Lei, cresciuta fra gli agi, e a cui la sollecitudine dei parenti aveva tenuta celata, per non offendere la sua grazia, fino l’ombra del male. Una fanciulla ancora, che la natura, l’educazione, i mezzi, avevano destinata ad essere una moglie, una padrona di casa, e ad aver figli in una società cristiana. Eccola invece sradicata e confusa da forze alle quali, nella sua mente semplice, lei non può dare neppure un nome. In preda a paure strane, che nella nostra infanzia comune ci sarebbero sembrate possibili solo in sogno.
Come evocato da questo mio pensiero, in quel minuto il suono dell’allarme ruppe la notte. Vidi mia moglie balzare fuori dalle coperte in quel medesimo punto, quasi che non fosse stata sorpresa dalla sirena nel sonno inconscio; ma, sveglia, fosse lì ad attenderla. Cambiata in viso dalla paura, discinta e senza ravviarsi i capelli, (lei per solito cosa accurata), mi afferrò il braccio e gridò: - L’allarme! Scendiamo, scendiamo! - In fretta le feci indossare una pelliccia, e le gettai sulle spalle la coltre del letto; poi, copertomi io stesso alla meglio, la sorressi nella sua trafelata discesa. In quel momento medesimo, nelle altre stanze della casa, e nelle altre case della città, tutti al pari di noi balzavano dal sonno e volevano salvarsi; come uscimmo nella strada, ci urtammo con quella folla, mentre già i primi lampi e boati ci incalzavano a cercare scampo.
La nostra città, sorgendo sulle colline, offre a riparo numerose grotte e caverne. Come la notte precedente, Elisa e io ci rifugiammo in una grotta alquanto profonda, non lontana dalla casa. Fuori d’una stretta porticina lasciata libera, sacchi di sabbia accumulati ne chiudevano l’apertura quale protezione contro le schegge dei proiettili. Si scendeva una rozza gradinata scavata nella pietra, e ci si trovava nel vasto sottosuolo, dove la tenebra era illuminata soltanto dalle lampadine portatili dei fuggiaschi, e si era costretti a camminare curvi, per la bassezza delle volte. La nostra lampada si spense di un tratto quando ancora scendevamo i gradini; Elisa e io ci spingemmo tuttavia sulla destra, verso una minuscola cella naturale in cui ci eravamo rifugiati la notte avanti per tenerci lontani da quei fuggiaschi in preda al panico. Infatti, il suo riserbo nativo e la vita ritirata cui sono avvezze le fanciulle nella nostra provincia rendono mia moglie schiva di ogni promiscuità, così che il disordine di una folla suole gettarla in una specie di ambascia. In quell’angusta cavità della roccia, così bassa che bisogna entrarvi a carponi, non c’era posto che per noi due; là mi sedetti sull’umida pietra gelata, vicino a Elisa avvolta nella coperta. Ci giungevano da non lontano, fatte sonore dagli echi, le voci delle nostre cameriere, loquaci e perfino gaie. Mescolate ad esse, altre voci confuse, echeggianti, e i riflessi rari delle lampadine. Anche i boati, gli schianti della città ci giungevano laggiù, ma remoti, attutiti e quasi vuotati del loro spavento. Elisa, tuttavia, non cessava di tremare; le chiesi se avesse freddo, e, avviluppandola meglio nella coperta, presi a rassicurarla che laggiù eravamo al sicuro, che non doveva spaventarsi. Poi, vinto dalla passione e dal rimorso, la strinsi a me e con voce d’amore la chiamai: - Elisa! - E le giurai che, se Dio ci risparmiava in quella notte, il giorno dopo sarei partito insieme a lei, trascurando qualsiasi altro dovere o interesse; saremmo andati insieme nella nostra campagna, lontano da questi orrori, e avrei vissuto con lei, come se tutto il restante mondo non esistesse. Di che cosa dunque aveva paura? Che la nostra casa venisse distrutta? Ma che importava, più tardi, finita la guerra, ne avremmo avuta un’altra migliore. E intanto, nella nostra prossima solitudine, l’amore ci avrebbe compensato di tutte le cose perdute. Se il mondo era in guerra, noi due saremmo vissuti nella nostra intima pace e gioia. Eravamo noi, forse, colpevoli di questo delitto del mondo? Come un incubo, domani ella avrebbe dimenticato le due ultime notti.
In quel punto, uno schianto più forte ci scosse fin nella nostra cameretta sotterranea. E com’io poco prima l’avevo chiamata per nome, Elisa mi chiamò a sua volta; ma con voce non d’amore, piuttosto di spavento, titubante e quasi spettrale, mi disse:
- Adolfo! - E dopo un attimo seguitò: - L’Istituto di Correzione è crollato, è vero, e quella ragazza, quella Margherita, è morta?
Non seppi mentirle, ma soggiunsi che noi non eravamo colpevoli: ciò che avevamo fatto a colei, lo avevamo fatto per il suo bene. Era nostro diritto e nostro dovere di farlo, né potevamo prevedere il seguito. Essa aveva rubato.
- Ma la mia spilla, non l’aveva rubata, - disse allora mia moglie con quella voce sottile, in cui pure si avvertiva una specie di puerile compiacimento.
- Come! - replicai, - fu scoperta addosso a lei, nel suo grembiule…
- Ah, no, ho paura, ho paura, - udii dire a mia moglie, - se muoio stanotte, sarò dannata.
Ridendo esclamai: - Tu! dannata!
- Non l’ho detto nemmeno in confessione, - riprese mia moglie in tono basso, quasi timorosa di risvegliare, con le sue parole, uno spettro, - l’ho taciuto, e questo è sacrilegio. In verità, quella volta, fu tutta una mia commedia. Fui io, apposta, a nascondere il gioiello là dentro.
- Dove, là dentro? - le chiesi.
E lei spiegò:
- Ma là, nel suo grembiulino… Lo vidi appeso nel guardaroba, mentre lei era fuori, e nascosi la spilla nella tasca.
- Sei certa di quello che dici? - io sussurrai, - non è per una tua stranezza, non è per il nervosismo di stanotte che farnetichi in questo modo?
Elisa giurò che non mentiva. Cercavo una giustificazione fra me, e, quasi illuminato, domandai: - Forse, era per gelosia? Pensavi che quella ragazza avesse un qualche sentimento per me, e che io lo ricambiassi?
- No, no, - rispose Elisa, - lo sapevo bene, ero sicura che tu amavi soltanto me -. S’interruppe, certo avvertendo, nel mio silenzio, il disordine in cui la mia mente si dibatteva; e seguitò con la voce dubbiosa, ma spietata, e in cui tremava pure una superba, folle eco di vanto: - Se agii così, fu, credo, perché mi piaceva di fare un dispetto, di determinare, io, la sorte di quella ragazza. Lei si correggeva, era pentita, e io volli che precipitasse. Tutto dipendeva da me. La sua vita avrebbe potuto essere una e fu un’altra.
- Ma perché dopo non l’hai detto? Perché non hai rimediato, finché eri in tempo? - chiesi io, con lo spavento nella voce.
- Non avevo più il coraggio, dopo, sentivo vergogna, - bisbigliò Elisa, fattasi di nuovo pavida e smorta, - era tardi, avevo paura… -
e ritraendosi contro il muro, quasi che il mio contatto la intimidisse, ripeté: - Ho paura.
- Non aver paura, non aver paura, - io le dissi, attirandola a me col braccio; ma sentivo di mentire, consolandola così. La mia pietà era fittizia, e in realtà, io stesso ero dominato dalla paura. Non per la morte che incombeva sulla città, né per la violenza che mi costringeva a nascondermi. Adesso, ero grato a questo nascondiglio, e tutto quanto mi aveva, un’ora prima, sbigottito, era il solo scampo, oramai, per me. Quel dolore da me giudicato ingiusto, perché disumano, poteva, solo, farmi dimenticare la mia sorte umana, e la confusione della mia mente. Io domandavo come una grazia, di trovare, uscendo, l’antico ordine sconvolto, e la rovina sulla mia casa, e una necessità che, incalzandomi senza riposo, mi salvasse dal disordine che riconoscevo dentro me stesso.
III. Aneddoti infantili
Prima della classe
Ero la prima della classe. Le altre bambine mi mettevano in tasca, di nascosto, dei torroncini o dei «coccetti», e cioè delle piccolissime pentole o padelle di coccio. Ma io sapevo che esse non mi amavano e facevano tutto per interesse, affinché io suggerissi e lasciassi copiare i compiti. Nessuna meraviglia, del resto, perché io stessa non mi amavo.
Avrei voluto essere brava in ginnastica e nei giochi, essere grassa e colorita come Marcella Pélissier. L’anima mia si protendeva disperatamente verso tutti coloro che, grassi e coloriti, erano bravi in ginnastica e nei giochi. L’anima mia, nera d’orgoglio e di sprezzo, era in realtà quanto esiste di più avvilito. Io facevo poesie con le rime, che venivano recitate da ragazzini scornati e lamentevoli nelle feste scolastiche. La direttrice mi presentava al pubblico dicendo: - Signori, devo premettere che le poesie che udirete sono state composte dalla bambina qui presente, e non esito a riconoscere, con intensa emozione, che siamo dinanzi a un genio -. Io m’inchinavo, pallidissima, lanciando sguardi lampeggianti di superbia alle modeste compagne. Vedevo i ginocchi delle mie compagne sporchi di terra, i graziosi polpacci rossi di Marcella Pélissier, e me stessa lontana da tutti, in un’ombra nera e piena di lampi, un fenomeno della creazione. Mia madre raccontava, traboccante di legittima baldanza, che all’età di due anni e mezzo, girando intorno alla tavola, avevo composto il mio primo poema in versi sciolti. Ed io covavo un empio rancore contro di lei, che aveva partorito un simile prodigio.
Se credevano di adularmi, con quel rispetto e quelle mosse, come se io fossi stata la vicedirettrice, si sbagliavano. E se mi domandavano: - Che farai da grande? - sperando di sentirsi rispondere: «Farò poemi», commettevano un errore ancor più grossolano. Difatti, ad una simile domanda, io dispettosa rispondevo:
- A te che te ne importa?
Ancora due cose mi distinguevano dalle altre, cingendomi di un’aureola e additandomi al rispetto universale. La prima era che, da piccola, avevo avuto il giradito. Per questo l’unghia del mio pollice sinistro non era liscia e ovale come le altre, ma pressoché quadra, dura come pietra e tutta striata di bianco. Tutta la scolaresca ammirava quell’anomalia, molte mi chiedevano umilmente di toccarla col dito.
Oltre all’anomalia, c’era un’altra cosa e cioè che, quando mi veniva la febbre, avevo l’incubo. Mia madre girava stravolta, con vesciche piene di ghiaccio, e diceva piano: - Elsa ha l’incubo -.
Subito i miei fratelli si precipitavano al mio lettino, con viso compunto. Ma sentendo la mia voce rauca gridare: - Sì, Dio, perdonami e conterò tutti i grani di granoturco nei sacchi. Andate via, formiche, via, migliaia. Aiutami, Dio, - e vedendomi slargare le dita nel vuoto e sbarrare gli occhi, si guardavano fissi sbottando a ridere. Sapevano che non si doveva, ma era inevitabile. Mia madre diceva: - Vergogna, disgraziati, - ed essi in preda ad ilarità furiosa si buttavano per terra e si davano pugni. Questo non esclude che il mio incubo fosse oggetto della generale ammirazione. - Com’è? -
mi chiedevano le compagne. E di me si diceva con importanza, a bassa voce: - Ha un incubo.
Nella mia classe eravamo tutte femmine col grembiule bianco, fuorché il figlio della maestra, che era maschio col grembiule turchino. Il cognome della maestra, per una gentile coincidenza, era Amore, così che egli sul grembiule portava ricamato a punto erba il cognome Amore. Era grassoccio, corto di gambe, con occhi lucenti e neri, le guance rosse e la testa tutta pelata, perché aveva avuto le croste.
Tutte le alunne gli facevano sorrisi, e, come a figlio di maestra, gli empivano le tasche del grembiule di torroncini e di matite. Ma lui a tutte quante preferiva me.
La cosa più dolce era che il motivo della sua predilezione non era il fatto che io fossi un genio, e nemmeno che avessi il giradito e l’incubo. Aggiungerò anzi che egli pareva per natura issato in una sfera ben superiore, in cui tali cose non valevano affatto, ed erano guardate soltanto con una gioviale benevolenza. Il motivo dunque era tutt’altro, e me lo rivelò il giorno in cui guardandomi con lucente occhio arguto e toccandomi estatico mi disse: - Che bei riccetti che hai.
Tutte assumevano nel parlarmi un’aria saccente, e con me discorrevano solo di compiti, di madri e di padri, lasciandomi sempre sola fuori dei loro frivoli capannelli. Ma Amore mi si confidava su cose umane: mi magnificava, ad esempio, la marmellata di sua nonna, ed altresì me ne offriva. Mi guardava e diceva: - Come sei pulita, -
rapito, ridacchiando. E mi prendeva per mano andando in su ed in giù e una volta perfino, in segno di estrema amicizia e affabilità, mi carezzò la guancia (2).
Che Dio benedica Amore. Non so come, sentivo oscuramente che costui, dal mio pianeta deserto e corrusco, mi riconduceva per vie segrete alla terra.
NOTE:
(2) Qui «guancia» è correzione autografa per «faccia».
I miei vestiti
«Un re di stracci e di stoppa…»
(Amleto)
A molte fanciulle tocca portare gli abiti smessi della sorella, o quelli rifatti della madre, o perfino, tornando le mode, di acconciarsi con frivolità scovate nelle casse delle antenate. Ma io, dopo i dieci anni, mi distinsi da tali fanciulle per la mia ferma aspirazione ad una sontuosità regale. Certo era avanzata nel mio sangue una goccia illustre: certo qualche monarca o semplice gentiluomo stava alle radici del mio albero genealogico, ed ora l’ombra sua si trascinava al mio fianco, malinconica e solitaria.
Simile ad un visconte rovinato, io, per ubbidienza al fantasma suddetto, non mi rassegnavo alla mediocrità. Quando mia madre mi proponeva: «Adesso ti facciamo un bel cappottino nuovo con questa vecchia coperta da letto», ovvero «con la giacca grigia del papà», l’anima mia prendeva a fantasticare. Essendo la coperta da letto di un color sanguigno, subito il solito fantasma dell’antenato con lusinghevoli modi mi proponeva un manto di porpora guarnito di ermellino. Esigevo dunque un mantello alla moschettiera, e lo guarnivo intorno intorno con pezzi di uno spelacchiato coniglio bianco. E così avvolta uscivo, nei copiosi miei riccioli, imbronciata. Che avrà detto di me la città? Lo ignoro.
Le altre bambine, con l’economica e discreta eleganza che si addice alle fanciulle bennate, portavano, come tutti sanno, lisce tuniche di lana grigia con bei collarini di pizzo. Ma io vestivo antichi velluti cangianti, ornati allo scollo di fiorellini di pezza tutti acciaccati. E siccome andavano i berretti col «pompò», dal mio berretto pendeva un fiocco cardinalizio. Con occhi ladri spiavo i figurini francesi, interpretandoli ad uso della mia propria persona.
Così non indossavo che «modelli», spregiando le sartine da soffitta delle compagne.
