisco che per lei è penoso che la sua unica ospite inglese, che avrebbe potuto facilmente essere una Evans, una Dobbs o qualcosa di semplice, abbia un nome che scritto sembra lungo un metro ma pronunciato solo un paio di centimetri, dopodiché mi sono stati presentati tutti loro, uno a uno. Tutti si sono prodotti in eleganti e rigidi inchini. Ho dedotto che qualcuno è studente; alcuni, suppongo, stanno qui perché non hanno casa, relitti arenati sulle spiagge della vita; altri sono impiegati che lavorano in uffici nelle vicinanze e vengono qui per pranzo; e uno, il più vecchio degli avventori, quello tenuto in più alta considerazione, è un avvocato di nome dottor qualcosa. Immagino si sentano intimiditi dal fatto che sono straniera, dato che erano tutti molto silenziosi e impacciati, ma sono certa che presto si abitueranno a me, infatti ricordi che una volta mi hai rimproverata perché tutti si abituano a me fin troppo in fretta? Essendo arrivata per ultima mi è toccato il posto in fondo al tavolo, nella zona più buia vicino alla porta; guardando la tavola illuminata ho trovato davvero impressionante la concentrazione, la meticolosità, la diligenza e la perizia con cui le due file di commensali si destreggiavano con cose della consistenza del sugo, sostanze mobili, sfuggenti, impossibili da acchiappare senza un po’ di lotta. Ebbene, se riuscirò ad applicarmi agli esercizi di violino con anche solo la metà di quella stessa bravura e pazienza sarò a casa nel giro di sei mesi!

Ho un gran sonno. Devo concludere e infilarmi a letto. Questa mattina ho poi dormito, ma solo per un’ora o due; credo fossi troppo eccitata al pensiero di essere davvero qui per riuscire ad assopirmi. Ora sento gli occhi che mi si chiudono, ma detesto l’idea di terminare la lettera perché non scriverò più fino a domenica, per cui ho davanti due interi giorni, e tu sai bene, mamma carissima, che l’unico momento in cui mi sentirò vicina a te sarà quando ti parlerò per lettera. Ma, semplicemente, non riesco più a tenere gli occhi aperti, perciò buonanotte e a domenica. Con tutto l’amore del mio cuore.

La tua Chris

 

 

La cena è alle otto. Questa sera abbiamo mangiato aringa fredda, patate fritte e tè. Pensi che dopo un pasto del genere io sia ancora in grado di sognare qualcuno come te?

 

 

 

Domenica, 31 maggio 1914

 

 

Mamma adorata,

da quando ho imbucato la lettera l’altro ieri ho provato almeno sei volte al giorno la voglia irresistibile di scriverti, ma le regole sono regole – sei d’accordo? – soprattutto visto che sono stata io a stabilirle; diversamente le poverette perderebbero ogni potere, mentre è necessario preservarle. Non sarei più capace di guardarmi in faccia se già da subito venissi meno alle mie stesse regole, ma ti ho pensato e amato in ogni singolo istante... sapessi quanto!

Ebbene, sono molto felice. Te lo dico subito, così eliminiamo subito ogni tua preoccupazione. Ho visto Kloster, ho suonato davanti a lui, ed è stato straordinariamente gentile e incoraggiante. Ha detto le stesse cose che ha detto Ysaye a Londra, e anche Joachim quand’ero piccola e ho suonato per lui il mio primo brano in piedi sulla tavola da pranzo in Eccleston Square mentre fissavo affascinata i peli della sua barba, non essendo mai stata tanto vicino a una barba prima di allora. Perciò ho camminato a un palmo da terra e a testa orgogliosamente alta. Chi non l’avrebbe fatto? Kloster è un ometto tondo, rubizzo, l’essere più glabro che io abbia mai visto; è totalmente calvo, non ha quasi sopracciglia, ed è per giunta completamente rasato. È una buffa creatura, ma solo finché non cominci a suonare il violino assieme a lui, e allora...! Un anno vicino a lui farà miracoli su di me. Anche lui sostiene la stessa cosa. Quando ho finito di suonare, era il Concerto in sol minore di Bach, mi ha stretto la mano con solennità e mi ha detto – tu cosa pensi mi abbia detto? – «Mia Fräulein, quando siete entrata ho pensato: “Guarda guarda, un’altra Mees inglese tutta acqua e sapone, graziosa, ricca e nient’affatto dotata, che durante le lezioni non farà altro che sprecare il mio tempo e i suoi soldi”. Ora invece mi rendo conto di avere a che fare con un’artista. Mia Fräulein, ich gratuliere». Dopodiché ha accennato il più buffo e solenne degli inchini. Credevo che sarei morta per l’orgoglio.

Non so come abbia potuto reputarmi ricca, considerato quanto sono logori i miei abiti, specialmente il pullover azzurro, che metto perché particolarmente comodo per suonare; senonché, come ho avuto modo di notare, qui la gente sembra convinta che tutti gli inglesi siano ricchi, o abbiano comunque più soldi di quanto sia giusto. Allora gli ho parlato della nostra incresciosa situazione finanziaria, gli ho detto che se non gli dispiaceva dare un’occhiata al mio maglione avrebbe subito capito senza bisogno di altre parole quanto per me sia imperativo guadagnare del denaro. Ho aggiunto che anche mia madre ne porta uno simile, soltanto nero, che deve procurarsene uno nuovo prima del prossimo inverno e che io sono l’unica che possa farsene carico.

Allora ha fatto un altro rapido inchino (parla inglese, perciò ho potuto dirgli un sacco di cose) e ha risposto: «Mia Fräulein, non siate in ansia. La vostra Frau Mamma avrà il suo pullover. Le vostre dita sono piene di quella cosa che si trasforma istantaneamente in oro».

Ecco. Che ne dici, mia adorata? Mi ha detto che devo mettermi d’impegno e lavorare come una schiava, esercitarmi con sozusagen verteufelte Unermüdlichkeit,6 per usare le sue parole, e se riuscirò a sviluppare nel giusto modo ciò che lui definisce il mio raro talento (ti sto riportando tutto alla lettera, e tu sai, carissima mamma, che non è per sciocca vanità che sto a ripetere queste cose; ho superato da un pezzo lo stadio della vanità, sono soltanto incredula e riconoscente che sia toccata proprio a me questa dote per suonare il violino) per la fine dell’anno, ha dichiarato, sarò già impegnata a dare concerti in tutta Europa e a guadagnare così tanto da non doverci mai più preoccupare per il denaro. Non vedo l’ora di raggiungere quella meravigliosa condizione.

Puoi immaginarti lo stato d’animo con cui ho sceso le scale e percorso la Potsdamerstrasse fino a casa. Ora sento che saprò tener testa a chiunque. La cosa potrà lasciarti perplessa, ma dopo averti dato una notizia tanto meravigliosa e averti detto quanto sono felice non voglio nasconderti che da Frau Berg mi sono sentita piuttosto derelitta. Sola. Isolata. Con l’oscuro sospetto di non piacere agli altri.

Vedi, Kloster non ha potuto ricevermi prima di ieri, sabato, e anche allora non prima del pomeriggio, perciò ho passato tutto il venerdì e buona parte del sabato senza sapere cosa fare, e per quanto sia arrivata qui aspettandomi di trovare tutti molto affascinanti e gentili, un po’ per volta mi sono resa conto che, malgrado mi sia ripetuta per un bel pezzo che si trattava di pure fantasie, io non piaccio a Frau Berg, agli altri pensionanti e a tutti i Mittagsgäste.7 Ebbene, l’avrei accettato con una sorta di afflitta rassegnazione come conseguenza della mia antipatia, e avrei cercato di essere più simpatica – pensa che brutto spettacolo, tua figlia che si sforza con tutta se stessa di ammantarsi di un’orribile amabilità per conquistarsi le simpatie altrui – ma a quanto pare non piaccio nemmeno alle persone che incontro per strada. Non si dimostrano per niente amichevoli. Anzi, sono sgarbate. Eppure non possono trovarmi antipatica, dato che non mi conoscono, ma perché debbano comportarsi in modo tanto orribile proprio non riesco a immaginarlo.

Naturalmente per strada l’ideale sarebbe essere invisibili, non essere neppure notati. Questa sarebbe la cosa migliore. E quella che viene subito dopo sarebbe essere trattati con gentilezza, con la stessa paziente cortesia dei poliziotti di Londra, o di tutti coloro ai quali chiediamo un’indicazione in Inghilterra, in Italia o in Francia. Nell’incrociarti, invece, gli uomini di Berlino pronunciano sottovoce la parola Engländerin come un insulto, oppure ti mormorano nell’orecchio – sembrano avere una vera e propria passione per pronunciare o sibilare ros bif, un termine che paiono trovare sia offensivo che divertente – mentre le donne ti scrutano da cima a fondo mormorando anch’esse Engländerin tra sé.

Non mi avevi mai detto che i tedeschi sono così sgarbati; mi viene da chiedermi se lo siano così tanto solo a Berlino. Lo scorso venerdì, tra un’esercitazione e l’altra, dopo la prima spedizione esplorativa attraverso il Tiergarten e lungo l’Unter den Linden in direzione dei musei, mi sono detta che è meglio perdersi piuttosto che chiedere indicazioni a qualcuno. Quanto ai poliziotti, ovvero coloro cui mi viene spontaneo rivolgermi in caso di bisogno, abituata come sono, fin da che serbo memoria, a rivolgermi a loro in cerca di conforto e assistenza, beh, non si sono nemmeno degnati di rispondermi. Sono rimasti lì impalati a fissarmi con espressione beffarda. E sono certa che mi hanno capita, dato che mi sono preparata prima le domande. Avrei voluto prenderli a schiaffi, proprio io che detesto l’idea di mettere le mani addosso a chicchessia; io, che tu hai spesso rimproverato di essere troppo amichevole. Ma persino il più mansueto degli agnelli, un agnello che trasuda latte e miele, si trasformerebbe in un leone se i suoi educati approcci fossero accolti con tale ingiustificata villania. Ho avuto l’indignata certezza che queste persone, tutte quante, i poliziotti e i cittadini da loro controllati, avrebbero risposto alla stessa domanda con inappuntabile cortesia se solo fossi stata un ufficiale, o in compagnia di un ufficiale. Quando si avvicina un ufficiale si prostrano; e una donna in compagnia di un ufficiale, se solo lo volesse, potrebbe usarli come zerbino. Sono stati sgarbati semplicemente perché sono una donna, e perché ero sola. Così, per quanto abbia parlato con la lingua degli angeli, per citare san Paolo, cosa che mi sono premurata di fare, anche se ciò significa ostentare una smisurata mellifluità, non è servito ugualmente a nulla.

Ecco perché quand’ero fuori, ed essere per strada mi faceva sentire così stranamente appariscente e detestata, la consapevolezza che l’unica alternativa era tornare alla malcelata ostilità della pensione mi ha piuttosto demoralizzata. Adesso posso dirtelo, data la gioia provata poi. Tanto la cosa non ha più importanza. Ora mi sento innalzata e benedetta. Anzi, sento che sul lungo termine avrò assai più di quanto mi sarebbe toccato, e tenendo segrete e ben strette nel cuore le parole di Kloster vengo posta al di sopra del consueto affanno che è l’esistenza di gran parte delle donne, le quali devono spremersi per ricavare di che vivere senza tutto sommato avere qualcosa di veramente speciale da spremere. Ricevere questo talento è stata la fortuna più grande, meravigliosa e fulgida. Lavorerò senza sosta. E quella mia stanza così assurda e cupa si trasformerà in un tempio di felicità: non smetterò di suonare Bach fino a che non sarà diventata meravigliosa.

Non so perché, ma quando parlo della musica penso subito a Bach. Quando penso alla musica è lui il primo al quale mi viene da pensare spontaneamente, proprio come il mio pensiero corre subito a Wordsworth quando penso alla poesia. So che nessuno dei due è il più grande, benché Bach sia certo da annoverare tra gli eccelsi, però sono quelli che più amo. Che mondo, dolce mammina! Talmente pieno di bellezza. E poi c’è il duro lavoro, che dà a tutto un sapore tanto buono. Sai, bisogna avere del duro lavoro da svolgere, ho scoperto. Penso che il mondo sia splendido, un mondo pieno di gloria creata nel passato, che ci illumina mentre continuiamo a crearne. Basta solo escludere quelle parti del presente che non ci piacciono per vederlo con chiarezza ed essere felici. Io mi chiudo in questa camera, questa camera da letto brutta e tetra, con il suo assurdo mobilio da museo e tiro fuori il violino: all’improvviso diventa un luogo palpitante di luce e suono, la luce e il suono delle cose belle e sublimi che grandi uomini hanno sentito e pensato tanto tempo fa. Perciò chi se ne importa se i pensionanti di Frau Berg non mi rivolgono la parola e se i poliziotti di Berlino e le persone per strada sono sgarbati? Riesco persino a dimenticare i lunghi chilometri e le ore che mi dividono da te, i chilometri e le ore infinite che separano il luogo dove io sono da quello dove tu sei, e sono felice, oh, se lo sono! Sono così felice che piangerei di gioia. Lo farei davvero, credo, se non rovinasse la musica.

Ecco, c’è Wanda, venuta a dirmi che la cena è pronta. Per farlo, dà un colpo alla porta con la zuppiera mentre la trasporta lungo il corridoio verso la sala da pranzo, e annuncia un laconico: «Essen».

Terminerò la lettera questa sera.

 

 

Ora di andare a letto

 

 

Volevo darti la buonanotte e dirti, nel caso non l’avessi notato, quanto bene ti vuole tua figlia. La domenica non mi esercito, per via di quello che Frau Berg definisce Hausruhe, e dunque mi ritrovo con del tempo per pensare, e resto sgomenta, madre carissima, davanti al vuoto della mia vita senza di te. È come se una parte di me fosse stata strappata via, e io debba arrabattarmi come posso con il poco rimasto. Ed è bene che lo avverta con tanta acutezza, perché lavorerò ancor più duramente per accorciare i tempi. Sarà il duro lavoro il ponte che mi permetterà di tornare da te. Vedi, sei l’unico essere umano al mondo che mi ama, l’unico veramente e profondamente interessato a me, che si preoccupa se sto male e si compiace quando sono felice. No, compiacersi è un termine troppo blando; dovrei invece dire esultare. È così meravigliosa la tua felicità quando mi vedi felice, così commovente. Quando ci penso mi sento sciogliere per l’amore e la gratitudine, e così pure quando penso alla tua bontà per avermi permesso di fare questo viaggio, di venire qui per realizzare il mio sogno di studiare con Kloster quando sapevi benissimo che per te avrebbe significato una sfilza di mesi tristi e solitari. Perdonami se mi abbandono al sentimentalismo; anzi, so già che lo farai, perciò non ho bisogno di chiedertelo. Ecco cosa mi piace tanto di te: che capisci sempre, che non te la prendi mai. Io posso parlarti di tutto, e anche se sono insensata, anche se sono sciocca – o cieca, irrazionale, ridicola, cocciuta o petulante, scegli pure tu, mammina cara, dato che ricorderai sicuramente molte occasioni in cui ho dato prova di tutto questo – tu mi guardi con quegli occhi così dolci e sagaci, da cui trapela sempre un accenno di riso, pronunci qualche parola a intendere che stai liquidando quel molesto torrente di futilità, e con intelligenza e ammirevole distacco vai in cerca di una ragione. E non appena l’hai trovata comprendi e perdoni; perché naturalmente c’è sempre un motivo per cui una persona normale, non un demonio, è antipatica. Sono sicura che è per questo che siamo state così felici insieme, perché non hai mai preso come un’offesa personale qualcosa di sciocco o di sgarbato da me detto o fatto. Hai sempre capito che si trattava solo di stupidaggini senza importanza, come dei bubboni, malesseri passeggeri, mai e poi mai veramente intese dalla tua Chris che ti vuole bene.

A presto, mamma carissima. L’ora di andare a dormire è passata da un pezzo. Domani farò la mia prima lezione regolare con Kloster. E domani dovrebbe arrivarmi una tua lettera. Ti riguarderai, me lo prometti? Non mi lascerai consumare dall’ansia con tutta la distanza che ci separa, vero? Dall’ansia, e dall’insicurezza.

La tua Chris

 

 

 

Berlino, martedì 2 giugno 1914

 

 

Cara mamma, ho appena ricevuto due tue lettere in una volta sola, entrambe meravigliosamente lunghe. Non posso aspettare fino a domenica per dirti quanto mi abbiano reso felice e ho pertanto deciso di sperperare venti pfennig soltanto per dirtelo. Non sto contravvenendo alle regole scrivendoti in un giorno che non è domenica, perché non sto realmente scrivendo. Già, perché questa non è una lettera, è un bacio. Sono lieta di sapere che stai bene e che non te la passi troppo male. Anch’io sto bene, e sono felice di essere così occupata, oh, non puoi sapere quanto. Studio più di quanto abbia mai fatto in vita mia, e Kloster è contento di me. Ora che ho ricevuto le tue lettere non mi sembra rimanga più molto da desiderare al mondo, pertanto vedimi camminare a un palmo da terra. Arrivederci a domenica, mia adorata.

Chris

 

 

Oh, devo anche dirti che ieri, durante la lezione, ho suonato il Concerto in fa minore di Ernst – hai presente, vero, quel brano pieno di virtuosismi e fuochi d’artificio? – con Kloster al piano che ogni tanto si inseriva con brevi interventi dell’orchestra perché voleva vedere come me la cavavo con la ginnastica. Quando ho finito si è messo a ridere, mi ha dato qualche colpetto sulla spalla e ha detto «Ottime acrobazie. Ora ne faremo delle altre. Ci dedicheremo alla vera musica». E mi ha detto di suonargli ciò che riuscivo della Ciaccona di Bach.

Che felicità, mamma. Essere guidata da Kloster tra le meraviglie di Bach era come dare la mano a un grande angelo e lasciarsi guidare per il paradiso.

 

 

 

Berlino, 7 giugno 1914

 

 

La domenica mattina, madre carissima, apro gli occhi e subito penso che è arrivata la giornata da trascorrere con te. Fremo d’impazienza durante la colazione e per tutto il tempo necessario ad arrivare alla fine di tutti quei caffè bevuti in una tazza così spessa che, per quanto mi sforzi di starci attenta, qualche goccia finisce sempre per scivolare giù lungo quella che, se l’avessi, sarebbe la mia barba. Ingurgito panini fin quasi a strozzarmi, rovesciando tutto per la fretta di correre via e chiacchierare con te. Ieri mi è arrivata un’altra tua lettera; quando Hilda Seeberg, una giovane studentessa d’arte che sta qui a pensione, mi ha incontrata nel corridoio dopo che l’avevo letta nella mia camera, mi ha detto: «Avete ricevuto una lettera dalla vostra Frau Mutter, nicht?» Come vedi, le tue lettere hanno il potere di illuminarmi il viso.

E vedi di non preoccuparti per il poco esercizio fisico. Perché faccio una lunga passeggiata ogni giorno, subito dopo pranzo, una bella camminata a passo sostenuto, che mi fa sudare, al Tiergarten. Il tempo è bello, e immagino che Berlino appaia nella sua veste migliore, anche se dopo Londra non posso dire che mi sembri questo gran che. È priva di mistero, di atmosfera, ti butta tutto in faccia senza pudore. Ha tutto quello che dovrebbe avere una città: edifici pubblici, statue, fontane, parchi e ampie strade, eppure dà la stessa sensazione di calore e comfort del più moderno degli ospizi. Sembra sia stata disinfettata, e ovunque vai non riesci a sfuggire a quella sgradevole sensazione di igiene maniacale.

A cena non parlano che di quanto sia bella e perfetta, finché mi si chiudono gli occhi dal sonno. Sai, no, come si finisce per cascare dal sonno quando la conversazione è noiosa. Adesso hanno abbandonato il loro mutismo per passare all’estremo opposto: se prima non mi consideravano nemmeno ora mi parlano tutti quanti assieme. Continuano a ripetermi all’infinito che mi trovo nella più bella città del mondo. Non puoi nemmeno immaginare la foga e la tenacia di questi pensionanti tedeschi quando si tratta di elogiare ciò che è loro e criticare ciò che non lo è. Sono ridicoli ed egocentrici. Dicono, per esempio, che non ci sono parole per descrivere quanto sia spaventosa Londra, dopo di che mi guardano con aria di sfida, come se avessero insultato un qualche mio personale difetto e volessero darmi a intendere di non avere il minimo rimorso. Criticano le brutture dei quartieri poveri e degradati come se ce li avessi in faccia. Me li descrivono con aria pietosa, spiegandomi quali terribili orrori siano, e aggiungono come non ci si possa ritenere degni – parlano in termini generali di Inghilterra, ma i loro modi non lasciano il minimo dubbio che si riferiscono a me – di appartenere a quella società europea che ha rispetto di sé fintanto che simili luoghi, simili brutture, non siano cancellati una volta per tutte.

L’altro giorno si sono premurati di assicurarmi che l’Inghilterra è inadatta a intrattenere relazioni politiche con qualsiasi altra nazione rispettabile, ma hanno aggiunto, producendosi in una serie di rigidi inchini a me rivolti, che a volte i singoli abitanti di quel paese così meschino e materialistico non sono privi di amabilità, specialmente se il soggetto in questione per miracolo non fa mostra di quell’atteggiamento superbo e altezzoso che perlopiù caratterizza lo sfortunato popolo. «Sie sind so hochnäsig»8 ha gridato l’impiegato di banca seduto di fronte a me puntando un dito accusatore nella mia direzione; per un istante sono rimasta così sbigottita che ho creduto che qualcosa di terribile fosse successo al mio naso, e la mano è salita a toccarlo in preda all’ansia. Allora sono scoppiati a ridere, ed è stato dopo questo episodio che, nel parlare, ora lasciano cadere qua e là qualche vaga concessione di amabilità individuale.

Mentre si svolge questo genere di conversazione – e si svolge a ogni pasto, ora che nei miei confronti hanno superato quello stadio iniziale di gelida indifferenza – me ne sto composta sulla sedia e cerco di mostrarmi briosa e di far sfoggio delle sei parole di tedesco che conosco non appena mi si presenta la possibilità. Pensa, la tua povera Chris che tenta di mostrarsi briosa davanti a undici tedeschi, anzi no, dieci, perché l’undicesimo è una svedese che non apre mai bocca. Dieci tedeschi, tra cui Frau Berg, che fissano su di me il loro sguardo carico di riprovazione e mi spiegano all’unisono quanto sia orribile il mio paese. Mi chiedo se anche nelle pensioni di Londra si usi spiegare ai pensionanti tedeschi che razza di paese orribile sia la Germania. Io credo di no. E vorrei che la smettessero una buona volta di starmi addosso con la guerra anglo-boera. Ho cercato di spiegare che ai tempi in cui fu combattuta ero solo una bimbetta, ma evidentemente sono ugualmente determinati a ritenermi la diretta responsabile. Sapessi le dita accusatrici che si sono levate su di me attorno al tavolo per via della guerra anglo-boera! Me le puntano addosso, le agitano e mi raccontano le cose terribili che hanno fatto gli inglesi. Quando chiedo loro come fanno a saperle, mi rispondono che sono sui giornali; e quando domando su quali giornali, mi rispondono sui loro. Se gli chiedo come fanno a sapere che sono vere, mi rispondono che lo sono di sicuro, essendo sui giornali. Perciò eccoci tornati al punto di partenza. Se si verifica il peggio passo all’inglese, e loro mi stanno dietro a fatica.

La loro ostilità verso l’Inghilterra è davvero molto buffa, proprio come la curiosa, riluttante e ciò nondimeno intensa ammirazione che a essa si accompagna. Mi fa venire in mente una ragazza che non riesce a farsi notare da un uomo che le piace. Lui è indifferente, e tanta più indifferenza mostra tanto più esasperata lei diventa; è l’esasperazione che nasce dall’amarezza dell’amore frustrato. Un giorno, a pranzo, dopo che tutti si erano accaniti contro di me, questo pensiero mi è balenato in testa sotto forma di spiegazione, così ho esclamato in inglese: «Ehi, ma voi siete innamorati di noi!»

Venti occhi sbarrati si sono fissati su di me, dapprima diffidenti, senza comprendere, poi esprimendo un orrore che andava via via crescendo.

«Innamorati di voi? Innamorati dell’Inghilterra?» ha esclamato Frau Berg, con il coltello da scalco sospeso in aria nel fissarmi. «Nein, aber so was!»9 E con un tonfo ha calato entrambi i pesanti pugni, coltello e tutto quanto, sulla tavola.

Mi sono detta che, essendomi lanciata in modo così avventato, ora avrei dovuto tener loro testa, e ho cercato di prendere coraggio al pensiero di tutto il sangue dei Cholmondeley che mi scorre nelle vene, per non parlare di quei tuoi parenti che pare abbiano combattuto a fianco del Principe Nero; così, pur desiderando che fossimo più d’uno, invece che io sola, ho controbattuto con coraggio e ostinazione: «Perdutamente».

Non puoi sapere quanto se la siano presa. Hanno iniziato a parlare tutti assieme, a voce alta. Erano arrabbiatissimi. Allora ho rimpianto di avere aperto bocca, perché spiegare quella teoria con il mio tedesco zoppicante era difficile, così come continuare a sorridere e a comportarsi come se tutti quanti non fossero offensivi, perché non credo che volessero davvero esserlo, e perché temevo che se avessi mostrato il minimo accenno di crederlo io stessa si sarebbero accorti che lo erano per davvero, e la cosa li avrebbe messi terribilmente a disagio, e la situazione sarebbe diventata, per usare una loro parola, peinlich.

Quattro commensali del ristoro a menù fisso sono uomini, e così pure uno dei pensionanti; questi cinque, assieme a Frau Berg, erano i più accaniti. Si lanciavano in esclamazioni del tipo: «Nein, so was!» e «Diese englische Hochmut!», e in parole come unerhört;10 poi uno di loro, chiamato Herr Doktor Krummlaut, vedovo, un avvocato tenuto in alta considerazione, si è staccato dal coro e con aria paziente mi ha tenuto un lungo discorso, dicendomi quanto fossero tutti dispiaciuti di vedere una giovane donna di tale talento (ha fatto un inchino, io altrettanto) – «Oh, sì» ha detto sollevando una mano come a voler arrestare qualche pudica obiezione da parte mia, se non che io non stavo per avanzarne alcuna – perché del mio talento aveva sentito parlare, e non solo una giovane donna di talento ma anche, non voleva trattenersi dal dire – e si è detto certo che i suoi colleghi attorno alla tavola non si sarebbero a loro volta trattenuti, qualora fossero stati al posto suo – una giovane donna non priva di fascino personale (ha fatto un inchino, io altrettanto), ha detto, dunque, di quanto fossero dispiaciuti di vedere una giovane Fräulein con tali doti far mostra di opinioni e punti di vista non solo altamente inadatti al suo sesso, ma anche, in qualunque sesso, terribilmente sbagliati. Ogni signora, ha aggiunto, dovrebbe avere conoscenza della storia e sufficiente dimestichezza con i tre tipi di politica, Politik, Weltpolitik e Realpolitik, per evitare di arrivare a conclusioni errate e superficiali come quella che la giovane Fräulein li aveva appena informati di avere raggiunto, e per ascoltare saggiamente il marito o i figli durante la discussione di tali argomenti. Ha aggiunto molto altro, come per esempio che una donna deve conoscere queste cose in giusta misura ma non troppo, avendo una mente che non va affaticata per via della sua funzione suprema, di culla della razza; deduco quindi che la parte che funge da culla non risulti troppo utile se le si permette di sviluppare l’altra parte di lei che va oltre a quanto necessario a renderla una buona ascoltatrice.

Non è servito a niente neppure spiegare ciò che intendevo quando ho detto che la Germania è innamorata dell’Inghilterra, ma che non ho potuto esprimere correttamente perché non conosco abbastanza parole; eppure è proprio quella l’impressione ricavata dalla breve esperienza di un piccolo angolo di vita tedesca. In questo particolare cantuccio, comunque, la Germania si comporta esattamente come una donna che ha la sfortuna di amare qualcuno che non la corrisponde. Lei, naturalmente, immagino – posso solo provare a immaginare una tale schiavitù – si sente umiliata e arrabbiata, tanto più perché l’oggetto del suo amore e del suo odio – non pensi anche tu che sia possibile amare e odiare allo stesso tempo, mamma cara? io sono convinta di sì – è del tutto indifferente a che lei ami oppure odi. Qualunque cosa lei faccia, lui si mostra garbato, gentleman sempre e comunque, come dicono i tedeschi. Il che, naturalmente, è esasperante.

