Le due sorelle si rassomigliavano molto nel viso bianco dalle labbra stirate, dalle orbite peste; e si sarebbe detto che un intimo accordo esistesse fra loro a giudicare dai gusti comuni e dai prolungati colloqui. Ma una segreta e rabbiosa antipatia, la stessa che può nascere fra due rinchiusi nella medesima prigione, si rivelava in certi loro litigi che spesso diventavano zuffe. Le due sorelle si sgraffiavano, si strappavano i capelli; e Candida strillava dalla sua sedia: Gioacchino! Gioacchino!

Per lunghe ore del giorno, esse mormoravano dei loro concittadini, dei quali pareva conoscessero ogni moto, ogni più nascosto pensiero, e sopratutto di Valchiria, la sarta. Con un sorriso di sprezzo, gli occhi brillanti e strani, criticavano le sue maniere, le sue scarpettine dall’alto tacco, il suo viso infarinato: Valchiria, Valchiria, citavano ad ogni passo. E dalla finestra della cucina spiavano le uscite di lei, pallide e intente, chiacchierando a bassa voce:

- Si è cambiata pettinatura, per farsi vedere dal figlio del podestà. - Figurati se quello la vuole. La prende in giro.

Nessuna delle due si curava del padre, a cui volgevano le spalle, dimenticandone la presenza. Quasi sempre egli era là, sulla sedia di paglia accanto al suo lettuccio pieghevole, e non dava segno di vita.

Col passare dei giorni la sua coscienza si oscurava, tanto che egli non riusciva a rendersi conto né delle proprie azioni né di quelle altrui, e, timoroso di sbagliare, aveva la sensazione di aggirarsi per una landa brumosa in cui si scivola ad ogni passo. Preferiva dunque rimanersene sulla sua sedia, in confuse meditazioni che talvolta, mentre credeva durassero da pochi minuti, si erano prolungate invece per ore ed ore. Ma quasi sempre finiva col sonnecchiare, e per il freddo si svegliava di soprassalto e si accorgeva che già era discesa la notte e la cucina era invasa dal buio, mentre dai fornelli veniva un leggero calore di braci e il borbottio delle pentole.

Nella mente di Felice si dilatava sempre più, simile ad una macchia, il pensiero del male di Candida. Il rumore della poltrona a ruote lo incalzava e una voce gli gridava: Tu! Sei stato tu! La colpa è tua! Di continuo quella faccia enfiata fra i capelli grigi, quei due piedi immobili della figlia maggiore gli apparivano davanti ed egli nei momenti più lucidi fantasticava: Se potessi tornare indietro nel tempo quando essa era ancora nell’infanzia? Certo un segno del male futuro era visibile in lei e fu vera cecità non avvedersene per fermarlo in tempo. Forse, quando si sposò, una qualche maledizione pesava su lei per causa del padre. sempre la colpa dei padri tutto il male delle creature. La pietà lo rendeva muto davanti a Candida, ed egli avrebbe voluto confidarsi con qualcuno, ma nessuno gli badava.

Talvolta l’antico bisogno di sfogarsi, di ciarlare un poco, gli faceva sentire l’assenza degli amici di prima, il falegname e il portinaio, e allora il disagio e la noia l’opprimevano. L’unico suo piacere, e, si può dire ormai, l’unica sua ragione di vivere, schioccante come una bandiera in cima alla sua buia giornata, era la speranza di incontrare ancora il venditore ambulante. Egli stesso non capiva perché mai il solo pensiero di questo fanciullo subito lo sollevasse alla gioia: lo aveva appena intravisto una volta, e da allora per quanto, vincendo il suo timore, cercasse attento per tutte le vie, non era riuscito ad incontrarlo. Pure non cessava dallo sperare, e la sua speranza diventava a momenti la ferma certezza di un viaggiatore che, percorrendo nel treno una fumosa galleria, sa che presto si spalancherà di nuovo il golfo senza limiti, e il fiammeggiare delle rosse mura e degli aranceti.

Una mattina che le figlie lo avevano spedito al mercato del pesce il presentimento d’incontrare il fanciullo alla prossima svolta lo fece deviare; e tanto si attardò nel vagabondaggio che, giunto al mercato, trovò la vendita già chiusa. La merce era finita, e i venditori ripiegavano le loro tende e toglievano gli sgabelli e i canestri. Felice tremò, pensando ai rimproveri delle figlie. Spesso, al ritorno dalla spesa, esse avevano motivo di fargliene, ed egli balbettava scuse incomprensibili e crollava il capo come chi sa di essere in colpa. Ma ancora non gli era mai avvenuto di cadere in una colpa tanto grave. Senza osare di avviarsi a casa, reggendo la sporta vuota che oscillava al suo passo, egli errò per le strade qua e là, finché si trovò sulla spiaggia.

Questa era deserta, sulla sabbia ferrigna non vi erano che poche barche ormeggiate e vuote. Era la fine dell’estate, e l’acqua appariva di un cangiante colore invernale sotto il cielo tutto ricoperto da un’unica nube. Allo sguardo del vecchio, la pianura d’acqua si perdeva nei limiti di un orizzonte incerto. Ma, pochi istanti dopo essersi seduto sull’orlo di uno scafo, coi piedi nella sabbia, egli vide accostarsi alla riva una barca da pesca, dalle vele rosse battenti, e nel barcaiolo riconobbe il venditore di cipolle.