- un Worth, - spiegavo con sufficienza alle altre che sbalordite miravano una camiciola di mia madre, di quelle dette «negligenze», che avevo trasformata in abito, applicandovi inoltre tanti, tanti lustrini. Oppure: - di Schiaparelli. Si chiama «Tramonto a Siviglia»
-. Era una gonnella nera tutta a trafori smerlettati, su giustacuore composto con certe vecchie tappezzerie.
Le amiche erano in forse; ma, presto, quegli spiriti smaliziati mi saltarono intorno con guizzi maligni. La beffa, più dell’applauso, può dare ai superbi il senso di esser divini; è una divinità sciagurata, cupa e tempestosa. Inaccessibile alle beffe, quel tanto di sacro che è nell’uomo si accende con violenza e intatto splende nel centro. Ma io mi sentivo sola e spersa, con voglia di piangere.
Ogni inizio di lezione veniva salutato con piacere insolito: si agitavano tutte sui banchi in attesa che io, ritardataria, facessi l’entrata. Arrivavo trafelata e sprezzante, staccavo dall’attaccapanni il grembiule, vi appendevo il mantello. E intanto risa soffocate correvano, e voci mi pungevano da ogni parte: - E’ un Worth; si chiama «Minestra in brodo». un «Tic». No, è un «Tac». Quel cappello è rifatto con le calzettine del nonno. Si chiama «Zampette di nonno».
Mi sedevo nel banco. Guardavo, con nostalgia disperata, ad una bambina oscura e modesta, dai capelli lisci lisci, vestita di un cappottino blu da collegio. Ma quella bambina era un’altra, a me inaccessibile, non avrebbe mai potuto esser me. Io avevo un Fato.
Alludo, capite, signori, a quel decrepito fantasma.
Mi parlava, credete, in poesia, e forse mi diceva: - O cara, illumina codesto grembiulino banale con una fiammata di rosso. O
ultimo rampollo, non essere una insipida scolaretta. Somiglia tu, o bambina, ad una montagna in fiore, ad una accesa aurora. Ecco, prendi queste salviettine da merenda e trasformale in volanti, quasi tante alucce, per la tua sottanina.
Il professor Scappaticci non sospettava di nulla; con la bonaria cecità di certi uomini per l’abbigliamento femminile, egli vedeva in me solo un’alunna, di buona condotta e dieci in latino. Oso anzi pensare che, nei suoi gusti sempliciotti e un po’ campagnoli, egli si compiacesse in cuor suo dei miei riccioli arruffati, che le compagne chiamavano «la pidocchiera», e della mia persona garbata e piccola.
Soltanto il «Sogno del carovaniere» parve colpirlo. Era un modello di mia creazione. Sopra una sottana cupa a strisce che richiamava il fiammeggiante deserto, splendeva il simbolo dell’oasi: una fascia d’oro a smerli rossi, tolta da una scatola di confetti e che, come stanca foglia di palmizio, scendeva giù. Dunque, il professore non levava dal «Sogno del carovaniere» il suo gentile occhio presbite. -
Che Dio ti benedica, figliola mia, tu mi sembri una cattedrale, -
disse alla fine; (3) e scosse la testa di qua e di là, e intanto sorrideva al modo di un buon curato di campagna, con un sorriso dolce dolce.
Arrossii; ma sentivo il tirannico fantasma compiacersi di una così aulica forma madrigalesca. Un tal madrigale, egli mi (4) ripeteva fiero e soddisfatto, non toccherà mai ad una delle solite donnicciole.
NOTE:
(3) «Disse alla fine» è aggiunta autografa.
(4) «Egli mi» è correzione autografa per «si».
Il fratello minore
Fin dalla prima infanzia, il mio fratello minore rivelò una vocazione per la vita contemplativa. Il chiasso della famiglia non lo scuoteva: se ne stava sul suo sgabello, e scriveva apologhi sopra una lavagnetta che teneva sulle ginocchia. Questi apologhi o storie, non li faceva leggere a nessuno e subito li scancellava con la spugna. Di tanto in tanto il mio fratello maggiore gli crollava addosso dandogli schiaffi e pugni; ma, dopo essersi asciugato le lagrime, quello tornava alla sua lavagna.
Aveva una faccetta pallida e tutta sgraffiata a causa di quei litigi col fratello maggiore; occhi grandi e neri, e un sorriso di superiorità.
Quando non scriveva sulla lavagna, pensava alla donna amata, una certa Fiammetta, che faceva l’asilo. Per lui l’amore consisteva appunto nel pensare accanitamente a lei, sgombrando dall’animo ogni idea profana. Lo si vedeva dunque fermo nel suo angolo coi pugni stretti e le palpebre sigillate. Ogni tanto ci diceva in tono sacerdotale e remoto: - Chiudete scuri e finestre. Devo pensare a lei
-. Nessuno lo ascoltava e tutti lo beffavano; non che per ciò egli si scuotesse dall’amorosa meditazione.
Da noi, gran parte del tempo si passava in discussioni animate.
Questo soprattutto per via di mio padre che amava di ardente passione le piante rampicanti e ogni sorta di pannelli e quadri appesi. Egli non poteva vedere scoperta una sia pur minima superficie di muro; e suscitava gli sdegni di mia madre e della serva. Fin dal mattino, si poteva vedere mio padre camminare in punta di piedi, recando martello e tenaglie nonché qualche nuovo dipinto. E a chi voleva sentirlo, prometteva sussurrando una strana varietà di fagiolo, dai fiori lievissimi che, simili a farfalle volanti, avrebbero presto coperta tutta la casa. Simili confidenze venivano per lo più interrotte da un acuto strido di mia madre.
Durante le discussioni, noi fratelli più grandi urlavamo sui testi la lezione per l’indomani, tentando di soverchiare i litiganti. Ma il fratello minore zitto zitto scriveva con velocità furiosa. S’era infatti assunto il compito di redigere una cronaca della famiglia, e a tal fine, afferrando a volo i suoni e le voci che si agitavano, ne registrava con fedeltà i vari frammenti: «Ille ego qui fuerim»; Pum pum (rumor di martello che batte); «Questi chiodi e buchi sono orrendi»; «Ille ego»; «Portano polvere e bestiacce»; Crac (rumore di cosa che si rompe) ecc. Questo si chiamava «fare il disco di grammofono», oppure «fare la storia».
Il fratello minore era avaro. Scriveva sulla lavagna: «Consiglio supremo: non donare i tuoi beni!» e metteva da parte tutti i suoi centesimi, covando il gruzzolo come una gallina che ha fatto l’uovo d’oro. Però si salvava dall’abbiezione morale degli altri avari in quanto il suo risparmio aveva in vista uno scopo ultimo, misterioso e tuttora nascosto a lui stesso, ma certo di degna essenza. Posso aggiungere che, quando stava a pensare con gli occhi non (5) chiusi ma fissi e con una ruga sulla fronte, si poteva essere certi che non pensava a Fiammetta, ma all’impiego del capitale futuro. Questo gli dava un continuo travaglio di coscienza, che egli risolse infine in modo esemplare. L’impiego del denaro, nel suo concetto, doveva conciliare l’interesse del possessore col bene della comunità. Egli dunque, alzando il dito con un intimo sorrisino di gaudio, mi confidò che aveva trovato. Doveva, disse, arrivare alla somma di trecento lire, con cui, secondo una pia rivista che mi sottopose, i missionari della Cina potevano adottare a suo nome un bambino cinese e salvarne l’anima. Così egli non solo avrebbe recato un grande vantaggio al cinese (per un difetto d’infanzia diceva «tinese»), ma avrebbe insieme provveduto a se stesso, operando per la salvezza dell’anima sua propria.
Da allora, l’intima coscienza illuminò mirabilmente la forma corporea di mio fratello; ogni volta che rifiutava di comperare la cioccolata e di andare sul carrozzino dei ciuchi, egli aveva un trionfale sguardo di sfida, un estatico sorrisino. Senonché la salvezza di quell’anima remota doveva essere rinviata di giorno in giorno. Appena il gruzzolo del fratello arrivava ad una certa somma, per esempio dieci e cinquanta, subito capitava mia madre a chiederglielo in prestito per risuolare le scarpe. E se mia madre ci chiedeva in prestito una somma, la restituzione si perdeva in un futuro così vago e chimerico, che a detta somma si poteva senz’altro dare un addio. Dunque, con un sorriso sperduto il fratello consegnava il tesoro; e, senza che nessuno gli badasse, si ritirava a lagrimare sul suo sgabello. Pensava alla dubbia sorte del suo cinese, e tutta la sua pallida faccina tremava sotto i lunghi cigli bagnati. vero che subito cominciava a risparmiare per lo stesso fine. E sebbene io sappia che quel cinese non fu salvato, pure il possesso di un tale segreto lo aiutava a sopportare gli schiaffi del fratello maggiore.
NOTE:
(5) L’avverbio di negazione è un’aggiunta di mano della Morante.
L’istitutrice
Quando vivevo presso la ricca zia, dividevo con la cuginetta Giacinta una istitutrice. Era una donnina grassotta e tutta rossa nel viso, con labbra minuscole e sottili come un taglio, e pochi capelli in capo. Era già un po’ vecchia e si chiamava Mademoiselle. Aveva un collo corto e grasso adorno di una collarina bianca.
Ancora oggi, mi succede nel sogno di esser giudicata da uno strano tribunale, che decide con un criterio inusato e con inoppugnabile sentenza i delitti e le pene. Mi sveglio di soprassalto a quella voce terribile che mi grida negli orecchi: - Hai sdipanato il filo del gomitolo. Sarai punita con trent’anni di lavori forzati!
certo ancora un remoto influsso di Mademoiselle; in verità, ella seppe calare me e Giacinta dalle nostre regioni amabili e sospese in un mondo faticoso, nel quale ogni passo poteva dar luogo a cavilli e processi. Irta e fitta, la rete delle leggi ci serrava, togliendoci il respiro: «Art. I: vietato far suoni con la bocca nell’inghiottire.
- Art. II: Non si ascoltano gli altri a bocca aperta. - Art. III: La cioccolata non si mastica, si scioglie con la saliva», ecc.
Appena installata al desco dei bambini, risoluta ad insegnarci subito il contegno del perfetto commensale, l’istitutrice, posando appena appena le grassottelle sue palme sulla tovaglia dichiarò: -
Toujours -. Poi, spingendo alquanto l’avambraccio su detta tovaglia ammise: - Quelquefois -. E infine, puntando sulla medesima tovaglia i due gomiti, con solenne esempio intimò: - Jamais!
Con lei ebbe inizio, per noi, la tragedia dell’inghiottire. un fatto che prima non ci avveniva mai di far suoni e voci nell’inghiottire, ed ora invece ogni sorso sibilava e fischiettava nella nostra bocca, finché, con un ultimo gorgoglio, andava giù.
Rosse e tremanti sentivamo gli occhietti di Mademoiselle frugarci fino in fondo all’anima e ci chiedevamo: - Andremo all’inferno, per questo? - Ella non starnutiva, non sbadigliava, non bisbigliava mai, perfetta e impassibile ci sorvegliava. Su ogni nostro gesto non ben ponderato aveva messo un’etichetta con un teschio e la scritta:
«Pericolo di morte». Non era più una donnetta, ma un idolo tenebroso.
L’alzarsi del suo dito su noi significava: condannata.
Or accadde che, una notte, mi alzai di nascosto per fare un giretto per casa. E da uno spiraglio vidi nel tinello la luce accesa e intorno alla tavola il cuoco, la cuoca e il sottocuoco che mangiavano
«panzanella» e cioè pane bagnato e vino. Fra loro era l’istitutrice e anch’essa mangiava panzanella, e fumava certi piccoli sigari e rideva. Il cuoco raccontava i suoi sogni: quando aveva bevuto, da lui venivano in sogno i pupazzi del giornale, come Cagnara e Fortunello, e formicolavano su lui. Ed egli impaurito urlava: - I pupazzi! - e svegliava la moglie. Ora Mademoiselle ascoltava coi piedi sulla tavola questi sogni del cuoco e rideva, e fumava il suo sigaro.
Rifeci affannando le scale, e svegliai Giacinta. In effetti, il letto dell’istitutrice era vuoto, ma Giacinta disse che la storia del sigaro non era possibile, e che era un mio sogno. Allora escogitammo una prova per il giorno dopo.
Per esercizio del cervello, spesso l’istitutrice giocava con noi
«al bastimento». Dunque Giacinta mi lanciò il fazzoletto dicendo: -
arrivato un bastimento carico di… t! - Ansante risposi: - Trabucos!
- A mia volta le rilanciai il fazzoletto: - arrivato un bastimento carico di… v! - Giacinta disse tremando:
- Virginia! - e gettò il fazzoletto a Mademoiselle: - E’ arrivato un bastimento carico di… s! - Ci scambiammo sguardi fantastici e commossi: «Se dicesse “sigari”, - pensavamo sicure, - allora sarebbe vero!» Ma ella dopo aver pensato disse: - Sapone.
Da questo si capiva che era stato tutto un sogno.
Lettere d’amore
Mentre il professore spiegava la storia e si rispecchiava nei fantasmi dei secoli, i compagni scrivevano lettere d’amore. Mi arrivavano fogli ardenti ripiegati a forma di barca o d’aeroplano e dentro c’era scritto soltanto: «Puella, ego amo te», oppure un sonetto che diceva:
Morante, chiaro fior di leggiadria,@ quando ti miro assisa nel tuo banco@ si rileva nel sol l’anima mia.
Questo quart’ultimo verso era un plagio, tolto di peso da un sonetto di Giosuè Carducci.
Un tale spinse la raffinatezza fino ad inviarmi una lettera scritta sopra un sacchettino di carta da pasticciere con la dicitura stampata: «Caramelle e dolciumi». Ed egli completò di suo pugno la dicitura, fra bei ghirigori: «Più di “caramelle e dolciumi” m’attira la tua bocca fatata».
Essi erano piccoli, rosei, secchi o grassocci, con pantaloni corti e ancora una voce fina. E pensare che io a quel tempo sognavo un individuo così grosso che io potessi, al caso, nascondermi tutta intera nella sua giubba ed egli mi andasse cercando: «Dov’è l’amor mio?» Sognavo un brutale che stringendomi febbrilmente i polsi mi soffiasse negli orecchi: «Ditemi di sì, o vi scorteccerò qui, in pieno giorno, sulla pubblica piazza».
Come potevo scendere a quei fanciulli? Io ebbi la ventura di credermi grande quando ero fanciulla; e poi, quando mi accorsi di essere fanciulla, ahimè, ero ormai cresciuta. Dunque, io sognavo allora uno sportivo o un aviatore, o talvolta un poeta, purché fosse possibilmente nel contempo aviatore e sportivo. Venne per me l’età degli eroi; e allora, mentre i miei compagni mi scrivevano lettere d’amore, anch’io ne scrivevo, ma ad un altro.
Costui era Lindbergh. Io spendevo tutti i miei soldi in francobolli per l’estero e in carta celeste, e a lui scrivevo lettere, ma giammai firmandole col mio nome, bensì con nomi finti quali Aquila o Nave; ciò per conservarmi una qualche speranza di essere corrisposta in segreto. Gli promettevo meraviglie come ad esempio: «Faremo noi due soli la traversata fino ad un’isola deserta dove c’è una casina già pronta, col pianoforte e un orto con le galline». Oppure una morte insieme, e insieme il Walhalla. Certo, pensavo, neppure lui era avvezzo a ricevere lettere così sublimi (nutrivo a quei tempi un’estrema fiducia nelle mie doti di mente e di cuore) e dunque, scrivi e scrivi, andò a finire che mi amò. Così, almeno, decisi io.