 

 

Sera

 

 

Sai che ti ho scritto per tutta la mattina? Ho scritto senza mai fermarmi, immemore del tempo che passava, per poi stupirmi e scandalizzarmi quando sono stata chiamata per pranzo, dato che non sono riuscita a raccontarti nemmeno la metà di tutto quello che avevo da dirti. E ho avuto come l’impressione di chiuderti la porta in faccia, di lasciarti fuori senza pranzo, di andarmene via e sedermi a tavola senza di te.

Se non fosse la giornata dedicata a stare con te, la domenica non saprei cosa fare. Sarebbe un giorno detestabile. Non posso suonare, dato che di domenica è vietato esercitarsi, come ha detto Frau Berg (ma come fa a sapere se mi sto esercitando o se sto suonando?) Inoltre disturberei gli altri, cosa ovviamente vera, perché la domenica tutti si riposano, si alzano tardi, dormono dopo pranzo e non escono fino alle cinque, dopo il caffè. Oggi, sperando che tutti fossero usciti, sono stata colta da un tale desiderio di suonare che ho messo la sordina sulle corde e in un sussurro ho suonato quel che ricordavo di una cosa straordinaria di Ravel che Kloster mi ha mostrato l’altro giorno, la più struggente e meravigliosa delle melodie; mentre suonavo ne canticchiavo sottovoce i suggestivi accordi, che sono ciò che la rendono così magnifica. Ebbene, non era davvero più che un sussurro, tanto che dovevo chinare la testa sopra il violino per sentire la musica ogni qualvolta passava un tram, eppure nel giro di cinque minuti è apparsa Frau Berg, sbottonata e scarmigliata per il Mittagsruhe, il riposino pomeridiano, e mi ha chiesto di mostrare un po’ di rispetto per gli altri e per quel giorno.

Ho provato una terribile vergogna; è stato come se avessi avuto quindici anni e fossi stata scoperta a fare qualcosa di brutto a scuola. Non me la sono presa per l’accusa di non avere rispetto per la domenica, perché credo che suonare Ravel non possa che giovare a questo giorno, però mi è dispiaciuto avere disturbato gli inquilini dell’appartamento. Non ho potuto far altro che scusarmi e dire, come una scolaretta pentita, che la cosa non si ripeterà più. Ma sai cosa avrei voluto fare in realtà, mamma? Correre da Frau Berg, gettarle le braccia al collo, dirle che mi sentivo sola e mi mancavi tanto e chiederle se per un attimo non le sarebbe dispiaciuto fingere di avermi in simpatia. Appariva talmente confortevole, rotonda e benevola, lì, nel vano della porta, e non era sufficientemente vicina da permettermi di guardarla negli occhi; già, perché sono gli occhi di una persona a farti passare la voglia di correre da lei.

Naturalmente non sono corsa da lei. Sapevo perfettamente che non avrebbe capito. In effetti non so bene per quale motivo abbia provato un tale desiderio di gettarmi tra le braccia di qualcuno. Forse è stato perché quando ti scrivo ti sento così vicina che divento consapevole di quanto in realtà tu sia lontana. Durante la settimana lavoro, e quando lavoro non penso. E poi c’è l’eccitazione delle lezioni, la gioia per gli elogi e l’incoraggiamento di Kloster. Ma la domenica è dedicata esclusivamente a te, ed è il momento in cui sento tutto il peso di mesi che devono essere vissuti uno dopo l’altro, giorno dopo giorno, prima di poter tornare da chi amo. Perché mi sei tanto cara, mia adorata madre? Se tu fossi una madre qualunque, io sarei molto più serena. Non sarei così dispiaciuta di essere lontano da una madre qualunque. Quando guardo le madri degli altri penso che non mi piacerebbe stare con loro. Sapendo invece com’è vivere immersi nel tuo amore e nella tua comprensione, ci vuole un grande e perseverante coraggio, che va avanti risoluto e senza pause, per far sì che una persona possa rinunciarvi.

Ti prego, non pensarmi angustiata, perché non lo sono. È solo che ti voglio tanto bene. E che siamo così vicine. Tu mi capisci sempre, non ti scandalizzi mai. A te posso dire qualsiasi cosa mi salti in testa. E la cosa fa bene come dire le preghiere. Quando preghi non ti fermi mai per chiederti se stai scandalizzando Dio, ed è proprio per questa ragione che amiamo Dio, perché immaginiamo che comprende sempre, e quindi perdona; figurati perciò quanto di più una persona – sarà un pensiero malvagio? – ami una madre comprensiva perché, vedi, lei sta lì, vicino a te, e la si può anche baciare. Baciare ha grandi pregi, e il conforto del semplice toccare la persona che si ama è straordinario. Buona notte, mammina diletta, alla prossima settimana.

La tua Chris

 

 

Forse potrei scrivere un breve messaggio – non una lettera, solo un breve messaggio – di mercoledì. Cosa ne pensi? Non sarebbe molto più lungo di una cartolina, con l’unica differenza che starebbe dentro una busta.

 

 

Berlino, domenica 14 giugno 1914

 

 

Vedi? Mercoledì non ti ho scritto, sono riuscita a resistere. (Buon giorno, mamma cara). Perché sapevo che non sarebbe stata affatto una cartolina, né qualcosa di persino lontanamente imparentato con la famiglia delle cartoline. Sarebbe stata una lettera. Una lunga lettera. E in men che non si dica avrei iniziato a scriverti tutti i giorni, sentendomi nostalgica e vivendo nel passato invece di perseguire il mio dovere, che è il futuro. È questo ciò che devo fare al momento: non pensare troppo a te e a casa, voltare le spalle a entrambe queste dolci, desiderabili cose, così da poter farvi più rapidamente ritorno. Vero, non abbiamo una casa, se questo significa un edificio e dei mobili, ma per la tua Chris casa è dove sei tu. Semplicemente, ovunque sei tu. Non pensi anche tu che sia una gran comodità averla così concentrata e mobile, in formato portatile, direi, considerato quanto sei piccola tu e quanto grande io?

Devi sapere, mamma cara, che quando vedo, come in effetti mi capita di vedere tutto il giorno, l’estremo sentimentalismo dei tedeschi, mi diventa più facile indurire il cuore, guardare avanti e sporgere il mento all’infuori invece che guardare indietro, da sopra la spalla, verso di te. È qualcosa di davvero sorprendente. I tedeschi sono la più strana mescolanza di durezza brutale, quella durezza che scaturisce da un modo di intendere la vita diametralmente opposto al nostro, e di una mollezza che lascia stupefatti. Non riescono a sopportare il pensiero che la benché minima cosa accaduta loro anche anni fa scivoli nell’oblio e muoia dignitosamente nella sua polvere. Ci si aggrappano con ogni mezzo e la vanno a riesumare giorno dopo giorno, anno dopo anno, a quanto pare per anni e anni, forse per tutta la loro vita. Una volta smesso di provare quel sentimento – cosa che naturalmente accade, perché com’è possibile continuare a nutrire lo stesso sentimento verso qualcosa all’infinito? – iniziano a fingere di provarlo. Immaginateli quindi vivere la loro vita così zavorrati, con i pori ostruiti dalla polvere dei giorni andati. Mi figuro i tedeschi che invecchiano rimorchiando con fatica attraverso l’esistenza il loro fardello di anniversari sempre più numerosi, la cui mole si ingigantisce via via che procedono, trascinandosi in ogni nuovo tratto di cammino una catena che si allunga sempre più, come dice il tuo caro Goldsmith – e, se non è stato lui a scriverlo o la frase non è esatta, rimproverami pure ma dimmi che frase era o chi l’ha scritta, perché come sai qui non ho libri, a eccezione di Shakespeare e della Bibbia.

L’altro giorno sono andata nella camera di Hilda Seeberg a chiederle qualche spillo e l’ho trovata seduta di fronte alla fotografia del padre, un vecchio dall’aria contrariata, con i baffi arricciati e la testa pelata. Aveva messo una coroncina di rose bianche attorno alla cornice e l’aveva legata con un nastro nero. Davanti al ritratto c’erano due candele accese; Hilda indossava un vestito nero e se ne stava lì seduta a fissarlo con le mani in grembo. Mi sono scusata, e stavo per ritirarmi rapidamente, quando lei mi ha richiamato.

«Sto festeggiando» mi ha detto.

«Oh» ho esclamato educatamente, ma senza immaginare a cosa si riferisse.

«Oggi è il compleanno di papà» ha annunciato indicando la fotografia.

«Davvero?» ho chiesto sorpresa, dato che mi pareva avesse detto che fosse morto. «Ma non mi avevate detto...?»

«Sì, certo. Vi ho detto che papà è morto cinque anni fa».

«Ma allora perché...?»

«Ma, liebes Fräulein, lui continua a compierli, gli anni» mi ha risposto guardandomi costernata mentre io rispondevo allo sguardo con altrettanta genuina costernazione.

«Ogni anno» ha proseguito, «arriva il giorno in cui è nato papà. Vorreste dire, allora, che solo perché è lassù vicino a Dio non dovrebbe essere festeggiato? Sapete cosa penserebbe la gente se non lo facessi? Penserebbe che sono senza cuore».

Dopo quelle parole ho iniziato a sperare che ci fosse una torta, dato che qui preparano meravigliose torte di compleanno, ed è usanza offrirne una fetta a chiunque capiti a tiro. Così, con la coda dell’occhio ho guardato in giro per la stanza con discrezione, onde non sembrare la golosa che ero, poi ho sollevato il naso e fiutato l’aria, ma né ho visto una torta né ho sentito l’odore. Tre giorni fa Frau Berg ha festeggiato il suo compleanno: c’era una torta paradisiaca, un grande dolce piatto traboccante di crema, quel genere di dolce che fa venire innanzitutto voglia di mangiarlo e poi di sedercisi sopra per vedere la crema fuoriuscire dai lati; evidentemente, però, la torta è l’unica cosa che non si usa preparare per il compleanno di una persona che è morta. Non voglio essere irriverente, mamma cara, e so fin troppo bene cosa vuol dire perdere il proprio amato padre, ma vedi, Hilda mi ha mostrato le foto della sua famiglia solo l’altro giorno, dato che, per quanto in modo fiacco ed esitante, stiamo facendo amicizia, e quando è arrivata a quella del padre mi ha detto con disarmante sincerità che lui non le piaceva, e che la sua morte è stata un immenso sollievo. «Mi impediva di fare qualunque cosa» ha spiegato accigliata osservando la fotografia, «tranne ciò che andava a vantaggio del suo benessere».

Venerdì, quando sono andata da lui per la lezione, ho interrogato Kloster sugli anniversari. È un ometto pieno di umanità, di partecipazione, quel genere di compassionevole partecipazione che sa ridere e comprendere al tempo stesso, e il suo genio sembra distinguerlo da tutti gli altri tedeschi, che fa oggetto di critiche talmente meticolose e spassionate da lasciarti sbalordita. I suoi commenti sul Kaiser, per esempio, cui allude come S. M. – forma abbreviata e irrispettosa di Seine Majestät – mi fanno semplicemente rabbrividire in questo paese di lèse majesté. In Inghilterra, dove possiamo dire tutto ciò che vogliamo, non ho mai sentito dire qualcosa di irrispettoso riguardo al re. Qui, dove si finisce in prigione solo per avere riso di un ufficiale, di un poliziotto o di una qualunque figura con indosso una divisa, essendo questo considerato Beamtenbeleidigung, un reato perseguibile – non trovi pure tu che abbiano parole deliziose? – Kloster e le altre persone che ho conosciuto a casa sua dicono tutto quel che vogliono; e quel che vogliono sono cose assai offensive su quell’uomo venerabile che è il Kaiser, il quale non sembra godere di grande popolarità. Ma del resto Kloster appartiene alla schiera degli intellettuali, e così pure i suoi amici; sono persone, credo, che non subiscono minimamente il fascino di figure quali i monarchi assoluti. Kloster dice che sono figure anacronistiche, che il mondo è troppo adulto per avere bisogno di loro, troppo cresciuto per dedicarsi ad artifici e pretenziosità. Venerdì, quando sono andata da lui per la lezione, ho trovato la sua porta festonata con tralci di sempreverdi e fiori di carta – vedi, persino Kloster è circondato di artifici e pretenziosità – così sono entrata con titubanza, non sapendo bene in quale tipo di cerimonia commemorativa mi sarei imbattuta. Invece si trattava solo del ritorno a casa di sua moglie; non sapevo ne avesse una, avevo avuto l’impressione di uno scapolo totalmente felice. Era stata via per tre settimane, non abbastanza a lungo, diremmo tu, io e molti altri del nostro paese così autodenigratorio e autocritico, per meritare una ghirlanda di sempreverdi sulla porta. Quando gli ho detto che esitavo a entrare per paura di disturbare delle esequie commemorative, lui si è messo a ridere.

«Assomigliamo ancora, mia cara Mees Chrees» ha esordito, scrollando le grosse spalle – mi ha chiesto come mi chiamano a casa, e io gli ho risposto che tu mi chiami Chris. Lui ha replicato che, col mio permesso, mi avrebbe a sua volta chiamata Chrees, ma con Mees davanti a dimostrazione che, per quanto voglia essermi amico, non vuole mancarmi di rispetto – «come nazione intendo, assomigliamo ancora al fanciullo e al selvaggio. Al fanciullo intelligente, e al selvaggio feroce. Amiamo le emozioni semplici e grossolane, e ne vogliamo in quantità; abbiamo gusti scontati nel cibo e negli altri piaceri, e ne vogliamo a volontà; amiamo il grasso nel cibo, così come sulle nostre donne. E, come i bambini, quando siamo addolorati ci abbandoniamo a dimostrazioni eccessive, crogiolandoci nei nostri eccessi. Come i selvaggi abbiamo paura, e dunque ci circondiamo di riti, celebrazioni, re e cannoni. Nessun altro paese ha più di un re. Il nostro ne ha bisogno di tre, oltre che di un imperatore. Noi tedeschi siamo come selvaggi terrorizzati da ogni cosa. Temiamo le altre nazioni, gli altri popoli e in misura da non credere la pubblica opinione, tremiamo di fronte al giudizio di domestici e bottegai; temiamo le nostre stesse maniere e quindi siamo obbligati a conservare la pratica idiota dei duelli, nel corso dei quali spesse volte l’uomo il cui onore viene soddisfatto è quello che finisce ucciso; temiamo tutti coloro che stanno sopra di noi, i quali, inevitabilmente, sono numerosi; temiamo i nostri ufficiali, e il nostro è un paese che pullula di ufficiali. L’unico che non temiamo è Dio».

«Ma...» ho cominciato, memore del loro motto, coniato da Bismark.

«Sì, sì, lo so» mi ha interrotto lui. «Comunque non è vero. È vero il contrario. Noi tedeschi non temiamo Dio, ma ogni altra cosa al mondo. È la paura a renderci così educati, la paura del duello; perché, come il fanciullo e il selvaggio, non abbiamo avuto il tempo di acquisire l’abitudine alle buone maniere, l’abitudine che rende le buone maniere inevitabili e indispensabili, perché a noi non viene affatto naturale essere educati. La nostra buona educazione nasce solo dalla forza della paura. Di conseguenza – dato che ogni uomo deve pur godersi qualche momento di distensione – quando incontriamo il debole, il sottoposto, il temporaneamente inerme, diventiamo brutali. Quale immenso sollievo, almeno per un istante, poter essere noi stessi. Non c’è tedesco che se ne lasci sfuggire l’opportunità».

Sono certa che troveresti Kloster molto interessante. Se ne sta lì seduto con il violino sulle piccole ginocchia grassocce e punteggia le frasi con sussulti e colpetti dell’archetto; la testa calva e lucida riflette la luce della finestra dietro di lui, e gli occhi sembrano fuoriuscire dalla faccia, perennemente paonazza. Ha l’aspetto di un affabile gamberone, del tutto diverso da quello di una persona dalla mente attiva e distruttiva, figurarsi poi da quello di un grande musicista. È l’esatto opposto di quei tipi con le sopracciglia a cespuglio, la fronte prominente, gli occhi infossati e una gran massa di capelli che spesso associamo a coloro che hanno dentro di sé molta musica. L’altro giorno avevo appena finito di suonare; mi si è avvicinato, si è allungato – è un bel pezzo più basso di me – e con delicatezza mi ha posato un dito in fronte e ha seguito il contorno delle mie sopracciglia, prima una poi l’altra. Non avevo idea di cosa stesse facendo.

«Il mio dito è pulito, Mees Chrees» ha detto vedendo che io mi ritraevo. «Me lo sono appena lavato. Perciò non temete. È che avete la stessa fronte di Beethoven – esattamente la stessa forma – e io devo toccarla. Mi spiace incomodarvi, ma devo farlo. Non mi è mai capitato di vedere una tale somiglianza con la fronte del Maestro. Potreste essere sua figlia».

Inutile dirti, mamma cara, che sono tornata dai pensionanti e dai commensali del mezzogiorno senza il minimo pensiero su di loro. Se avessi padroneggiato il tedesco mi sarebbe tanto piaciuto sporgermi sul tavolo verso Herr Mannfried, un giovane dall’aspetto malsano che viene a pranzo tutti i giorni da una banca in Potsdamerstrasse, pieno di quell’odio che è amore per l’Inghilterra, con i capelli smorti e labbra che assomigliano a due limacce rosse – scusami, ti sembrerò cattiva, ma assomigliano davvero a due limacce rosse – e gli avrei detto: “Avete notato la mia Beethovenkopf? Cosa ne pensate di me, una Engländerin, in possesso di una cosa del genere? Lo dice uno dei vostri grandi uomini, perciò deve essere vero”.

Attualmente stiamo studiando la Ciaccona di Bach. Kloster me ne sta mostrando una diversa interpretazione, una sua idea. La suonerà la prossima settimana qui alla Philharmonie. Mi piacerebbe che tu lo ascoltassi. Quest’anno aveva intenzione di andare a Londra con una speciale orchestra di elementi scelti, ma poi ha deciso altrimenti. Gli ho chiesto il perché, ma lui ha scrollato le spalle e ha detto che il suo agente, che organizza tutti i suoi eventi, ha ritenuto meglio non andare. Gli ho chiesto di nuovo perché – sai quanto riesco a essere ostinata – proprio non vedendo per quale motivo sia meglio privare Londra di una tale gioia e lui della possibilità di darla, ma si è stretto ancora nelle spalle e mi ha spiegato che segue sempre i consigli del suo agente. «Il mio agente sa il fatto suo, mia cara Mees Chrees» ha detto. «Rimetto i miei affari nelle sue mani, e faccio quanto mi dice. Questo mi risparmia un sacco di problemi. L’obbedienza è una strada molto comoda».

«E allora perché...» ho ribattuto io, memore di ciò che dice riguardo ai re, ai padroni e ai signori al comando; ma lui ha preso il violino e ha iniziato a suonare qualcosa. «Guardate» ha detto, «vi faccio vedere come si fa...»

E quando suona non posso far altro che star lì ad ascoltarlo. È come un incantesimo. Uno resta ipnotizzato, dimentica tutto...

 

 

Sera

 

 

Questo pomeriggio, in un angolo del Tiergarten, ho riletto per l’ennesima volta la tua cara lettera, così traboccante d’amore, di considerazione per me, e ho capito che pur scrivendoti con entusiasmo pagine su pagine di tutte le cose che voglio raccontarti mi dimentico di dirti quelle che tu vuoi sapere. Penso di non avere mai risposto ad alcuna delle tue domande! Credo sia perché sto così bene e mi sento talmente in ottima forma che mi dimentico persino di parlartene. Ho cibo in abbondanza, e molto nutriente, essendo tedesco, che presto mi farà arrotondare i fianchi, credo, dato che ogni giorno Frau Berg ci rimpinza di gnocchi, e non ho alcun dubbio che prima o poi finiranno per uscire da qualche parte. Inoltre da quando sono qui non ho avuto nemmeno un raffreddore, il che significa che ho finalmente chiuso una volta per tutte con quella fase; non sto neppure alzata fin tardi a leggere. Non potrei nemmeno se volessi, perché Wanda, la domestica tuttofare, che è un vero generale, tutt’altro che particolare – dimmi se non sono spiritosa – arriva puntuale tutte le sere alle dieci, ora in cui va a letto, e mi porta via la lampada.

«Le regole» ha comunicato lapidaria Frau Berg quando le ho chiesto se non era un po’ troppo presto per lasciarmi al buio. «E non siete al buio. Non vi ho forse dato una candela e dei fiammiferi per le emergenze notturne?»

La candela però è fioca e di tipo economico, per cui non ci provo nemmeno a leggere alla sua luce. La preservo intatta per le emergenze notturne.

Ho trascorso gran parte del pomeriggio al Tiergarten, seduta in un angolo verde che ho scoperto vicino a uno stagno, dove c’è un po’ d’erba e qualche margherita, a una certa distanza dal sentiero battuto, e quindi dalla ressa domenicale. Ho osservato gli uccelli, ho letto Il racconto d’inverno, ho raccolto qualche margherita e mi sono sentita felice. Ora le margherite sono qui davanti a me, in un piattino. Ogni cosa aveva un profumo così buono, così caldo, dolce e fresco, e le foglie sulle querce erano poco più che gemme, e delicate. La vita è una situazione ammirevole, non credi anche tu, mamma? Denota un tale ingegno avere un mese di giugno ogni anno e un mattino ogni giorno, per non dire cose quali gli uccelli, e Shakespeare, e il proprio lavoro. A volte, quand’ero particolarmente felice, mi dicevi che mi aspettava una felicità ancor più grande: quando avessi avuto un innamorato, mi dicevi, o un marito, o quando avessi avuto un figlio. Suppongo tu lo sappia bene, cara e saggia madre; ma sarà ben difficile superare la gioia che deriva dallo svolgere bene il lavoro per cui si è tagliati. L’evidente, costante miglioramento dei propri risultati attraverso il duro lavoro è un tripudio, un’estasi. In fondo, essere obbligati a non far nulla, la domenica, non è poi così male, perché almeno ho tempo per pensare, per fare un passo indietro e ammirare la vita.

Vedi quanto bene mi ha fatto un pomeriggio tranquillo al sole tra le margherite. Una settimana fa ero immersa nello sconforto, intenta a contare i mesi che mi separavano da te. Ora invece mi sento come se stessi felicemente scalando una piacevole collina, ripida quel tanto che basta a rendermi lieta di riuscire a inerpicarmi senza fatica, e il cammino è piacevole e sicuro, e in cima ci sei tu. Arrivare in cima sarà una grande gioia, ma anche percorrere la salita è meraviglioso. Da tutto questo capirai che ho avuto una settimana felice, che lo studio procede a gonfie vele e che sono piena di speranza e fiducia. Lo so, non devo essere troppo fiduciosa, ma la fiducia è una gran cosa su cui costruire. Nelle giornate di sconforto non ho mai costruito niente di buono.

Buona notte, madre cara. Questa sera mi sento così vicina a te, proprio come se tu fossi qui accanto a me nella stanza e io dovessi solo allungare un dito per poter toccare l’Amore. Non credo ci sia poi questo gran che nel tanto celebrato corpo. È solo lo spirito a contare realmente qualcosa, e nulla può impedire al tuo e al mio di stare assieme.

La tua Chris

 

 

Anche se il corpo è una gran comodità quando si ha voglia di baciare la propria amata madre.

 

 

 

Berlino, domenica 21 giugno 1914

 

 

Madre adorata, le settimane volano, piene di lavoro e Weltpolitik. Qui a pranzo non si parla d’altro, solo e unicamente di questa Weltpolitik. A colazione ne ho appena ricevuta un’ennesima dose. Dire che i pensionanti sono interessati all’argomento è usare un blando eufemismo: in realtà il loro interesse è divampante, pronto a deflagrare, li fa bruciacchiare e sfrigolare. E sono così aggressivi! Non l’uno verso l’altro, perché, contrariamente a quanto avviene da Kloster, sono uniti da uno strettissimo legame di ossequiente, acritica ammirazione per tutto ciò che è tedesco, ma verso di me e la ragazza svedese. Specialmente verso di me. Attorno alla ragazza svedese aleggia una calma che nulla può intaccare. Ha l’invidiabile dono di riuscire ad arrivare a fine pasto senza dire una parola. Come vorrei averlo anch’io. Invece, non appena imparo un nuovo termine, voglio usarlo immediatamente. Accumulo vocaboli tedeschi ogni giorno, naturalmente, e c’è qualcosa nella mia natura, e qualcosa nel modo in cui mi viene rivolta la parola alla tavola di Frau Berg, che mi fa venire voglia di usarli tutti quanti di getto. E siccome non riesco a costruire intere frasi, la mia conversazione è fatta di parole isolate, il che fa uno strano effetto, del tutto involontario, di esplosioni intervallate. E una volta usate tutte passo all’inglese, e i pensionanti si tuffano per starmi dietro, nuotando o affogando secondo la diversa padronanza di ognuno.

È strana l’atmosfera, qui, in questa casa, per le strade, ovunque si vada. Sembrano tutti sottoposti a tensione, a una tormentosa attesa al limite della resistenza, che ricorda l’aspettativa a fiato sospeso dell’ultimo atto del Tristano, quando viene avvistata la nave di Isotta e tutti i violini salgono e indugiano in alto in una nota acuta, intollerabilmente smaniosa. C’è una sorta di febbre. E i paroloni! Pensavo che i tedeschi fossero gente imperturbabile, pacata. Il modo in cui parlano, invece! Sempre a lettere maiuscole. Parlano a lettere incredibilmente maiuscole di ciò che chiamano il deutsche Standpunkt; e il deutsche Standpunkt è la cosa più meravigliosa mai sentita. Non ci provano nemmeno a fare i santarellini. Si ritengono un popolo troppo grande, troppo bello, per un mondo tanto arretrato quanto a eccelse qualità per poterlo apprezzare. Nessun altro popolo possiede nulla di lontanamente simile. In base all’idea che mi sono fatta, una volta spogliato degli orpelli, il concetto alla base è che ciò che fanno i tedeschi è giusto, mentre ciò che fanno gli altri popoli è sbagliato. Anche quando entrambi fanno esattamente la stessa cosa. Anzi, non appena inizia ad avere a che fare con il popolo tedesco, quella stessa cosa sbagliata diventa immediatamente giusta. Non con un singolo tedesco. Il singolo soggetto può commettere – e lo fa – ogni tipo di sbaglio, proprio come fanno altri singoli soggetti negli altri paesi, e viene punito con implacabile severità; ingiustamente, sostiene Kloster. Ma non appena egli torna nella pluralità e diventa wir Deutschen, come non si stancano mai di ripetere, i suoi crimini si tramutano in virtù. Nella collettività egli si purifica, assume una qualità espiatoria. Questa mattina a colazione stavano dicendo che se un crimine è sufficientemente grosso, se perpetrato su larga scala, allora non è più un crimine ma un successo, e il successo è sempre una virtù, ovverossia, immagino, se è un successo tedesco. Se è francese diventa un oltraggio. Hanno detto, per esempio, che derubare una sola vedova sarebbe un’azione stupida; il risultato sarebbe misero, potresti essere scoperto e magari isolato dagli amici. Se invece derubi molte vedove la cosa si trasforma in un’operazione di successo. Nessuno dirà niente, perché sei stato scaltro e l’hai fatta franca.

So che questo atteggiamento non è nuovo anche ad altri paesi, con la differenza però che non viene deliberatamente ostentato dall’intera nazione. Tra le cose fatte dal padre di Hilda Seeberg che gli hanno valso l’implacabilità della figlia c’è proprio questo: l’aver derubato troppe poche vedove, essersene pentito e aver fatto bancarotta comunque. Me l’ha confidato nel corso di un adirato sfogo. Soltanto il parlarne le faceva incupire gli occhi per la rabbia. Fu terribile, ha detto, finire sul lastrico per una cifra tanto irrisoria, un’onta schiacciante per la famiglia Seeberg, la cui indigenza divenne manifesta e indissimulabile. Quando ci si rovina meglio farlo per milioni, altrimenti non vale neppure la pena di sporcarsi le mani. C’è un che di così chic riguardo ai milioni, ha detto, che, sia che tu riesca a farli oppure a perderli, diventi in ogni caso oggetto di stima e ammirazione.

«Ma è meglio... beh, deludere poche vedove piuttosto che tante» ho suggerito scegliendo con cura le parole.

«Andare in fallimento per meno di un milione di marchi è un disonore» ha risposto con cipiglio severo.

Non sono divertenti? Io li trovo estremamente interessanti. Mi ricordano sempre più dei bambini furbi, come li ha definiti Kloster. Come i bambini, sono privi di senso morale. Io li ascolto – mi trattano come se fossi il loro pubblico, rivolgendosi tutti assieme verso l’angolino dove sto io – e butto qualche parola qua e là, solitamente con un risultato deprecabile, visto che il loro tono di voce si fa sempre più alto, dopo di che si alzano da tavola, battono i tacchi, abbozzano un inchino rigido rivolto a tutti e scompaiono, e Frau Berg piega il suo tovagliolo, si spolvera via le briciole dai vestiti dicendo «Ja, ja» con un sospiro, come una sorta di benedizione finale sulla conversazione troncata, quindi si alza lenta da tavola e va a chiudere sotto chiave lo zucchero per poi procedere lungo il corridoio a passo pesante verso la cucina, dove ha una breve scaramuccia con Wanda, la quale tenta ogni giorno di fingere che non sia avanzato più dolce, e tornare infine a passo altrettanto pesante nella propria camera, dove si rinchiude per il suo Mittagsruhe fino alle quattro. Gli altri pensionanti si disperdono uno dopo l’altro, e io mi precipito fuori a passeggio per sgranchirmi dopo essermi esercitata per tutta la mattina; mentre cammino ripenso a ciò che hanno detto, cerco di vedere le cose dal loro punto di vista ma, semplicemente, non ci riesco.

Il martedì e il venerdì, quando ho lezione, racconto di loro a Kloster. Lui li reputa ottimamente rappresentativi della preponderanza della nazione. «Wir Deutschen» dice ridendo, «siamo il popolo più facile da governare al mondo, perché siamo obbedienti e infiammabili. Abbiamo quell’attitudine all’obbedienza così comoda per le autorità, e siamo infiammabili perché avidi. Qualunque prospettiva di mettere le mani su ciò che appartiene ad altri ci fa subito infiammare. Facci penzolare davanti agli occhi la salsiccia di qualcun altro e per impossessarcene ci spingeremmo ovunque. Ottimo terreno per S. M.» e aggiunge qualche gesto irriverente.

Mercoledì scorso ha tenuto uno dei suoi concerti alla Philharmonie. Ha suonato come un angelo. Strano vedere scaturire musica tanto celestiale da un ometto grasso, rubizzo, calvo e dall’aspetto più che ordinario, dalla faccia inespressiva, una faccia deliberatamente ottusa; sono convinta che sia tutta scena, quell’espressione vacua, quell’aria florida di uno che pensa solo a mangiare. La stranezza del contrasto mi ha colpita come quell’altro contrasto, quello sempre sorprendente dei fiorai che si incrociano per le vie di Londra e dei fiori che vendono. Come mi colpisce vedere quei poveri uomini laceri che si trascinano lungo i marciapiedi tenendo tra le braccia, a sfiorare le loro spalle sporche, grandi cesti di bellezza, cesti stracolmi di affascinanti, aristocratiche corolle, purezze aggraziate e delicate di forma, colore e profumo. L’effetto più suggestivo si ha quando, verso Pasqua, vendono solo gigli, la cui purezza ultraterrena risplende sui passanti a pochi centimetri di distanza dai visi grotteschi dei venditori. Seduto accanto ai Farisei, Cristo doveva avere un aspetto simile.

Ma per quanto la sua musica non sia meno bella di quei gigli, non si può paragonare Kloster a quei tragici fiorai. Nel suo caso colpiva un aspetto tanto ordinario – un ometto tracagnotto e in apparenza grossolano – rispetto alla musica divina che suonava. Era quella meravigliosa roba francese e russa. In futuro continuerò a suonartela fino a quando te ne sarai innamorata. Prima d’ora non è mai stato composto niente di simile. È una musica che ha dentro una deliziosa freschezza, e intatta, ardita, del tutto indifferente alla tradizione, si fa strada attraverso difficoltà e divieti ritenuti immutabili per secoli. Vicino a questi giovani strabilianti gente come Wagner, Strauss e gli altri sembrano impantanati in un fango sporco e appiccicoso, oltre che terribilmente vecchi; ma non vecchi alla maniera meravigliosa dei grandi – come Beethoven, Bach e Mozart – bensì sgradevolmente vecchi, come una vecchia lady chiassosa con una parrucca gialla in testa.

Il pubblico ha applaudito, ma era titubante. Un maestro del calibro di Kloster, uno della loro stessa carne e sangue, è sempre applaudito, ma penso che l’irregolarità, l’estrema pacatezza della musica e la sua bellezza in apparenza accidentale siano state difficili per loro. Ai tedeschi la bellezza va spiegata, va fatta accettare; prima che si sentano a proprio agio devono sapere che ha ricevuto i dovuti timbri ufficiali, che è stata autorizzata. Era così bella che mi sono seduta in un angolo e mi sono messa a piangere. Non sono riuscita a frenare le lacrime. Mi sono nascosta, mi sono tirata il cappello sulla faccia e ho cercato di trattenermi, perché lì vicino c’era un tedesco col monocolo il quale, intuendo il mio desiderio di nascondermi, ha immediatamente occupato il proprio tempo a osservarmi per scoprirne il motivo. La musica esprimeva tutte le cose che ho conosciuto o intuito, tutta la bellezza e la meraviglia della vita, della morte e dell’amore. Ho riconosciuto tutto. Stavo quasi per gridare: “Sì, certo. L’ho provato anch’io”.

Dopo, mi sarebbe piaciuto andare a casa e dormire con quel suono ancora nel cuore, ma Kloster mi ha inviato un messaggio in cui mi invitava ad andare a cena da lui perché intendeva presentarmi alcune persone la cui conoscenza mi sarebbe risultata utile. Essendo tardi, aveva ordinato a uno dei suoi pupilli, lo stesso che era venuto a consegnarmi il messaggio, di scortarmi sana a salva a casa sua, e poiché noi ci siamo andati a piedi, mentre Kloster era in auto con qualcun altro, una volta arrivati l’abbiamo trovato già lì, intento ad aprire bottiglie di birra e in apparenza molto più a suo agio di quanto non fosse un’ora prima. Mi ha accolta con grande calore e mi ha presentata alla moglie e agli ospiti con una serie di brevi commenti esplicativi e lusinghieri. Sembrava davvero fiero di me. Puoi immaginare come mi sono illuminata tutta.

«Questa è Mees Chrees» ha annunciato prendendomi la mano e accompagnandomi al centro della stanza. «Non provo nemmeno a imbarcarmi nella pronuncia del suo cognome, trattandosi di uno di quei cognomi inglesi che l’uomo prudente evita. E comunque non importa. Perché tra dieci anni – anzi, tra cinque – riecheggerà per tutta Europa».

C’era una dozzina circa di persone; abbiamo bevuto birra, mangiato tramezzini e ci siamo molto divertiti. Kloster se ne stava seduto mangiando tramezzini e fissandoci tutti con benevolenza, sempre più simile a un amabile e ospitale gamberone. Non puoi sapere, mamma, che bella cosa sia essere elogiata in quel modo, perché gli altri suoi allievi mi riferiscono che è terribilmente severo e sgradevole quando pensa che una persona non faccia i dovuti progressi. Invitarmi a cena è stato molto gentile da parte sua, perché tra gli invitati c’era una personalità, una certa contessa Köseritz, il cui marito ha una carica al ministero, e lei stessa è una persona molto influente e con una travolgente passione per la musica. A Bayreuth muove quasi tutti i fili, mi riferisce Kloster, ancor più di Frau Cosima, ormai vecchia, e riesce a introdurre i suoi protetti ovunque, se solo pensa che questi abbiano le dovute capacità. È stata molto amabile e cortese, e mi ha detto che dovrei sposare un tedesco! Perché, ha aggiunto, tutta la buona musica è per diritto, per diritto naturale, di proprietà della Germania.

A quel punto avrei voluto ricordarle l’esistenza di Debussy, Ravel e Stravinskij, ma non l’ho fatto.

Mi ha detto quanto trovi divertenti queste serate informali da Kloster, e mi ha comunicato di avere una figlia all’incirca della mia età, anche lei appassionata di musica e anche lei grande ammiratrice di Kloster.

Le ho chiesto se fosse lì presente, dato che avevo notato una ragazza in un angolo, ma lei ha assunto un’espressione scioccata e ha esclamato: «Oh, no» e dopo una pausa di silenzio ha ripetuto: «Oh no. Questo non è posto dove portare le proprie figlie».

«Ma sono anch’io una figlia» ho ribattuto – lo ammetto, un’uscita di poco tatto – però lei ha sorvolato ed è passata ad argomenti più saggi in apparenza ma non nella sostanza, come violini e tecniche d’esecuzione.

Non che non l’abbia già avvertito, qui, il divario tra le classi; ora però l’ho toccato con mano, con una vera nobildonna Junker: i Köseritz sono prussiani. Lei, da donna maritata e matura qual è, se vuole può sconfinare in altri ambienti, e lì calarsi da un altro mondo in qualità di augusta patronessa per pulirsi le penne con un rigenerante bagno di fango, per citare le parole usate da Kloster venerdì scorso, durante la lezione, nel commentare il ricevimento; sta però ben attenta a tenerne fuori la giovane figlia.

Dopo cena mi hanno chiesto di suonare. Anzi, Kloster ha sfoderato per me il suo Stradivari. Era chiaro che riteneva importante farmi esibire davanti agli ospiti; così, nonostante fossi terrorizzata e temessi di far sfigurare il mio maestro, ero talmente commossa per la sua gentilezza e considerazione per il mio futuro che ho obbedito senza protestare. Ho eseguito la Sonata a Kreutzer con un ufficiale che faceva l’accompagnamento, un giovane dall’aspetto così capace, corretto e impettito da indurmi a chiedermi cosa ci facesse lì, finché non ha cominciato a suonare, e allora l’ho capito. Appena iniziato, comunque, mi sono dimenticata di tutti quelli che mi sedevano attorno, la cui vicinanza era così fastidiosa e imbarazzante. Mi sono lasciata ipnotizzare dallo Stradivari. Sembrava suonare da solo, cantare soltanto per me, rivelarmi strani, meravigliosi segreti. Ne ero completamente rapita.

Tutti si sono mostrati gentili ed entusiasti, e giravano battute sulla nascita di una nuova stella, una trouvaille. Pensa alla tua Chris, soltanto l’altro giorno messa da te in castigo in un angolo per essersi comportata male – cielo, mi sembra ieri –, pensa a lei come a un nuova stella, o qualcosa del genere. Ma non voglio crogiolarmi nell’autocompiacimento, perché dopo cena le persone sono sempre molto gentili, e poi bisogna aggiungere che per tutta la sera il loro stato d’animo era particolarmente bendisposto per via della musica suonata da Kloster al concerto. Ma si vedeva che anche lui era soddisfatto, e ha detto alcune cose davvero molto piacevoli e incoraggianti. La nobildonna Junker è stata molto gentile e mi ha invitata a pranzo per domani. Il giovanotto che ha suonato l’accompagnamento si è inchinato, ha battuto i tacchi, mi ha preso la mano e l’ha baciata. Senza una parola. Kloster mi ha confidato che nutre una grandissima passione per la musica, ed è così bravo che sarebbe stato un musicista di prim’ordine se non gli fosse capitato di nascere Junker, e dunque dover fare l’ufficiale. Una tragedia, a quanto pare, perché Kloster dice che detesta la vita militare, che non può vivere lontano dalla musica. È andato via subito dopo.

La contessa Köseritz mi ha dato un passaggio in auto nel tornare a casa, e mi ha lasciata da Frau Berg. Abita sulla Sommerstrasse, vicino alla Porta di Brandeburgo, quindi non lontano da dove sto io. Quando ha alzato lo sguardo sulla casa di Frau Berg l’ho vista rabbrividire. In effetti aveva un’aria tetra.

 

 

Ora di andare a letto

 

 

Ho un tale sonno, mamma adorata, un sonno così tremendo che devo andare a letto di filata. Non riesco più a tenere su la testa e gli occhi aperti. Deve essere il tempo, oggi è stata una giornata molto calda. Buona notte, e che Dio ti protegga, madre dolcissima.

La tua Chris che ti vuole tanto bene

 

 

 

Berlino, domenica 28 giugno, sera

 

 

Mammina adorata,

questa mattina non ho scritto; sono andata nei boschi e sono stata fuori tutto il giorno. Era una giornata molto calda e smaniavo di allontanarmi da Berlino. Ho gironzolato per Potsdam. Dista solo mezz’ora di treno, ed è piena di boschi e corsi d’acqua, non solo di palazzi. Ma i palazzi non si prestavano all’umore del momento. Volevo camminare all’infinito, eliminare dalle gambe tutta la rigidità da marciapiede accumulata e, una volta stanca, sedermi sotto un albero, mangiare il pane e cioccolato che mi ero portata e stare a guardare il cielo attraverso le foglie. E così ho fatto.

Ho trascorso una bellissima giornata, la più bella da quando ci siamo lasciate. Per tutto il giorno non ho rivolto la parola ad anima viva; ho trovato un posticino sopra Sansouci, sul limitare di un bosco, con vista panoramica su un campo di segale fino a un vecchio mulino a vento, e sono rimasta lì seduta per ore. Dopo aver cercato di ricordare quanto più possibile di The Scholar Gipsy, ovvero di fare ciò che fa di solito una persona quando d’estate se ne sta seduta ai margini di un campo di grano, ho messo ordine tra i miei pensieri. Ultimamente, infatti, nel turbinio del lavoro quotidiano, li trovo tutti in disordine, lo stesso disordine che regna nel cassetto dove tengo guanti e nastri, dove li butto non appena me li tolgo, e che non ho mai tempo di riordinare. La vita mi travolge, e non ho certo il tempo di stare a guardare i miei tesori. Vorrà dire che li guarderò e farò l’inventario di domenica. Per tutta l’estate la domenica farò i miei pellegrinaggi per i boschi con la stessa regolarità con cui i fedeli vanno in chiesa, e direi per lo stesso motivo: riflettere, elevare la lode e ringraziare.

Ho portato con me le tue due lettere, che ho riletto nel bosco. Lì, dove tutto è così bello, mi sono parse ancora più care. Sembri talmente soddisfatta di me, mamma cara, e così piena di fiducia. Ti posso assicurare che se un essere umano, a forza di tentativi e duro lavoro, saprà guadagnarsi tanta preziosa fiducia, quella è la tua Chris. L’istantanea con la bordura di campanule mi aiuta a immaginarti. Quando stai in giardino porti ancora quel vecchio cappello da lavoro che mi piace tanto? Dimmelo, perché voglio pensarti esattamente come sei. Quelle campanule mi fanno venire una nostalgia struggente. È come se riuscissi a vederne i colori, il rosa, l’azzurro e il porpora, vicino ai garofani dei poeti bianchi e alle viole lilla pallido di cui mi hai scritto. Nella Lützowstrasse non c’è niente del genere. Non devi dunque stupirti se questa mattina mi sono allontanata per andare a cercare giugno nei boschi. I boschi erano un po’ secchi e stentati, dato che di recente non ha piovuto, ma dopo l’arida polverosità della mia via di Berlino li ho trovati ugualmente incantevoli! Mi è piaciuto così tanto. E mi sono sentita meravigliosamente libera e felice di fare un’uscita domenicale per conto mio, guadagnata col sudore della fronte, come un qualsiasi giovanotto.

All’andata il treno era pieno di ufficiali; tutti sembravano molto capaci ed efficienti, e soddisfatti di sé e della vita. Nel mio scompartimento hanno chiacchierato per tutto il tempo, parlando di lavoro senza mai stancarsi, come se il loro lavoro fosse così interessante da non potervi rinunciare neppure di domenica, e studiando una serie di cartine. Non ho visto traccia di stolidità. Dove sarà mai questa freddezza di cui ho tanto sentito? Paragonati ai tedeschi che ho conosciuto, siamo noi a essere freddi; freddi, amorfi e annoiati. L’ultima cosa che sono queste persone è annoiate. Direi piuttosto che gli ufficiali sembravano eccitati e sotto massima tensione, tali e quali i pensionanti di Frau Berg.

Potsdam è affascinante, e piena zeppa di palazzi e parchi. Se non fossi stata a caccia di boschi l’avrei esplorata molto volentieri. Ricordi l’inverno in cui hai tanto insistito che imparassi a cucire, quando mi leggevi La storia di Federico il Grande di Carlyle? Leggere a voce alta era il tuo modo per corrompermi. Non ho imparato a cucire, ma in compenso ho imparato molto su Potsdam e gli Hohenzollern, e prossimamente, di domenica, quando il tempo sarà meno bello di ora, tornerò a visitare Sansouci e mi immergerò nel passato. Oggi invece non ero dell’umore di vedere muri e tetti, volevo solo camminare, camminare senza sosta. Al ritorno il treno era affollatissimo, stipato di gente che era stata fuori per la giornata; i bambini piangevano di stanchezza, e noi adulti sedevamo uno addosso all’altro. Ho tenuto in grembo due piccolini, devo dire totalmente indisciplinati. Però erano tenerissimi; i loro divincolamenti non mi avrebbero dato il minimo pensiero se avessi avuto un mucchio di gonne, anziché solo due!

Wanda è stata molto gentile: dopo averle detto la distanza che avevo percorso a piedi, e che mi sentivo troppo stanca per andare a cena, mi ha portato in camera caffè, pane e burro senza farsi vedere. Ha esclamato un: «Herr Je!» – che temo sia la formula breve per Signore Gesù, un’esclamazione che le è cara – e ha subito afferrato la caffettiera per metterla a scaldare. Solo più tardi mi sono ricordata che la misura di distanza tedesca è tre volte quella inglese, perciò non c’è da stupirsi se ha esclamato Herr Je. Pensa, però: per tutta una giornata non ho visto neppure l’ombra di un pensionante. Non puoi immaginare il sollievo.

Nell’ultima lettera ti ho detto che lunedì sarei andata a pranzo dai Köseritz, e in effetti ci sono andata; la cosa più impressionante che mi è capitata è stata farmi prendere dalla timidezza. Pensa un po’. Timida al punto da arrossire e far cadere le cose. Per anni non mi è capitato di pensare al mio aspetto quando sto assieme agli altri, perché per anni ho trovato gli altri sempre così interessanti da dimenticarmi di me stessa. Dai Köseritz, invece, con mio grande orrore, mi sono scoperta all’improvviso consapevole di avere una faccia che mi segue ovunque io vada, di cui alcune parti sono... beh, diciamo che non mi piacciono. Mi sono anche ricordata di essermi pettinata in fretta e furia, e che le dita della mano sinistra hanno quattro vistosi calli nel punto in cui premo le corde del violino, davvero brutti a vedersi, ma del resto non si può suonare il violino e avere le dita morbide. Inoltre sono diventata d’un tratto consapevole dei miei vestiti, ed entrambe sappiamo bene quale sciagura sia, trattandosi di abiti frusti come i miei, vero mamma? Mi hai sempre esortato a indossarli con cura e attenzione, dopo di che affidarli alla bontà divina. Che saggio consiglio! L’ho seguito per così tanto tempo da scordarmi completamente di avere dei vestiti, ma solo fino a lunedì scorso, quando me ne sono ricordata. Sono stati riportati violentemente alla mia attenzione dalla figlia della contessa Köseritz, i cui occhi mi hanno passata al vaglio da capo a piedi e ritorno non appena entrata. Lei era abbigliata in modo impeccabile – aus dem Ei gegossen, come qui si usa definire la più sublime inappuntabilità di aspetto. All’improvviso ho capito ciò che ho sempre sospettato, ovvero di essere trasandata, trasandata e sproporzionata, con gambe troppo lunghe e il tipo sbagliato di piedi. Ho detestato la mia Beethovenkopf con tutti quei capelli. Avrei voluto averne meno, e bene ravviati all’indietro sopra la fronte, spazzolati con cura e ordinatamente ondulati. Avrei anche voluto una camicetta di pizzo immacolata, un giro di perle attorno al collo, una gonna di serge blu dal taglio sartoriale senza schizzi di fango, dato che pioveva e io ero arrivata a piedi. Vuoi sapere come mi sono sentita? Alla buona, sì. Quel tipo di persona di cui, dopo averla incontrata, la gente dice: «Oh, è una ragazza alla buona».

La contessa Köseritz è stata straordinariamente gentile nei miei confronti, il che mi ha reso più timida che mai, sapendo che stava solo cercando di mettermi a mio agio, e credo tu possa benissimo immaginare quanto ancor più timida io sia diventata a quel pensiero. Ho iniziato ad arrossire e a lasciar cadere le cose; e tanto più rossa diventavo, tante più cose lasciavo cadere, tanto più gentile lei diventava. Per tutto il tempo Helena, la mia coetanea, mi ha scrutato con lo stesso sguardo impassibile. Ha un viso totalmente inespressivo. Non vi ho scorto traccia di passione per la musica né per qualunque altra cosa. Non ha tentato di avvicinarmi in alcun modo, si è limitata a fissarmi con quella sua calma. Intanto la madre chiacchierava con l’esagerata vivacità della padrona di casa alle prese con un ricevimento difficile. C’era una governante silenziosa tra due bambini, piccoli Junker ancora in età scolare, che mi fissavano ininterrottamente e sembravano fare vani sforzi per inquadrarmi; c’era una giovane cugina che ha parlato sottovoce rivolgendosi a Helena per tutto il pasto, e il conte Köseritz, molto distratto e arrivato in ritardo, quando mi è stato presentato ha borbottato qualcosa di incomprensibile sul fatto che dovevo essere il nuovo genio appena scoperto da Kloster, dopo di che si è seduto davanti al suo pranzo, da cui non ha mai sollevato la testa, rispondendo a monosillabi ogni qualvolta la moglie cercava di coinvolgerlo per dare una parvenza di generalità alla conversazione. Per tutto il tempo, mentre tendeva l’orecchio verso il chiacchiericcio bisbigliato della cugina, lo sguardo freddo di Helena indugiava su una parte dopo l’altra della tua povera e vulnerabile Chris.

Mi sono addirittura scoperta a sperare ardentemente di non aver dimenticato di lavarmi le orecchie nel trambusto dei preparativi mattutini. Avendo a disposizione solamente un piccolo catino, dato che il bagno è usato come deposito per lenzuola e coperte, da Frau Berg mi devo lavare a pezzi, uno dopo l’altro. Un’operazione difficile e laboriosa, perciò a volte capita di dimenticarsi cose quali le orecchie o altri dettagli di poco conto; quando gli occhi imperturbabili di Helena, in cui non compare balenio di emozione o di esitazione né battito di palpebra, si sono posati su una delle mie orecchie e lì si sono fermati insistenti, mi sono innervosita a tal punto da far cadere a terra il cucchiaio della panna montata che mi veniva servita in quel momento. Il pavimento era di parquet: il cucchiaio ha fatto un gran rumore, la panna un gran disastro. La cosa mi ha terribilmente mortificata, perché durante il pasto avevo già fatto cadere uno spargipepe e rovesciato l’acqua. Il maggiordomo dai guanti bianchi mi si è avvicinato con una sorta di maestoso passo dell’oca portando un nuovo cucchiaio, che ha posato sul piatto che mi veniva porto, e un terzo inserviente di minor magnificenza ma anch’egli in guanti bianchi ha portato un panno e ha pulito il disastro, mentre la contessa diventava sempre più garrula e gentile. Lo sguardo di Helena non ha vacillato neppure per un attimo. Era ancora incollato sul mio orecchio. Ancora qualche istante e avrei raggiunto la condizione in cui il timido, straziato dall’imbarazzo, si lancia in uscite stupefacenti in cui neppure il più ardito si sognerebbe di lanciarsi, ma in quella è arrivato Herr von Inster.

Si tratta del giovane di cui ti ho parlato, quello che mi ha accompagnato al piano quando ho suonato l’altra sera. Eravamo arrivati al caffè, i camerieri se ne erano andati, il conte aveva acceso il sigaro e, assorto nei suoi pensieri, teneva lo sguardo sulla tovaglia mentre la contessa mi dava ampie rassicurazioni sull’interesse del marito per la musica e le interpretazioni musicali delle giovani promesse, e gli occhi di Helena indugiavano su una macchia dell’unica camicetta elegante che possiedo – non riesco a capire come abbia fatto a finire lì, mamma cara, sono terribilmente spiacente; ho cercato di toglierla con la benzina e in ogni altro modo, però è sempre meglio indossare una camicetta macchiata che non indossarne affatto, direi. Per nasconderla ci avevo appuntato sopra dei fiori; all’inizio sono serviti allo scopo, ma poi sono diventati vizzi e penduli, rivelando la macchia, che Helena ha subito localizzato. Ebbene, come dicevo è arrivato Herr von Inster, e tutto si è sistemato. Di aspetto è solo un giovane ufficiale elegante, molto affascinante e slanciato nella sua divisa da guardia del reggimento Uhlan, ma in realtà è anche molte altre cose. È cugino dei Köseritz, e Helena si rivolge a lui con il du. È stato molto cortese, ha detto le cose giuste a tutti, ha spiegato che aveva già pranzato ma che nel passare aveva pensato di fare un saluto. Non ha negato di avere sentito che ero in visita – nel così dire mi ha fatto un inchino e mi ha sorriso al di là del tavolo – né che sperava di convincermi a suonare.

Tuttavia, non avendo un violino non ho potuto farlo. L’avrei tanto voluto, perché non appena suono torno a essere spontanea e felice; la contessa comunque ha detto che si augurava avrei acconsentito a suonare per alcuni suoi amici una sera non appena riuscirà a organizzare la cosa, amici interessati ai giovani geni, per usare le sue parole.

Ho risposto dicendo che ne sarei stata lieta ed era molto gentile da parte sua, ma in cuor mio mi sono detta che prima mi sarei informata presso Kloster, perché se i suoi amici sono interessati alla musica quanto il conte e Helena, allora ho forse più da guadagnarci ad andare a letto alle dieci come al solito invece che emergere in ghingheri dalla mia tana per mettermi in mostra in questi ritrovi di eccelsa virtù.

Una volta arrivato Herr von Inster ho iniziato vagamente a divertirmi, dato che lui si rivolgeva un po’ a tutti, e così facendo sollevava, e di molto, la zia dalle fatiche della conversazione. Helena si è distolta dal mio orecchio e si è messa a guardare lui. Una volta è stata quasi sul punto di sorridere. L’altra ragazza ha smesso di bisbigliare e ha iniziato a parlare di argomenti di cui potevo conversare anch’io, come l’Inghilterra e la Germania – un argomento di cui non ne hanno mai abbastanza – e anche di Strauss e Debussy. Solo il conte sedeva muto, gli occhi incollati alla tovaglia.

«Mio marito muore dalla voglia di sentirvi suonare» ha detto la contessa quando lui si è alzato per tornare al lavoro. «Muore letteralmente dalla voglia» ha rincarato, cercando di rimpinguare l’esiguità dello scarno saluto che mi ha rivolto.

Ma lui non ha aperto bocca neppure davanti a quelle parole. Semplicemente, se ne è andato. A me non faceva per niente pensare a qualcuno che morisse di voglia.

Herr von Inster mi ha riaccompagnata a piedi. È veramente di bell’aspetto, e ha occhi gentili dallo sguardo penetrante e triste al tempo stesso. Parla un inglese impeccabile, come del resto tutti quelli che dai Köseritz si sono degnati di parlare. La sua passione per la musica rasenta il patetico. Kloster sostiene che sarebbe diventato un grande musicista, ma essere uno Junker lo ha predestinato fin dalla nascita. È una tragedia essere obbligati a tradire le proprie inclinazioni naturali, e oltretutto dice che odia la vita militare. Per le strade le persone erano gentili, ed essendo io in compagnia di un ufficiale si scansavano per lasciarmi passare. Non mi hanno spinta giù dal marciapiede nemmeno una volta.

Buona notte, madre mia. Ho trascorso una settimana felice. Ti stringo tra le braccia e ti bacio con tutto il mio amore.