Quando parlavano di lui rabbrividivo d’orgoglio; non sapevano che egli per me volava i cieli, per me conquistava le palme. Col sangue egli aveva scritto sul suo scudo una grande X e questo significava l’ignota senza indirizzo che si firmava: Velivola.
Gli scrivevo che nessun uomo esisteva più per me all’infuori di lui, e passavo fra gli altri altezzosa recando al posto del cuore un sacro fuoco. Chi osava guardarmi? Chi, pensare a me? Proponevo a Lui, se lo credeva opportuno, di tagliarmi tutti i riccioli, di radermi i cigli, di mettermi una veste lunga e gli occhiali sul naso, affinché gli altri tutti, vedendomi orrida, non mi circuissero. Gli dedicai una poesia dal titolo Grido d’allodola, che finiva: O terra, o cielo, gettate a quest’attimo@ la vostra stupida eternità.
C’era un compagno di nome Fusilli che mi scriveva lettere d’amore; ma, non avendo risposta, da ultimo si limitava a scrivere: «A quando una risposta? Fusilli Gaetano». Infine mi stancai e, disegnato sul foglio un ghigno ironico, lo spedii a Fusilli. Egli non capì il beffardo simbolo e mi disse all’uscita: - Grazie per il disegnino.
Ma, e la risposta? - Questa faccia disegnata, - gli dissi, - è la risposta. Questa faccia che ride ti dice: «Attraversa l’Atlantico. Io sono all’altra sponda».
E saltai via superba; e scrissi a Lindbergh: «Ho respinto un uomo che mi amava. Brucio le sue lettere, e voglio che il fumo, quale incenso, salga fino alle tue narici, o Padrone».
I peccati
A sette anni ero già una grande peccatrice. Al mio primo esame di coscienza, scopersi di avere tutti i peccati mortali, ad esclusione di uno di cui non sapevo il significato. Una del ginnasio mi spiegò che voleva dire «amore smodato al lusso» ed io con un brivido mi accorsi di avere anche quello, perché mi piaceva oltremodo il fasto, e sempre mi promettevo che, dopo le mie nozze con un conte ricchissimo, avrei portato dieci anelli, uno per dito, e tutti con pietre differenti.
Oltre a ciò, l’Invidia nefasta, la sterile Avarizia, la molle Accidia, la pallida Ira, la Superbia gonfia e nera, la turpe Gola, tutti i Peccati con piede silenzioso ed unghie aguzze fecero cerchio, al mio nascere, intorno alla mia culla. In un angolo, con un sorriso finto, vegliava l’Ipocrisia; ed ancor prima d’imparare a discorrere avevo imparato ad architettare menzogne.
La mia persona già portava i segni lampanti del mio animo peccaminoso: i capelli, come accade alla gente capricciosa, si torcevano in ricci, e sulle mie unghie apparivano certe virgole bianche dette «le bugie». Soltanto mormorando cupi scongiuri, ad esempio «Satana Satana», riuscivo ad evitare altri più gravi inconvenienti dei peccatori incalliti, per esempio che mi crescesse il naso o che le gambe mi si accorciassero. Ma tutti potevano vedere il Peccato, sotto forma di farfalla nera ed occhiuta, svolazzare sulla mia fronte. E appena aprivo la bocca per parlare, la gente s’affacciava alla finestra e chiamava: - Conte Bugiardini, venite su dalla contessa Bugiardini.
Il più orribile peccato fu quando presi in giro don Celestino. Era un vecchio coi capelli simili a lana, il quale si era ammalato errando con le Missioni per torridi paesi e poteva camminare solo appoggiandosi ad un bastone. I suoi occhi d’agnello parevano, quasi alati, volare dietro le cose; e in ogni luogo, anche dove gli altri non vedono che vuoto, aria, essi vedevano delle anime; perché erano occhi santi.
Don Celestino veniva ogni domenica e a noi fanciulle faceva «la predichetta», e cioè un breve discorso acconcio. Ci parlò dell’inferno, ed io cominciai a peccare di meno; ma non come i giusti, per virtù, bensì per sola paura. Il semplice nome d’«inferno»
mi faceva tremare; e non lo pronunciavo mai, dicendo invece, con una perifrasi: «quel posto sottoterra». Don Celestino riconobbe in me l’anima cupa e smunta, divorata dai peccati, e m’insegnò a fare l’esame di coscienza, invitandomi a confessarmi a lui la prossima domenica.
Alla vigilia della confessione, fatto l’esame di coscienza, vidi
«quel posto sottoterra» spalancarsi dinanzi a me. A tavola, contro il solito, mi dettero un dito di vino, e allora le fiamme dei dannati mi divamparono intorno. Per liberarmi di loro, feci una risata selvaggia. Poi dissi: - Volete vedere? - E mi coprii la testa di bambagia e in capo, un po’ all’indietro, mi misi una pentola. Mi infilai il nero cappotto del cocchiere, e, appoggiandomi ad un bastone, ridicolmente arrancai. Spiegai quindi alle altre, tutte riunite intorno, che questo era don Celestino, e feci la seguente predica:
- Volete sapere la verità? - gridai. - Tutti i buoni diventeranno uccelli e, i cattivi, conigli. Per gli uccelli da mangiare c’è miglio e canapuccia, e per i conigli erba e lattuga. Che preferite?
Tutte, s’intende, risposero: - Erba e lattuga, - così che io, per avere trascinato altri sulla via del sacrilegio, doppiamente peccai.
L’indomani, in confessione, cominciai col dire a don Celestino che avevo commesso tutti i peccati mortali, ivi compresa la superbia diabolica e l’amore smodato al lusso. Ed egli mi disse: - Così non va, perché voialtri innocenti non dovete aggiungere spine alla corona di Dio.
Gli dissi che non ero un innocente, ma un peccatore, e che come tale dovevo andare in «quel posto sottoterra». E don Celestino mi rispose che io e tutti i miei simili eravamo angeli e che proprio per noi era fatto il cielo.
Allora tutta in lagrime gli raccontai che il giorno prima, ubriacatami, l’avevo preso in giro travestendomi appunto da don Celestino e avevo fatto una orrenda predichetta, che non si poteva ripetere; e lui, sorridendo, mi perdonò.
Patrizi e plebei
Mentre la maggior parte dei ragazzi conoscono i patrizi solo di fama, studiandoli sui libri di storia, io ebbi la sorte, all’età di appena sei anni, di vivere a tu per tu coi patrizi. Questo mi toccò perché ero una bambina anemica; la mia faccia, fra i riccioli color
«ala di corvo», era pallida come quella di una bambola lavata, e i miei occhi celesti erano cerchiati di nero. Venne un giorno una lontana parente, che aveva per sua sorte favolosa sposato un conte ricchissimo. Ella mi guardò con pietà e disse: - La porto a vivere con me, nel mio giardino.
Il mio corredo fu tutto lavato e stirato dalla serva e chiuso in una valigia di fibra. Partii così verso il sontuoso giardino rinascimentale, dove trovai, per mia compagna, una bambina della mia stessa età, però patrizia. Si chiamava Giacinta.
La cosa che subito mi colpì in Giacinta fu che essa possedeva un armadio tutto per sé. In questo armadio procedevano in fila vestiti e vestiti. Il mio corredo invece era povero: non c’era giorno che la governante, dopo avermi fatto il bagno, non imprecasse contro i miei genitori. Quando andavo a spasso, mi mancava sempre qualche bottone; sempre qualcosa mi cascava, e il mio cuore piangeva di me stessa, ma, come mi accingo a spiegarvi, era un cuore ipocrita e finto.
Di me si diceva: «Quant’è carina! Quant’è educata!» ed io stupisco oggi stesso che dentro una persona così piccola potesse esistere un simile inferno. Mentre il mio corpo era quel che vi ho detto, l’anima mia era una cosa grossa e nera, piena di occhi curiosi e di tortuosi, cupi vicoli. Era un mostro ipocrita e spietato. Anzitutto, mentre gli altri mi credevano piccola, ero grande. O meglio c’erano in me due persone, una piccola e una grande; ma la piccola, servilmente fingeva per lusingare la grande. Questa era gonfia di convenzioni e di strani pregiudizi, possedeva un’Idea, e si contorceva in una Ribellione.
Essa esigeva, per esempio, che la piccola sul far dell’aurora bagnasse di lagrime il cuscino e senza farsi udire miagolasse: «Oh, mammina, povera me senza il tuo bacio. Oh, casina mia, così piccola mi pari un castello. Oh, mi sognavo di essere con voi, fratellini».
Ma in realtà alla piccola non importava niente né della casina, né della madre, e tanto meno dei fratelli bizzosi; a lei piaceva moltissimo stare nella villa.
La persona grande si vergognava della piccola; ogni volta che dicevano «la bambina», si accartocciava per l’umiliazione, e pensavo con un sorriso di sprezzo: «Non sanno che sono più grande di loro».
Essa trovò una vittima nell’ingenua Giacinta.
Ancora oggi, se penso a quella mia vittima che muoveva al supplizio tenera e mansueta come un agnello, non posso vincere il rimorso.
Perdonami, Giacinta.
C’erano, fra noi due, grandissime differenze: lei era bella ed io mi credevo bruttissima. vero che dicevano di me: «Che amore! quant’è carina!» e i conti e i duchi perfino mi vezzeggiavano. Ma io pensavo che lo facessero per rispetto, perché già sapevo leggere e scrivere; poi guardando nello specchio quei miei occhi grandi e quel pallore, tremavo d’odio e di nausea verso me stessa. Per i bambini, la bellezza è soprattutto nei colori, e Giacinta aveva sul viso un sacco di colori, color pesca e color tortora e color ginestra, anzi oro. Ma la differenza che più mi adontava era un’altra e cioè: Mentre avevo la mente pronta alle invenzioni, io (6) ero incapace d’esprimerle. E Giacinta invece! La sua mente non si affaticava nell’inventare e nel pensare: vuota e leggera, anzi trasparente, l’anima di Giacinta dormiva dondolandosi come foglia sul ramo. Però, al momento di fare la bella figura, trasformata in uccello spiccava il volo fino al segno, incosciente, brillante e felice. Con grazia e senza malizia, essa coglieva il frutto delle mie fantasie. Così avvenne quella volta dello spettacolo.
Io avevo inventato la commedia tragica: io avevo ideato (7) i costumi e scelto la sala del teatro e dipinto le scene con porporina; io avevo assegnato le parti. Con modestia, m’ero riservata la parte di una semplice Dama di Corte, mentre avevo dato la parte della Regina alla figlia del cuoco; e perfidamente avevo deciso che Giacinta facesse da Diavolo, il quale non parla e sta nascosto dietro lo sportello della finestra, ma al momento della catastrofe porta le anime all’inferno. Due corna nere le avevo messo in testa e applicato al suo piccolo didietro una nera coda; le sue scarpe erano forcute e il vestito color sangue. E l’avevo nascosta dietro lo sportello, comandandole di restare là fino al terzo atto.
Marchesi, conti e duchi entrarono ridendo nella sala; sfilarono dinanzi a me e alla Regina ferme sulla scena nel nostro diadema pennuto e strascico. Ognuno di loro gettava una moneta, prezzo dello spettacolo, in un portafiori, e il profumo delle dame saliva fino a noi sospirando. Allora con orrore compresi che Ada, la figlia del cuoco, non avrebbe mai parlato. Essa doveva aprire il dialogo dicendo: «Signora Dama, quella mia figlia cattiva deve morire. O
veleno o spada», ma non accennava ad aprir bocca. La sua faccia rubiconda e tutta impiastricciata restava dura e impassibile, i neri occhi fissi e stupidi.
- Parla! - le dissi pizzicandola, - incomincia a dire «Signora Dama».
Di’ qualche cosa, scema ignorante, non hai la lingua? - Già i signori si guardavano, arguti; il sangue mi si gelava. E sapevo che neppure io non avrei parlato.
Nel silenzio, in quell’orribile incertezza e disagio uscì Giacinta per salvarci. Con due dita strinse il suo grembiule spaventoso quasi fosse una veste da ballo, accennò l’inchino di corte, e saltellò su un piede per la scena:
Io sono un diavoletto@ che faccio un bel balletto, improvvisò con festoso spirito.
Si levò un applauso meraviglioso. E Giacinta ebbe tanti baci; veramente anche a me quei conti e dame gentili davano baci; ma io sapevo di non meritarli e che me li davano solo per convenienza, e li respingevo con strattoni. A un tratto, presi a battere i piedi e a piangere; ed essi mi consolavano con lusinghe: - Poverina, tu non hai colpa, - dicevano. - La Dama di Corte non può parlare prima della Regina. Tu ti sei comportata benissimo. O cara, credi che non sappiamo la tua bella vocina? Ti ricordi quando ci cantasti Capinera?
- Essi non sapevano che piangevo d’odio.
Giacinta però mi amava; fu lei a prestarmi il vestito di mussolina bianca il giorno della festa dei bambini. Avvenne che dopo il pranzo il mio stomaco respinse con furia, nel mezzo della sala, l’eccesso dei frutti e delle creme, e la cortese mussolina fu violata.
Mi portarono a letto, e subito dopo Giacinta, lasciato il ballo, salì a visitarmi. Ella se ne stava a distanza, con un sorriso umile e confuso, ripetendo: - Poverina, che male dev’essere quando il pranzo salta fuori così, - e mi trattava come oggetto sacro; ma io capivo che per quel fatto le facevo schifo. La sua cortesia le consigliava di comportarsi di fronte a tanto schifo come davanti a cosa sacra, con quelle mossette e quei sorrisi mansueti e quelle distanze. Erano proprio simili trovate di Giacinta che più mi irritavano.
Per divertirmi con lei, avevo inventato un gioco feroce. L’anima di Giacinta, d’un anno più giovane di me, ancora involta nelle fasce del limbo, ancora istoriata di gentili frottole, seguiva quell’anima mia nera come mai cane il suo padrone. Dunque io bendavo strettamente Giacinta, e traendomela dietro in alto e in basso attraverso le quarantaquattro stanze del castello, la illudevo di condurla attraverso i tre regni dell’Inferno, del Purgatorio e del Paradiso.
Ed ella, come mai l’ultimo dei cherubini credette in un arcangelo, credeva in me. Mi armavo di punzoni e di spazzole, e le annunciavo che si trovava all’Inferno.
- Ecco, - urlavo, - i diavoli coi secchi. Ecco, uno vuol ungerti con la pece.
Con una vocina patetica e le mani giunte, Giacinta scongiurava: -
Pietà, buon diavolo! - Ma io la avvertivo: - inutile che gli parli, tanto non capisce l’italiano. Ceranon patapum satina caranano caranin? Il diavolo dice che, pazienza, niente pece, ma ti spazzolerà con lo spazzolone dei tappeti. Avanti, diavoli! Nero e rosso! Ecco i fossi e le fiamme che camminano!