La tua Chris

 

 

Quando Wanda è venuta da me per ritirare il vassoio era molto agitata. Mi ha detto che è stato assassinato un principe. Durante la cena ha sentito gli Herrschaften che ne parlavano. Le è parso di sentir dire che fosse austriaco, ma di qualunque principe si tratti ucciderlo è stato Majestätsbeleidigung, ed è sbalordita che qualcuno abbia osato tanto. Poi è arrivata Frau Berg a darmi la notizia di per sona. Io ero già a letto, con tanto di codini e in punto di addormentarmi. Era agitatissima, e quando l’ho guardata ho sentito un brivido gelato corrermi giù per la schiena. Lo era al punto da contagiarmi, così mi sono agitata a mia volta. Beh, è terribile il modo in cui questi regnanti vengono fatti fuori. Frau Berg dice che erano l’erede al trono austriaco e sua moglie, uccisi entrambi. Ma naturalmente quando riceverai la mia lettera ne sarai già informata. Pur non sapendo niente di preciso mi ha detto che c’è stata un’edizione straordinaria dei giornali domenicali, e ha aggiunto che questo significherà la guerra.

«Guerra?» le ho fatto eco io.

«Guerra» ha confermato, e ha iniziato a girare in tondo per la stanza dicendo: «Guerra. Guerra».

«Ma contro chi?» ho chiesto mentre, seduta a letto con le ginocchia raccolte al petto, la osservavo ipnotizzata.

«Scoppierà» ha dichiarato Frau Berg, movendosi come una profetessa giudaica che fiuti odor di sangue. «Deve scoppiare. Il mondo non avrà pace finché non sarà versato del sangue».

«Ma il sangue di chi?» ho chiesto con voce tremante, dato che il suo tono e il suo atteggiamento facevano gelare il mio, di sangue, nelle vene.

«Il sangue di tutti i malfattori responsabili» ha risposto; e per un attimo si è fermata ai piedi del letto per cingersi il petto con le braccia – l’operazione non è completamente riuscita, forse perché la parola petto fa pensare a qualcosa di un po’ troppo piatto – e poi ha aggiunto: «che sono molti».

Detto questo ha ripreso a girare per la stanza; ogni volta che un piede calava a terra la stanza tremava. «La pagheranno, la pagheranno tutti quanti» diceva spostandosi qua e là. «Gliela faranno pagare, dovranno fargliela pagare. Il castigo sarà grande e terribile. Il sangue scorrerà, dovrà scorrere a fiumi, prima che un crimine del genere possa dirsi vendicato. I malfattori verseranno tutto il loro sangue».

Poi fortunatamente se ne è andata, perché cominciavo a sentirmi gelare per l’orrore tra le lenzuola.

Così, mi sono alzata per scriverti. Lo so, anche tu rimarrai scioccata. È da non credere come i reali vengano ammazzati uno dopo l’altro! Sono così felice di non esserlo, e che neppure tu lo sia, e che entrambe possiamo vivere al sicuro e fruttuosamente fuori dalla portata delle bombe. Poveretti. Che cosa orribile. Eppure sembrano non voler mai abdicare o rifiutarsi di fare i reali, dunque credo che tutto sommato ritengano ne valga la pena. Ma Frau Berg è stata tremenda. Che donna assetata di sangue. Mi chiedo se anche gli altri pensionanti la pensino allo stesso modo. Spero ardentemente di no, perché odio anche solo la parola stessa. E perché dice che ci sarà la guerra? Prenderanno gli assassini e li puniranno, come hanno sempre fatto, e la cosa finirà lì. Quando l’imperatrice d’Austria è stata uccisa non c’è stata nessuna guerra, e neppure quando sono stati uccisi il re e la regina di Serbia. Credo che Frau Berg abbia solo voluto farmi prendere paura. È convinta che gli inglesi, ogni singolo cittadino, dormano tra due guanciali, e che si debba far capire loro a ogni costo cosa si provi a non avere nessuna comodità in cui crogiolarsi. Per il loro bene, immagino.

 

 

 

Berlino, martedì 30 giugno 1914

 

 

Mamma carissima, che bella cosa che tu vada in Svizzera con i Cunliffe il prossimo mese! Lo trovo meraviglioso, e sono certa che ti renderà più forte in vista dell’inverno. E pensa a quanto più vicina sarai! Ho sempre sospettato che in realtà Mrs Cunliffe sia un angelo, e ora ne ho la conferma. La tua lettera mi è appena arrivata, e proprio non potevo aspettare a dirti quanto sia felice.

Chris

 

 

Questa non è una lettera, è un grido di gioia.

 

 

Berlino, domenica 5 luglio 1914

 

 

Mammina adorata, è stata una settimana caldissima. Qui, sotto il tetto, si muore dal caldo. Se a Chertsey fa caldo come qui, spero tu riesca a convincere i Cunliffe a partire per la Svizzera il più presto possibile. Ti rinfrescheresti anche soltanto restando alla finestra a guardare la neve sui monti. Come ti ho detto, la mia camera è affacciata sulla Lützowstrasse; tutto il giorno ci batte il sole, e le mosche hanno iniziato a salire fin quassù in gran numero per sentirmi suonare, ma è difficile esercitarsi come se nulla fosse mentre loro mi camminano sul collo incantate. Non posso mandarle via perché ho entrambe le mani occupate; oh, come vorrei avere una coda!

Frau Berg sostiene che in questa camera non ci sono mai state le mosche, e con quei suoi modi sostenuti insinua che sia stata io a portarcele; le uova, credo intenda, dentro la valigia. È comunque propensa a negare che ve ne siano, soprattutto sulla scorta del fatto che in Germania non è possibile nulla di così anomalo come una mosca al di fuori del suo ambiente, che è il mucchio del letame. Troppo ben organizzata, la Germania, dice. Le ho risposto che doveva essere così senz’altro, se l’aveva letto sui giornali. Le ho risposto male, perciò. Temo che questo clima torrido mi predisponga all’insofferenza. È che la donna è talmente grossa, e sembra risucchiare tutta l’aria a disposizione, e ogni volta che si siede su una sedia questa rimane calda per ore. Cosa non darei perché un qualche americano con la testa che frulla di invenzioni venisse qui e la trasformasse in un ventilatore elettrico! Vorrei tanto averne uno; sarebbe molto bella mentre vortica in giro, e sicuramente produrrebbe un imponente spostamento d’aria.

Bene, mia cara, lo vedi quanto sono irritabile. È per via del caldo, e per il fatto che di notte non rinfresca. E il cibo è sempre bollente e grasso, e il giovanotto pallido con le labbra rosse seduto di fronte a me a pranzo si scioglie in sudore in modo evidente e ininterrotto per tutto il tempo, e Wanda, che porta avanti e indietro i piatti, produce lo stesso effetto di una folata di aria rovente. Kloster dice che lavoro troppo, e vuole che mi eserciti meno. Io gli ho riposto che non vedevo in quale modo meno esercizio avrebbe reso più freschi Wanda e il giovanotto. Ci ho provato un giorno, quando avevo mal di testa, ma non puoi immaginare che giornata interminabile sia stata. Terribilmente vuota. Con niente da fare. Solo Berlino. Di tutto il mondo, credo sia Berlino il luogo dove più ci si sente soli. Kloster dice che è perché lavoro troppo, ma non vedo in quale modo lavorare meno renderebbe Berlino più amichevole. In verità non sono quasi mai sola, perché c’è Kloster, che nei miei confronti dimostra un interesse sincero ed esuberante, oltre a essere il più delizioso degli uomini, e anche Herr von Inster, che da quando sono stata a pranzo da sua zia è venuto a trovarmi già due volte. Inoltre tutti quelli che abitano qui ora mi rivolgono la parola; credo parlino più a me che a qualsiasi altro pensionante: è perché sono inglese e loro sembrano determinati a volermi trasformare in qualcos’altro. Con Hilda Seeberg l’amicizia si è spinta fino al punto da avermi fatto un cauto invito a bere una cioccolata assieme da Wertheim nel pomeriggio di un prossimo futuro, e il giovanotto pallido si è offerto di mostrarmi il museo Hohenzollern una di queste domeniche, dove mediante una serie di reliquie potrà spiegarmi la gloriosa storia di quella nobile famiglia, per usare le sue parole; Frau Berg, malgrado il suo aspetto faccia pensare a un imponente Satana, non deve poi essere così satanica, in fondo. E ogni giorno il dottor Krummlaut, mentre fa il suo ingresso nella sala da pranzo sfregandosi le mani, all’altezza della mia sedia butta lì un «Na, was macht England?»,11 a dimostrazione della sua buona disposizione d’animo. È solo una sensazione, quella di essere completamente sola. Eppure ce l’ho addosso, e tanto più vivo in questo posto, tanto più conosco le persone, tanto più pesante diventa. Lo definirei disagio. Mi sembra che a sentirsi così solo sia il mio spirito, ossia l’unica piccola, essenziale parte di me che è il mio vero io e che conta.

Avanti di questo passo e anche tu, mammina, inizierai a pensarla come Kloster, e a dirmi che lavoro troppo. Cara Inghilterra. Cara, cara Inghilterra. Per comprendere la misura in cui si ama l’Inghilterra non bisogna fare altro che venire in Germania.

Naturalmente ai pasti qui tutti parlano solo e unicamente dell’assassinio dell’arciduca. È soprattutto l’impudenza dei serbi a farli rimanere senza fiato per lo sdegno. Come hanno osato! Il dottor Krummlaut dice che non avrebbero mai osato commettere un atto di tale atroce blasfemia se non fossero stati istigati dalla Russia, una nazione che trabocca di invidia per il potere teutonico e incoraggia qualunque affronto alla Germania. L’intera tavola, a eccezione della svedese che mangia e tace, vede rosso al solo udire la parola affronto. Frau Berg insiste nel dire che prima che torni la calma nel mondo ci sarà uno spargimento di sangue, ma non è certo di sangue tedesco che sta parlando. Danno a intendere che la Germania è circondata da popoli di grande malvagità, gonfi di invidia, odio e rancore, tutti di proporzioni gigantesche. In mezzo a questi mostri si ritrova a brucare una Germania candida, soffice e adorabile, un agnellino tra le potenze, il cui unico sincero desiderio è amare ed essere amata, e fisicamente deboluccia se paragonata ai torreggianti vicini ma forte nella sua semplicità e nella consapevolezza del suo gute Recht. Quando parlano di tutte queste cose si voltano verso di me in cerca di sostegno e approvazione – hanno smesso di aspettarsi una reazione dalla svedese, perché lei si limita a mangiare – e io in fretta e furia passo in rassegna le mie parole migliori per scegliere la più adatta, che solitamente è herrlich, oppure ich gratuliere. Ma il cinismo colossale, direi anzi cosmico, che scaglio con quelle parole scivola sulla loro pelle coriacea e insensibile senza colpo ferire.

Penso abbia ragione Kloster: non sono ancora cresciuti. Persone come i Köseritz, gente di mondo, non svelano la propria immaturità nella stessa misura di questi tedeschi di ceto medio, ma direi che sono tutti uguali. Dei bambini hanno anche l’avidità – non verso il cibo, per quanto abbiano anche quella e mostrino l’interesse impetuoso del bambino di dieci anni riguardo a ciò che ci sarà per cena – intendo dire l’avidità per ciò che appartiene agli altri.

Nei loro discorsi, nelle loro esposizioni dei deutsche Idealen, non ho mai trovato la minima traccia di considerazione per gli altri, e neppure il riconoscimento che anche altre nazioni possano avere diritti e virtù. Ho chiesto a Kloster se non mi sia per caso imbattuta in un gruppetto di persone che per la loro visione del mondo possono essere considerate un’eccezione, ma lui mi ha risposto di no: questa visione è tipica dei prussiani, e le altre classi sociali, sia più alte che più basse, la pensano allo stesso modo; l’unica differenza è il diverso modo di esprimerla.

«Tutta questa gente, Mees Chrees» ha spiegato, «è stata ammaestrata. Non dovete mai dimenticare questo importante fatto. Ogni uomo di ogni classe sociale ha trascorso gli anni più influenzabili della sua vita sotto addestramento. Questo lo perseguiterà per sempre. E ancor prima di quello ci sono la nursery e la scuola, dunque addestramento, e addestramento duro, sotto un’altra forma. Fin dal momento in cui impara a parlare, con l’addestramento gli viene inculcato ciò che le autorità ritengono più conveniente egli pensi. Ora che è pronto per il servizio militare la sua mente è già stata plasmata nella forma desiderata. Poi arriva il momento del perfezionamento, quando il corpo è addestrato per adattarsi perfettamente alla mente, ed ecco pronto lo schiavo compiuto. Ed è proprio perché è uno schiavo che quando ha il potere – ogni uomo ne ha un po’ su qualcun altro – diventa così prepotente».

«Ma anche voi sarete stato addestrato» ho ribattuto, «eppure non siete affatto così».

Per un istante mi ha guardato con i suoi bizzarri occhi sporgenti. Dopo di che ha risposto: «Mi hanno detto, e io ci credo, che non c’è uomo che riesca davvero a liberarsi dei condizionamenti».

 

 

Sera

 

 

Mi sento enormemente sollevata, perché indovina cosa ho fatto da quando ho finito di scriverti questa mattina? Ho scorrazzato per la campagna, la campagna soave e benedetta, dimora degli eletti di Dio, come recitano gli inni, con l’unica differenza che gli inni si riferiscono a Gerusalemme e alla natura dorata di Gerusalemme, che non può però essere bella nemmeno la metà di una semplice distesa di erba e margherite. Verso le dodici è apparso Herr von Inster. Wanda è venuta alla mia porta e ha preso a menar colpi con quello che aveva l’aria di essere un tegame, e credo proprio lo fosse, perché non è tipo da perdere tempo smettendo di mescolare il pudding per andare ad aprire la porta, e si è messa e sbraitare: «Der Herr Offizier ist schon wieder da».12

Deve averla sentita tutto l’appartamento, e anche lo stesso Herr von Inster.

«Eccomi schon wieder da» ha esordito battendo i tacchi nel vedermi entrare in sala da pranzo, dove mi stava aspettando nel caos delle operazioni iniziali di apparecchiatura della tavola da parte di Wanda.

Mi ha detto che il Maestro – lo chiama sempre così quando parla di Kloster, con voce colma di affetto e ammirazione – era giù in auto assieme alla moglie, e l’aveva incaricato di chiedermi se desideravo unirmi a loro per una scampagnata vista la giornata di bel tempo.

Puoi immaginarti con quale velocità mi sono messa il cappello.

«Vi sta già facendo bene» ha detto guardandomi mentre scendevamo i quattro piani di scale, perciò Kloster ha riferito anche a lui la storia del troppo lavoro.

Herr von Inster si è messo al volante, e noi tre ci siamo sistemati dietro, avendo lui accanto a sé il suo attendente-autista, ragion per cui non ho potuto parlargli come avevo sperato, perché lui mi piace davvero molto, così come piacerebbe a te, mammina. In lui non c’è nulla che faccia pensare al solito gradasso aggressivo. Sono sicura che, se anche non ha spazio, non è tipo da spingere una donna giù dal marciapiede.

Penso di non averti parlato di Frau Kloster, ma solo perché ci si continua a dimenticare della sua presenza. Forse è proprio quella virtù di benefica invisibilità ciò che un artista più cerca in una moglie. Non dice mai nulla, tranne le cose che non richiedono una risposta. Senz’altro una qualità non da poco in una moglie, direi. Di tanto in tanto, quando Kloster si lascia prendere un po’ troppo la mano con le sue battute sulla lesa maestà, lei mormora un «Aber Adolf»; oppure annuncia in tono placido che ha appena ucciso una zanzara, o ancora che il cielo è azzurro. E il chiacchiericcio di Kloster prosegue imperturbato sopra la superficie di quella piccola corrente sottomarina senza quasi far cenno di accorgersene. Sembrano molto felici. Lei si occupa di lui con la stessa sollecitudine che dedicherebbe a un bebè – sai no, quegli esserini rosei che non riescono a far nulla da soli senza crollare a terra – e con piglio competente gli sgombera la vita tutt’intorno, rendendogliela vuota e libera così che abbia spazio per lavorare. Come vorrei avere anch’io una moglie!

Abbiamo attraversato Potsdam e svoltato per Brandeburgo, dopo avere pranzato nei boschi a Potsdam presso il lago sulle cui rive sorge il Marmorpalais. Mentre mangiava Kloster fissava il palazzo rispecchiarsi nell’acqua, e i suoi discorsi risultavano spiacevolmente influenzati da quella vista. Herr von Inster, quale ufficiale del re, avrebbe avuto il dovere di colpirlo col piatto della spada, ma non lo ha fatto; lo ascoltava e sorrideva. Forse provava ciò che prova chi è sinceramente devoto a Dio, ossia che gli Hohenzollern sono talmente eccelsi da essere inattaccabili dalle critiche, ma ne dubito; o forse guarda Kloster con indulgenza, come un bambino dotato ma capriccioso, però dubito anche di quello. È intelligente, e non è tipo da lasciarsi persuadere che una vanga sia qualcosa di diverso da una vanga, per quanto la si possa decorare per farla assomigliare all’Arca dell’Alleanza o a qualsiasi altra cosa arcaica e inghirlandata.

Frau Kloster ha portato il cibo, di cui buona parte ciliegie, che scivolavano giù per la gola arida come una fresca manna dal cielo. Stentavo a credere di essere davvero riuscita a sfuggire al pranzo domenicale alla pensione. Eravamo felici e beati, tutti quanti, credo, di starcene lì seduti sull’erba presso il ciglio dell’acqua, con un venticello a scompigliarci capelli – a eccezione di Kloster, che ne è felicemente privo, il che deve essere delizioso quando fa caldo – e a fare ondeggiare i giunchi.

«Più passano le ore e più acquista colorito» ha detto Kloster a Herr von Inster posando su di me gli occhi tondi.

Herr von Inster mi ha fissato con i suoi, seri e penetranti, senza proferir parola.

«Abbiamo portato fuori un pallido anemone» ha soggiunto Kloster, «ma vedrete, torneremo con una rosa. Al momento, Mees Chrees, siete una via di mezzo tra i due. Non siete più un anemone, ma non siete ancora una rosa. Scommetto che per le cinque al massimo la metamorfosi sarà completa».

Sono stati molto gentili per tutto il giorno, non puoi sapere quanto, mamma cara, anche Frau Kloster, sebbene uno continui a dimenticarsi della sua presenza. Herr von Inster non ha parlato molto, ma sembrava contento come tutti noi. Buffo pensare come soltanto questa mattina ti stessi scrivendo di quanto mi sentissi sola, soprattutto nello spirito. E in effetti lo ero, proprio come lo sono stata per tutta la settimana. Ora invece non mi sento più tale. Perciò vedi come giova la compagnia di un uomo retto, ben più delle sue preghiere? E la compagnia di due di loro giova esattamente il doppio. Kloster è senz’altro un uomo retto, che per me significa sia intelligente che buono, e sono sicura che Herr von Inster lo è altrettanto. Se non lo fosse, lui, un ufficiale Junker, reputerebbe intollerabile stare in compagnia di persone come i Kloster, totalmente al di fuori del suo mondo. Non li frequenterebbe. Non li troverebbe minimamente interessanti. È divertente osservare il suo profilo risoluto, regolare e inespressivo e poi, quando si gira per guardarti in faccia, vedere i suoi occhi. Incredibile quanta differenza può fare un paio d’occhi! Il suo viso è quello dell’uomo perfettamente addestrato, dell’automa non pensante, dell’inappuntabile Oberleutnant di buona famiglia, ma in esso si affacciano gli occhi di un essere umano che sa capire, o, ne sono certa, saprà capire prima che la vita abbia fatto il suo corso, cosa sono l’umano esultare, l’agonia, l’amore e la mente indomabile dell’uomo. È davvero molto carino. Sono sicura che ti piacerebbe.

Dopo pranzo, e dopo che Kloster ha detto altre cose riprovevoli, in apparenza fortemente ispirato dal palazzo antistante e da alcuni ricordi personali sugli Hohenzollern che un tempo ospitava, mentre io me ne stavo distesa lasciando correre lo sguardo lungo i tronchi dei faggi fino al vivido fogliame che risaltava contro l’azzurro intenso del cielo – sapessi che incanto! – e Frau Kloster interveniva di quando in quando con un «Aber Adolf» o annunciava di aver ucciso un’altra zanzara, ci siamo rimessi in auto diretti a Brandeburgo, costeggiando la catena di laghi formati dallo Havel. Dopo la Lützowstrasse sembrava il paradiso. Alle quattro ci siamo fermati in una Gasthaus tra i boschi di pini e abbiamo preso caffè e fragole selvatiche, e Herr von Inster mi ha portato a fare un giro sull’Havel con un vecchio barchino a remi che abbiamo trovato ormeggiato tra i giunchi.

Mi sembrava strano vedere un ufficiale in tutta la sua magnificenza domenicale portare un barchino, ma alcune situazioni che ai nostri occhi paiono ridicole, vengono gestite dai tedeschi con grande semplicità. L’impressione, infatti, era quella di essere portati in gita sul Tamigi da un uomo in cilindro e mantello nero. Con la sua snella eleganza e il modo di tenersi in equilibrio a poppa sulla stretta panca di legno putrido sembrava un’agile libellula; oppure somigliava a Sigfrido, un Sigfrido in versione moderna, decisamente moderna, intento al suo viaggio lungo il Reno; la favolosa, barbara imbarcazione e il bel fisico dal portamento spavaldo, capace di mangiarsi mezza pecora in una sola volta e di fare l’amore instancabilmente con dee lussuriose, ridotti dai secoli a quel vecchio barchino condotto lentamente sull’acqua da un uomo asciutto con gli occhi pensosi.

Gli ho detto che mi sembrava Sigfrido nel secondo atto del Crepuscolo degli dei, ma logorato nel fisico dal passare dei secoli, e lui è scoppiato a ridere dicendo che se non altro Brunilde era salva nella barca assieme a lui e non doveva superare nessun fuoco per andare a salvarla. Dice che a suo parere la musica di Wagner e quella di Strauss rispecchiano nel più profondo la Germania di oggi: il frastuono, il sentimentalismo melenso che fa versare al pubblico lacrime caramellose, l’esaltazione brutale della forza, la millanteria conquistatrice, l’estremizzazione delle emozioni, l’abissale sconforto. Sono la naturale espressione, diceva, della fase che sta attraversando la Germania, e Strauss ne è la più recente fioritura: persino più assordante, più sanguinaria e di uno sconforto ancor più immenso.

In quel frastuono sterminato, ha detto, c’è tutta la Germania di adesso, una Germania che sempre sarà tale finché non si risveglierà da quell’incubo che è la brama di conquista che la possiede da quando l’attuale imperatore è salito al trono.

«State dicendo cose che non dovreste senz’altro dire» ho ribattuto.

«Ovvio. È sempre così, in Germania. Dato che tutto è proibito non ci resta che trasgredire. Devo ancora capire come una pletora di leggi possa indurre la gente a comportarsi bene. Bene, cioè, secondo il desiderio delle autorità».

«Eppure Kloster dice che siete una nazione di schiavi, e che l’addestramento impartito vi spinge appunto a comportarvi secondo il desiderio delle autorità».

Lui ha ribattuto che è vero, sono schiavi, ma ritiene esservi due tipi di schiavi: quelli completamente sottomessi, che non danno problemi, e i dissidenti clandestini, che si concedono ogni sorta di soddisfazione proibita con il pensiero e la parola per compensare il loro ossequio esteriore alle regole. «Del genere che aspetta solo l’occasione per scatenarsi e affrancarsi» ha aggiunto. «E badate, il pensiero non può essere incatenato. Le autorità lo sanno, ecco perché ciò che temono sopra ogni altra cosa è il pensiero».

Ha poi parlato dell’assassinio di Sarajevo, e ha manifestato il timore che la cosa non si risolverà tanto facilmente. Ha detto che la Germania freme – «freme!» ha ripetuto con enfasi – dal desiderio di guerra; che è in pratica impossibile avere un grande esercito addestrato a un tale grado di perfezione, com’è al momento quello tedesco, e non farne uso; e che se un’arma del genere non viene impiegata finisce per esasperarsi, per causare una serie infinita di danni al suo interno e ritorcersi contro la stessa corona che l’ha creata. Costringere all’inattività un esercito portato a un tale livello di maturità, ha spiegato, sarebbe come tenere legato in scuderia un cavallo giovane e pasciuto di biada senza permettergli di fare movimento; presto inizierebbe a scalpitare tanto da far cadere a pezzi il ricovero.

«Detesto l’esercito» ha detto. «Detesto la vita militare e tutto ciò che implica aggressione, crudeltà e crimine su così vasta scala da risultare impunibile».

«Oh santo cielo, sapeste io!» ho esclamato tutta infervorata.

Poi mi ha raccontato una cosa che mi ha lasciata di sasso. Ha detto che in Germania i bambini si suicidano. Si tolgono la vita, ragazzetti in età scolare, ma anche più piccoli, ogni anno parecchi. Ha detto che sono spinti a farlo dai crudeli carichi di lavoro cui vengono sottoposti e da come viene inculcato loro che se a scuola non saranno promossi e non faranno i dovuti avanzamenti, loro stessi e i loro genitori saranno per sempre disonorati e la loro carriera inevitabilmente compromessa. Immagina l’infelicità che un povero bambino deve provare prima di arrivare a trovare preferibile togliersi la vita. Non c’è altra nazione che si macchi di una tale onta.

«Sì» ha convenuto vedendo l’espressione sul mio viso, «sì, siamo pazzi. Durante questo regno siamo impazziti, impazziti per l’ossessione di essere primi al mondo a tutti i costi e con qualunque mezzo. Dobbiamo essere superiori, esserlo a qualunque sacrificio, persino a costo della felicità e della vita. Dobbiamo essere meglio addestrati, più efficienti e più svelti delle altre nazioni a predare, e sono i bambini a doverlo fare per noi. Il nostro futuro è affidato alle loro menti. E se falliscono, se non riescono a sopportare tale peso, li spezziamo. Non ci servono più a niente. Li abbandoniamo. Chi se ne importa se si uccidono? Qualche inefficiente in meno in circolazione, ecco tutto. Lo Stato li preferisce morti».

Intanto, mentre mi diceva tutto questo, Kloster e sua moglie, comodamente distesi fianco a fianco sulla riva sotto un albero, dormivano con un fazzoletto allargato sul viso. Ecco, è questa l’idea della Germania che abbiamo in Inghilterra: una moltitudine di coppie tranquille, gentili e sonnacchiose, che trascorrono il pomeriggio schiacciando un pisolino in giardino o in pineta. Ed è proprio questa idea che il governo vuole mantenere agli occhi dell’Europa, sostiene Herr von Inster, l’idea di una innocuità benevola e odorosa di birra. Non vuole che le altre nazioni vengano a sapere dei bambini, dei bambini morti, gettati via, della spietata eliminazione di qualunque materiale che non sia d’aiuto a far avanzare la loro grande macchina di distruzione, perché allora le altre nazioni verrebbero a sapere, dice, prima di quando la Germania sarà pronta a che si sappia, che essa è capace di qualunque azione.

Wanda mi ha appena portato via la lampada. Buona notte madre mia dolcissima.

La tua Chris

 

 

Berlino, mercoledì 8 luglio 1914

 

 

Mamma adorata, Kloster dice che questa settimana devo trasferirmi in campagna e restarci per almeno quindici giorni. Questa mia è giusto un messaggio per informarti della cosa e dirti che ha scritto a una famiglia di guardaboschi di sua conoscenza residente nel cuore della foresta sopra Stettino. Sono soliti ospitare villeggianti estivi, hanno già ospitato altri studenti di Kloster, e lui sta organizzando la cosa in modo che li raggiunga sabato questo.

Ti dispiace, mamma cara? Cioè, che faccia qualcosa così all’improvviso senza chiedertelo prima? È che mi sento come la coda dimenata dal cane, costretta a dimenarsi, che lo voglia o meno. L’essere reclusa in un angolo, dover saltare le lezioni per due intere settimane mi rende molto infelice, ma protestare non serve a nulla. Con Kloster protestare è impossibile. Mi ha detto che se non ci vado si rifiuterà di continuare le lezioni. Anzi, si è arrabbiato molto quando l’ho implorato, e ha detto che non valeva comunque la pena di sprecare del tempo con qualcuno così esaurito per il troppo esercizio da non essere in grado di lavorare decentemente, e che se non ci avessi dato un taglio sarei finita a suonare nella seconda fila di violini (nemmeno nella prima!) di una pantomima. Parole che mi hanno istantaneamente ridotta al silenzio. Un silenzio terrorizzato. A quel punto è tornato di nuovo gentile, e si è messo a parlare del fatto che mi è toccato questo raro talento, ha detto che Dio solo sa per quale motivo sia dovuto capitare proprio a me, una donna, e con quella sua aria da crostaceo si è chiesto quale beneficio potrà mai portare un tale colpo di fortuna proprio a una donna, e poi che è una grande responsabilità, e che non devo pensare che sia soltanto qualcosa di personale, da sciupare e rovinare a mio piacimento, bensì qualcosa di appartenente a tutta l’umanità. Nell’udire quelle parole ho sentito un brivido freddo corrermi giù per la schiena. Aveva un’aria terribilmente solenne, perciò lo sono diventata anch’io, e ho avuto l’impressione di trasformarmi, come Wordsworth nel Preludio , in uno spirito dedicato.

Tuttavia credo abbia ragione, ed è tempo che mi riposi un po’. Per tutta la settimana ho sentito l’irritazione montarmi dentro a ogni nonnulla, e sono stata sempre più insofferente per le mosche; non ci crederai, ma un giorno sono arrivata al punto di sedermi e piangere calde lacrime per il fastidio che mi davano quegli stupidi insetti. Ho dovuto promettere che non metterò mano al violino per tutta la prima settimana, e per non più di due ore al giorno per la seconda, dopo di che, se mi sentirò di nuovo in forma, potrò anche tornare da Frau Berg. Dice che lui stesso sarà per una decina di giorni a Heringsdorf, una località di mare non lontana dal mio luogo di villeggiatura, e verrà a trovarmi per controllare se mi comporto bene. Ha aggiunto che la dimora di campagna dei Köseritz non dista molto da dove sarò io, così non potrò dire che non conosco anima viva. Il ricevimento dai Köseritz in cui avrei dovuto suonare è poi finito in niente. E io ne sono stata ben felice. Non avevo nessuna voglia di esibirmi in quell’occasione, né di preoccuparmi dei dettagli e di tutto il resto. Herr von Inster mi ha riferito che il clima torrido ha fatto fuggire la contessa in campagna. Anche lui sembra pensare di dover partire. L’ho visto oggi pomeriggio dopo essere stata da Kloster; dice che starà da sua zia – cioè dalla contessa Köseritz – mentre sarò nei paraggi, e verrà a trovarmi a cavallo. Penso che ti piacerebbe davvero molto. Questo è l’indirizzo:

bei Herrn Oberförster Bornsted
Schuppenfelde
Reg. Bez. Stettin

Non ho idea di cosa significhi Reg. Bez. L’ho copiato da un cartoncino che mi ha dato Kloster, credo sia da aggiungere all’indirizzo. Ti scriverò subito appena arrivata. Vedi di non preoccuparti per me, mamma; Kloster dice che i padroni di casa sono persone molto gentili, e che il posto è quanto mai salubre, nel fitto della foresta, sul limitare di un qualcosa che chiamano l’Haff, dev’essere un corso d’acqua. Dice che nel giro di una settimana saltellerò qua e là sul pendio della collina come un giovane capriolo; inoltre cerca di entusiasmarmi parlandomi di tutte le fragole selvatiche e di tutta la panna che ci sono lassù.

Con tutto l’amore del mio cuore, mamma cara.

La tua Chris confusa e alquanto in subbuglio

 

 

Oberförsterei, Schuppenfelde, 11 luglio 1914

 

 

Mamma carissima, sono arrivata, ed è un luogo incantevole. Non volevo andare a letto senza prima dirtelo. Siamo immersi nella foresta, a quindici chilometri dalla stazione ferroviaria più vicina, senza contare che si tratta di una Kleinbahn, una di quelle stazioni giocattolo in cui due volte al giorno passa un trenino che arranca dopo un viaggio di tre ore da Stettino. L’Oberförster è venuto a prendermi con un’alta carrozza gialla trainata da due cavalli a coda lunga che, a giudicare dal loro comportamento individualista, non devono essere stati sottoposti a un addestramento troppo severo; la carrozza ci ha sballottati per il bosco lungo sentieri il cui fondo era a volte tutto sabbia altre tutto radici, e l’aria della sera era talmente soave dopo il treno, così carica di diverse fragranze e di freschezza che non ho fatto altro che tenere il naso sollevato per aria e aspirare con gioia.

L’Oberförster ha pensato che avessi il raffreddore ma non il fazzoletto, e di lì a poco, dopo qualche istante di imbarazzo, mi ha offerto il suo.

«Non è pulitissimo» ha commentato, «ma sempre meglio di niente». L’ha detto gridando, perché essendo io straniera avrei certamente capito meglio se le cose venivano dette a voce alta.

Io gli ho risposto come meglio potevo, cioè non molto bene, che quelle mie inspirazioni rumorose erano inspirazioni di giubilo.

«Ach so» ha detto lui indulgente, di quell’indulgenza che si prova davanti a un ospite appena arrivato, quando ancora non si è capito come sia veramente.

Dopo quell’episodio abbiamo proseguito in silenzio. Sulla pista sabbiosa le ruote quasi non producevano rumore, e d’un tratto mi sono resa conto che da troppo tempo non sentivo cantare un uccello. Come avrei voluto che tu fossi lì sulla carrozza, mamma, che questa sera con me ci fossi anche tu. C’erano ghiandaie, gazze, picchi e uccellini minuscoli come fringuelli, che con il loro soave canto monocorde ripetevano la battuta d’apertura della Sinfonia n. 5 in do minore di Beethoven. Nel tragitto non abbiamo incontrato anima viva, tranne un uomo con un carretto carico di legna che ha salutato l’Oberförster con grande deferenza, e qualche bimbetto malconcio che raccoglieva fragole selvatiche. Avrei voluto commentare lo sfacelo del loro aspetto, che mi è parso strano in questo paese così ben governato, ma ho ritenuto meglio rimandare la conversazione a quando avessi avuto tempo di ampliare il mio vocabolario, cosa a cui mi applicherò con diligenza, qui, e a quando l’Oberförster avrà scoperto che non ha bisogno di urlare per farsi capire. Seduto vicino com’era al mio orecchio, ogni volta che ci urlava dentro provavo la sensazione che qualcuno mi picchiasse, esattamente la stessa quantità di dolore.

È un uomo alto tutto pelle e ossa, con la nuca troppo piatta e gli occhi sporgenti tipici di così tanti tedeschi. Cosa sarà mai che manca alle loro teste, mi chiedo? Ha i baffi come quelli del Kaiser, e con la sua divisa grigio verde da guardaboschi e il cappello floscio con la piuma fa proprio bella figura. Senza cappello, invece, è molto meno autorevole, per via della testa. Oh, so bene che deve pur averne una, ma se potesse farne a meno sarebbe un gran bell’uomo.

È un luogo davvero incantevole, sai mamma? Ho una cameretta deliziosa, linda e spoglia, molto piacevole dopo la cupa sontuosità della mia stanza-salotto da Frau Berg. Non puoi sapere che sollievo sia essere qui dopo quel lungo e afoso viaggio. Non è piacevole viaggiare sola in Germania, se sei donna. Alla stazione sono stata scansata a gomitate da ogni uomo e ragazzo presente, alla stregua di un bagaglio senza proprietario. Già, oppure mi fissavano con insistenza, facendo commenti. Un ragazzino – non poteva avere più di dieci anni – mi ha fatto l’occhiolino e ha bisbigliato qualcosa a proposito di un bacio. La stazione di Stettino è un luogo orribile, peggio ancora di quella di Berlino. Non riuscivo a capire da dove sbucassero tutte quelle orde di teppisti, ragazzi appena al di sotto dell’età militare, incredibilmente spregevoli e insolenti. La confusione che regnava sui marciapiedi era aggravata dalle centinaia di russi e polacchi con famiglie e fagotti al seguito. Ho chiesto al facchino chi fossero, e lui me l’ha spiegato. Venivano portati da un luogo dove avevano lavorato come braccianti agricoli a un altro, guidati da un sovrintendente tedesco armato di cane feroce e revolver; erano poveri e laceri; però erano tutti gentili e, paragonati ai tedeschi, con bei modi; c’era una quantità di ufficiali – è stata in assoluto la stazione più gremita che ho visto, credo, e anche loro mi fissavano, e sono certa che se fossi stata in difficoltà e avessi avuto bisogno di aiuto mi avrebbero voltato le spalle. Kloster mi ha detto che i tedeschi dividono le donne in due categorie: quelle che loro desiderano baciare e quelle che vogliono prendere a calci, che sono poi tutte quelle che non desiderano baciare. Penso che, oltre che nei fatti, ci sono molti modi in cui si può venire baciati e presi a calci, e su quell’orrenda banchina alla stazione di Stettino mi è parso di avere subito entrambe le cose. Puoi quindi immaginare che cosa paradisiaca sia stata approdare in questa meravigliosa foresta immersa nella pace, nella sacralità, lontano da tutto e tutti. Frau Bornsted, che ha studiato l’inglese a scuola, mi ha spiegato che in tutte le fattorie, compresa la sua, lavorano russi e polacchi, reclutati a migliaia dai capisquadra tedeschi in primavera. «È un’ottima soluzione» ha detto. «In caso di guerra non li lasceremmo partire, così i campi non sarebbero abbandonati». In caso di guerra! Quella parola è sempre sulle loro labbra. Persino in quest’angolino sperduto pieno di pace.

L’Oberförsterei è una casa bianca e bassa circondata da una radura coltivata a patate, con un prato sul retro che digrada verso un fiumiciattolo e sul davanti un giardino cintato da una bassa staccionata, pieno di garofani, speronelle e viole. Sopra l’ingresso è appeso un palco, orgogliosa reliquia di un enorme cervo che l’Oberförster ha abbattuto in un giorno particolarmente fortunato, e quando siamo arrivati Frau Bornsted stava cucendo in veranda, sotto il caprifoglio. Pareva l’allegoria della Germania ritratta sui libri di storia ai tempi della scuola. Dopo la Lützowstrasse sembra quasi troppo bello per essere vero. Frau Bornsted è una giovane donna di bell’aspetto, più piatta che snella, alta, con begli occhi azzurri profondi e lunghe ciglia nere. Sarebbe molto carina se solo si rendesse conto di esserlo, ma evidentemente ciò non accade, o forse essere carine non è consono al luogo; credo sia questo il vero motivo per cui tiene i capelli tirati all’indietro e raccolti in una piccola crocchia dura, lasciando scoperto un viso che strofina quotidianamente con lo stesso sapone e la stessa energia che riserva al tavolo della cucina. Non ha figli e direi che non supera i venticinque anni, ma ha lo stesso aspetto che in Inghilterra avrebbe una donna di trentacinque o addirittura quarant’anni.

Qui è tutto meraviglioso. Sembra di essere dentro un libro di fiabe. Abbiamo cenato fuori, in veranda. La cena è stata cucinata, messa nei piatti e servita dalla stessa Frau Bornsted: crema di latte – deliziosa, l’ho lappata avidamente come un gattino assetato – carne fredda e patate fritte, dopo di che cagliata e siero e fragole selvatiche con panna. Hanno una mucca molto attiva, che produce tutta la cagliata, il siero, la panna, il burro e la crema di latte, oltre a continuare a sfornare vitelli senza un lamento. «È un vero esempio» ha detto Frau Bornsted, sempre intenzionata a parlare in inglese, il che è in contrasto, temo, col mio voler parlare in tedesco.

Mi ha condotta alla finestra e mi ha mostrato la mucca che pascolava, come Davide, accanto alle acque ferme. «E non si ribella mai, proprio come si conviene a una rappresentante del genere femminile» ha rincarato voltandosi e guardandomi. Ha poi esplicitato ulteriormente il suo pensiero aggiungendo: «Non sarete una suffragetta, spero?»

Per la cena l’Oberförster si è infilato una casacca leggera di lino verde, che ha lasciato sbottonata a indicare che non era in servizio, e siamo rimasti seduti a tavola finché sono comparse le stelle in cielo. I gufi chiurlavano nella foresta oltre la strada, e i pipistrelli sfrecciavano sopra le nostre teste. C’erano anche le zanzare. Un’incredibile quantità di zanzare. Herr Bornsted mi ha detto che tra un po’ non ci farò più caso. «Herrlich» ho replicato con entusiasmo.

E ora sto per andare a letto. Kloster ha fatto bene a mandarmi qui. È da un po’ che sto affacciata alla finestra. La notte è meravigliosa, un’immensa grotta scura di morbido velluto. La mia stanza è sul retro della casa, dove ci sono il prato e la brava mucca, e oltre il fiumiciattolo c’è un’altra fascia di foresta, quindi, giusto sopra le cime dei pini, che sono di una tonalità appena più tenue del resto dell’oscurità vellutata, una pallida linea di luce che è l’acqua dell’Haff illuminata dalle stelle. Giù presso il fiume gracidano le rane, e di tanto in tanto un gufo lancia il suo grido in qualche punto lontano, e l’aria fresca e umida che sale dall’erba alta mi accarezza il viso. Non riesco a spiegare l’effetto che ha su di me questo meraviglioso silenzio, questa pace benedetta dopo il trambusto di Berlino. Mi sembra di essere tornata a Dio. Di essere tornata a casa, in paradiso, dopo essere stata costretta a trascorrere sei settimane all’inferno. Eppure persino qui, persino qui nel grembo della pace, mentre eravamo seduti in veranda dopo cena, l’Oberförster non ha fatto che parlare di Weltpolitik. Basta il suono di quella parola per farmi sobbalzare; perché quello che significa, una volta tolti i fronzoli e considerata nuda e cruda, è soltanto impadronirsi di ciò che è d’altri, a cominciare dal loro sangue. Devo imparare il tedesco a sufficienza per spiegarlo all’Oberförster: assassinio, come preludio al furto. Ma temo che mi rispedirebbe di filato da Frau Berg, in disgrazia.

Buona notte, mamma carissima. Ora ti scriverò più spesso. Le solite regole non valgono per queste due settimane. Che Dio ti protegga, mammina adorata.

La tua Chris

 

 

 

Schuppenfelde, lunedì 13 luglio 1914

 

 

Mamma dolcissima, mi è stata recapitata la tua lettera dalla Svizzera questa mattina, e mi piace pensare che sei molto più vicina di quanto non fossi una settimana fa. Perlomeno cerco di convincermi che devo esserne felice, ma in fondo al cuore non fa nessuna differenza. Perché qual è l’utilità di saperti anche a un solo chilometro di distanza, se tanto non posso vederti? È come averti lontana mille chilometri. L’unica cosa che mi farà tornare da te sarà portare a termine il mio lavoro. Vorrei lavorare, e alla svelta, e invece me ne sto qui senza far niente, sprecando preziose giornate, ognuna delle quali, se non utilizzata per lavorare, significherà una giornata in più lontana da te. E poi sto benissimo. Non c’è quindi ragione al mondo per cui non debba riprendere a esercitarmi in questo preciso istante. Ieri un’intera giornata nella foresta mi ha completamente ristorata. Alla fine di questa settimana di ozio forzato scalpiterò come un cavallo rinchiuso in un box. Poi, la settimana seguente, potrò esercitarmi solo due ore al giorno. Beh, credo proprio che mi butterò su quelle due misere ore come un mendicante affamato su una crosta di pane.

Ma ora basta lamenti. Il fatto è che ti voglio un mondo di bene, e che sento terribilmente la tua mancanza. Lo sai, no, quanto sentivo la tua mancanza la domenica, a Berlino, perché quel giorno avevo tempo di abbandonarmi ai sentimenti, di ricordare, e qui ogni giorno mi sembra domenica. Ne ho già trascorse due, di domeniche, ieri e oggi, e non oso immaginare in quale stato mi ridurrò quando avrò trascorso anche tutte le altre. Ieri ho camminato per chilometri, e tanta più bellezza vedevo tanto più sentivo la tua mancanza. A che serve tutta questa meraviglia senza nessuno con cui condividerla? Voglio avere vicino qualcuno, che possa a sua volta vederla e goderne. Come saremmo felici se fossi qui anche tu!

Vorrei tanto che conoscessi Herr von Inster, perché sono convinta che ti piacerebbe. Penso sia un tipo fuori dal comune, e so che queste persone ti piacciono. Oggi ho ricevuto una sua lettera, assieme a un libro che pensava mi fosse gradito, ma l’ho già letto: Jerusalem di Selma Lagerlöf. Ricordi quando l’abbiamo letto assieme, quella Pasqua in Cornovaglia? Ma in ogni caso non trovi sia stato gentile a mandarmelo? Dice che arriverà da queste parti entro la fine della settimana, e che verrà a trovarmi e rinverdirà la conoscenza con l’Oberförster, con cui credo sia andato a caccia qualche volta quando era ospite dai Köseritz. Il suo nome di battesimo è Bernd. Mi sembra un nome carino, e così onesto.

Credo che dicendo entro la fine della settimana egli intenda sabato, il che significa una lunga attesa. A Berlino, quand’ero tanto occupata a lavorare, il sabato sembrava piombarmi addosso in un battibaleno, subito a ridosso del lunedì. Mamma, fidati di me, fidati della tua figlia saggia che sa tutto: è il lavoro la chiave per la felicità. Senza il lavoro essa si rifiuterà di aprirti le porte. Ma come fa la gente che non fa niente, mi chiedo?

Köseritz dista solo cinque miglia, e poiché immagino che lui si fermerà qui, ospite dei suoi parenti, non dovrà fare troppa strada per venirmi a trovare. Ci verrà a cavallo, credo. Quando è in sella è molto affascinante. L’ho visto una volta al Tiergarten, mentre cavalcava. Vorrei tanto anch’io poter cavalcare su queste strade nella foresta; quelle con il fondo sabbioso sono perfette. Ma oggi, dopo aver ricevuto la lettera di Herr von Inster, ho chiesto all’Oberförster se poteva prestarmi un cavallo durante la mia permanenza, e indovina cosa ho scoperto? Che Kloster, sospettando che volessi cavalcare, aveva dato istruzioni di non permettermi di farlo per nessun motivo. Perché avrei potuto cadere, pensa un po’, e slogarmi uno dei miei preziosi polsi. Ci crederesti? Credo che Kloster non mi consideri altro che un contenitore di musica destinata agli altri, e neppure lontanamente un essere umano. Usa con me lo stesso trattamento riservato ai fantini quando prima di una gara vengono rigorosamente controllati e sorvegliati.

Frau Bornsted mi ha guardato con i suoi occhioni seri e ha detto: «Suonate davvero così bene il violino, dunque?»

«No, per niente» le ho risposto in tono brusco. E mi sono messa a tamburellare con le dita sul vetro della finestra, sentendomi ribelle come una bimbetta di sei anni.

Ma naturalmente ho intenzione di comportarmi bene. Voglio evitare qualsiasi cosa che possa ritardare il mio ritorno da te.

I Bornsted dicono che Köseritz è un posto bellissimo, proprio sulla sponda dell’Haff. Parlano con profondo rispetto del signor conte, della signora contessa e della contessina. È stupefacente vedere quanto siano rispettosi i tedeschi nei confronti delle classi superiori. E quanto acritici. Kloster sostiene che è per via dell’addestramento. È impossibile liberarsi dal timore reverenziale, dice, verso il sergente, il tenente e verso chiunque altro troverai sul gradino superiore. Ho detto ai Bornsted che ho conosciuto i Köseritz a Berlino, e da allora mi hanno guardata con un nuovo interesse, e Frau Bornsted, che molto carinamente mi ha preso sotto l’ala e si è sforzata di sradicare tutte le opinioni che dà per scontato io abbia in quanto Engländerin, è scesa per un attimo al mio livello, e dopo aver saputo dietro interrogatorio che ho pranzato dai Köseritz, e avendomi carpito, sempre in seguito a interrogatorio, quale fosse stato il menu, che peraltro non riuscivo a ricordare a eccezione della panna montata che ho rovesciato sul tappeto, ha commentato lentamente annuendo: «Dev’essere stato molto piacevole per voi stare con la gräfliche Familie».

«E per loro stare con me» ho replicato, spinta alla sfrontatezza dall’avere fatto il pieno di aria di bosco, che mi dà alla testa.

Suppongo che la mia uscita sia stata ciò che loro definiscono irrispettosa e niente affatto divertente, perché Frau Bornsted mi ha guardato in silenzio e Herr Bornsted, che non capisce l’inglese, vedendo l’espressione solenne della moglie, ha chiesto in tedesco: «Cos’ha detto?» E quando lei gliel’ha spiegato lui ha replicato

«Ach» e ostentato la sua disapprovazione immergendosi nella lettura del «Deutsche Tageszeitung».

La facilità con cui in Germania si manca di rispetto ha dell’incredibile. Basta essere appena un tantino allegri, lasciarselo minimamente sfuggire, ed è bell’e fatta.

«Perché gli inglesi devono sempre essere così?» ha domandato di lì a poco Frau Bornsted, dopo aver mostrato rammarico per il mio comportamento non rivolgendomi la parola per cinque minuti.

«Così come?»

«Così... irriverenti. Eppure siete un popolo religioso. Che manda nel mondo i propri missionari».

«Già, e siamo pure a favore dei vescovi» ho risposto. «Mentre voi non ne avete».

«Siete la prima nazione al mondo per numero di missionari» ha proseguito fissandomi pensierosa senza prendere nota dei vescovi. «Mio padre» – suo padre è un pastore – «nutre grande ammirazione per i vostri missionari. Com’è possibile che abbiate così tanti missionari e allo stesso tempo così poca deferenza?»

«Forse è proprio per quello» ho risposto; e mentre mi guardava con i begli occhi pieni di sconcerto ho iniziato a spiegare che la reazione ai missionari e a quel genere di spirito che stimola la loro nascita ed esportazione potrebbe verosimilmente far nascere il desiderio di essere irriverenti e di ridere, e ho proseguito dicendo che sempre più la vita mi appare come un pendolo, che deve per forza oscillare prima dall’una e poi dall’altra parte.

Frau Bornsted è rimasta seduta giocherellando con la fede nuziale finché ho finito di parlare. Lo fa ogni volta che mi capita di dar voce a quella che può essere definita un’opinione personale. Le fa ricordare che è una donna sposata mentre io sono solo una ragazzina, una junges Mädchen come dice lei, e dunque non mi si deve prendere troppo sul serio.

Concluso il mio discorso sul pendolo ha detto: «Quando avrete un marito non parlerete più a questo modo».

Ieri pomeriggio hanno dato qui un ricevimento per l’ora del tè. Anche se a base di caffè. Non credevo esistesse un vicinato, ma sul tardi, quando sono rientrata dopo aver trascorso l’intera giornata nel bosco – voltando le spalle con un’indifferenza che ha stupito Frau Bornsted alle lusinghe del pranzo domenicale, portando con me solo del plum-cake e due bibbie, una in inglese e l’altra in tedesco, dato che mentre sono qui ho intenzione di imparare il tedesco anche tramite la bibbia, che ritengo un gran bel tramite (e vedermi andare a fare una passeggiata con due bibbie ha fatto una grande impressione su Frau Bornsted) – quando sono tornata, dunque, verso le cinque, in disordine, accaldata ma in grado di recitare un intero salmo in perfetto tedesco luterano, ho visto, parcheggiate di fronte alla staccionata, svariate carrozze gialle simili a quella che mi ha condotta qui sabato, i cavalli con musetta e coperta, e dentro, in salotto, una quantità di altri guardaboschi con le mogli, oltre che il padre, la madre e la sorella minore di Frau Bornsted, nonché il medico del posto e Herr Lehrer, un giovanotto alto con gli occhiali che insegna alla scuola del villaggio a tre chilometri di distanza.

Ne sono rimasta sbalordita, perché pensavo che qui si vivesse in totale isolamento. Ma Frau Bornsted dice che la domenica è giorno di visite. Erano seduti attorno ai resti della torta e del caffè; gli uomini fumavano e chiacchieravano separati dalle donne, e queste ultime tenevano i cappellini con i lacci sciolti a ricadere sul petto – petti decisamente floridi – raccontandosi l’una con l’altra, mentre si sventolavano con immensi fazzoletti, che cosa avevano preparato per il pranzo domenicale.

Appena udito il suono delle voci avrei voluto sgattaiolare via, andare sul retro e stare in pacifica compagnia della mucca, ma Frau Bornsted mi ha visto risalire il vialetto e mi ha chiamata.

Sono entrata con riluttanza; al mio apparire è calato un silenzio di tomba che mi avrebbe innervosito se non avessi avuto gli occhi abbagliati dal sole, al punto da non riuscire quasi a scorgere nulla nella stanza buia, così me ne sono rimasta lì a battere le palpebre.

«Unsere junge Engländerin» ha annunciato Frau Bornsted facendo le presentazioni. «Schülerin von Kloster, grosses Talent...»13 l’ho sentita aggiungere, distribuendo informazioni come fossero fette di torta.

Tutti hanno commentato con un Ach so e Wirklich, e qualcuno mi ha chiesto se mi piace la Germania, domanda alla quale ho risposto, sempre senza vedere gran che: «Es ist wundervoll», parole che hanno suscitato il plauso generale, per dirla con i giornali.

Ho scoperto che quel che si aspettavano da me era che prendessi posto in un angolo con la sorella di Frau Bornsted – assieme al Lehrer e alla sottoscritta, noi tre non sposati rappresentavamo la cosiddetta Jugend – e rispondessi in tono amabile e sommesso a qualunque domanda mi venisse posta dagli altri, astenendomi dal porne io stessa, e comunque non parlando se non in forma di risposta. Ho capito tutto questo osservando il comportamento della sorella di Frau Bornsted; trovo però estremamente difficile non essere spontanea, e a me, come purtroppo sai molto bene, viene spontaneo chiedere il perché e il percome di ogni cosa.

Mentre, aiutata dalla sorella, Frau Bornsted mi porgeva una tazza di caffè e una fetta di dolce, regnava un gran silenzio. Durante l’operazione, il ragazzo, unico maschio del nostro terzetto di giovani, sedeva immobile accanto a me. Avrei voluto prendere la tazza da sola invece che farmi servire da Frau Bornsted, ma lei mi ha spinto giù sulla sedia con fermezza e lo sguardo addolorato di chi sia testimone di una grave scorrettezza. «Bitte, sedete immediatamente» ha intimato con un inglese che rivelava tutta la fatica del convincermi a comportarmi in modo appropriato.

Le donne osservavano la scena con curiosità e aperto interesse, scrutando i miei vestiti, i capelli, le mani, le bibbie che tenevo strette e i fiori infilati tra le pagine per tenere il segno dei salmi, dato che non riesco mai a trovarli al primo colpo. Anche gli uomini osservavano, ma in modo più discreto. Io ero terribilmente in disordine. Ne saresti stata scioccata. Del resto non vedo come sia possibile starsene sdraiati sul muschio tutto il giorno e non sporcarsi, e poi nessuno mi aveva avvertito che al ritorno sarei piombata nel bel mezzo di un ricevimento.

Il primo a districarsi dagli altri e a venire a parlarmi è stato il padre di Frau Bornsted, il pastore Wienicke. Mi ha raggiunto, mi si è piazzato davanti a gambe divaricate e si è tolto il sigaro di bocca per dirmi ciò che già sapevo, cioè che sono inglese. «Sie sind Englisch» ha esordito Herr Pastor Wienicke.

«Ja» ho risposto con quanta più modestia mi riusciva, ossia non molta.

Tra quella gente, sentivo di dover star seduta sul bordo della sedia tenendo i piedi a terra compostamente uniti e la tazza tra le mani con tutta l’attenzione possibile, come se fossi stata a una festa scolastica e il preside fosse atteso da un momento all’altro. «L’Inghilterra» ha detto il pastore, ascoltato da tutti – dato che parlava in tedesco – «è, credo di poter affermare, ancora un gran paese».

«Ja?» ho risposto io educatamente, trascinando un poco la vocale finale, intendendo suggerire non solo un deferente: “Se lo dite voi deve essere vero”, ma anche un compito dubbio sull’effettiva possibilità che una qualsiasi altra nazione venga definita grande da un paese che elegge se stesso a fulgido esempio di grandezza.

E in effetti l’allusione è andata a segno, perché ha risposto: «Oh doch» mentre spostava il peso alternativamente dalle punte ai talloni, come volesse stare in equilibrio sul fulcro della giustizia. «Oh doch. Credo si possa onestamente affermare che è ancora un grande paese, ma...» e ha alzato sia la voce che il dito indice nella mia direzione, «che stia ben attenta ai suoi forzieri. Ecco ciò che dico all’Inghilterra: stai attenta ai tuoi forzieri».