Intorno a Giacinta l’Inferno apriva le sue squallide vallate popolate di fuochi, la ridda dei demoni si scatenava. Solo dopo molto invocare, col bianco viso rigato di lagrime supplichevoli, ella otteneva di esser trasferita in Purgatorio. Qui si sostituivano ai diavoli degli angioloni severi e pallidi, i quali frustavano con ali sbattenti come bandiere. Ed ella doveva ripetere trecento volte la parola «Misericordia», per esser promossa al Paradiso.
Ma qui cominciava la parte più brutta della beffa, tale che mi vergogno di riferirla. E cioè, mentre Giacinta credeva di salire in Paradiso, la portavo invece in cucina. C’erano là un cuoco, una cuoca e una volgarissima sguattera; in più, quasi sempre vi s’incontravano i marmocchi figli del cuoco, e tutti quanti erano complici dell’empio scherzo. La sguattera soffocava le risa nel suo sudicio grembiale, mentre il cuoco agitava due ventole, che fingevano le brezze celesti, e i suoi brutti figli saltellavano intorno fingendosi cherubini in volo e battevano coperchi per imitare i cori.
Immobile e raggiante, Giacinta saliva in estasi in mezzo a quelle facce ilari e congestionate, a quelle mani rosse che si agitavano. A volte, i cuochi mi chiamavano da una parte per farmi congratulazioni e moine; e allora tutta l’anima mia li disdegnava e volava alla mia vittima, in piedi là fra angeli e bellissime sante. La viltà di coloro mi ripugnava e infine dissi al cuoco: - Sì, ma tanto che credi? Tu sei brutto e tutto pelato, e invece Giacinta ha i ricci.
Devo dire che il centro palpitante del gioco, l’essere cioè di Giacinta, è restato alla fine un mistero. Infatti, una volta venne una cugina più piccola di noi, rubiconda e docile. E mentre giocavamo coi secchielli e le palette, a un tratto Giacinta prese a saltellare e inebriata gridò: - Facciamole l’Inferno e il Paradiso! Facciamole l’Inferno e il Paradiso! - e mi strizzò l’occhio. Che vuol dire questo? Non lo seppi mai, perché Giacinta poco dopo partì.
Il mistero di lei non si spiegò, anche per la breve durata della nostra corrispondenza. Dopo qualche settimana infatti da che era partita, Giacinta mi mandò una lettera assai graziosa e gentile che diceva: «Cara Isabella, io ho avuto la scarlattina, anche mia sorella Iosefa ha avuto la scarlattina. E tu hai avuto la scarlattina?»
La lettera che le mandai come risposta, diremo, ufficiale, mi fu dettata dall’istitutrice ed era anch’essa molto cordiale ed umana:
«Cara Giacinta, grazie della tua lettera. Io non ho la scarlattina perché l’ho avuta da piccola e il dottore ha detto che non si riprende. Spero in una tua solerte guarigione. Tanti baci». Ma di nascosto le scrissi un’altra lettera, nella quale, approfittando di critiche maligne che avevo raccolte fra la servitù, non le dicevo che queste parole:
«Tua sorela Iosefa a in tuto tre capelli».
Detti una mancia al paggio perché me la impostasse. Giacinta non mi rispose mai più.
NOTE:
(6) La Morante ha aggiunto a mano il pronome personale di prima persona.
(7) Anche in «Io avevo inventato» e in «io avevo ideato» i pronomi personali sono stati aggiunti successivamente a mano.
Strani equipaggi
Spesso attraversavano le vie della città grandi e strani equipaggi; la nobile livrea del cocchiere, il colore prezioso dei legni, le corone legate da nastri d’oro, e la folla infine che innumerevole seguiva la carrozza, tutto rivelava l’importanza del personaggio che così viaggiava. Seppi un bel giorno che in quei brillanti equipaggi viaggiavano i morti.
Capii subito che poteva trattarsi unicamente dei morti buoni, i quali con quella pompa venivano condotti al Paradiso. Il cocchiere doveva essere un arcangelo travestito, e la folla terrestre a un certo punto si scioglieva senza più seguire la carrozza: proprio in quel punto l’equipaggio passava nel mondo di là. Scalpitando, i cavalli levavano in aria gli zoccoli e si alzavano a volo fino alle bellissime porte. Qua l’arcangelo travestito da cocchiere apriva lo sportello, e il morto scendeva, con tutti gli onori.
Vestito, come la mia governante defunta, coi suoi abiti domenicali (che però in Paradiso fanno una ben modesta figura), con occhi raggianti e quel sorriso timido e socchiuso che hanno i morti, il nuovo venuto faceva la fila agli sportelli. Era infatti l’entrata del Paradiso, a mio parere, simile all’atrio di un teatro. I superbi equipaggi si allineavano dinanzi alle gradinate, e allo sportello i morti ritiravano la divisa di santo che doveva per sempre sostituire il loro vestito, e cioè: tunica bianca listata di oro, forse due ali, ed aureola. E gli abiti vecchi? Essi venivano riconsegnati al cocchiere, che sulla terra li distribuiva ai poveracci.
Lunga e beata è nel cielo la giornata dei morti. Essi non fanno altro che giocare o pensare; ma quando pensano, pensano solo al Signore. Di noialtri si sono dimenticati. La sera poi, ripiegata accuratamente l’aureola e ripostala sotto al cuscino, si addormentano in pace.
Non così, non così per i morti cattivi, i bugiardi che per ogni singola bugia meritarono sette anni di Purgatorio, o peggio ancora i pessimi, quelli che sono in peccato mortale, dannati quindi all’Inferno. I primi partono su modeste carrozzelle da piazza, e nessuno bada a loro, nessuno fa il saluto o si toglie il cappello. I secondi vengono inchiodati in cassettine nere e trasportati via di notte da quattro carabinieri a piedi.
All’ingresso del Purgatorio gli arrivanti sfilano vergognosi, vestiti male, come i vecchi che vanno a chiedere il sussidio o la minestra. Là dentro si sta male come in prigione.
E l’Inferno è sotto la terra, alla fine di un tenebroso budello.
L’atrio è nebbioso come la città di Londra; vi stanno accatastate, come stie di polli, le cassette nere.
Quando vengono schiodate, ecco, simili a larve uscite dalla terra, freddolosi ne sbucano i morti. Non hanno corpi, bensì masse oscure; non occhi, ma occhiaie vuote. E maschere sulla faccia, per vergogna; ma somiglianti alla faccia vera, così che si possa riconoscerli. Ecco Mitilda, quella che vendeva i generi di drogheria e, si dice, rubacchiava sul peso. Ora è qui, con le scarpe rotte e il fazzoletto intorno alla sua faccia senza occhi. E il cavalier Palumbo e il figlio Sabatino, che cosa fecero da vivi? Per dispetto del capufficio, che non voleva dare i permessi per gli straordinari, andarono di notte con certi secchielli pieni e insudiciarono tutto l’uscio dell’ufficio. Ora eccoli qua, marameo! Lunghi lunghi, dalle lunghe braccia, col cappello a cilindro sui visi infarinati. Sì, sono loro ed altri non ne riconosco; ma son tutti simili l’uno all’altro, e fra le buie muraglie trascinano i loro piedi pesanti. Alcuni hanno vesti bizzarre, fatte di stracci, dai colori vari e sbiaditi, o fasce di cencio intorno al busto; hanno cappelli di tutte le fogge, come quelli che si vedono nei teatri; e certe donne portano vesti ampie che strisciano senza rumore e bistri e rossetti sulla pelle. Altri sono seminudi e pallidi.
Nessuno di loro ha le ali; sembrano talpe uscite dalla terra.
Brancolano incerti, e tendono le labbra, forse per voglia di bere. E
voci simili a punture di spillo, o gravi e solenni come nel sonno, dicono: «Ah, se non avessi frustato i miseri cavalli!»; «Ah, se avessi fatto la carità ai poverelli!»
All’alba si sente un tintinno minaccioso di chiavi, uno strascinio di catene e le porte di ferro, le porte dell’Inferno si aprono.
A questo punto io facevo a me stessa: «Sssss!» Più in là di quelle porte, infatti, non si deve sapere.
Ingresso in società
Gli splendori della vita mondana mi attrassero quando ancora, per dirla col sacerdote che frequentava casa nostra, avrei dovuto dedicarmi alle frazioni e ai latinucci.
Avevo amica una brillante signorina, socia del circolo Marinese, e stabilii con lei un appuntamento per andare a ballare, in abito da sera. Mi ero fatta un vestito scollato, lungo fino a terra, tutto di seta artificiale, con pellegrina di velluto cangiante: uno di quei vestiti di cui conviene sollevare con le dita il lembo, per cortesia, come fanno le dame alla corte del re. Avevo inoltre un carnet per segnarvi i balli, vale a dire, un libriccino di conti sul quale avevo dipinto un’orchidea.
Possedendo, oltre al prezzo del biglietto d’ingresso, solo tre lire, non avevo carrozza ad attendermi; dovevo prendere una radiale, una circolare e un autobus. Durante il percorso, tutta la gente mi guardava e rideva, e le ragazze che uscivano dalla manifattura tabacchi si urtavano il gomito con aria furba. Dovetti pure attraversare a piedi la piazza del Risorgimento, dove certi fanciulli indemoniati corsero dietro al mio vestito. Ed io fui costretta a fuggire come una ladra fino alle porte del circolo Marinese; ma qui, pari ad esule regina che ritorna alla reggia, potei risollevare il capo.
Sulle pareti del circolo erano incollate maschere di carta, amori ritagliati e arabeschi neri. L’abito di società mi permetteva certi meravigliosi atteggiamenti sempre invidiati alle dame, per esempio di gettare indietro la testa ad occhi chiusi come gli uccelli quando bevono, o di tubare gentilmente: - Ma? Ma? Ma? Come osate? - Dissero che parevo Pola Negri, ed ebbi subito cavalieri in tal numero da poter rispondere, ad ogni ballo, con sufficienza: - Sono impegnata, mi spiace -. Sul carnet avevo un sacco di nomi: valzer, rag.
Matarazzi; tango, sig. Bo. Esaltata dalla nessuna importanza che davo a coloro, a un tratto feci nel mezzo una giravolta, così che le luci dell’abito mi si spiegarono intorno come fuochi di bengala, e ricaddero come lunghe foglie di salice. Ma comparve un cavaliere dallo strano e pallido volto, dai nerissimi capelli lisci, dai sopraccigli folti e selvaggi, e per tutta la sera ballai con lui.
Non ero, perché nasconderlo, una gran danzatrice, e fra i miei cavalieri si bisbigliava che ballare con me fosse un po’ come trascinare un sacco di castagne, ovvero stringere fra le braccia un renitente puledro, perché tiravo i calci. Inoltre, al cavaliere narravo per tutto il ballo la tragedia della mia vita; e così si comprendeva il pietoso ed attraente sorriso che egli aveva, quasi di spasimo.
Lo giudicavo nobile; e quando mi offerse un codadigallo, bevanda che, per berla, richiede disinvoltura, pensai che fosse un conte.
Allora gli recitai la mia poesia dal titolo Padrone e Nemico che finisce: «Tu mi svuoti le vene». Gli confessai di essere una cortigiana in incognito, e per rafforzare, col contegno ardito, una tale asserzione accavallai le gambe e mi arruffai la testa. Ma poiché non si scuoteva da quel suo misterioso e remoto sorriso, gli dissi che avevo mentito, ch’ero una signora matura, madre di ben sette figlioli, rimessa su con cure. Non servì a niente. Allora mi decisi a confidargli che ero una duchessina, fuggita dal mio collegio aristocratico, per venire a ballare.
Egli conservò il suo sorriso glaciale per tutta la sera. Parve agitarsi solo quando, chiamandomi la mia amica per andar via, le dissi di andarsene pure, asserendo che avrei fatto l’alba; e mi volsi a lui con un folle riso.
Dopo dieci minuti, egli volle per forza portarmi via. Fuori mi spiegò che, essendo garzone di parrucchiere, doveva alzarsi presto per lavorare anche il giorno dopo, domenica. - Nessuno lavora la domenica, - disse con rabbia, - e invece, barbieri e parrucchieri, sotto, anche la domenica.
Così mi mise sulla circolare, e se ne andò.
Ma già il suono di ferraglie che faceva il tranvai sulle rotaie era diventato ai miei orecchi il fruscio di un treno che mi portava a paesi del nord, lucenti di ghiaccioli: «O bellezza, sciupata in quisquilie», mi cantavano gli arciduchi strizzando l’occhio.
L’ultima radiale era persa, e poi cominciò a piovere. Sulla strada incontrai un vecchietto che aveva l’ombrello e si offerse di accompagnarmi, ma disse che scusassi se andava piano: faceva il cameriere in un bar e aveva i piedi stanchi. Sbirciandomi, domandò: -
Non avete padre? Non avete madre? Una bambina sola di notte! - E per tutta la strada non fece che maledirmi. Pensavo: «Sarebbe stato meglio che tu non mi avessi accompagnata piuttosto che borbottare sempre così». Ma ero preoccupata del vestito, per via delle gocce e delle pozzanghere, e non badavo troppo al vecchio.
Giunta al cancello, gli porsi la mano da baciare.
Nostro fratello Antonio
A dire di nostra madre, tutti noi fratelli fin dal giorno della nascita mostrammo le nostre virtù straordinarie. Io, per esempio, appena nata avevo già una chioma d’oro così folta che l’infermiera ne fece una treccia legata da un fiocco celeste; il mio fratello maggiore, creatura energica e ribelle, aveva una vasta macchia nera sulla fronte; il più piccolo, infine, che in seguito doveva mostrare la sua tendenza ai trasporti amorosi, aveva solo cinque o sei minuti d’età che già s’era invaghito delle guance paffute dell’infermiera; e, afferrato un dito di lei, lo stringeva nel pugno senza voler più lasciarlo.
Ma il più straordinario, la meraviglia di tutti, era nostro fratello Antonio. Bisogna sapere che questo fratello era il primo nato della famiglia, e la sua storia si racconta in poche parole.
Appena venuto alla luce, per chi sa quali suoi rimpianti o aristocratici disgusti, si sentì offeso o deluso. Comunque sia, è un fatto che rifiutò sdegnosamente di mangiare; e dopo qualche ora, senza aver neppure potuto spiegare le ragioni del suo contegno, chiuse gli occhiettini e morì.
Questa è la triste storia che nostra madre ci raccontò sempre con nostalgia e col tono che si usa quando, ad una greggia di plebei, si parla di un re. A suo dire infatti il fratello Antonio, se fosse rimasto in vita, sarebbe stato un profeta o un genio, e avrebbe provveduto a rialzare l’onore della famiglia. Ogni volta che, incontrandoci ancora in fasce fra le braccia della nutrice, le signore si fermavano e per lusingare nostra madre dicevano: - Che bel pupo! Com’è grasso! - e poi ci solleticavano la gola esclamando: - Oh come ride! Che angelo! - nostra madre scuoteva la testa sopra pensiero. E con un sospiro assicurava: - Questo è niente, questo è niente, signora. Se aveste veduto il mio primo! Quello sì, era un figlio! Pensate che appena nato girava intorno gli occhi e guardava tutti serio serio. Aveva due occhi così celesti e brillanti che pareva portasse un diadema di zaffiri sulla fronte. E mica aveva il naso schiacciato come questi qua: aveva un naso affilato, proprio distinto, signora, e certe mani venate, con le unghie ovali e sottili, non brutte e rozze come questi qua. E chi sa che bei denti avrebbe avuti, signora mia; già si vedeva, aveva le gengive rosse, tenere, che parevano uno scrigno di velluto: sicuro che in quella bocca non potevano spuntare i denti radi, scuri, che hanno questi qua. Ah, signora, non posso ripensarci senza piangere, - e nostra madre si asciugava le lagrime.
Qualunque cattiveria noi facessimo, ella esclamava con rimpianto: -
Ah, vostro fratello Antonio questo non l’avrebbe mai fatto! - E
d’altra parte, se volevamo renderci degni di un così illustre primogenito scrivendo per esempio una poesia con le rime, ella dichiarava: - Sì, ma lui ben altro che questo avrebbe fatto! Son sicura che sarebbe diventato un Salomone, o un Giacomo Leopardi! - e noi ci rinchiudevamo avviliti nella coscienza della nostra inferiorità. Il fratello Antonio era diventato nella nostra mente un Esempio irraggiungibile, un Tipo ideale di cui noi non eravamo che copie grossolane, un perfetto e severo Giudice.
Spesso veniva il santo padre Celestino, e ci parlava di Dio. Mia madre un giorno si decise a confessargli il proprio dubbio: - Certo Dio fa tutto per il meglio, - disse, - ma, scusate, padre, perché ha fatto morire il mio primogenito? Lui che, lo so, sarebbe stato la gloria della famiglia! - e gli raccontò con voce di pianto la storia di Antonio.
- Ma, - chiese padre Celestino, - l’infante, - (in tal modo si esprimeva quel santo), - l’infante era stato battezzato?
- Certo, e come no? - rispose nostra madre, - certo che provvedemmo in tempo alla salute dell’anima sua.
- E allora! - esclamò padre Celestino tutto raggiante in viso. -
Allora che cosa volete di meglio? Altro che principe o poeta in terra! Il vostro bravo figliolo sarà l’avvocato della famiglia presso il Signore. Avete un’anima innocente, signora, che prega per tutti voi. Che cosa volete di meglio? - E tutti ci guardammo estatici e stupefatti.
Infine sapevamo (e chi potrà mai più levarcelo dalla mente?) che il nostro fratello Antonio, mentre noi peccavamo e scontavamo sulla terra, ci preparava, con le sue mani regali, l’aurea casa del perdono in Paradiso.
I vecchi avari
Una cosa ci offendeva nella Befana, e cioè che fosse una signora tanto spilorcia. Quando, ubriachi di sogni, le scrivevamo una lettera piena di affettuosa diplomazia chiedendole, per esempio, un’automobile capace di contenere tutti noi fratelli e di portarci a spasso per casa, la vecchia fingeva di non capire. E dal suo pingue sacco lasciava cadere un piccolo autoveicolo, delle dimensioni della nostra mano, con la carica che funzionava male e un autista alto due centimetri, dall’aspetto idiota, il quale inoltre si poteva guardare solo di profilo perché era fatto di due pezzi, e, visto di faccia, mostrava il taglio divisorio. A mezzo di nostra madre, che ci faceva da messaggera presso quel mondo di spiriti, noi facevamo pervenire alla vecchia le nostre proteste; ma la Befana ci mandava a dire che le spiaceva tanto. L’automobile da noi descritta costava trecento lire, e dalle verifiche d’amministrazione risultava che la signora nostra madre aveva spedito per le spese un modesto assegno di cinque lire. Per ricevere la macchina richiesta, ci compiacessimo dunque di favorire le restanti lire 295. «Ma dunque è una vecchia venale! -
pensavamo sdegnati. - E’ una volgare bottegaia, è una speculatrice!»
Bei discorsi da farsi a noi! ma allora, se si doveva pagare, tanto valeva andare alla bottega di Bianchelli. E meditavamo, per far dispetto alla vecchia e lederla nelle sue mire interessate, di essere pessimi, così da costringerla a darci solo il carbone che costa poco e, almeno, serve a cuocere gli spaghetti. Invece le automobili che ci mandava lei non servivano nemmeno a portare a spasso le formiche.
Sapevamo bene che, a causa delle complicate gerarchie celesti, non avremmo mai potuto accostare la vecchia direttamente; ma da un suo ritratto del libro dei racconti, in cui ella appariva secca e spilungona, con occhi vivi e piccolo naso a becco, si deduceva benissimo la sua natura spilorcia e superba. Papà Natale invece, ritratto in altra pagina, ci conquistò col suo viso rosso e bonario e la cordiale pinguedine. Allora decidemmo di non servirci più per i nostri acquisti presso la Ditta della Befana diventando invece clienti di Papà Natale; e celebrammo tale defezione con rito significativo, e cioè col grido di «Abbasso la Befana!» seguito dal lancio di uno sputo. Scrivemmo quindi a Papà Natale una elaboratissima lettera nella quale astutamente stuzzicavamo il suo spirito di concorrenza e spiegandogli che il suo fascino e la sua beltà ci avevano spinto a preferirlo gli chiedevamo doni ricchissimi, quali veri cannoni e carri armati e, da parte mia, una bambola di statura umana, vestita alla scozzese, adorna di una collana di perle, e capace di dire papà e mammà.
Il mattino della festa, il mio fratello minore assicurò di avere udito nella notte non più, come gli anni scorsi, la voce della Befana, chioccia e fina come uno spillo; ma un vocione forte come quello di un bue, benevolmente grasso e festoso. Questa notizia ci elettrizzò, e fra gridi entusiastici corremmo alla tavola dei doni.
Ma qui dovevamo persuaderci che l’ingannevole vecchio non era meno avaro della sua concorrente: vicino a tre o quattro cannoncini di stagno, non più lunghi di un dito mignolo, sedeva la mia bambola scozzese. Non era tanto piccola, ma il mio occhio esperto e sprezzante vide subito che era stata comperata sui carrettini. Lungi dal dire papà e mammà emetteva, a comprimerla sulla pancia, un ambiguo miagolio. Quanto all’abito scozzese, molto ben fatto a dire il vero, mi parve di riconoscere in esso, con sommo stupore, la stessa stoffa di un vecchio vestito di mia madre. Il vecchio utilizzava dunque per le sue strenne gli stracci della famiglia. E la collana, composta con arte in triplice giro e adorna di una medaglietta argentata, era però fatta di quelle perline di vetro che costano dieci un soldo.
- una vera camorra! - esclamammo delusi, ripetendo la frase prediletta di nostro padre. Ed io, presa la bambola e sollevatale con rabbia la veste, la bastonai. Poi la buttai sotto il divano fra polvere e ragnatele. Allora mia madre andò a raccoglierla e le rassettò il vestito dicendo che era bellissima; e nel dir questo la sua piccola bocca tremava, come a chi sta per piangere.
Fioretti
Le suore, preoccupate della salute dell’anima nostra, ci insegnavano che ogni sacrificio offerto al Signore si trasmuta in fiore odorosissimo nell’orto del Cielo: perciò appunto prende il nome di «fioretto». E il giorno del Giudizio Universale Iddio, con l’aiuto dei suoi angeli, raccoglie tutti i fiori cosiffatti e in forma di vaghissima corona li restituisce a ciascun’anima che glieli offrì.
Fra le dodici educande, ero sempre io la prima a proporre fioretti e sacrifici. Le buone suore mi accarezzavano la testa, mi mostravano alle altre quale esempio edificante, e guardandomi bisbigliavano: -
Che anima candida, che cuoricino perfetto -. Ed io, con gli occhi pieni d’ipocrita santità, e levati al cielo, mi compiacevo in quelle lodi.
Spesso, all’apparire di una torta domenicale sulla tavola del convento, le suore si scambiavano un sorriso d’intesa arguta. Suor Maria Francesca diceva con furbo ammicchìo: - Che crema bianca, eh!
Che pistacchi teneri! Ah, che zibibbo! - e noi dodici inghiottivamo acquolina. Ma subito suor Gervasia socchiudendo gli occhi celesti suggeriva: - Che ne direste se… - e ci fissava in viso finché io balbettavo: - …se facessimo un fioretto? - Le suore approvavano raggianti; e allora suor Consilia sollevava il dolce con le sue mani grassottelle e se lo portava via.
In quello stesso istante, dodici fiori odoranti di pistacchio e di zibibbo spuntavano negli orti celesti; e, a rendere la festa più solenne, le suore ci mettevano in fila intonando un coro che diceva: Noi ti consoleremo, o Signore.
Allora le guance delicate, simili a pomi, della semplice compagna Giacinta, e della pia compagna Flora diventavano rosse per il piacere. Tutte si figuravano uno splendido convito sospeso nel firmamento; dove i commensali, tutti santi con aureola e barba magnifica, si dividevano la nostra torta e dicevano: - Ah, quanto è buona! Ah, che brave bambine!
Tutte le compagne coltivavano con fiducia, in attesa del Giudizio, la propria corona celeste. Ma soltanto lo spauracchio del Dubbio, e l’albero spinoso della Finzione ospitava il mio cuore. Mentre cantavo nel pio cerchio, i miei precisi pensieri erano questi: «Canto perché mi conviene, così le suore mi dicono “Cuoricino” e mi regalano figure colorate. Ma voi, se credete che i santi mangino la nostra torta, siete sceme e ignoranti. I santi non hanno mica la pancia: mangiano solo musica e aria. E forse che la torta ha le ali per volare fin lassù? Sceme, la torta, si capisce, se la mangiano le monache. Per questo sono così grassottelle, e per questo suor Consilia ride quando leva il piatto».
risaputo che il Diavolo non fa coperchi; e dunque il Signore dal Cielo vedeva benissimo i pensieri velenosi che ribollivano nella scoperchiata e nera pignatta dell’anima mia. Questo io temevo, e, nel buio della notte, rabbrividendo mi figuravo il giorno del Giudizio Universale.
Quel giorno si farà l’appello. «Giacinta!» dirà il Signore. E
l’anima di Giacinta in forma di candida colomba tuberà: «Presente».
«Grazie per i fioretti, cara», le dirà il Signore, e le porgerà una corona di gelsomini. Similmente Egli chiamerà: «Flora!», e l’anima di Flora, in aspetto di candido cigno, riceverà una corona di gigli. Ma quando il Signore chiamerà: «Elsa!», fra lo stupore generale si vedrà comparire un brutto passerotto arruffato e nero: a questo il Signore porgerà in silenzioso disdegno una corona d’ortiche. E dall’ombra il Diavolo, con una risata di trionfo, cerimonioso dirà: «Favorite all’Inferno, signora mia».
IV. Un racconto ritrovato
Peccati
La città era stata un tempo sede imperiale e conservava di quel periodo gli edifici di una maestà pomposa e troppo adorna. Lungo i ponti gettati sul fiume si levavano in gruppi avvinghiati e tempestosi enormi statue dalle vesti fluttuanti. Nelle piazze, le acque scrosciavano dentro fontane animate da giganti e da mostri, in mezzo a conchiglie e a strane flore; e in quei vasti luoghi, ogni suono riecheggiava come fra le muraglie di una rovina deserta. Se appena si alzava lo sguardo, s’incontrava dove un muto volto di pietra, dove un liscio ed immane ginocchio di bronzo. Dentro le chiese gravi di pinnacoli e di guglie, gli organi ricchissimi di canne rompevano scintillando l’ombra cava delle volte. E le facciate dei palazzi dai cornicioni dipinti, cariche di balconcini, di lesene e di cornici, davano alla città un volto fastoso e vario, che contrastava con la sua condizione attuale. Poiché l’impero da molti anni era caduto, il folle e prodigo imperatore scomparso, e la popolazione diradata vegetava in una pigra miseria. Sotto i portici e sui pavimenti di musaico si aggiravano figure stanche ed ambigue, dai visi smunti e dagli occhi annebbiati; a notte, lungo le vie vuote e nere, pareva di camminare per una città di morti. Le finestre dei palazzi erano quasi sempre chiuse, e gli abitanti malvestiti, anche i giovani, già esperti di cadute e di rinunzie, tenevano bassa la fronte, come per una costante vergogna o paura.
Per le strade di questa città passava una mattina un giovinetto sui diciotto anni, dagli abiti assai sciupati, che portava una valigia di fibra. Sebbene egli non avesse molto viaggiato, questa valigia era coperta di etichette multicolori, da lui raccolte grazie a certe amicizie con commessi e camerieri d’albergo e motivo di grande orgoglio per lui. I panorami più vari si potevano godere osservandole una per una. Qui, al confine di un deserto, un pozzo sul quale una donna reclinava la fronte. Là un ghiacciaio coi picchi illuminati da vene viola, simile ad un candelabro di vetro. Altrove un lago recante nel mezzo una barca piena di ombrellini e di dame (così ben disegnate che nella più elegante si potevano ammirare perfino le fibbie delle scarpette). Altrove un paesaggio, che, in quel minimo spazio, era infinito, perdendosi in una nebbia di un colore oltremare acquoso. E
campeggiante su miraggi di colline, una villana adorna di un vezzo di coralli diviso in moltissimi giri.
Pareva di portare con sé il mondo intero. I nomi, poi, di quei luoghi, componevano una grande orchestra: alcuni erano remotissimi, sperduti nel fondo degli evi; altri erano nomi di battaglie, altri di santi. Ma troppo ci siamo attardati nel descrivere questa valigia.
Il giovinetto si chiamava Andrea: le sue guance, di una tenerezza adolescente, apparivano un po’ sbattute, anche a causa del sonno.
Egli pareva infatti sceso a malincuore dal letto, v’era nei suoi gesti un’aria di fuga; i suoi capelli biondi erano piuttosto in disordine, gli occhi abbagliati dalla luce, le labbra sbiadite. Tutta la sua figura, di graziose proporzioni, già virile sebbene esile, mostrava noncuranza e povertà. Portava una giacca attillata che nel colore della stoffa ormai stinta rivelava una ricerca di effetto; pantaloni polverosi, scarpe sdrucite. Ma c’era in lui quella grazia orgogliosa e aristocratica che può nascere dalla consuetudine dell’ozio. Camminava distratto fra i preziosi musaici, figuranti pavoni e gigli d’oro, e dalle sue labbra chiuse usciva a momenti un sorriso, non si capiva se sprezzante o timido. Era chiaro che la città gli era familiare: forse essa lo impauriva, forse invece egli soltanto la disprezzava; ma certo si conoscevano bene.
Camminando sempre in quel suo modo indolente, e, a quanto sembrava, senza una meta, il giovane oltrepassò i nuovi quartieri dei poveri, palazzi chiassosi e strade sparse di rifiuti, e arrivò ad un angolo della città vecchia che ancora sopravviveva intatto. Era costruito su un rialzo di terreno lungo il fiume, e le case di pietra annerita ed umida si raggruppavano intorno a viuzze male acciottolate. Dalla parte del fiume, queste viuzze finivano tutte in una serie di gradini che scendevano all’argine; gli usci di alcune bottegucce di verdure e di vini si aprivano ai lati delle gradinate e se ne intravvedeva l’interno polveroso. Sull’argine erano piantati bassi fanali che si riflettevano nelle acque, radi alberi aprivano un fogliame affumicato e glauco per l’aria umida, e da quel nebbioso cammino, tutto fiorito d’erba giallastra e di muffe, il gruppo delle case soprastanti coi suoi scalini viscidi e ineguali, pareva una fortezza indifesa in preda allo squallore. Una delle viuzze là in alto si chiamava «Via del Fabbro», e vi si apriva infatti un’officina ingombra di fili aggrovigliati e di ferrami arrugginiti e contorti. Là presso era un’osteria; e da piccoli usci verdastri, mal connessi sui cardini, si saliva alle case. Su uno di questi usci era appeso un cartello che diceva: Affittasi lettuccio in cucina. Vedendolo, Andrea si fermò.