Nella stanza si è diffuso un mormorio di approvazione, e tutti hanno annuito.

Lui mi ha guardato, e immaginando si aspettasse una risposta ho ritenuto opportuno offrire un altro «ja», e così ho fatto.

«L’Inghilterra» ha proseguito, «è nostra cugina, nostra consanguinea. Ragion per cui possiamo e dobbiamo dirle la verità, anche quando è scomoda».

«Ja» ho ripetuto, e lui ha fatto un’altra pausa; tuttavia c’erano varie cosette che non mi sarebbe dispiaciuto dirgli al riguardo, se il mio tedesco me l’avesse consentito. Ma non avendo a disposizione altro che il mio elenco di esclamazioni e i salmi appena imparati mi sono limitata a quello e ho cercato di assumere un’aria modesta e perspicace.

«La sete di denaro, il materialismo... sono grandi pericoli per il vostro paese» ha proseguito. «Non vorrei trovarmi un giorno a essere testimone, e chiedo anche agli amici qui presenti...» – così dicendo ha fatto un giro su se stesso roteando lentamente sui tacchi per poi tornare nella posizione di partenza – «se anche a loro farebbe piacere essere testimoni del giorno in cui il sole dell’impero britannico, l’impero che, dopo tutto, ha strenuamente sostenuto per lungo tempo la causa della religione con fedeltà e perseveranza, infine tramonterà, per mai più risorgere, inghiottito dall’oceano di brame a cui non si è saputo porre freno».

«Ja» ho detto io. Poi, avvertendo che non era la parola giusta, mi sono subito corretta in inglese: «Cioè, intendevo dire nein».

Per un istante mi ha osservata attentamente. Poi, decidendo che andava tutto bene, ha proseguito.

«L’Inghilterra» ha ripreso, «è la nostra naturale alleata. Appartiene al nostro stesso sangue, alla nostra stessa fede e al nostro stesso colore. Guardate le altre razze del mondo e vedrete che sono parzialmente, precipuamente o totalmente nere. Le razze bionde, proprio come l’alba, sono destinate a spazzare via l’oscurità. Ecco perché nel caso di qualsiasi futuro contrasto potenzialmente in grado di mettere a repentaglio l’armonia del mondo devono stare compatte, spalla contro spalla».

«Ja» ho ripetuto come quelli che, alla fine dei salmi, devono dire Selah.

«Sono tempi preoccupanti» ha dichiarato. «E facilmente possono diventarlo ancor più. Siamo circondati da latini e slavi, armati fino ai denti, che scoppiano di invidia per i nostri averi, per la nostra orgogliosa serenità, e aspettano il momento propizio per piombare su di noi con intenti criminosi e assassini. Ne convenite, cara Fräulein?»

«Ja» ho risposto, obbligata a convenire a causa della mia sventurata carenza di tedesco.

L’unica cosa che avrei potuto snocciolare su due piedi era il salmo imparato, e avrei dato non so cosa per farlo, essendo il salmo in cui ci si chiede perché i pagani imperversano con furia gli uni contro gli altri; ma vedi, mamma, pur volendo non avrei potuto, perché dopo averlo sparato a raffica sarei rimasta lì indifesa sulla sedia a farmi distruggere da lui.

Proprio non mi riesce di capire il perché di questo continuo parlare di nazioni invidiose pronte a balzare l’una sull’altra. Tutti ne parlano senza sosta, i giornali ne scrivono senza posa, diffondendo per contagio un’epidemia di bellicosità. Mai nella vita mi è capitato di assistere a qualcosa di neppure lontanamente simile. In Inghilterra la gente parla di migliaia di cose, ma quasi mai di guerra. Quando siamo stati in Italia, e quella volta a Parigi, mi pare di non averla mai sentita nominare. Ma non appena il treno su cui viaggiavo è entrato in Germania a Goch da Flushing e ha cominciato a riempirsi di tedeschi, proprio lì sul treno ho sentito iniziare questo incessante discorso sulla guerra e sull’invidia delle altre nazioni che non è mai terminato. Non è stato l’assassinio dell’arciduca a innescarlo; era già in corso da settimane al momento del mio arrivo. Kloster dice che va avanti, crescendo nei toni enfatici, ormai da anni, da quando l’attuale Kaiser è salito al trono, e che la nazione crede di nutrire sentimenti propri riguardo a tutto questo, ma in realtà è semplicemente pilotata da chi sta in alto, sotto la guida di S. M. Questa gente è stata così ben plagiata, poco a poco, al punto di convincersi che le proprie opinioni e i propri giudizi siano farina del suo sacco. Mi chiedo se non siano tutti pazzi. È mai possibile che tutta una nazione impazzisca all’improvviso? A me sembrano loro quelli invidiosi, dilaniati dal desiderio di metter le mani sulla roba altrui.

«E a questo proposito lo sciagurato crimine di Sarajevo non può passare inosservato» ha continuato Pastor Wienicke. «Colpire un Unto del Signore!» E ha alzato le braccia. «D’accordo, non ancora un vero e proprio Unto, ma un prescelto da Dio a uso futuro. Tipico di quel che accade nel mondo al di fuori della nostra madre patria. L’Illegalità e il suo compagno Sacrilegio si diffondono ampiamente. Le donne emergono dalla clausura decretata da Dio e alzano la testa in una svergognata competizione con l’uomo. I nostri governanti, che Dio ci ha dato affinché ci guidino e ci mostrino il cammino in cambio di riverente considerazione, cadono vittime di attentati blasfemi». Poi ha gettato entrambe le braccia al cielo. «Ergiti, Germania!» ha esclamato. «Ergiti e mostrati! Ergiti in tutta la tua possanza, ti dico, e disperdi i nemici!»

Detto questo si è asciugato la fronte, si è guardato attorno in accettazione dei vari sehr gut e ausserordentlich schön gesagt14 pronunciati dai presenti, si è riacceso il sigaro con l’aiuto di Herr Lehrer, il quale è balzato ossequiosamente verso di lui con un fiammifero, e infine si è seduto.

Non trovi anche tu una gran cosa che si sia seduto? Io ne sono stata tanto felice. Ma anche a questo ritrovo per il caffè è accaduto esattamente ciò che accadeva da Frau Berg durante ogni pasto: tutti parlavano rivolgendosi a me soltanto. Tale concentrazione di curiosità tedesca è davvero terribile. E non è semplice curiosità, ma una sorta di determinazione a distruggere ciò che partorisce la mia mente per infilarci a forza il loro modo di pensare. Diventerò della loro stessa idea, penserò nel loro stesso modo; continueranno a darmi addosso, finché sarò costretta a farlo. Me lo sento. Non so se questa mia idea sia esatta o meno, ma me lo sento fin nelle ossa.

Non ci crederai, ma si sono fermati a cena, tutti quanti, e se ne sono andati via alle dieci. Frau Bornsted dice che qui si usa così, quando si invitano degli ospiti a bere il caffè di pomeriggio. Non aggiungo altro a quanto già detto perché ripeterei le stesse cose: gli uomini più anziani mi hanno preso di mira uno alla volta per rivolgermi in toni altisonanti una serie di variazioni sullo stesso tema di Pastor Wienicke; le donne mi hanno dato addosso in gruppi di due o tre, decisamente più assetate di sangue degli uomini, molto simili a Frau Berg in quanto a profetizzare spargimenti di sangue, più apertamente avide. Tutte erano stizzite e sdegnate perché non sono state rilasciate altre notizie sull’assassinio di Sarajevo. Immagino che il silenzio di Vienna le preoccupi alquanto. Hanno paura, una gran paura, che l’Austria possa davvero limitarsi a punire gli assassini, e dunque far perdere loro una splendida occasione di guerra. Mi domando se riesci anche minimamente a immaginare, tu madre sana di mente che stai in un posto sano di mente, in quali condizioni versi la gente, qui, quanto siano surriscaldati e sotto pressione gli animi. Non ho il minimo dubbio che sia lo stesso in tutta la Germania, sobillata da qualcuno dietro le quinte a un’apoteosi di patriottismo aggressivo. Lo chiamano patriottismo, ma è solo sete di sangue e smania di bottino.

Ho aiutato Frau Bornsted a preparare la cena, felice di rifugiarmi nella pace della cucina, al sicuro, a friggere patate. Era molto graziosa nel sobrio abito nero della domenica, con il girocollo alto fin sotto le orecchie e guarnito da una sottile ruche bianca. Mi piacciono molto la solennità, la gioventù e lo stile d’altri tempi che emana, e so che potrei volerle bene con facilità se non fosse per questa follia riguardo alla Germania. È folle al pari di tutti gli altri, e in lei la cosa è ancor più sconcertante. Quando capita che discorriamo seriamente – è perennemente seria, e non si accorge di quanto sia ridicola la cosa – di argomenti leggeri quali i mariti, e del se e del quando ne troverò uno, mentre con tutta la dignità e la saggezza della donna maritata sta per dispensarmi consigli assennati con garbo e discernimento, ecco che all’improvviso e immancabilmente salta fuori con qualcosa che la fa infiammare sulla Germania. Oh, sono insopportabili con la loro Germania!

L’Oberförster sta andando all’ufficio postale, e mi chiama perché gli consegni la lettera; perciò a presto mammina, mio amato e prezioso tesoro.

La tua Chris

 

 

 

Schuppenfelde, giovedì 16 luglio 1914

 

 

Mamma adorata, eccomi arrivata al giovedì sera di una settimana con niente da fare, e pensare che avevo intenzione di scriverti ogni giorno, mentre invece non lo faccio da lunedì. È perché ho tutto questo tempo a disposizione. Anzi, perché sono stata immersa in una sorta di beato torpore. Non ho fatto nulla, tranne essere felice. Da domenica non si è vista un’anima, e Frau Bornsted dice che non se ne vedrà nessuna fino a domenica prossima. Ogni mattina scendo le scale e trovo un mondo perfetto, con il sole che occhieggia in veranda sul tavolo della colazione attraverso i tralci di rosa, e dopo colazione attraverso la strada per inoltrarmi nella foresta e non tornare fino al tardo pomeriggio.

Frau Bornsted è molto cara: mi dà un piccolo involto con il cibo e mi spedisce via con tanti auguri di trascorrere una giornata felice. L’aiuterei volentieri con le faccende di casa, ma avendo lei ricevuto da Kloster l’ordine di farmi stare completamente in ozio non mi lascia far nulla. E in effetti la cosa mi sta facendo un gran bene. In questi ultimi tre giorni ho vissuto in perfetta felicità. Ora non mi sento per niente nervosa, ma in totale armonia con la natura, come se facessi parte della luce, dell’aria e della foresta, al punto di non capire bene dove queste finiscono e dove comincio io. Mi siedo e resto a osservare le nuvolette benigne fluttuare lente sopra la cima degli alberi, e mi chiedo se il paradiso possa davvero essere ancora più bello. Poi scendo fin sulla riva dell’Haff, mi stendo a faccia in giù nell’erba alta, mi rimbocco le maniche e con la mano muovo l’acqua bassa e dorata che scorre tra i giunchi. Colgo qualche fragola selvatica da accompagnare al mio pranzo, e dopo mangiato mi sdraio sul muschio e studio il salmo del giorno, prima in inglese, poi in tedesco. Attorno alle cinque mi avvio a passo lento verso casa attraversando i profumi della foresta sprigionati dal sole pomeridiano con in cuore lo stesso senso di solennità ed esultanza che immagino provi un cattolico quando, assolto e benedetto, lascia il confessionale. La sera ci sediamo all’aperto, e col passare dei minuti il giardino si fa sempre più incantevole. Dopo le sue fatiche Frau Bornsted si riposa con le mani in grembo e conviene con ciò che di tanto in tanto dice l’Oberförster togliendosi la pipa di bocca, e io resto appoggiata all’indietro sulla sedia a osservare le stelle, e penso e ripenso e non smetto di meravigliarmi. E a cosa penso, di cosa mi meraviglio, secondo te? Di te e dell’amore. Non so perché dico te e l’amore, dato che siete la stessa cosa. Lo stesso vale per questa straordinaria bellezza estiva della foresta, per la musica, e per il mio violino quando si mette a suonare per me, e il futuro trabocca di tutto questo, e io... oh, devo assolutamente rendere grazie a qualcuno!

Buona notte, madre diletta.

La tua Chris

 

 

 

Schuppenfelde, venerdì 17 luglio 1914

 

 

Questa mattina, quando sono scesa per fare colazione, mamma dolcissima, ho trovato Herr von Inster ai piedi delle scale. Non ha aperto bocca, ma mi ha fissata con quel suo sguardo soddisfatto che mi piace tanto. Io ero molto felice di vederlo, e l’ho accolto con un sorriso raggiante. «Oh» ho esclamato, «così siete venuto».

Lui mi ha teso una mano per aiutarmi a scendere gli ultimi gradini. Indossava la tenuta verde da caccia, come l’Oberförster, ma senza le mostrine del rango, e aveva un gran bell’aspetto. Ti piacerebbe, ne sono sicura. Ti piacerebbe per il suo aspetto, ma anche come persona.

Era nella foresta dalle quattro del mattino, per una battuta di caccia assieme al suo colonnello, arrivato con lui dai Köseritz ieri sera. Il colonnello e il conte Köseritz, venuti anch’essi da Berlino, stavano entrambi facendo colazione serviti dai Bornsted, e il fatto che io non abbia sentito assolutamente nulla è la prova evidente di quanto sia profondo il mio sonno quassù.

«E voi non fate colazione?» gli ho chiesto.

«Sì, certo» ha risposto. «Aspettavo solo di sentire aprirsi la vostra porta».

Credo ti piacerebbe davvero tanto, mamma.

Il colonnello, un conte di nome Hohenfeld, è stato molto affabile nei confronti di Frau Bornsted, osservandola con occhi ammirati mentre gli portava le vivande. Ma lo è stato anche con me: appena mi ha visto si è alzato, ha battuto i tacchi e ha esordito: «Old England forever», dopo di che ha chiesto a Köseritz se non pensava che io e Frau Bornsted assomigliassimo a un mazzolino di fiori. Naturalmente non era così. Ma sembra comunque che Köseritz non pensi mai niente di nessuno. Mi ha salutato con poche parole, quindi è rimasto seduto sovrappensiero fissando la tovaglia, come ha fatto a Berlino. È stato il colonnello a portare avanti la conversazione. Sia lui che il conte indossavano la bella tenuta da caccia che si usa in Germania e l’elegante cappello floscio con la piccola piuma. Era di buonumore, e sembrava orgoglioso e affezionato al suo tenente, Herr von Inster; di quando in quando dava una pacca sulla schiena all’Oberförster, un gesto che all’altro faceva ogni volta quasi perdere i sensi per la gioia, e si diceva dispiaciuto che per colazione ci fosse solo caffè, perché gli sarebbe piaciuto brindare alla nostra salute, «alla salute di queste due deliziose giovani rose» ha detto inchinandosi verso di me e Frau Bornsted, «la Rosa d’Inghilterra – lunga vita all’Inghilterra, che produce di questi fiori – e la Rosa di Germania, la nostra rosa selvatica della foresta».

Io mi sono messa a ridere, e Frau Bornsted ha preso un’aria compostamente indulgente, credo dovuta al fatto che lui, quest’ufficiale di Stato maggiore, è un grand’uomo e contribuisce ad architettare tutti i meravigliosi piani che un giorno permetteranno alla Germania di conquistare il mondo. Tuttavia, come mi ha spiegato l’altra sera, quando le ho detto qualcosa riguardo alle sue ciglia così lunghe e belle, la bellezza è fuori luogo nella sua posizione, e preferisce non se ne parli. «Che se ne fa della bellezza la moglie di un Oberförster?» ha domandato. «Può andar bene per una junges Mädchen che deve ancora trovare marito, ma una volta che lo si è trovato a che pro essere belle? Se si è sposate essere belle è solo un fastidio. Rende facile preda di maldicenze, e se non si ha un carattere fermo può sfociare in spese per il guardaroba di cui ci si potrebbe pentire amaramente».

Dopo colazione gli uomini sarebbero andati a caccia con l’Oberförster, restando nei boschi per tutto il giorno, e il colonnello sarebbe tornato a Berlino col treno della sera. Ha detto che avrebbe lasciato il suo tenente dai Köseritz per qualche giorno, ma lui doveva tornare immediatamente al lavoro, «mentre il giovanotto si diverte un po’», ha proseguito questa volta assestando una pacca sulla schiena di Herr von Inster invece che dell’Oberförster, «tra la deliziosa flora variegata della nostra antica foresta tedesca. Qui c’è questo mazzolino di fiori» ha spiegato indicando noi due, «mentre là a Köseritz», e ha allungato il braccio nell’altra direzione, «ce n’è un altro non meno affascinante ma formato da fiori di serra... la schöne Helena e le gentildonne sue giovani amiche».

Dopo colazione, quando siamo rimasti per un attimo soli in giardino, ho chiesto a Herr von Inster com’è il colonnello dopo cena, se già a colazione fa mostra di tanta giovialità.

«È un uomo di straordinaria intelligenza» è stata la sua risposta. «È uno degli ufficiali più intelligenti dello Stato maggiore, e questo è il suo modo per nasconderlo».

«Oh» ho detto io, trovandola una spiegazione piuttosto bizzarra. Perché doverlo nascondere?

Ma forse la stessa cosa vale per il conte; forse anche lui cerca di non far capire quanto è intelligente.

Il colonnello, in effetti, sembra davvero in gamba. Mi ha chiesto dove stiamo, in Inghilterra; una bella domanda, considerato che al momento non stiamo da nessuna parte; in compenso gli ho detto dove stavamo quando era vivo papà.

«Ah» ha esclamato, «nel Sussex, quindi. Una regione molto bella. E com’era casa vostra?»

Io ho sgranato tanto d’occhi, perché descrivere casa nostra mi sembrava una perdita di tempo, però ho spiegato che era una vecchia casa circondata da un ampio terreno erboso.

«Sì» ha replicato lui annuendo. «Nel parco pubblico. Una vecchia casa molto graziosa con egregie pertinenze. Perché non fate raddrizzare quelle curve sulla strada per Petworth? Sono trappole mortali».

«Ci siete stato, allora?» ho esclamato, sbalordita nel realizzare quant’è piccolo il mondo.

«Mai» ha risposto ridendo. «Però studio. Studiamo – dico bene, Inster, ragazzo mio? – là allo Stato maggiore generale. Bella signora inglese, dite al Consiglio di Contea del Sussex di raddrizzare quelle curve a gomito, perché sono davvero pericolose, e un giorno o l’altro, quando su quelle strade inizierà a circolare un vero traffico, potrebbero causare gravi incidenti».

«Siete molto gentile a interessarvi tanto a noi» ho ribattuto con garbo.

«Non solo sono molto interessato a voi e al vostro paese, mia giovane affascinante signora, ma ho anche una mente organizzata, pertanto mi farebbe davvero molto piacere vedere raddrizzare quegli angoli. Utilizzate la vostra influenza, che sono certo essere notevole, su quel consesso di poco lungimiranti gentiluomini, il vostro Consiglio di Contea».

«Non mancherò» l’ho rassicurato con il massimo garbo, «di informarli riguardo ai vostri desideri».

«Ah, la vostra giovane Engländerin è deliziosa, assolutamente deliziosa» ha dichiarato in tono gaio a Frau Bornsted, che ascoltava quelle celie con solenne e rispettosa indulgenza; poi, nell’intento di essere complimentoso nei miei confronti, ha detto una quantità di altre cose sull’Inghilterra, sui suoi prodotti ed esportazioni – dico davvero, chissà cosa non è dopo cena – e ha proseguito con immutata giovialità sino alla fine, quando ha battuto i tacchi e ha baciato prima la mano di Frau Bornsted e poi la mia, malgrado il galateo proibisca di baciare la mano di una junges Mädchen, ha spiegato, ma ha aggiunto che è sua abitudine non prendere in considerazione alcuna regola se questa si frappone tra lui e un’affascinante giovane signora. Dopo di che se ne è andato, sventolando il cappello verde in segno di saluto e ripetendo Auf Wiedersehen a voce alta fino a quando la foresta non l’ha inghiottito.

Se ne sono andati anche Herr von Inster e il conte, ma in modo più sommesso. Il conte in modo eccessivamente sommesso. Per come ho avuto modo di vedere non ha rivolto la parola a nessuno, e neppure le battute d’incoraggiamento del colonnello sono riuscite a fargli aprire bocca. Non ha avuto la minima reazione neppure quando il colonnello l’ha chiamato con quello che credo sia l’equivalente tedesco di vecchia volpe.

Appena è riuscito a infilarsi nella conversazione, Herr von Inster ha detto che domani verrà a prendermi per portarmi a fare un giro in carrozza nella foresta. Mentre il colonnello non smetteva di blaterare, lui teneva un atteggiamento alquanto interessante: scrupolosa attenzione, prontezza a sorridere in seguito alle uscite che richiedevano tale apprezzamento, attenzione a non lasciarsi sfuggire il minimo indizio di desiderio del colonnello.

«Perché lo fate?» gli ho chiesto mentre il colonnello era impegnato un attimo all’interno con l’Oberförster. «Il servizio militare che svolgete non è già sufficiente? Vi addestrano perfino a sorridere?»

«Ci addestrano a tutto» ha risposto, «entusiasmi compresi. Siamo come la claque di un teatro».

Poi si è voltato verso di me, mi ha guardato con quegli occhi così gentili e sorprendenti – in qualche modo appaiono talmente rassicuranti, dopo il profilo severo – e mi ha detto: «Domani tornerò di nuovo un essere umano. Dimenticherò tutto questo, non penserò a niente, solo alle cose belle della vita».

Ora devo concludere: voglio stirare la gonna di lino bianco e la camicetta di mussola per domani, perché farà sicuramente un gran caldo e io vorrei presentarmi il più possibile in ordine, dunque a presto, mamma cara. Oh, dimenticavo di dirti quanto sia felice di saperti a Glion. Mi ero ripromessa di rispondere alle tante domande contenute nella tua ultima lettera, ma lo farò domani. Non che non legga e rilegga di continuo le tue care parole, ma il fatto è che ho sempre troppe novità da raccontarti! Ogni volta che scrivo vorrei rovesciarti in grembo il contenuto di ogni giorno trascorso dall’ultima lettera spedita. Domani risponderò a tutte le tue domande; domani sera, dopo la giornata trascorsa con Herr von Inster, così potrò riferirti tutto per filo e per segno.

Perciò a domani, mamma dolcissima.

La tua Chris

 

 

 

Köseritz, sabato sera, 18 luglio 1914

 

 

Mamma carissima, guarda un po’ dove sono finita! Chi l’avrebbe mai detto? La vita è davvero molto eccitante, non trovi? Oggi pomeriggio a Schuppenfelde è arrivata in carrozza la contessa, e mi ha portata qui con sé. Mi ha informata che domenica Kloster si fermerà da loro al ritorno da Heringsdorf e, sapendo per certo che vorrà vedermi, se io restassi dai Bornsted abbandonerebbe subito Köseritz per precipitarsi da me all’Oberförsterei; ha detto che in ogni caso voleva stare un po’ in mia compagnia prima che tornassi a Berlino, e che non potevo rifiutare di far felice una vecchia signora – naturalmente vecchia non lo è neanche un po’ – e via di seguito con una piacevolezza dopo l’altra. Già al mattino Herr von Inster mi aveva portato un suo messaggio per allertarmi, aggiungendo le proprie persuasioni a quelle della contessa. Non che ne avessi bisogno: l’ho trovata un’idea meravigliosa, e non mi disturbava nemmeno il pensiero di Helena, sapendo che in una grande dimora avrebbe avuto molto più spazio a disposizione per fissarmi. E Herr von Inster rimarrà per un’altra settimana, dato che prende ora la sua licenza estiva anziché più avanti, e dice che sabato prossimo, quando dovrò tornare a Berlino, mi ci accompagnerà lui sana e salva.

Abbiamo trascorso una mattina incredibilmente felice vagando per la foresta; lui teneva le redini, e nel parlare lasciava procedere i cavalli alla velocità che preferivano. Dopo aver mangiato i panini mi ha riportata dai Bornsted, dove ho mostrato a Frau Bornsted la lettera della contessa.

Se non fosse stato un Köseritz a portarmi via avrebbe trovato terribilmente offensiva la mia intenzione di andarmene a nemmeno metà vacanza, ma per lei quella lettera era come un ordine reale, dopo di che mi ha guardata con rinnovato interesse in quanto oggetto di tali nobili attenzioni. Precedentemente si era mostrata incline a mettermi in guardia da Herr von Inster come persona impossibilitata per via dei suoi natali a frequentare il mio ambiente sociale – credo sia perché suono il violino – ma anche, più genericamente, dalle passeggiate in carrozza nella foresta se i partecipanti sono entrambi non sposati; quando ero scoppiata a ridere aveva messo su un’aria terribilmente dignitosa e aveva detto che io potevo anche ridere, essendo soltanto un’ignorante junges Mädchen, ma dubitava che mia madre avrebbe fatto altrettanto; poi era rimasta a guardare la nostra partenza per il picnic dalla veranda, tutta seria e impettita. Tuttavia, dopo aver scorso la lettera della contessa ha iniziato a trattarmi più da pari, facendosi subito più sollecita e collaborativa. Mentre Herr von Inster, che ha il raro dono di saper pazientare, mi aspettava giù da basso, lei mi ha aiutata a preparare il bagaglio. Mi ha detto quanto fossi fortunata a trascorrere alcuni giorni con la contessa Helena, dalla quale avrei potuto imparare, ha specificato, come si comporta una vera e perfetta junges Mädchen; al momento dell’arrivo della contessa Köseritz con la piccola carrozza e i bei pony bianchi Frau Bornsted era talmente commossa e agitata che a uno dei suoi ospiti toccasse un simile onore che al momento dei saluti mi ha buttato le braccia al collo e ha mormorato che, sebbene non fosse un argomento adatto alle orecchie di una junges Mädchen , voleva dirmi, dato che probabilmente non ci saremmo più riviste, che sperava di arricchire il mondo con un altro tedesco poco dopo Natale.

Io ho riso e l’ho baciata.

«Non c’è niente da ridere» ha replicato con sguardo solenne.

«Infatti» ho risposto solenne a mia volta, ricordando come è morta Agatha Trent.

Allora le ho preso il viso tra le mani e l’ho baciata di nuovo, questa volta però con tutta la serietà di una benedizione d’addio. A dispetto di tutta la sua dignità, per baciarmi deve alzarsi in punta di piedi.

Mi ha ravviato i capelli con mano gentile, e mi ha detto: «Non siete affatto come dovrebbe essere una junges Mädchen, però siete molto cara. Vi prego, auguratemi che sia maschio, così che io possa diventare madre di un soldato».

L’ho baciata per l’ennesima volta, cavandomela in quel modo, non avendo la minima intenzione di augurarle una cosa del genere, e con questo ci siamo separate.

Nel frattempo la contessa stava seduta composta in carrozza, rifiutando tutte le preghiere di Frau Bornsted di entrare in casa. È stato sorprendente vedere come sia riuscita a mostrarsi affabile ma irremovibile al tempo stesso, e sorprendente vedere quale abisso tra i Bornsted – c’era anche l’Oberförster al cancello, che si profondeva in inchini – e lei stessa sia riuscita a scavare la sua affabilità.

Così eccomi qui, e sono già le undici passate, con la finestra spalancata sull’Haff; oltre l’acqua, in lontananza riesco a scorgere le luci di Swinemünde baluginare nel punto in cui il fiume si getta nel mare aperto. È una splendida casa antica, antica di secoli, e abbiamo trascorso una serata romantica: prima abbiamo cenato in una sala lunga e stretta rivestita di pannelli e rischiarata da candele, poi ci siamo spostati in giardino sotto la mia finestra, dove a ridosso del muretto lungo il ciglio dell’acqua crescono le speronelle. Non c’è nessuno qui all’infuori dei Köseritz, di Herr von Inster, di due amiche di Helena, molto carine ed eleganti, e di una vecchia signora, un tempo istitutrice della contessa, la quale torna ogni anno per godere di ciò che, rivolgendosi a me in inglese, ha definito la fresca estate.