Lì abitava Elvira, una cucitrice di bianco, insieme ad una sua figliola chiamata Lena. Era questa una ragazza gracile, dai capelli neri e non molto lunghi, che, sciolti e lisci, si scostavano con leggerezza dal volto. Le sue guance si conservavano molli e rigonfie come nella prima infanzia, gli occhi lucenti e curiosi pareva volessero sgusciare dalle orbite, e la bocca, sebbene pallida, aveva una sua freschezza di cosa appena nata. Già due poppe piccole, quasi appena due punte, andavano tentando la stoffa del suo vestito; non timide, anzi impudenti, tanto Lena le ostentava per sua gloria nel camminare, sporgendo insieme il ventre incavato e alzando la testa come gli uccelli quando bevono.
Ma non deve ingannarci questo camminare ardito. In realtà Lena era una creatura pavida e schiva, arrossiva spesso, e fin dall’infanzia gli altri fanciulli la escludevano dai loro giochi, lasciandola in una spaurita solitudine. Qualche volta, come un implume che tenta il volo e cade, dibattendosi nelle ali maldestre, Lena si avventurava nei circoli chiassosi dei suoi coetanei; ma subito, non sazia e umiliata, si ritraeva senza che gli altri la richiamassero. E spesso la si vedeva davanti alla soglia di casa, o seduta su di un gradino, fissare con ammirazione quel mondo felice.
Dopo un breve contrattare, Andrea ed Elvira conclusero l’affitto. E
Lena, appena vide il nuovo pigionante, lo prese sotto la sua protezione. La cucina dove egli doveva dormire era minuscola, coi muri ingialliti dall’umidità e dal fumo, e il fornello acceso la rendeva assai calda. Fu Lena che trasformò in letto il divanuccio coperto da una tela infiorata e sopra una vecchia cassa, acconciamente ricoperta da un merletto bianco, dispose uno specchio accanto al pettine sdentato e al rasoio di Andrea. Avrebbe voluto metterci anche una boccetta di profumo da pochi soldi che aveva comperato coi suoi propri risparmi, ma se ne vergognò. Davvero l’arrivo dell’ospite la elettrizzava, si divertiva negli insoliti preparativi come al tempo in cui, ragazzetta, vestiva la bambola. E
la mattina dopo quell’arrivo provò lo stesso piacere di quando nell’infanzia ci si sveglia al pensiero di un balocco acquistato la vigilia. Di notte, aveva sognato i prati in cui, piccola, guidata da sua madre andava a giocare; e poi misteriose, lisce strade di pietra, e gigantesche figure bianche. Questo era più strano, perché ella non essendosi mai allontanata dal vecchio quartiere non aveva mai visto la città; né poté riconoscere quei fantasmi. Comunque, simili sogni per Lena erano indizio di un giorno felice.
Sua madre era una donna piccola e taciturna, vestita di abiti troppo larghi che scendevano in pieghe flosce attorno alle sue membra smagrite. Sebbene ancor giovane, aveva il viso tutto scalfito da rughe minute e rossastre, simili a sgraffiature, che le davano un’espressione crudele e malinconica, accresciuta dalle pupille umili, un po’ torve. Una massa pesante e soffice di capelli castani le scendeva sulla nuca in una crocchia semidisfatta e nel collo pareva agitarlesi di continuo il nodo di un singhiozzo. Sembrava sempre dominata dalla vergogna di un suo segreto, quasi nascondesse sotto i panni una ferita che aveva umiliato la sua carne per sempre.
Da certi suoi discorsi, pronunciati nei momenti di rancore, si poteva dedurre che in parte ella attribuisse a Lena la colpa di questa ferita. Certo, le due donne erano poco più che estranee; a volte, cessato il lavoro, se ne stavano per lunghe ore immobili e silenziose fino al cadere della notte. Elvira seduta in un canto del divano, sussultando lievemente ad ogni rumore, come chi dorme. Lena, presso la finestra, pigra e tranquilla in apparenza, ma in realtà quasi stupefatta e all’erta. C’era nell’una l’inquietudine di un passato infruttuoso, che pareva le avesse lasciato chi sa quali rancori e vergogne, e nell’altra quella di un presente ancora fanciullo che ad ogni attimo nuovo premeva e urgeva in ansia contro un avvenire incerto. Ma le due inquietudini si consumavano inerti e discoste, ignorandosi; come due animali affamati, che ciecamente si accaniscano ognuno alla cerca del proprio cibo, su due piste parallele e sterili.
Per tutto il giorno Elvira lavorava alla sua macchina, curvando sulle pezze quel volto avvizzito; e la figlia, che le faceva da fattorino, con un canestro infilato al braccio andava dall’uno all’altro cliente. Ma col crescere della miseria e della fame la gente imparava a cucirsi da sé i propri indumenti, la clientela scarseggiava, e i giri di Lena diventavano sempre più brevi. Era la fine di giugno, una caligine rossa si addensava sulle strade. A sera la gente usciva, lungo l’argine del fiume i vagabondi restavano seduti ad aspirare l’umidità fresca che saliva dall’acqua. I cani erravano annusando, e si fermavano ad abbaiare dinanzi alla soglia del fabbro, da cui balzavano faville e vampate; ripartivano agitando la coda e saltellavano giù per i gradini fino ai riflessi mobili del fiume.
Andrea pareva non accorgersi di Lena; del resto, rimaneva poco in casa e dalle sue scarpe sempre impolverate, la sera, si capiva che doveva aver camminato molto. Era taciturno, e Lena invece avrebbe voluto saper tutto di lui; per piacergli imparò a dipingersi le guance, strofinandole con certi straccetti rossi. Come potevano non attirarlo due occhi tanto lucenti? E si cucì un abito di un rosso acceso, sul quale applicò una balza. Ma egli non si scosse da quella sua indifferenza. Durante i suoi giri, Lena spesso lo incontrava, fermo dinanzi alla bottega del fabbro o sull’uscio dell’osteria, in attitudine svogliata o inquieta: pareva uno che sempre cerca una cosa, e insieme non vuole trovarla. Passandogli accosto, Lena accentuava quella sua superba andatura, e avvampando lo salutava con un piccolo sorriso d’intesa, che le faceva battere il cuore; ma egli le rispondeva appena con un cenno, oppure, voltandosi dall’altro lato, neppure la guardava. Presto tali incontri bastarono a ricolmare la giornata di Lena: questa si aggirava per le vie senza meta, nella sola speranza di vedere Andrea. E se riusciva a trovarlo, fino a casa tratteneva un po’ di quel sorriso con cui lo aveva salutato all’incontro. Ma certo egli la giudicava troppo giovane e inesperta.
Una sera, in assenza di Elvira, la chiamò in cucina. Aveva le labbra più pallide e gli occhi ardenti: - Ho sete, - le disse, - non hai del vino?
- Noi non beviamo vino, - balbettò Lena. - Allora senti, - egli le disse. - Va’ qui dall’oste, e fatti riempire questo fiasco. Pagherò io domani -. Ora, da qualche giorno il pigionante non pagava neppure l’affitto.
- Mamma non vorrà, - disse Lena, tutta turbata. Ma l’altro, sorridendo in una maniera mortificata eppure caparbia: - Sono io che ho sete, - insisté, - perché tua madre non vuole? Io ho sete, - e stringeva le labbra muovendo la lingua inaridita.
Al pensiero del burbero oste, la timidezza di Lena si spauriva.
Ella volse ad Andrea un’occhiata smarrita e docile, ma scosse la testa. Senza guardarla, nel tono viziato e testardo di chi non sa rinunciare alle proprie voglie, l’altro ripeteva: - Perché non vai? -
Infine, vedendola ostinata, indispettito le disse: - Va’, - e le dette uno schiaffo.
Gli occhi di Lena si empirono di lagrime; con un singulto, stringendosi fra le palme il viso intorpidito, in fretta ella uscì dalla cucina e si raggomitolò presso il portone, sullo scalino più basso. Mai era stata così felice. Appoggiando al braccio la guancia, gemeva piano, e di tanto in tanto s’interrompeva quasi inanimata e fissava davanti a sé come in sogno: «Se qualcuno, - fantasticava in quei momenti, - passasse di qui e mi domandasse “Perché piangi tanto?”, io risponderei: “Perché Andrea… mi ha battuta”».
S’illudeva di udire la propria voce tremolante, umiliata e quasi spenta, pronunciare fra i singhiozzi queste parole e, tutta intenerita, raddoppiava il piangere. Poco dopo, Andrea scese i gradini: - Scusami, - disse in fretta allontanandosi e imboccando un vicolo. Ed ella sollevò il volto e avrebbe voluto gridare: Bacerò la polvere dove tu passi!
Simile a questo infatti era il suo pensiero. Le pareva che egli, allontanatosi per il vicolo, trascinasse dietro di sé lei, tutta piangente:
- Torna, - ella bisbiglia, - torna caro Andrea -. Ma ancora Andrea non ricompariva all’imbocco del vicolo. Già sul fiume basso e cupo nasceva la luna, avvolta in una nebbia fumida, e riaffiorava dal fondo nei riflessi di un incendio ombroso, così che lungo la corrente pareva galleggiassero delle braci. Con uno sforzo ella si alzò e quasi a stento appoggiandosi alla parete si avviò all’uscio: in realtà, da parecchi minuti non sentiva più il dolore dello schiaffo, ma si compiaceva di prolungarlo nel ricordo e di muoversi con la lentezza martirizzata di chi è stato crudelmente percosso.
Teneramente persuasa ella stessa in questa sua finzione, ancora un po’ scossa dai singulti che le urgevano alla gola, con passo furtivo entrò nella cucina, e sorrise puerilmente fra sé:
- Vedrai, Andrea, vedrai, - mormorò lusinghiera, carezzevole, e, preso quel fiasco, uscì nella notte, con aria di sorpresa e di mistero.
L’osteria aveva due porte: l’una dava nella sala in cui sedevano gli avventori, l’altra in uno sgabuzzino col banco, per la vendita.
Un tramezzo separava questi due vani distinti, e in esso si apriva una piccola finestra da cui passava nello stambugio il vicino tintinno dei bicchieri, il vocio ronzante dei giocatori, il battere delle monete sul marmo delle tavole. Tutti questi suoni riecheggiavano dalla strada, rimbalzando sulle pietre; ma l’oste, fermo dietro il banco, non si scuoteva. Nella stanzetta male illuminata da una lampada polverosa e rossastra gli arrivava da una botola rotonda l’acre tanfo delle cantine. Egli era massiccio, lento, con barba e capelli rossi, e un cappello floscio e tutto pesto calato fin sui sopraccigli. Sotto questi suoi sopraccigli folti e accesi muoveva due occhi tardi in una larga faccia appiattita; e il naso camuso fra il pelame della barba nascondeva quasi le labbra argute e strette. Da una maglia tessuta come una rete uscivano le sue braccia nerborute e fitte di lentiggini. Al di qua del banco, Lena si fermò davanti a lui, bilanciandosi ora su un piede ora sull’altro, e il rossore inquieto della timidezza tremò come una fiammella sulle sue guance intenerite dalle lagrime: - Mi manda il signor Andrea, -
cominciò, così piano che pareva confidasse un segreto, - e dice se può mandargli il vino. Pagherà lui domani -. Queste ultime parole furono pronunciate in fretta in fretta; dapprima l’oste rispose appena con un grugnito, sbirciandola: - Oggi non si fa credito e domani sì, -
motteggiò poi con un piccolo riso gutturale simile ad un colpo di tosse. E, alzando un dito e socchiudendo sentenziosamente le palpebre: - Troppi ne ha già bevuti, - disse, - di bicchieri, il signor Andrea.
- Allora… - ella balbettò mortificata; e mentre ritirava il fiasco dal banco si sentì di nuovo preda della commozione recente, così che il suo mento tremò. A un tratto dai cigli ancor umidi una lagrima gocciò sul suo braccio nudo ed ella fece per correr via, ma l’oste la trattenne. Anzi si alzò in piedi, e giganteggiò dietro il banco: - Ma guarda! - esclamò con una voce che si spegneva adagio, -
che cosa è questo? - E in aria di finta curiosità, curvandosi su Lena, col polpastrello raccolse la lagrima.
Ella scosse la testa, sconsolatamente. Anch’egli, in atto deprecativo e patetico, scosse il capo più volte, e poi, con uno sguardo grave, prese a carezzarle il braccio; e accompagnava la carezza con un borbottio sonnolento, simile alle nenie che si cantano ai bambini nel monotono dondolare delle culle.
Ella non si schermì, ché anzi beata curvò da un lato la testa, con gli occhi socchiusi. - Lo vuoi proprio, - egli le domandò in accento benigno e invitante, - lo vuoi proprio, eh? Lo vuoi, questo vino? -
Sì, - ella mormorò tutta consolata, raccogliendo in un singhiozzo il respiro. - Andiamo dunque a prenderlo, - egli disse. E le porse la mano, traendo insieme una lampada tascabile che allungò nell’interno della botola una diritta lama di luce. Con la sua mano in quella grande e villosa dell’altro, appoggiandosi a lui, Lena gli tenne dietro un po’ di sbieco per la stretta scala. Dalla cantina salivano soffi gelati, insieme all’odore marcio e fermentato delle botti, e pareva di scendere per lungo cammino, in fondo sotto la terra, fino a pianure taciturne immerse in remoti specchi stellari. Ma presto si arrivò in una stanza dal soffitto basso, una specie di grotta odorosa di vini, con una sola angusta finestrella. Compunta, Lena osservava l’oste che versava a terra l’acqua dal fiasco formando una pozza, e subito in quella pozza andava a riflettersi la luna; e il vino rosso che dallo zipolo scendeva nella bottiglia, con un mormorio. - Ecco, -
egli disse, e, a un passo da lei, premendole sulla fronte la palma le ravviò i capelli indietro con una inerte e stupefatta lentezza, e sempre più in quel gesto la sua mano tremava. Allora anche Lena incominciò a tremare:
- Il signor Andrea, - proruppe quello in un convulso respiro, - dice se in cambio del vino tu vuoi… - Ella ebbe uno stupido e palpitante riso, e l’altro parve toccato sulla pelle e scosso da così breve suono. E accostandosi a lei che taceva nell’angolo le disse: Colombella mia.
Da allora, ogni giorno, all’insaputa di sua madre, ella nascose una bottiglia di vino dentro la cassa che serviva da specchiera ad Andrea; e più tardi la ritirava vuota. Malgrado questa muta intesa, però, Andrea per nessun segno mostrava di apprezzare le attenzioni di Lena. Compariva di rado, e subito, dopo uno sguardo sperduto alla finestra, usciva di nuovo. Era gentile, con Elvira perfino cerimonioso: - Buon giorno, signora, - diceva educatamente, -
scusate, signo-
ra -. Ma a Lena non si rivolgeva mai, considerandola, certo, trascurabile a causa della sua giovinezza. La mattina presto, mentre egli ancora dormiva, Lena entrava in cucina in punta di piedi per preparare il caffè, e a quell’addormentato chiedeva amore. Ma egli nel riposo si aggrappava al guanciale, con le braccia aperte, e pareva nuotare nelle sotterranee, cupe acque del sonno senza memoria né fatica. Ella era gelosa di quel sonno: «Se Andrea fosse mio figlio, - pensava, - e potessi stringerlo, baciarlo appena sveglio!»
E un giorno, fra le lagrime, immaginò di essere sua madre e chiamò piano: - Andrea, - col suono rauco e fresco del nome ancor nuovo, pronunciato nel primo brivido della nascita. Le parve allora per un attimo di essersi congiunta misteriosamente a lui, confondendosi in lui come un affluente nel suo fiume. E forse da così tempestosa corrente un’onda approdò all’altra riva inconscia: Andrea mosse appena le labbra, con un gemito.
Ma se egli si svegliava e la vedeva, pallida pallida, aggirarsi per la cucina, ombroso si copriva in fretta il petto nudo: - Lasciami solo, - diceva, - devo vestirmi, - ed ella rispondeva: - Sì, signor Andrea.
Una volta, entrata nella cucina prima dell’alba, raccolse i panni di lui sparsi per terra e ardendo di orgoglio li lavò; ma neppure questa volta egli le disse grazie. Accadde poi che una notte egli non tornò, e rimase assente due giorni, lasciando però la valigia di cui Lena contemplava le molte figure con occhi innamorati. Ella lo cercò smarrita per tutte le strade: ne chiese al fabbro, che sospese il lavoro per ascoltarla, e si gettò indietro i capelli sudati splendendo nel sorriso dentro la nera fucina: - Che c’è, carina? - le disse. - Chiede di Andrea, quel giovanotto biondo, - bisbigliarono i garzoni, dagli occhi piccoli e rossi nei volti bruciati. Ma nessuno lo aveva visto.
Polverosa e stanca era l’estate in quei luoghi; dal basso folate di un vento pigro soffiavano in faccia, anche nel campo dell’ombra non dava tregua il riflesso acciecante del sole, e, come nelle febbri che consumano lentamente, ogni membro s’intorpidiva, i ginocchi pesavano, uno smunto pallore divorava i visi. L’argine del fiume era ingombro di aridi spini arroventati, che nelle notti di sete ritornavano in sogno. E snodandosi in curve amorose, guizzando improvvise, ne uscivano le serpi.
Quando Andrea ritornò, entrò quasi correndo a testa bassa. Non aveva più la giacca, ma soltanto una camicia logora e sudicia sulla pelle nuda, e il suo volto, più sciupato del solito, era segnato da profonde occhiaie. Salutò, e per riprender fiato, si sedette sul divano: - Scusatemi, signora, - disse con un’occhiata di sbieco e il suo fare più cerimonioso, - se son rimasto assente così, senza avvisare. Ma sapete… degli affari improvvisi… Del resto, avevo lasciato qui la valigia. Ora, - soggiunse con un sorriso affaticato, -
fra pochi giorni devo ricevere un vaglia e certo potrò pagarvi il mio debito. Stasera vorrei cenare qui, se non vi dispiace, - e tacque.
Lo sguardo chino sul suo cucito, alle labbra un’amara piega di fastidio, Elvira tirò con più forza la gugliata: - Purché si tratti davvero di pochi giorni, - ammonì con una voce agra e spiacevole. -
Caro signor Andrea, non ho fondi per far credito, io.
- Non dubitate, signora, - assicurò Andrea, in tono basso e persuasivo. Ed ella rivolta alla figlia: - Apparecchia la tavola, -
ordinò.
Trasognata, nella succinta vesticciola che al camminare si rialzava sui ginocchi, tendendo il volto sotto i leggeri e gonfi capelli pettinati indietro, Lena si staccò dai fornelli e si accostò alla tavola. Malsicura muoveva sulla tavola le dita fredde e tremanti, e le sue guance rotonde parevano dissanguarsi. Ma nessuno lo notò.
Sotto la lampada che quasi toccava i suoi crespi capelli d’oro, Andrea si sedette sporgendo avidamente le labbra scolorite. Certo quello era il suo primo pasto dopo un lungo digiuno, lo si capiva dalla violenta e disordinata ingordigia con cui si riempiva la bocca.
Ed ella non poteva sostenere la pietà che le ispirava quel volto, e quel collo nudo e pallido.
Anche nei giorni seguenti Andrea prese i suoi pasti nella casa della cucitrice; ma si tratteneva soltanto per pochi minuti, distratto e impaziente, mentre Lena, che per tutta la giornata si era incamminata in faticoso pellegrinaggio verso quell’ora, tremava al pensiero di vederlo uscire fra poco dicendo: A rivederci. Smemorata lo inseguiva con gli occhi e poco dopo sgattaiolava fuori nella speranza di ritrovarlo. Con un sobbalzo lo riconosceva da lontano: forse questa volta si sarebbe fermato, avrebbero camminato insieme lungo l’argine, discusso progetti per un avvenire comune. Ma fra loro non c’era che un rapido cenno d’addio, ed ella si fermava col cuore stretto, e sembrava pensosa. Da qualche tempo era inseguita da un pensiero sognato, una specie d’ombra. Trasformati in larve, ritornavano il quartiere dei poveri, Via del Fabbro, e la gradinata sotto precipitose fughe di strade, sepolta nel sonno. Lena sale a deserte camere notturne, Andrea scende a fiumi autunnali e remoti, questo è il momento di chiamarlo, non c’è più tempo; ma la voce le manca, come un insetto invischiato si dibatte il suo desiderio, e istupidita ella continua a salire la scala, pur sapendo che i loro cammini sono opposti e non potranno più incontrarsi.
«Addio, - ella pensava, - addio, Andrea».
Sempre più spesso mentre egli dormiva si compiaceva di rimirarlo.
Guardava quei lunghi cigli biondi, che all’orlo delle palpebre stanche nel volto scarnito stupivano come un anello d’oro al dito di un povero. Anche perché così indifeso e solo, essa lo amava; e si tratteneva con lui in colloqui appena bisbigliati: - Come sei povero,
- gli diceva, - come faremo, mio caro? Neppure un quattrino, è vero? -
e, come se egli avesse potuto vederla, chinava la testa con civetteria, sorrideva amorosamente. Questo compensava in qualche modo il silenzio e l’indifferenza di lui durante il giorno. Quando più la sua commedia la prendeva, ella recitava anche la parte di lui; e fra sommesse risa e sospiri si baciava le braccia, ma ad ogni leggero moto di Andrea sussultava per lo spavento. Gli volgeva le chiacchiere vane e le blandizie adatte ai fanciulli.
Un giorno, durante uno di questi discorsi che egli non udiva, gli promise un bel fazzoletto di seta, da collo. Ne aveva visto uno, davvero splendido, addosso ad un cliente di sua madre, studente che abitava una camera d’affitto presso un falegname. L’insolito brillare di quel cencio la incantava: era di seta, ampio, ad arabeschi verdi e gialli. Ed ella oramai sapeva come ottenerlo e recandosi dallo studente era decisa, sebbene il pensiero della propria audacia a momenti le arrestasse il respiro.
Quel giorno si unse i capelli con una pomata, mise al dito un anello con una pietruzza turchina e indossò il suo abito scarlatto, di cui strinse forte la cintura. Lo studente viveva nella parte nuova del quartiere, in un casamento popoloso diviso da cortili stretti ed alti sui quali le donne, sporgendosi dalle finestre, sbattevano le materasse o stendevano i panni. Dalle vetrate, il sole si riversava nei ballatoi, scoprendone con impudicizia il sordido squallore. Ad ogni piano alcuni ragazzi seminudi giocavano e si azzuffavano fra gridi e tonfi; alcuni inquilini si erano addirittura portati là fuori gli strumenti del loro mestiere, e si vedevano calzolai picchiare al deschetto e donne discinte sedute su sedie spagliate cucire alacremente discorrendo da una soglia all’altra. Lo studente abitava all’ultimo piano: di là, come dall’orlo di un precipizio, si udivano tutti i rumori e le voci di sotto, ingolfandosi entro la vuota tromba della scala, aggirarvisi confusi in un vortice assordante.
Lo studente, sebbene portasse già due piccoli baffi scuri, era ancora un ragazzetto. Aveva i capelli ben rasi sulla nuca e alle tempie, denti bianchi e minuti, chiari occhi un po’ miopi. La sua camera, che dava sul cortile, era tutta addobbata con grandi fotografie, ritagliate dalle riviste, per lo più di attrici, di cui una mostrava sorridendo i ginocchi, un’altra versava lagrime grosse e lustre, un’altra si pavoneggiava in un abito a strascico, sotto un diadema scintillante. Il lume sul tavolino era avvolto in una carta di un rosa stinto accuratamente tagliuzzata all’orlo, e sul letto era gettata con indolenza una coperta di finto damasco rosso. Consegnato il lavoro, Lena vide sul cassettone, ben ripiegato, quel fazzoletto, e il suo cuore batté come ad un convegno d’amore. Impallidendo sempre più nel gesto, quasi venisse meno, prese ad accarezzare la seta desiderata:
- Me lo regali? - sussurrò. Lo studente, avvezzo a vederla sempre così taciturna e timida, la fissò stupito: - Come? - domandò incerto. Lena avvampò e tutta tremante strinse il fazzoletto fra le due mani: -
Dammelo, - ripeté, e a un tratto i suoi occhi, tanto lucidi che parevano pieni di lagrime, si volsero all’altro con torbida astuzia.
Poi, secondo il solito, cominciò a ridere. L’altro pareva non capire, ma già preso da un confuso turbamento si accostava a lei: - Perché dartelo? - esclamò, alzando una spalla con finta noncuranza, - è mio, quel fazzoletto -. Fu allora che lei, con un gesto imperioso, gli prese una mano e teneramente la posò sul proprio petto. Egli arrossiva sempre più e rideva; pareva uno di quei fanciulletti a cui per gioco i grandi fanno voci e spaventi e che hanno paura, ma non vogliono confessarlo. Certo era alla sua prima avventura, ed era vinto da un maldestro pudore. Infine, prudente e goffo, come chi tocchi un animale che può mordere, tentò l’esigua mammella di lei.
Ella trasalì e si guardarono, ridendosi spauriti; ma poiché Lena aveva chinato per vergogna la testa e sul suo collo bianco appariva un minuscolo segno bruno, alla vista di questo segno nello studente si svegliò un furore sfrenato e chiassoso. Ed ella ebbe il fazzoletto, e in più due monetine d’argento che il giovane le donò, quasi spaventato per quello che avevano fatto; in trionfo Lena le guardava luccicare, scendendo lungo la scala affollata come su un facile declivio.
Tale fu il secondo amante di Lena; ed ella gustava il possesso di quel cencio, di quelle monete, ed era felice. Un pensiero beato le teneva l’animo: la sorpresa di Andrea.
Sola nella cucina, in fretta nascose il denaro e il fazzoletto sotto la coperta del divano, avendo cura di lasciare bene in vista fuori un lembo della seta. Ma nel dubbio che tale accorgimento non bastasse, con mani convulse scrisse a caratteri vistosi su un foglio di quaderno: Guardare sotto il cuscino. Ora temeva che sua madre, rientrando, si avvedesse della sorpresa; ma la fortuna le fu propizia. Presto dalla camera dove si era ritirata ella udì il passo di Andrea.
Accoccolata in un angolo sul pavimento, per l’ansia si mordeva la stoffa della gonna. Poi si gettò supina sul letto, mormorando frasi interrotte di preghiere; e quando sua madre, rientrando, la chiamò per apparecchiare la tavola, si sentì a un tratto spaventata, si fece sulla soglia senza respiro.
Non ebbe il coraggio di guardare subito a lui. Ma quando le sue pupille lo cercarono, paurose e guardinghe come due cerve sbucate dal nascondiglio, videro che egli si era già adornato del fazzoletto. Lo portava annodato al collo, con una certa mondana negligenza, e di sfuggita guardò Lena. Era uno sguardo del tutto nuovo, fra carezzevole e arguto, che da un piccolo sorriso delle labbra riceveva una luce amica. Questo sguardo la rese quasi ebbra di gratitudine. Si sentì leggera, gioiosa, le parve che egli l’amasse, sentì il proprio sangue cantare. Pensava che d’ora innanzi, per tutta la vita, avrebbe cercato di meritare ancora quel dolce sguardo. Esso brillava dentro di lei, nel mezzo di un altare, come un ostensorio.
Di una leggendaria facilità le appariva ora la sua vita.
Elettrizzata da quel poco denaro dello studente, vedeva in ogni luogo, perfino nelle strade, miniere d’oro. Ella cammina col suo canestro, s’imbatte in un uomo distratto; lo guarda un momento e sorride, e anch’egli la guarda. Subito, come l’acqua dell’oceano si protende verso la luna nel flusso delle maree, il sangue dei loro corpi sale, sospeso a quel minimo segno. Comincia allora quel rabbrividire, e la cieca angoscia che balbettando chiede una tregua.
E lo strano mistero o incantesimo si tramuta in denaro per lei.
Potrà avere in tal modo molto denaro. Potrà avere una casa in campagna e abitarvi con Andrea. Senza luogo né tempo la casa nasce davanti ai suoi occhi velati, si conchiude in precisi contorni; pari ad una barca si lascia portare dal fiume del desiderio in cammino.
Senza seme né radici già alti gli alberi le fiammeggiano intorno. Per una grazia, fiori stupefatti si aprono nel loro fogliame. A limite di pianure su cui l’andare è riposo si levano montagne simili a nubi. La casa è nel centro. Il vento penetrando nelle sue stanze incantato si turba e le sue corde vocali ne tremano con ingenua musica; le ali della luce vi si acquietano in lenti giri come su lago, in mezzo ad antiche selve. Qui ella farà dormire Andrea; qui, nelle ore del sonno, cucirà gli abiti di lui, orlerà a giorno i suoi fazzoletti; e vi sarà una dispensa ricca di cibi e di vini rossi, per le cene festive. Forse egli accetterà talvolta di passeggiare insieme con lei. Ella, in un abito corto dalla vita stretta, gli cammina a lato.
I fiori dipinti sul suo vestito non sono i soliti fiori delle stoffe, piatti e disincarnati, ma si agitano leggermente mentr’ella si muove con piccoli gesti di ballo, la circondano vivi quasi che lei fosse un albero. Col giungere della notte, siccome il suo camminare è diventato più stanco, attento alle ombre, anch’essi vogliono chiudersi e si raccolgono intorno al suo corpo con un lievissimo respiro: - Oh, Andrea, sono stanca di camminare, un sassolino mi è entrato nella scarpa. - Fermiamoci, Lena, e non chinarti se sei stanca. Io stesso ti toglierò la scarpina se tu ti siedi su questa pietra; non sull’erba umida, ti sciuperesti il tuo bel vestito. -
Grazie, Andrea -. A testa china, egli scioglie il nodo della scarpa, stringendo fra due dita la caviglia; e il piede, sgusciando bianco e nudo, brilla fra loro in quel morbido buio. Il prato, nel verde riflesso delle stelle, sembra di vetro; Andrea scuote la scarpa, e il sasso ne cade con un lungo tintinno.
Fra poco si avvieranno a casa, e accenderanno il lume.