Sembrava un sogno. L’acqua sciabordava piacevolmente contro il muro del giardino. Il silenzio era tale che si udiva il pulsare lontano di un piroscafo sull’Haff in traversata da Stettino a Swinemünde. Come di consueto, il conte non apriva bocca. «Ha molte cose a cui pensare» mi ha sussurrato la contessa. Le ragazze chiacchieravano sottovoce, cosa che, se mi fosse interessato qualcosa di loro, mi avrebbe intimidita e fatta sentire esclusa, e con i loro abiti da sera nei toni pallidi avevano esattamente l’aspetto descritto dal colonnello, ossia quello di un mazzolino di fiori di serra alquanto delicati e coltivati con ogni cura. Io indossavo il mio abito da sera per la prima volta da che ho lasciato l’Inghilterra e, dopo tutte queste settimane di camicette accollate, ho avuto l’impressione di essere vestita in modo troppo elegante e appariscente; l’impressione però è durata solo finché ho visto com’erano vestite le altre, dopo di che ho avuto l’impressione opposta. Herr von Inster ha parlato a malapena, e mai rivolgendosi a me, ma non mi è dispiaciuto, avendo la testa occupata da tutte le cose che mi ha detto questa mattina. Con lui riesco a essere così spontanea, così contenta; penso infatti che sia la sua presenza qui a Köseritz a mettermi tanto a mio agio, a non farmi sentire intimidita, com’era invece accaduto quel giorno da loro a pranzo. Semplicemente, prendo le cose come vengono, senza pensare minimamente a me stessa. Questa sera, quando sono scesa per la cena, lui mi stava aspettando nell’atrio, per farmi strada, ha detto; mentre scendevo le scale mi osservava con quel suo sguardo così in contrasto con l’efficienza pronta e vigile della sua persona e dei suoi modi, uno sguardo buono, gentile. Così, sono entrata nella sala dov’erano radunati tutti con la buffa sensazione di essere al sicuro. Non saprei nemmeno dirti se Helena mi abbia fissata.

Domani arriveranno i Kloster, che si fermeranno per la notte, e dopodomani potrei riprendere a suonare il violino. Ho mantenuto la promessa, e non l’ho neppure toccato. Ora manca un quarto d’ora a mezzanotte; tra quindici minuti la mia settimana di astinenza sarà terminata, perciò in teoria potrei prendere il violino e mettermi a suonare quasi subito. Chissà cosa succederebbe se mi sedessi sul davanzale e iniziassi a suonare Ravel alle speronelle e alle stelle. Credo che persino il conte direbbe qualcosa. Ma non farò niente di tanto difforme da quello che, come direbbe Frau Bornsted, si addice a una junges Mädchen, e me ne andrò invece a letto, nel letto più grazioso in cui abbia dormito dai tempi della culla ornata di balze che avevo nella nursery, quella con l’imbottita di seta rosa e le lenzuola orlate di pizzo. La stanza ricorda molto la camera da letto di una dimora di campagna inglese; in effetti la contessa mi ha detto di avere acquistato tutti i chintz a Londra! Fa una certa impressione, dopo la mia stanza da Frau Berg e la piccola soffitta rivestita di legno grezzo all’Oberförsterei.

Buona notte, madre diletta. L’unico suono che si sente è il richiamo di due gufi nella foresta. Nient’altro. Regna un’immensa quiete.

La tua Chris

 

 

Köseritz, domenica sera, 19 luglio 1914

 

 

Madre mia carissima, non so cosa dirai, ma mi sono fidanzata con Bernd. Cioè con Herr von Inster. Te l’avevo detto che si chiama Bernd? Nemmeno io so bene cosa dire. Quasi non mi sembra vero. Ieri sera a quest’ora ti stavo scrivendo da questa stessa stanza, con nessun pensiero al mondo tranne l’ordinaria felicità di avere amici tanto gentili e un amico ancor più gentile e comprensivo, ed eccomi qui, ventiquattro ore più tardi, con una felicità che non ha più niente di ordinario, adesso che sono stata accolta per sempre nel cuore del mio innamorato.

È stato molto bizzarro. Penso che prima di me nessuna ragazza si sia mai fidanzata in questo modo. Di certo tutti penseranno che siamo pazzi, eccetto Kloster. Lui non lo pensa affatto. Lui capisce.

È accaduto dopo cena, solo tre ore fa. Mi chiedo se non sia stato un sogno. Eravamo tutti in giardino, come la sera prima. I Kloster erano arrivati nel primo pomeriggio. Non si muoveva foglia né si udiva suono, a eccezione dell’acqua che si frangeva alla base del muro contro cui crescono le speronelle. Sai, no, come a volte può calare un silenzio improvviso, dopo che tutti hanno parlato assieme e ininterrottamente. È quello che è successo questa sera; dopo un lungo silenzio la contessa ha detto a Kloster: «Maestro, suppongo sia troppo chiedervi di suonare per noi?»

«Qui?» ha detto lui. «Qui fuori?»

«Perché no?» è stata la risposta di lei.

Col fiato sospeso, ho aspettato di sentire la sua decisione. Se avesse accettato, sarebbe stato meraviglioso ascoltarlo lì fuori, con il crepuscolo, le stelle, l’acqua e la foresta tutt’attorno.

Senza dire una parola, Kloster si è alzato ed è entrato in casa.

La contessa sembrava a disagio. «Spero» ha confidato a Frau Kloster, «che la mia richiesta non lo abbia offeso».

Ma Bernd – in quel momento per me ancora solo Herr von Inster – sapeva. «Suonerà» ha assicurato.

Di lì a poco Kloster è tornato in giardino con il suo Stradivari, è salito sul gradino della soglia del salotto e si è messo a suonare.

Mi sono detta: “Questo è il momento più bello della mia vita”. Invece così non è stato; ne avevo in serbo uno ancora più bello.

Siamo restati lì nella notte incipiente, mentre la musica ci diceva le cose sull’amore e su Dio che sappiamo ma che non riusciamo mai a esprimere. Quando ha finito di suonare nessuno ha parlato. Kloster è rimasto per un minuto in silenzio sul gradino, poi è sceso ed è venuto da me, sul muretto presso l’acqua, e mi ha messo in mano lo Stradivari. «Ora tocca a voi» ha detto.

Nessuno parlava. Mi sembrava di essere in un sogno.

Mi ha preso la mano e mi ha fatta alzare. «Suonate ciò che volete» mi ha esortato; mi ha lasciata lì, ed è tornato a sedersi sul gradino della portafinestra.

Non so cosa ho suonato. È stato il violino a suonare, mentre lo tenevo e ascoltavo. Ero dimentica di tutti: dimentica di Kloster, che notava con aria critica dove sbagliavo; dimentica, al punto che avrei potuto essere priva di sensi, di me stessa. Ascoltavo, e ciò che sentivo erano segreti, segreti strani e deliziosi; nobili, e così coraggiosi che la sofferenza non contava nulla, non mi sfiorava nemmeno; tutti i segreti della vita. Non saprei spiegarti. Non erano esattamente cose di cui uno fosse già a conoscenza. Piuttosto cose molto importanti e molto belle, un tempo note e poi dimenticate.

Di lì a poco il suono è cessato. Mi sembrava di essere totalmente estranea al suo cessare. È calato un silenzio profondo. Per un istante mi sono sentita piuttosto confusa e stupita, come si stupisce una persona quando si risveglia da un sogno e rivede le cose familiari, e lì per lì resta un po’ stranita.

Kloster si è alzato, è venuto da me e mi ha tolto di mano lo Stradivari. Nella luce crepuscolare riuscivo a scorgere il suo viso, e la strana espressione che vi era dipinta. Mi ha preso le mani, una dopo l’altra, e me le ha baciate.

Bernd invece si è alzato da dov’era seduto, discosto dagli altri, mi ha stretto tra le braccia e mi ha baciato gli occhi.

Ecco, questo è stato il nostro fidanzamento. Mi pare che gli altri abbiano detto qualcosa. Non so bene cosa: l’ho percepito come un mormorio, ma io mi sentivo lontana, al sicuro. Nell’udire il mormorio lui si è voltato, mi ha preso la mano e ha detto: «Questa è mia moglie». Poi mi ha guardata e ha aggiunto: «Sei d’accordo?» E io ho risposto: «Sì». Non ricordo cos’è accaduto dopo, e forse è stato tutto un sogno. Sono stanca, stanca e talmente pregna di felicità che potrei lasciarmi cadere a terra e addormentarmi così. Madre adorata, benedici la tua Chris.

 

 

 

Köseritz, lunedì, 20 luglio 1914

 

 

Madre carissima, sono troppo felice; troppo felice per scrivere, pensare, ricordare o fare qualunque cosa che non sia essere felice. Devi perdonarmi, madre mia che sempre tutto perdoni, perché i minuti che devo impiegare per le altre cose sembrano rubati, persi; rubati alla cosa essenziale, all’unica cosa essenziale che è il mio innamorato. Oh, so di essere impudica, ma non mi importa. Dovrei forse produrmi in stucchevoli sorrisi e fingere compostezza? Comportarmi da signora, e nascondere che lo adoro? Mandami un telegramma, mandami la tua benedizione. Devo assolutamente averla. Finché non l’avrò avuta non mi sentirò pacificata; sarà come se restassi in attesa, tutta agghindata nel mio meraviglioso abito di felicità. Non mi importa se sembro sciocca. Non mi importa di niente. Non importa cosa pensano gli altri del nostro fidanzamento. Suppongo compiangano Bernd: è un ufficiale Junker, figlio unico e con davanti a sé un avvenire, nonché un mucchio di altre cose importanti, oltre a quella più importante in assoluto, cioè che lui è Bernd. Mentre vedi, mamma, io sono solo una donna che avrà un mestiere, e dal punto di vista degli Junker questo è inconcepibile. Curioso come ora nulla mi importi, né il biasimo né la disapprovazione altrui, curioso come una persona riesca a non lasciarsi neppure scalfire quando ama ed è ricambiata. Mi sembra di vivere all’interno di un cerchio magico. Sai, ho l’impressione che finché il nostro amore durerà, niente potrà ferirmi. Abbiamo trascorso una mattina fantastica passeggiando nella foresta. Tutto è successo per davvero, ieri sera. Non era un sogno. Siamo fidanzati. Ho intravisto gli altri di sfuggita. Sono stati cortesi, e ci hanno porto le loro congratulazioni. Kloster è stato molto gentile, ma teme che io possa permettere all’amore di rovinare la mia arte, per usare le sue parole. Abbiamo riso della sua battuta. Bernd, che se non fosse per la sua famiglia e i suoi obblighi sarebbe un musicista, lo sarà ugualmente per interposta persona attraverso di me. Con lui ad aiutarmi lavorerò ancora più d’impegno. Come avevi ragione a dire che di tutte le cose al mondo un innamorato è la più bella! Non capisco come sia possibile vivere senza, e proprio non so come facessi prima. Mi stupisce ricordare che solevo pensare di essere felice. Dammi la tua benedizione, mamma, dalla a entrambi. Mandami un telegramma. Non posso più aspettare.

La tua Chris

 

 

Köseritz, giovedì 23 luglio

 

 

Madre mia, grazie infinite per il tuo telegramma di benedizione, carissima, che ho appena ricevuto. Sembra avere apposto su di me il sigillo della felicità. So che vorrai bene a Bernd, e che appena lo conoscerai capirai perché io gliene voglio. Ci sentiamo così appagati in queste belle giornate estive. Ora tutti ci accettano rassegnati come un fait accompli e, per quanto non entusiasti, si dimostrano educati e tolleranti. Tuttavia, non appena suono per loro tutti diventano benevoli. Mi sembra di essere Orfeo con il liuto, e loro le cime dei monti ghiacciate. Ho scoperto che riesco a farli sciogliere semplicemente suonando. Helena è davvero molto appassionata di musica. È proprio vero quello che ha detto sua madre. Da quella prima, meravigliosa sera del mio fidanzamento, quando ho suonato, il suo atteggiamento nei miei confronti è molto cambiato. È ancora laconica, essendolo per natura, e continua a fissarmi, ma ora mi fissa con una sorta di stupore, con un interrogativo negli occhi. E in qualunque punto della casa o del giardino si trovi, se sente che inizio a suonare arriva furtiva in punta di piedi e si mette ad ascoltare.

Kloster se ne è andato. Lui e la moglie sono stati molto gentili, ma vedermi innamorata lo preoccupa. Non tornerò a Berlino fino a lunedì, dato che Bernd può fermarsi qui fino ad allora e non c’è nessun motivo di trascorrere una domenica a Berlino se non ci si è costretti. Kloster mi darà tre lezioni alla settimana invece di due, e io lavorerò con rinnovata gioia! Lui teme che non sarà così, ma io la so lunga. Ora tutto ciò che faccio sembra essere permeato di nuova gioia. Come mi sembrerà strana la mia stanza da Frau Berg, e come mi ci sentirò strana dopo essere stata qui. Eppure tornare a Berlino non mi dispiace neanche un po’. Sarà là anche Bernd, e mi scriverà, verrà a trovarmi e andremo a passeggio assieme. Con lui vicino tutto sarà perfetto.

«Quando a ottobre tornerò in città» mi ha detto la contessa, «dovete venire da noi. Non è proprio il caso che la fidanzata di Bernd stia a pensione da Frau Berg. Vostra madre vi raggiungerà al più presto?»

Penso sia molto gentile da parte sua. A quanto pare una ragazza fidanzata deve essere posta sotto ancor più stretta sorveglianza di una che non lo è. Che roba ridicola e arcaica, tutte queste convenzioni. Mi chiedo fino a quando dovremo subirle. Naturalmente agli occhi degli Junker Frau Berg e i suoi pensionanti sono inaccettabili oltremisura.

Ma la sua domanda su di te mi ha dato da pensare. Non vorresti venire, mamma? Il matrimonio della sola e unica figlia della famiglia non è forse un’occasione eccezionale e irripetibile? Nello stesso tempo, però, non riesco a immaginarti a Berlino in agosto, in una camera ammobiliata, lontana dai tuoi amati monti, dal tuo amato lago. In fondo mi restano solo quattro mesi da passare qui, e trascorso questo periodo potrò tornare da te. Cosa accadrà a quel punto proprio non lo so. Bernd propone di sposarci e che tu venga a vivere con noi in Germania. A me la cosa sta benissimo, ma se mi sposo così presto riuscirò a prepararmi, come previsto, per esibirmi in pubblico il prossimo inverno? L’impaziente commento di Kloster è: «Oh, sposatevi e facciamola finita», perché ritiene che poi rientrerò in possesso delle mie facoltà mentali e sarò di nuovo in grado di organizzare il mio debutto con tutta la calma, mi sembra lui pensi, successiva al disincanto.

«Sono perfettamente in possesso delle mie facoltà mentali» gli ho risposto.

«Niente affatto. Siete innamorata. Una donna non dovrebbe mai fare l’artista. Mees Chrees, torno a ripetere ciò che ho già detto: è pura cattiveria da parte della Provvidenza avere preso voi, una donna, come tramite per portare nel mondo questo grande dono. Un uomo dotato di talento nella stessa misura in cui ne siete sciaguratamente provvista voi si innamora e dall’amore trae ispirazione. Anzi, è proprio in quella condizione che lavora al meglio; ecco perché l’artista uomo è di rado un marito fedele, perché al marito fedele è precluso essere innamorato».

«E perché non può esserlo?» è stata la mia domanda, essendo io ora fortemente interessata all’argomento mariti.

«Perché è un marito fedele».

«Può essere innamorato della moglie».

«No» ha ribattuto Kloster, «impossibile. Impossibile, per la stessa ragione per cui non esiste uomo che possa continuare a volere la cena una volta che ha cenato. Invece» ha proseguito alzando la voce, dato che avevo già aperto la bocca con l’intenzione di dire qualcosa, «un’artista donna innamorata trascura tutto e si dedica solo all’amore. Solo all’amore» ha ripetuto scrutandomi da capo a piedi con sguardo quanto mai severo e contrariato.

«Vedrete come m’impegnerò» l’ho rassicurato.

«Sciocchezze» ha replicato, liquidando le mie parole con un gesto della mano. «Ecco perché» ha proseguito «vi sollecito a sposarvi al più presto. Solo allora la donna che la Provvidenza ha sciaguratamente scelto per un ruolo che non le si addice, dopo essersi sposata e assicurata un marito, una preda, una vittima, o in qualsiasi altro modo preferite chiamarlo...»

«Preferisco chiamarlo marito» ho risposto.

«... e se riesce a tenersi alla larga da tutto ciò che la trattiene e le ruba tempo, come ad esempio una culla, può dirsi rinsavita e tornare con animo sereno all’unica cosa che conta: l’arte, e il lavoro necessario a produrla. Però avrà sprecato del tempo» ha aggiunto scuotendo il capo. «Sciaguratamente, avrà sprecato del tempo».

A quel punto è toccato a me dire «Sciocchezze», e mi sono messa a ridere con la splendida, celestiale sicurezza che viene dall’avere un innamorato.

Suppongo che esistano persone simili a quelle descritte da Kloster, ma io e Bernd siamo diversi. Non sprecheremo neppure un minuto. Lui adora la mia musica, e l’orgoglio che essa gli dà mi è di ispirazione e mi fa ardere per l’ambizione di impegnarmi ancora di più per amor suo, per vederlo commuoversi, guardare i suoi cari occhi illuminarsi di felice trionfo. Sai, ora mi sento innalzata al di sopra di qualunque difficoltà od ostacolo la vita potrà mettere sul mio cammino. Al mio rientro a Berlino mi metterò a studiare come mai prima.

Ho detto a Kloster qualcosa del genere, ma lui mi ha risposto in toni alquanto acidi che è assurdo riproporsi d’impegnarsi solo per produrre il risultato di far spuntare un certo sguardo negli occhi di qualcuno. «Quella non è arte, Mees Chrees, ma qualcosa da cui non verrà mai niente di buono. Vedete, voi non siete altro che una donna; e qui» si è messo quasi a urlare, «siamo in presenza di un dono, un prezioso dono immortale, affidato a mani piccole e tremule come le vostre».

«Mi dispiace molto» ho detto quasi vergognandomi di averlo, tanto era arrabbiato.

«No, no» ha ribattuto addolcendosi un po’, «non dispiacetevi, sposatevi. Sposatevi alla svelta. Così forse guarirete».

Poi, al momento dei saluti – ti racconto anche questo, lo troverai divertente – ha aggiunto con una sorta di adirato dolore che se nella sua imperscrutabile capricciosità la Provvidenza era tanto determinata a mettere un dono che avrebbe dovuto essere esclusivamente maschile dentro un involucro o guscio (non ricordo quale fosse la definizione esatta, comunque sia suonava sprezzante) femminile, poteva quanto meno sceglierlo brutto.

«Non doveva» ha rincarato in toni collerici «prendere una donna che sarebbe stata comunque selezionata ai fini del corteggiamento e darle, oltre all’ordinario assortimento di seduzioni fornito dalla natura per attrarre il maschio, anche una Beethovenkopf. Mai una fronte tanto spaziosa, occhi così profondi e tutta la nobile pensosità di una testa come la vostra», non devi pensare mi stia vantando, mamma, ha detto esattamente così, ed era arrabbiatissimo, «dovevano essere abbinati a quella robaccia, in questo caso inutile e anzi dannosa, che serve a mettere insieme il solito bel faccino. Mees Chrees, vi avrei volentieri augurato una deformità di minor conto, come una pelle butterata, perché a quest’ora non vi trovereste nella deprecabile condizione di essere amata e di contraccambiare. E se» ha aggiunto come battuta finale «la Provvidenza era tanto determinata a commettere questa follia, avrebbe almeno potuto evitare di completare l’opera scegliendo una donna inglese».

«Cosa?» ho esclamato io sbalordita, inseguendolo mentre usciva fin sui gradini, dato che mi ha sempre dato a intendere che gli piacciamo e che ci ammira.

«Gli inglesi non sono portati per la musica» ha spiegato nel salire sull’auto che l’avrebbe portato alla stazione, a bordo della quale Frau Kloster era in paziente attesa. «Non lo sono, non lo sono mai stati e mai lo saranno. Purcell? Al diavolo Purcell. Non si può fare una galleria d’arte con una sola miniatura, per quanto perfetta sia. Quanto ai vostri contemporanei, i Parry, gli Stanford, gli Elgar e tutti gli altri... beh, che razza di roba sono? Tutti molto carini, bravi e coscienziosi: la traduzione su pentagramma di rispettabili gentiluomini inglesi in marsina e tuba di seta. L’equivalente musicale della Borsa Valori britannica. No, no» ha aggiunto nel sistemare la coperta da viaggio attorno a sé e alla moglie, «gli inglesi non sono musicisti. E voi» ha gridato al mio indirizzo mentre la macchina era già partita, «voi, Mees Chrees, siete uno scherzo della natura, nient’altro che uno scherzo della natura e un accidente fortuito».

Ci siamo voltati per rientrare in casa. La contessa ha fatto notare che avrebbe anche potuto salutarla. «Dopo tutto sono la padrona di casa» ha commentato.

Poi con aria pensosa ha fissato me e Bernd sottobraccio e fermi sull’uscio per lasciarla passare. «Questi geni» ha affermato posando per un attimo la mano sulla spalla di Bernd, «sono soggetti interessanti ma difficili».

Credo si riferisse a me, mamma cara, e ho provato un po’ di pena per Bernd.

Non trovi strano come la gente non capisca? Comunque, una volta entrati, ci siamo scambiati un’occhiata e ci siamo messi a ridere; Bernd mi ha preso le mani e me le ha baciate una dopo l’altra, mentre io gli ho detto alcune parole dolci e care, ma non posso dirti quali. Ecco qual è la cosa peggiore dell’avere un innamorato: tutte le cose splendide e meravigliose che lui mi dice sono cose che non posso riferirti, madre mia, madre amata alla quale ho sempre detto tutto. Proprio le cose che più vorresti sentirti raccontare, quelle che mi colmano di gloria e orgoglio, ebbene io non posso dirtele. Perché sono sacre. Sacre e benedette per lui e per me. Dovrai immaginarle, tesoro mio; dovrai immaginare le cose più meravigliose che vorresti fossero dette alla tua Chris, e anche in quel caso non sarebbero nemmeno lontanamente meravigliose come quelle che le vengono effettivamente dette.

Adesso ti devo lasciare, perché io e Bernd stiamo andando sull’Haff con una barca da pesca che abbiamo a disposizione. Prenderemo il tè, poi staremo via fino a sera. La barca da pesca ha le vele color arancio, ed è piuttosto grande, ovvero ci puoi camminare sopra senza farla rovesciare. Quando saremo stanchi di navigare tireremo la prua in secca tra i giunchi sulla costa: per prima cosa Bernd mi ascolterà recitare i salmi in tedesco, poi mi leggerà Heine. Perciò a più tardi, mio piccolo tesoro. Che cosa celestiale essere fidanzata e avere il diritto di allontanarsi per ore sotto gli occhi di tutti con l’unica persona con cui hai voglia di stare, senza nessuno che possa dire: «No, non devi». Sai che per sposarsi Bernd deve ottenere il permesso del Kaiser? Devono farlo tutti gli ufficiali, e spesso lui risponde no. La ragazza deve provare di avere un reddito proprio di almeno cinquemila marchi – duecentocinquanta sterline all’anno – e dimostrare di avere natali rispettabili. Beh, riguardo ai natali non vedo problemi – mi chiedo se il Kaiser sappia come si pronuncia Cholmondeley – e una volta che inizierò a dare concerti guadagnerò ben più di duecentocinquanta sterline. Perciò credo che tutta la faccenda possa essere facilmente sistemata. Kloster farà da garante per i miei futuri guadagni, ne sono certa. Ma il matrimonio sembra ancora lontano, qualcosa di così vago che non riesco neppure a cominciare a pensarci. Perciò andiamo avanti da fidanzati, che è già abbastanza meraviglioso. Ecco, c’è Bernd che mi chiama.

 

 

Sera

 

 

Sono appena tornata. Sono le dieci. Abbiamo trascorso una splendida giornata. Mamma, il mondo è davvero incredibilmente fantastico. Tutto congiura per far sì che io trascorra un’estate meravigliosa. Quando sarò vecchia la richiamerò alla mente, e riderò di gioia. Il tempo è perfetto, tutti sono gentili, la mia carriera si prospetta promettente; e poi c’è Bernd. Hai mai conosciuto una ragazza che abbia tanto? Ogni giorno trabocca di sole e di amore. Ovunque guardi non trovo altro che gentilezza. Ritieni possibile che il mondo stia diventando più gentile o si tratterà solo del fatto che sono tanto felice? Non posso fare a meno di pensare che tutti i discorsi sentiti a Berlino, tutta l’irrequietezza e la smania di aggressività verso chiunque, insieme all’idea che sembra ossessionarli, quella di sopraffare e derubare il prossimo, fossero semplicemente dovuti al periodo di maggior stanchezza che immediatamente precede le vacanze, e tutti fossero provati dal sovraccarico di lavoro e nervosi dopo un anno di angherie negli uffici; dopo di che è arrivata l’ondata di caldo e ha dato loro il colpo di grazia. Erano arrabbiati come bambini, snervati, furenti e litigiosi. E com’ero furente anch’io, tormentata dagli insetti! Alla fine di questo mese, dopo le vacanze al mare e nei boschi, tutti torneranno cambiati, pieni di garbo e cortesia al pari di questo cielo mite e gentile, di queste dolci mattine e serate, di questi placidi meriggi. Chiunque abbia osservato le mucche sui pascoli dorati come abbiamo fatto per ore io e Bernd questo pomeriggio, o ascoltato l’acqua frangersi tra i giunchi, o visto le aquile volteggiare alte nell’azzurro sopra le cime dei pini, e assorbito a ogni respiro la dolcezza, la straordinaria serenità di questa estate nel cuore della foresta o sulla riva del mare, non potrà almeno per tutto un altr’anno sentire la voglia di litigare e guerreggiare. E quando tornerà loro la voglia, dato che col passare dei mesi di continuo lavorare gomito a gomito diventeranno di nuovo nervosi, sarà ora di andare una volta di più in vacanza, di tornare alla meravigliosa campagna che placa e lenisce. E ogni anno diventeremo più saggi, ogni anno più adulti, sempre meno simili a bambini dispettosi, più vicini a Dio. Quello di cui abbiamo bisogno è tempo, tempo per pensare e capire. Ora mi sento religiosa. La felicità mi ha reso talmente religiosa che persino zia Edith sarebbe soddisfatta di me. Penso che la felicità avvicini a Dio molto più rapidamente che non la sofferenza. Anzi, sono convinta che è l’unico modo giusto per arrivare a Lui. Sai, mamma, ho sempre detestato l’idea di arrivare a Dio a suon di calci, di arrivarci sulle ginocchia perché ne abbiamo prese talmente tante da non reggerci più in piedi. Credo che se perdessi ciò che amo – tu o Bernd – o mi capitasse qualcosa alle mani e non potessi più suonare – non diventerei più buona, ma più cattiva. Mi indurirei, insorgerei e mi ribellerei. Una reazione che Dio stesso dovrebbe apprezzare. Se non altro sarebbe un atteggiamento risoluto e maschile. Pensa a quanto disprezzeremmo chiunque ci coprisse di salamelecchi e ci lodasse e ringraziasse per la nostra crudeltà. Per quale ragione Dio dovrebbe essere meno esigente di noi? Ora però devo proprio andare a letto. Non si può relegare Dio nella chiusura di una lettera. Ma questa sera reciterò le mie preghiere, preghiere di sincera gratitudine, veri impeti di esultanza di un cuore desideroso di rendere lode e grazie. Ho sempre pensato di essere felice, mamma carissima. Non ricordo di non esserlo stata; ma non era una felicità perfetta come quella che provo adesso. A volte sentivo una punta di preoccupazione. Sapevo che eravamo povere, e che dovevo proteggerti. Ora mi sento al sicuro; al sicuro riguardo a te così come riguardo a me stessa. Posso guardare la vita negli occhi, piena di fiducia, quasi spensierata. Mi fido di Bernd ciecamente! Una coppia unita è fortissima, se ne fa parte Bernd.

Buona notte, madre diletta del mio cuore. Ora dirò le mie preghiere di ringraziamento per te, per lui, per tutta la bellezza del mondo. Le mie finestre sono spalancate sull’Haff. Tutto tace, tranne il tenue sciabordio dell’acqua che si infrange contro il muro del giardino. A volte un uccello frulla per un istante tra gli alberi del bosco su un lato o l’altro del giardino, rigirandosi nel sonno, immagino, dopo di che tutto ritorna immobile, incredibilmente immobile; come se una grande mano fresca si posasse con delicatezza sulla fronte bollente del mondo, zittendolo e inducendolo al sonno.

La tua Chris che ti vuole bene

 

 

 

Köseritz, venerdì 24 luglio 1914

 

 

Madre diletta, oggi pomeriggio Bernd ha ricevuto un telegramma dal suo quartier generale con l’ordine di tornare immediatamente a Berlino, così è partito. È stato tutto talmente improvviso che sono ancora qui a sfregarmi gli occhi per capire se non è tutto un sogno. Nel giro di un istante tutto il mondo mi sembra cambiato. Se ne è andato anche il conte. Qui il giornale non arriva fino all’ora di pranzo, ed è sempre il conte ad accaparrarselo; oggi riportava l’ultimatum dell’Austria alla Serbia, e non appena il conte ha letto i titoli del «Tageszeitung» l’ha richiuso senza una parola, si è alzato e ha lasciato la stanza. Bernd ha preso il giornale per capire di cosa si trattava. Ha letto l’articolo ad alta voce. «Questo significa guerra» ha annunciato, e la contessa gli ha immediatamente sibilato: «Shhh!», credo perché non riesce a sopportare quella parola. Quindi si è alzata anche lei per seguire il conte lasciando Helena, la governante, i bambini, Bernd e me intorno a una tavola in subbuglio; negli occhi di tutti i commensali si leggeva un interrogativo, e le mani dei domestici non erano più tanto ferme nel porgere i piatti. In caso di guerra il personale maschile deve lasciare il servizio per andare a combattere. Non c’è da stupirsi quindi se tra le loro mani i piatti traballavano un po’, erano tutti decisamente elettrizzati.

Non appena siamo riusciti ad andarcene dalla sala da pranzo, io e Bernd siamo scesi in giardino – il conte e la contessa non sono più ricomparsi – e lì mi ha confidato come per un istante avesse pensato che l’ultimatum dell’Austria avrebbe significato la guerra, ma era stata solo l’impressione del momento, in fondo era convinto che la Serbia avrebbe acconsentito a tutte le richieste e la crisi sarebbe stata scongiurata come le precedenti.

Io gli ho chiesto cosa sarebbe accaduto in caso contrario; avevo bisogno di capire bene la situazione, perché davvero non mi è chiaro quali nazioni entrerebbero in guerra, e la sua risposta è stata chiedermi perché mai dovevamo parlare di cose detestabili come la guerra quando la guerra non era ancora scoppiata. Ha poi aggiunto che finché il suo capo l’avesse lasciato tranquillo dai Köseritz e non l’avesse convocato a Berlino potevo stare serena, si trattava solo di una scaramuccia locale: ma se veniva convocato lui, venivano convocati anche tutti gli altri ufficiali in licenza, il che significava che il governo era quantomeno sul chi va là. Poi, alle quattro, è arrivato il telegramma. Il che significa che il governo è quantomeno sul chi va là.

Dopo di che ho visto Bernd solo di sfuggita. Ha radunato le proprie cose con una rapidità che mi ha lasciata di stucco ed è partito in auto diretto a Stettino per prendere l’ultimo espresso con il conte, diretto anch’egli a Berlino con il suo stesso treno. Appena prima di partire mi ha preso la mano, mi ha tirata nella biblioteca deserta e mi ha detto che ringraziava il Cielo perché ero inglese. «Chris, se fossi stata francese o russa...» ha commentato, con un’espressione che lasciava capire che quel pensiero lo atterriva. Poi ha appoggiato il viso al mio. «Ti avrei amato allo stesso modo» ha aggiunto, «non avrei potuto far altro che amarti, ma pensa, pensa cosa avrebbe significato... »

«Ma allora la Germania verrà coinvolta, se scoppia la guerra?» ho chiesto. «La Germania, oltre all’Austria, e la Francia, la Russia... insomma, quasi tutta l’Europa?» ho esclamato incredula di fronte a tanto orrore. «Tranne l’Inghilterra» ha risposto; e ha aggiunto in un sussurro: «Tranne l’Inghilterra, grazie a Dio». La porta si è aperta di uno spiraglio e qualcuno gli ha comunicato che bisognava partire immediatamente. Io gli ho bisbigliato all’orecchio che sarei tornata a Berlino l’indomani, per stargli vicino. Se ne è andato così velocemente che quando l’ho rincorso nell’atrio, l’automobile stava già sfrecciando lungo il viale, e sono riuscita a scorgere soltanto un lampo di sole sul suo elmetto mentre scomparivano alla svolta.

È stato tutto rapidissimo. Non riesco quasi a crederci. Non so cosa pensare, e qui nessuno si pronuncia. La contessa, quando le chiedo un’opinione, mi dice in toni suadenti che non devo assillare la mia testolina – la mia testolina! come se avessi sei anni, e fossi fatta di marzapane – e che tutto si sistemerà. «L’Europa è in grande subbuglio» ha spiegato con aria placida, «e vede il pericolo dietro ogni angolo, ma una volta raggiunto l’angolo vi guarda dietro e non trova mai nulla. È già successo prima, e senz’altro succederà di nuovo. Andate a letto, bambina mia, e non pensate alla politica. Lasciatela a teste più vecchie e di maggiore esperienza. Il nostro Kaiser è sempre stato dalla parte della pace. Possiamo confidare che riuscirà a lisciare le penne arruffate dell’Austria».

Decisamente dubbiosa sul loro Kaiser dopo averne sentite tante su di lui da Kloster, sono restata educatamente zitta e ubbidiente e sono salita in camera mia. Se scoppierà la guerra Bernd... beh, adesso sono stanca. È meglio che smetta di scrivere. Ma sappi che ti voglio un mondo di bene, mamma cara.

La tua Chris

 

 

Che benedizione che le madri siano donne, e che non debbano partire per la guerra. Pensa che orrore se fossero uomini!

Köseritz, sabato 25 luglio 1914

 

 

Devo dirti, carissima mamma, che preferirei di gran lunga essere da Frau Berg a Berlino, sola e indipendente, con la possibilità di vedere Bernd ogni qualvolta gli riesca d’incontrarmi, senza dover dire dozzine di Grazie e Posso? a tutti quanti, tant’è che mi ero organizzata per partire oggi stesso, solo che la contessa non mi lascia andare. Dice che mi accompagnerà lei lunedì, quando ci andrà con Helena. Fanno giusto una capatina, nell’intento di ottenere più notizie di quante non ne giungano qui; dice inoltre che non sarebbe giusto da parte sua, essendo ormai quasi mia zia, permettere a me, quasi sua nipote, di starmene tutta sola in una pensione mentre lei è a casa sua nella via accanto. «Cosa direbbe la gente?» ha chiesto – was würden die Leute sagen – come si chiede invariabilmente ogni tedesco prima di compiere qualsiasi azione. Dal primo all’ultimo sembrano sopraffatti dal terrore di die Leute, e di ciò che essa würden sagen. Perciò sarò ospite da lei in Sommerstrasse e vivrò sontuosamente sorvegliata finché rimarrà in città. Si dice certa che lo vorrebbe anche mia madre. Io invece non lo sono neanche un po’, perché conosco mia madre e so quanto sia meravigliosamente scevra da convenzioni e quanto divinamente indifferente a die Leute; ma poiché sto per sposare un tedesco appartenente agli Junker immagino di dover compiacere i suoi parenti, se non altro fino a quando sarò riuscita, con metodi gentili e subdoli, a farli abituare un poco al mio carattere. Così ho acconsentito e messo il broncio. Ma non temere, un broncio interiore, tutto qui. Fuori mi sono mostrata non sai quanto lieta e ammodo. La contessa è davvero molto gentile, e la sua mancanza di entusiasmo, che non è passata certo inosservata, non fa che renderla ancora più gentile. Ragion per cui anche la mia gratitudine, altrettanto priva di entusiasmo, è ancora più grata.

Non voglio aspettare qui fino a lunedì. Avrei voluto andarmene oggi, percorrere tutte le miglia di foresta che ci separano dalla stazione più vicina, le miglia di foresta che le notizie attraversano arrancando lente, trasportate verso di noi a passo d’uomo su un carretto una volta al giorno. Per quasi tutta la giornata odierna e per tutto l’indomani ce ne staremo sedute qui, in questo vuoto soleggiato. È di nuovo una giornata meravigliosa, ma per me è come un corpo senz’anima, come il sorriso insignificante di un bellissimo ebete. È evidente, mammina, che la tua povera Chris è perdutamente innamorata. Non credo siano le notizie, ma Bernd, ciò a cui voglio essere più vicina.

A proposito di notizie, oggi i giornali sembrano ritenere che le cose si aggiusteranno presto. Sono piuttosto servili sull’argomento, ma del resto lo sono sempre; se avessero degli occhi sarebbero pietosamente rivolti al cielo, con il bianco bene in vista. Rilevano le disastrose conseguenze a livello mondiale se la Serbia, quella piccola e spregevole nazione criminale, osasse rifiutare le giuste richieste di quell’oltraggiato e nobile alleato della Germania che è l’Austria. Certo che la Serbia le accetterà. Lo danno per scontato. Impossibile anche solo pensare il contrario. Il Kaiser è a nord che naviga con il suo yacht attorno alla Norvegia; dicono che Sua Maestà non ha mostrato la minima intenzione di interrompere la vacanza. Fin tanto che se ne starà lontano, fanno notare, non può accadere niente di serio. Davvero un bel complimento nei confronti di S. M.! Finché starà lontano a trastullarsi, la pace è garantita. Che cosa meravigliosa sarebbe, quindi, se stesse lontano a trastullarsi all’infinito.

Volevo comunicare questa mia riflessione alla contessa quando oggi a pranzo ci ha letto i giornali ad alta voce, ma mi chiedo cosa mi sarebbe accaduto se l’avessi fatto. Ebbene, anche se mi toccherà stare con lei in Sommerstrasse e mostrarmi compita, a giorni alterni potrò fuggire in quel luogo rozzo ma felice che è l’appartamento di Kloster, e dire ciò che voglio. Credo di averti già detto che da ora in avanti andrò a lezione da lui tre volte la settimana.

 

 

Dopo il tè

 

 

Ho suonato per gran parte della mattina. Ho scritto a Bernd, gli ho riferito di lunedì e gli ho detto... oh, beh, un sacco di cosucce che mi passavano per la testa. Dopo pranzo sono uscita e mi sono sdraiata sul prato presso il ciglio dell’acqua con un libro che però non ho letto, era lo stesso spiazzo su cui soltanto l’altro ieri io e Bernd abbiamo tirato in secca la barca da pesca, anche se mi sembra siano passati dieci anni, e sono rimasta talmente immobile che le mucche si sono dimenticate di me e sono venute a strappare rumorosamente l’erba vicinissime alla mia testa. Come di consueto abbiamo preso il tè in giardino, nel cono d’ombra formato dai muri di sud-ovest, e la contessa ha disquisito in toni placidi sulla situazione politica. È stata quanto mai istruttiva; con calma ha trasmesso il suo sapere a me ed Helena, mentre con dita ferme, fresche e bianche ricamava con tutta calma un camicino, quasi un sinonimo di pace, per il piccolo della figlia sposata. Sembrava alquanto soddisfatta del mondo e del suo comportamento. Aveva la stessa aria impassibile dei cigni sull’Haff. Tutte le opinioni eversive ed eretiche che deve avere sentito da Kloster le sono scivolate addosso senza lasciare segno. È evidente che, ritenendolo un genio, non presta la minima attenzione a ciò che lui sostiene. I geni sono dei pazzi privilegiati. Mi pare la pensi così. Quel che ha detto sulla Germania – non ha parlato d’altro – è stato molto interessante. Ne conosce molto bene la storia, e credo ci abbia messo a parte di tutto ciò che sa. Al momento in cui i domestici sono venuti a sparecchiare le tazze del tè, l’immagine della Germania che avevo in testa era quella del più tenero degli agnelli, con un nastro azzurro attorno al collo, immerso nelle margherite fino all’altezza del ginocchio e intento a osservare il mondo con piccoli occhi miti.

A presto, mamma cara. Sabato è agli sgoccioli. A quest’ora l’ultimatum dato alla Serbia dev’essere già scaduto. Mi chiedo come sia andata. Mi chiedo anche cosa se ne pensi lì da voi in Svizzera. Sai, carissima, se mi dirai che hai anche il più tenue barlume di desiderio che lo faccia, sono disposta a interrompere le lezioni e a raggiungerti in Svizzera; se poi Bernd dovesse partire – nella remota ipotesi che alla fine la guerra scoppi per davvero – io stessa vorrei starmene zitta zitta accanto te ad aspettare il suo ritorno. Però non saprei. Credo sia giusto che io porti avanti il mio progetto, indipendentemente da quanto accadrà, e rimanga qui a lavorare con Kloster fino a ottobre come programmato. Ma non hai che da sollevare il mignolo e io verrò di corsa. Non voglio che inizi a preoccuparti e che ti frullino per la testa un sacco di cose brutte.

La tua Chris

 

 

Köseritz, 26 luglio, domenica sera

 

 

Madre diletta, ho preparato il bagaglio, sono pronta. Partiremo domattina presto. Oggi, per non si sa bene quale motivo, forse l’agitazione e la disorganizzazione, i giornali non ci sono arrivati, ma il conte ha telefonato da Berlino per riferirci che l’ambasciatore austro-ungarico ha chiesto al governo serbo il rilascio del passaporto e ha abbandonato Belgrado. Ma ormai l’avrai saputo anche tu. La contessa, placida come al solito, dice che ora l’Austria punirà la Serbia come si merita, sia per l’assassinio sia per avere avuto l’insolenza di rifiutare le sue giuste richieste. Nella sua telefonata, il conte si è limitato a riferirci il rifiuto della Serbia. Noi stentavamo a crederci. Io stessa pensavo che la Serbia meritasse una punizione. I giornali di ieri dicevano che, vista la gravità del fatto, le richieste erano del tutto ragionevoli. Dato il trambusto per la partenza improvvisa di Bernd non avevo letto la Nota Austriaca, ed ero decisamente indignata per il comportamento della Serbia, che in tal modo non ha fatto altro che aggiungere al danno la beffa e rischiare di tirare l’Europa intera dentro il conflitto, ma mi sono bloccata, indotta a riflettere dallo sguardo compiaciuto della contessa di fronte alla mia espressione. Mi si è avvicinata e dandomi un buffetto sulla guancia ha esclamato: «Questa fanciulla diventerà una perfetta piccola tedesca».

Allora ho pensato fosse più saggio aspettare di saperne di più prima di spazzare via la Serbia dalla mia visione disgustata. Sicuramente mi mancano molte informazioni. Me le farò dare da Kloster. Mi sono scoperta davvero molto delusa da questa gente. Non mi riferisco a qualcuno in particolare, ai Köseritz o ai Kloster o ai loro amici, ma ai tedeschi in generale. È come un’intima incompatibilità di spirito, l’incompatibilità che nasce dall’avere opinioni diverse sulle cose fondamentali.

«Allora ci sarà la guerra?» ho chiesto alla contessa osservando il suo viso impassibile, e per niente felice della prospettiva di diventare una perfetta piccola tedesca.

«Oh, solo una spedizione punitiva» è stata la sua risposta.

«Bernd ha detto che secondo lui verranno coinvolte Russia, Francia e la Germania stessa» ho replicato.

«Oh, Bernd... è innamorato» ha dichiarato la contessa con un sorriso.

«Non vedo cosa...» ho provato a ribattere.

«Gli innamorati esagerano sempre» ha spiegato. «La Russia e la Francia non oseranno interferire in una punizione tanto giusta».

«Ma lo è, giusta?» ho domandato.

Nell’udire questo mi ha scoccato un’occhiata di riprovazione. Evidentemente non trovava quelle parole il commento più appropriato per una futura perfetta piccola tedesca. «Mia cara bambina» ha detto, «non vorrete insinuare che il nostro alleato, l’alleato del Kaiser, avanzerebbe richieste ingiuste?»

«Pensate che i giornali di venerdì siano ancora qui da qualche parte?» è stata la mia risposta. «Vorrei leggere la Nota Austriaca, e meditarci su per conto mio. Non ho ancora avuto modo di farlo».

Al che la contessa ha sorriso e ha suonato il campanello. «Credo che Dörner» – Dörner è il maggiordomo – «li abbia» ha risposto. «Ma non affaticate troppo la vostra testolina, con questo caldo».

«Oh, non si scioglierà» ho replicato, risentita che la mia testa fosse considerata piccola e per di più di marzapane; aveva già detto di recente qualcosa del genere, e mi ero risentita anche in quell’occasione.

«Vi sono persone deputate a riflettere su certe questioni importanti al posto nostro» ha commentato, «per cui possiamo rimetterle tranquillamente nelle loro mani».

«Come se fossero Dio» ho osservato.

Mi ha lanciato di nuovo un’occhiata carica di biasimo. «Precisamente» ha confermato. «Fede e obbedienza incondizionata sono qualità che accomunano il suddito leale e il vero cristiano».

Allora, per paura di non riuscire a trattenermi dal dire qualcosa di troppo sincero e sgarbato, sono salita in camera mia.

È un peccato che la verità risulti sempre tanto scortese. Ragion per cui una persona come me, che per motivi che non posso fare a meno di pensare fondati è ansiosa di mostrare modi che la servitù definirebbe da vera signora, è di conseguenza costantemente forzata a una deprecabile mancanza di sincerità. Vorrei che Bernd non fosse uno Junker. È un grosso neo che macchia la sua perfezione. Preferirei di gran lunga che fosse un marinaio, un semplice marinaio dedito alle imprecazioni, così potremmo dedicarci a una sincerità schietta e colorita, e io non dovrei più comportarmi da signora. È così piccolo-borghese comportarsi da signora. Questi aristocratici tedeschi sono così inguaribilmente piccolo-borghesi.

So che quando sarò a Berlino desidererò starmene alla larga da tutte le loro cerimonie – intanto mi ruberebbero troppo tempo, e poi non sono abituata a quel tipo di eventi – e troverò molto seccante finire intrappolata e trattenuta da una rete di cortesie, manierismi e formule di rispetto, e dovrò ricordarmi ogni benedetta regola di comportamento alla quale qui sembrano tanto tenere. Non ho mai assistito a tanti convenevoli come in Germania. I complimenti che ti tocca fare! Ogni rifiuto o consenso richiedono una complessa verbosità. In definitiva è tutta aria fritta, che non significa nulla, proprio nulla, ma solo rivela la loro gran paura; la paura, l’eterno spettro che li perseguita: paura che gli altri, se sono più forti oppure più altolocati di te, si possano offendere, perché in tal caso ti faranno del male, troveranno il modo di fartela pagare; e dieci a uno, se sei uomo, che verranno alle mani.

Ho letto la Nota Austriaca. Adesso capisco perché la Serbia si è rifiutata di accettarla, anche se di certo sarebbe stato più saggio farlo, quanto meno nella massima misura possibile.

«Molto più saggio» ha ripetuto la contessa con un sorriso gentile quando a cena ho espresso il mio pensiero. «Perlomeno più saggio per la Serbia. Ma meglio così». E ha sorriso di nuovo.

Sono giunta alla conclusione che anche la contessa vuole la guerra, una grande guerra europea, così che la Germania, che non vede l’ora di sguainare la sua spada lucente, abbia una scusa pronta per buttarsi nella mischia. Basta che una persona sia stata qui, abbia vissuto tra loro e li abbia sentiti parlare per capire senza ombra di dubbio che non vedono l’ora di appigliarsi a un qualunque pretesto per partire all’attacco. Lavorano da anni in attesa del momento in cui potranno finalmente attaccare. È il chiodo fisso del Kaiser, dice Kloster, da quando è salito al trono. Vero, è stato un regno pacifico – si premurano sempre di farlo notare quando si sforzano di convincere uno straniero che l’ultimo obiettivo dei loro smisurati preparativi è la guerra – ma del resto un regno è pacifico fino al momento in cui non lo è più. Finora si sono tenuti a distanza con grande cura da ogni possibile diverbio perché non erano ancora pronti per il violento colpo che intendono sferrare una volta che lo saranno. Si sono organizzati fin nei minimi dettagli. Bernd mi ha riferito che gli uomini non atti al combattimento, i vecchi e gli inabili, ogni autunno per anni e anni in passato hanno ricevuto istruzioni, istruzioni segrete e dettagliate su ciò che dovranno fare quando verrà dichiarata guerra, per contribuire all’eccidio dei loro fratelli, quegli stessi fratelli, mamma, per i quali morì anche Cristo. Ciascuno di questi tedeschi attempati o non più in perfetta salute, gli elementi della società non in grado di combattere, ha il proprio posto assegnato, secondo ordini segreti, nella città a lui più vicina, compito che può consistere nella sorveglianza dei magazzini o nell’organizzazione del lavoro. Tutti gli altri uomini, tranne coloro che hanno la fortuna di essere idioti o moribondi – in che razza di mondo viviamo, per considerarla una fortuna – andranno in guerra. Le donne, e le migliaia di immigrati russi e polacchi, lavoreranno nelle fattorie durante la breve assenza degli uomini, perché questo sarà un conflitto breve, di poche settimane, come la trionfale guerra del 1870. Hai mai sentito di un piano altrettanto agghiacciante e malvagio, portato avanti con minuzioso accanimento anno dopo anno, per interi decenni, finalizzato a uccidere, uccidere in modo vittorioso e trionfale, così da poter arraffare ciò che non ti appartiene? Questo è, ed è inutile ammantarlo di paroloni ampollosi come Deutschthum e di tutta la retorica con cui le autorità fanno il lavaggio del cervello ai loro schiavi; lavaggio del cervello, sì. Sai, la mia visione della Germania è quella di una nazione che afferra, che attacca. Ora che ho vissuto qui, capisco che per loro qualunque altra azione è semplicemente inconcepibile. Una guerra difensiva, dichiarata per proteggere le proprie case da attacchi ingiustificati, è per loro impensabile. Al giorno d’oggi i paesi civili non possono compiere azioni ingiustificate. La brama di sangue è ormai superata. Siamo popoli sobri, sobri e civili, ormai cresciuti. Quanto a quelli semi-civili, avrebbero certamente paura ad attaccare una nazione forte come la Germania. Che da anni ormai, si prepara a sferrare l’aggressione. E pensi che abbiano un senso le loro proteste? Basta solo ascoltare come la pensano per liquidare i reclami di circostanza che inseriscono qua e là, come dietro ordine, ogni qualvolta si ricordano il copione che devono recitare. Oh, so che tutto questo è ben diverso da ciò che provavo e scrivevo due o tre giorni fa, ma ora ho riaperto gli occhi all’improvviso, le impressioni avute a Berlino mi tornano alla mente vivide più che mai, e non sono più così sicura che il problema della gente fosse solo il caldo e il superlavoro. Erano come in preda a una smania, a una febbre da bottino. Credo di averti già detto che la mia prima impressione di Berlino è stata di una città scossa da un fremito interiore.

Cara mamma, perdona il mio accanimento. Non mi accanirei tanto, te lo assicuro, se riuscissi a credere alla necessità, alla giustezza di questa guerra, se non fosse la Germania a cercare la guerra ma la guerra a cercare la Germania. E ho paura, paura per Bernd. Pensa se... beh, chi può mai dirlo, magari al nostro arrivo a Berlino le cose si saranno già calmate. La contessa potrebbe allora decidere di rientrare subito qui a Köseritz – Dio lo voglia – e io potrei tranquillamente fare ritorno da Frau Berg e dalle mie mosche. Guarderei a quelle mosche con il più caloroso sentimento di amicizia. Facciano quel che vogliono, non mi lamenterò.

Buona notte, mamma diletta. Per fortuna questi due giorni sono terminati.

La tua Chris

 

 

È il silenzio che regna in questo posto, la sua assurda, pacifica luce solare, la placidità della contessa e la noncurante inconsapevolezza della natura che trovo tanto difficile sopportare.

 

 

 

Berlino, mercoledì 29 luglio

 

 

Mammina,

sono le sei del mattino e ti sto scrivendo ancora in vestaglia, perché se non lo faccio ora finirò risucchiata da cose e persone, come è accaduto ieri e l’altro ieri, senza un attimo di pace. Vedi, ci sarà la guerra, ormai non c’è il minimo dubbio al riguardo, e i tedeschi sono impazziti. La concitazione è tangibile persino in questa casa; ecco perché alzarmi di buon’ora è la mia unica possibilità per scriverti.

Non avevo mai visto nulla di simile a ciò che capitava ieri per le strade. Pullulavano di ubriachi, che gridavano sciamando per ogni dove, i volti gonfi e paonazzi per l’eccitazione. Un’esperienza nuova e interessante per me, che alla guerra mi sono avvicinata al massimo durante le lezioni di storia a scuola. Credo ora che tutto ciò che loro pensano lo otterranno, che tutto ciò che loro pensano accadrà, povere anime tronfie e sbraitanti che sventolano cappelli e fazzoletti, e persino i loro piccini, sollevandoli sopra la testa ogni qualvolta una königliche Hoheit, un’altezza reale, li supera sfrecciando in auto, cosa che accade di continuo, visto che sono tantissime. Il viaggio di lunedì scorso da Köseritz a Stettino, che già mi appare lontano e come appartenente a un’altra vita, è stata l’ultima cosa bella e normale che mi è successa; da allora, non vedo che confusione e brutture. Non riesco a dimenticare l’aspetto benevolo della campagna: la quiete estiva, la prima segale mietuta nei campi, le siepi festonate di clematidi. Al momento non ho registrato tanta bellezza; volevo solo proseguire, arrivare in città, sentire le ultime notizie; ora che sono qui, invece, riassaporo quell’innocenza, e mi rallegro della gomma forata che ci aveva costretto a fermarci per dieci minuti in un tratto di strada circondato da campi di grano a perdita d’occhio, sovrastato da un’ampia volta di cielo punteggiato da pacifiche nuvolette bianche che si muovevano pigre, e come unici suoni il soave, liquido frusciare dei pioppi lungo il ciglio stradale e il canto delle allodole. Mi è adesso di gran conforto richiamare tutto ciò alla mente, rifugiarmici un istante per distrarmi dagli assordanti Deutschland über Alles, dagli hoch e dagli schiamazzi. Poi siamo arrivati a Stettino, e da allora ho vissuto nel disagio.

Il Kaiser è rientrato lunedì. Al nostro arrivo era già in città; quando l’autista venuto a prenderci alla stazione le ha riferito la notizia, la calma trionfale della contessa è visibilmente aumentata. Già questo, come avevano riferito i giornali della sera, a malapena capaci di trattenere la gioia sotto le pie speranze che gli orrori della guerra possano almeno per il momento essere risparmiati al mondo, rivela l’estrema serietà della situazione. Mi piace quel «almeno per il momento», e a te? Anche Bernd è venuto alla stazione, per poi accompagnarci in Sommerstrasse. Abbiamo percorso la Dorotheenstrasse, dietro l’Unter den Linden, perché quest’ultimo traboccava di gente. Impossibile aprirsi un varco. Formavano una sorta di cuneo vivente, mentre frenetici poliziotti a cavallo cercavano di farlo defluire.

Bernd è stato tanto caro; oh, che benedizione essergli di nuovo vicino! Ma era molto serio, e non sorrideva mai, tranne quando mi guardava. Allora il suo dolce sorriso così pieno di bontà gli trasfigurava completamente il volto. «Oh, Bernd, ti amo tanto» non ho potuto trattenermi dal sussurrargli; per farlo ho dovuto sporgermi in avanti e non badare a Helena, che gli sedeva accanto. Lo sguardo di Helena lasciava intendere di avermi udito, e io, resa felicemente audace dal nostro ricongiungimento, mi sono girata verso di lei e le ho detto: «Che posso farci; non dovrebbe sorridermi in questo modo irresistibile».

La contessa ha riso garbatamente, per cui ho dedotto che i miei modi lasciavano a desiderare. Ho capito che quando ride garbatamente disapprova, mentre quando afferma con un placido sospiro che la guerra è terribile e deve essere evitata, tutte le sue speranze si concentrano a che non sia evitata. Il suo unico figlio maschio è nei corazzieri e, a detta di Kloster, un perdente nato. La guerra è la sua unica opportunità di promozione, di carriera. È anche la sua unica opportunità di morte o menomazione, come ho fatto notare a Helena domenica a Köseritz mentre raccontava al pastore, in visita con il cappello in mano e che si profondeva in mille inchini, del fratello e delle opportunità che gli si presenteranno in caso di guerra.