L’estate diveniva torbida; correnti afose arrivavano dal mezzogiorno, addensando sulla città un’aria cupa. Come ondate di sabbia in un deserto sospeso le nuvole si volgevano nel cielo, e i tuoni vi passavano come nere carovane. Poi la pioggia abbattendosi correva gorgogliando nei canali, si mischiava coi venti impolverati; e i passanti per fuggire a quella rapina, impalliditi strisciavano lungo il muro.
In uno di questi giorni temporaleschi si presentò alla casa della cucitrice una fanciulla che disse di essere la moglie di Andrea. Fu Lena che andò ad aprirle, e rimase a guardarla, stupefatta anche perché la sconosciuta rassomigliava singolarmente a lei stessa: aveva uguali gli zigomi rigonfi, uguali le labbra incurvate e molli. Ma in sua presenza si provava un balzo di gioia segreta. Si pensava ad uno strumento chiuso, nel quale, in silenzio, respirano innumerabili musiche, e alle regioni chiare dietro le nuvole, in cui il sole continua il suo cammino. La sua figura assai alta e grande era segnata da curve tenere e fanciullesche; aveva le gambe nude, e un abito di cotone rammendato e tutto fradicio di pioggia. La pelle che rabbrividiva, umida come un fiore, pareva prendere la sua tinta rosa da una rinchiusa e intima freschezza, come le carni di certe pitture, fatte essenzialmente di luci. Il viso, benché scarno, era tagliato in una forma dolce ed ingenua, e i larghi occhi aperti in quella penombra tempestosa apparivano di un turchino quasi viola; così i capelli rossi, non molto lunghi, tutti grondanti e stretti intorno al viso, avevano preso il colore violaceo della prugna.
Andrea non era in casa, e nessuno invitò la sconosciuta ad entrare, quando il passo di lui che saliva la scala si distinse nel rovescio continuo della pioggia. - Anna, - egli disse corrugando i sopraccigli e appoggiandosi al muro, ed ella un po’ smarrita, quasi a prevenirlo, fece con la mano un cenno e sorrise. Egli guardava indeciso verso la cucina, ed Elvira ad occhi bassi ordinò alla figlia di seguirla in camera, per lasciar soli quei due; ma Lena, attraverso uno spiraglio dell’uscio, spiò sul pianerottolo verso di loro. - Ti ho trovato, -
diceva Anna ancora affannosa per la corsa sotto l’acqua. - Vieni. Ho preso una casa per noi. Ho pure la chiave -. E mostrò in trionfo una enorme chiave di ferro; ma da quel suo parlare in fretta e per prima traspariva non so quale paura. E infatti Andrea, immobile di fronte a lei, sembrava sul punto di prorompere in un’ira che gli ribolliva nel petto. Lo si capiva dal suo frequente e soffocato respiro, dai sopraccigli aggrottati, e dal moto convulso delle sue labbra.
- Perché sei venuta? - cominciò con voce legata e interrotta, - ti dissi… - e ad un tratto singhiozzò e rise. - Anna! - gridò inginocchiandosi. - Sei venuta! Cara, benedetta, mammina mia! - E fra lunghi gridi e singulti infantili si stringeva alle sue gambe nude nascondendole il volto nella veste.
Ella scosse appena il capo dai capelli pesanti di pioggia, e i suoi occhi rimanevano chini su di lui, con uno sguardo in cui si univano misteriosamente una dolce beffa, una protezione e una pena. Aveva la mano piccola, e con questa manina gli strizzò i capelli: - Quanta pioggia hai preso, - disse. Per un poco seguitò a guardarlo, e le sue labbra impallidite si coloravano in un leggero moto che sembrava un sorriso; a un tratto invece il mento le si agitò in un principio di pianto, ed ella spaurita, volgendo intorno gli occhi selvatici e ombrosi, si nascose la bocca col pugno: - Andiamo, dunque, - esortò a voce bassa, battendo la grossa chiave sulla spalla di Andrea.
Già l’umida ombra scendendo nascondeva i visi, così che gli ultimi riflessi del giorno si raccoglievano sulla sua veste chiara. Allora, chiamata Elvira, ella gravemente domandò:
- Vi dobbiamo forse del denaro? - e sulla tavola furono fatti i conti. - Ecco, - disse Anna, alla fine. E, tranquilla e attenta, trasse dal seno un fazzoletto di cui sciolse quasi con religione le cocche annodate. Poi con una cert’aria di fanciullesca noncuranza e di orgoglio porse il denaro ad Elvira; e questa se lo infilò nella manica e ritornò in camera al suo lavoro. Intanto Andrea, con disordinata furia, empiva la valigia dalle molte etichette.
Silenzioso fu l’addio. Anna ed Andrea parevano confusi, arrossendo si intrecciavano l’uno con l’altro le dita, e finalmente si ritrassero. Volgendosi al viso di Lena, che sbiancato sporgeva dal buio, Andrea sorrise timidamente e salutò con la mano. Pochi minuti dopo la loro partenza, la pioggia si infittì sul tetto, e parve che la casa oscillasse travolta da vaste mura d’acqua che vi crollavano sopra come ondate su di una nave. Lena credeva di scorgere quei due camminare fuori nel torrente delle strade senza che i loro piedi toccassero l’acqua. «Le ha detto, - ripensava, - cara, le ha detto benedetta, le ha detto mammina». E con ammirazione ripeteva fra sé: Anna, quanto sei bella! Nessuna cosa le appariva reale in quel momento; intorno a lei per la cucina buia gli oggetti albeggiavano un poco nei lampi interrotti, e subito ricadevano, come immagini balenanti di uno specchio. A un tratto ella decise di seguire Anna ed Andrea, e a tastoni discese la scala; ma nebulose colonne d’acqua precipitavano sui fanali accesi ed appannati che in quel punto si spensero; e simile ad una belva acciecata la notte si avventò sulla soglia.
Come in quella beata sera dello schiaffo, Lena si sedette sullo scalino, in lagrime. Tanto sola e desolata si sentiva, da non trovare neppure nel pianto uno sfogo, tutta scossa da freddi singulti che la facevano rabbrividire. Allora il rumore della pioggia le piacque, la persuase quasi con lusinghe, cullandola. Le parve, assopita, di essere nel suo letto; e fu la bellezza di Anna che venne a consolarla. Sempre più bella Anna diventava, e si confondeva con certe scene di paesi e di campagne intraviste nell’unico viaggio che Lena avesse fatto coi suoi, durante la prima infanzia. La sua voce e il colore dei suoi occhi si dilatavano e si sperdevano nel cerchio di orizzonti chiari in cui la luce, dopo essersi riversata in preda al vento su mari e giogaie, si riposava ora su brevi specchi d’acqua, all’ombra turchina delle rocce. Poi Anna di nuovo si accostava a lei; in piedi accanto al suo letto, veniva a spogliarla prima del sonno.
Con gesti attenti, e rumori smorzati di stoffe, cercava con le dita le asole del suo vestito, le sfilava gravemente le calze, in ginocchio, e le assestava la camiciola intiepidita addosso alle membra, sotto il lenzuolo. Simile all’affievolirsi di un suono si diradava e finiva quel morbido tocco; il volto piegato di Anna diceva: Buona notte, con voce fuggevole, pari ad ombra che dilegua.
- Anna! - ella chiamava, protendendosi. Ma in un dissolversi torpido di figure, quasi statue di cera, in luogo di Anna vedeva se stessa all’erta sull’angolo di una via: Andrea con atto furtivo, passandole accosto, le baciava la guancia.
Subito scuotendosi, si ritrovò tutta sola sul freddo scalino, e fissò davanti a sé, lucido ed immobile, il suo dolore. Prese allora a compiangere se stessa con tanto dolce pena, che chiudeva gli occhi e balbettava illanguidita, come sotto i baci. E di baci aveva voglia.
Ora la tempesta si acquietava, e fra le rade gocce soffiava un vento stanco e tiepido che odorava di polvere bagnata. Anche Lena si animava teneramente, come le foglie dopo la pioggia. - Andrea, -
ripeteva piano, - Andrea -. La straducola era buia, dall’osteria rumorosa usciva un chiarore rosso misto a fumo. - Lena, - chiamò l’oste con un bisbiglio di sulla porta. Ella gli si accostò, incerta e trepida, simile ad un passero che scuote le piume; e per guardarlo meglio, si faceva solecchio con le dita. - Vieni, vieni, - egli diceva, e in aria protettrice e benevola le posò una mano sulla spalla.
Nella stanza oblunga la luce piovente dal soffitto era oscurata da un alone di fumo e le ombre degli insetti che giravano in quest’alone ondeggiavano ingrandite nel piano del soffitto come uccelli sonnolenti. Un grosso gatto dagli occhi smorti strisciava lungo la parete sparsa di chiazze larghe ed umide su cui le mosche sbattevano le ali. Un gruppo di bevitori sedeva ad una delle tavole, fatte di un legno che pareva marcire nei vapori stagnanti del vino.
Il vino acerbo rosseggiava, delizia dei bevitori; Lena distinse fra questi il fabbro, gettato con aria indolente sulla panca, gli occhi brillanti fra le piccole rughe delle tempie. Accanto a lui, un giovane dal bianco petto scoperto, dalle fresche labbra. Uno, più in là, si rizzava come un predicatore, col dito teso; in fondo al suo volto infiammato gli occhi languivano umidi e folli. Un altro, dallo sguardo innocente velato da una patina di febbre, dal naso rincagnato, rideva felice agitando il suo collo rugoso.
A costui l’oste mormorò qualcosa, strizzando l’occhio; egli sbirciò Lena con un ridere astuto.
Lena era nel medesimo stato d’animo di una fanciulla che, dopo avere imparato a ballare nel suo salottino, col maestro di ballo, durante lunghi mesi, entra in società per la prima volta. Stordita dai riflessi delle lampade, timida per la sua lunga veste, arrossisce e si fa smorta, perché ha paura. Ma dall’orchestra viene una musica già udita e famigliare, che richiama le sue membra al gesto oramai noto e istintivo della danza. Con delizia ella cede, appoggiata al suo cavaliere, dimentica di se stessa; e il suo corpo la conduce a perdersi fra gli altri, sul facile cammino del suono.
Il cerchio dei fiati si stringeva intorno a Lena: il giovane la sogguardò nell’ebbrezza, in un modo fra affettuoso e sfrontato, e il predicatore la fissò con una ilare e strana passione. E Lena esitante, volubilmente piegandosi or verso l’uno or verso l’altro come una pianta amorosa ai soffi del vento, pensò ad un tratto, tutta perduta in sé: Vi amo, vi amo.
Già sentiva affiorare alle sue labbra quel ridere insinuante e innamorato. Già i rumori nelle sue orecchie si facevano armoniosi e riecheggiavano come battagli di campane; ogni parola, solidificandosi, assumeva la propria forma. Le parve a un certo punto che un’eco di canzone ribollisse nel vino, fermentasse nell’aria. -
Adesso ci canterà una canzonetta, - proponeva infatti l’oste, ammiccando, le dita infilate nella cinghia. - Vieni qua, ti darò una lira, una liretta, - disse quello dal naso rincagnato, asciugandosi le labbra col dorso della mano e tendendo il viso.
Ma il fabbro restava muto e noncurante, quasi non si accorgesse di nulla, e seguiva con gli occhi levati al soffitto i voli delle ombre.
Era lui che essa voleva. - Tu, dammi due lire, - mercanteggiò tutta tremante, e si curvò incontro a lui. La tavolata rumoreggiò. In un disordine di risate e di spinte, sghignazzando protesi, tutti la cercavano. Ed ella, tenera e gentile, si offerse. Allora, sola fra quei volti e quelle pupille, si trovò ad essere come una lepre o cerva, inseguita in caccia, che fugge attraverso paesi selvaggi. La paura che la incalza vela i suoi miti occhi; ma pure, non senza un piacere sbigottito, ella intravede nel panico quando il balenare di un fiume, quando la dolce ombra di un anfratto, o l’avventarsi dei tronchi e dei fogliami, o la pace di un lago. Dentro di lei queste forme fuggenti si riflettono rovesciate, un vertiginoso paesaggio fiammeggia nel suo cuore che trema: essa ne gode.
- Attenti, passa gente, - avvisò l’oste, di guardia sulla soglia; e aggiunse in un tono fra indulgente e sbrigativo: Va’, va’, piccina.
Ma il pallido viso di lei si adombrò: - Voglio i denari, - piagnucolò imbronciata e inquieta. Tutti le risero: - A te, amore, - disse il fabbro, e le gettò una moneta, che cadde sotto la panca di faccia.
Ella, avida, in fretta, si appiattì sotto la panca. Il gioco piaceva, le monete volavano per l’osteria: - Qua, là, vicino alla sedia! - la incitavano tutti fra le risa; ed ella, ansimante ed attenta, quando balzando con un breve salto, quando accucciandosi carponi, si impadroniva delle monete. Alla fine, si levò tutta ridente; e, chiudendo i denari nel pugno, con la mano libera si ravviò le ciocche spioventi sulla fronte e si tolse la polvere dai ginocchi.
Fuori, le parve di volare, battendo nell’aria come un insetto stordito: ciò perché aveva bevuto pochi sorsi di vino. - Che m’importa di Andrea, - si disse alzando una spalla, con un ridere esultante. E invece di tornare a casa, si addentrò a suo capriccio nei vicoli che, dopo la tempesta, erano immersi in una specie di trepida attesa. Qua una banderuola strideva al vento, là un uscio chiudendosi per la notte cigolava sui cardini, altrove un cane dalla testa bassa si avviava ai suoi torbidi sonni, o un carrettiere si assopiva, arrovesciato sul carro. Ma a lei pareva di aggirarsi per quei luoghi straniera, come chi scende per la prima volta ad un porto e vaga oziosamente in attesa di risalire sul piroscafo. Ed ecco, ad un tratto gridò per lo stupore. Il suo vagabondare l’aveva condotta alle soglie della città. Ella riconosceva il suo sogno, i luoghi di Andrea. Intorno a lei si apriva una piazza rotonda, cinta di candidi colonnati; i cavalli di marmo fermati al galoppo volgevano indietro le teste, le statue piegavano sull’omero il bianco profilo, lungo i porticati angioli e pargoli danzando sostenevano gli archi. Lena stava per inginocchiarsi dinanzi a quella santa apparizione notturna.
Ma il vino le dava coraggio: ella entrò nella città, come un giovane uccello dalle piume variopinte che un mattino ha scoperto l’ardente foresta autunnale. Camminò fra i musaici, figuranti pavoni e gigli d’oro, e già le pareva di vedersi, grande, passeggiare sotto quei portici. Vestita di abiti regali, rossi e cerulei, simile alla fenice delle montagne, ad una vaga fiera. Di sotto gli archi, di fra i colonnati, voci innamorate la chiamavano, si spegnevano sonnolente e sazie, e qua e là fuggiva il suo proprio riso. «Colombella mia».
Vide le acque, che cadevano senza tregua dalle gole di strane belve; irraggiungibili in cima alle gradinate, vide le fronti delle chiese dai graziosi rosoni. Finché si fermò per riposarsi. Era l’ora che le statue insonni spiavano dalle alte groppe, di sotto la visiera, l’arrivo dell’alba. E la città sollevava faticosamente le membra di marmo, riapriva gli occhi opachi al fastidio della luce.
Tale fu per Lena l’entrata nella città dell’inferno.
Fine…