Stavolta egli era assai più giovane e gracile, quasi ancora un bambino, nude le braccia sottili nel costume succinto dei pescatori: e con gesto grazioso, noncurante e prodigo tendeva a Felice la sua rete. Nel far questo chinava da un lato il viso e abbassava le ciglia, col solito atteggiamento di raccolta malizia.

Con un tonfo la barca approdò, e Felice si accostò, trascinando i piedi singolarmente appesantiti. Vide allora che la barca era vuota, già il barcaiolo era andato via, certo infastidito per la lentezza di Felice nel percorrere quel breve tratto. Sole presenze, sulla spiaggia, erano i bei nomi di donna scritti sulle barche, i quali parevano riposare sull’orlo degli scafi in attesa di riprendere un ballo. Inoltre il pescatore aveva lasciato in dono la sua rete, guizzante di pesci ancor vivi; e tutti Felice li versò nella sua sporta, abbagliato dalle squame che splendevano come filigrana, oro e coralli.

- Ti sei forse incantato per la strada? - domandò Costanza al suo ritorno, - da più di un’ora sei fuori.

- Non si può utilizzarlo a nulla! - esclamò Candida. E Angelica gli strappò di mano la sporta dicendo bruscamente: Da’ qua, da’ qua.

Ella versò sulla tavola il contenuto della sporta, mentre il vecchio trepidando e pieno di meraviglia la guardava: - Ma è tutta roba fradicia! - disse la figlia con ripugnanza.

In realtà, ora anch’egli se ne accorgeva: e inebetito fissava quello che gli era parso un guizzante barbaglio di gemme colorate e invece, massa putrida e viscosa, si decomponeva sotto i suoi occhi.

Il suo sguardo si spense e il suo mento tremò come quello di un fanciullo ingannato. - rimbambito, oramai, - conclusero le donne alzando le spalle.

Dopo questo, esse decisero di togliergli l’incarico della spesa. Ed egli non ne soffrì, perché sentiva che quella fatica gli diventava troppo grave. Sempre più frequenti, improvvise cortine d’ombra gli calavano dinanzi, ed egli annaspava con gli occhi fissi e vitrei.

Oppure, mentre a stento camminava, ingombri immaginari gli sbarravano il passo e lo facevano arrestare smarrito in cerca di aiuto. I polpastrelli delle sue dita, divenuti lividi come le sue labbra, avevano quasi perduto il senso del tatto; e nel sonno, un ragno tesseva continuamente su lui tele impolverate, con un lamentoso ronzio.

Al desiderio di rivedere il venditore ambulante si mescolava ora una domanda e un rammarico: «Perché quella beffa?» si chiedeva il vecchio, dubbioso. Ma non per questo la sua brama era diminuita, si era anzi fatta più forte, giacché il vecchio sapeva che una spiegazione e una giustificazione potevano venirgli soltanto da lui.

Preparava lunghi discorsi da fargli nel prossimo incontro e li ripeteva fra sé a voce alta così che molti lo ritenevano pazzo. Le sue figliuole, considerandolo oramai qual’era, un peso inutile, lo trascuravano sempre più. Da qualche tempo, lasciavano che si rifacesse il letto da solo, e trovando disgustoso il suo contegno a tavola gli servivano il pasto in cucina. Qui egli mangiava col piatto sulle ginocchia. Era un piatto smaltato che le figlie, paurose di essere infette dal suo male, tenevano da parte per lui e che scrostandosi sull’orlo mostrava il ferro. Di solito le figlie serbavano per il vecchio soltanto i rifiuti della mensa; certi giorni non si curavano neppure di lavare il suo piatto e il nuovo cibo veniva mescolato ai vecchi avanzi.

Ma il vecchio non si curava di simili cose, assorto nel pensiero del fanciullo fuggitivo. Sorrideva quando ricordava quei floridi capelli, quel bruno e gentile viso e la chiara adolescenza di quel corpo. Contemplava estatico quest’immagine dentro se stesso: «Presto,

- pensava, - si ricorderà di me».

Nell’ultimo periodo lo prese la paura della luce; e allora, non rinunciando alla speranza di un nuovo incontro, si avvezzò ad uscire di notte. Le porte di alcune case restavano aperte, si vedevano famiglie raccolte per la cena, volti abbassati su cui guizzavano i riflessi dei fuochi. Ma presto tutte le porte si sprangavano, rari e muti i passanti attraversavano le strade e, ultime, rimanevano accese le luci vacillanti dei fanali nella nebbia notturna.

La nebbia leggera e torpida aderiva mollemente alle porte sprangate; e all’orecchio di Felice il suo stesso passo irregolare destava sul selciato un tale frastuono, che egli temeva da un momento all’altro di vedere le finestre spalancarsi e gli abitanti protestare contro di lui, sporgendo le teste vacillanti di sonno; e già di dietro le persiane e gli spioncini degli usci gli pareva di scorgere il brillare di quegli sguardi. Spesso si arrestava per riprender fiato e si appoggiava ad un muro; e una sera udì un passo leggero e vide, a poca distanza da lui, come un giorno che si apra improvviso nella notte, passare il fanciullo. Non portava addosso né la sua merce di venditore né i suoi strumenti da pesca, era nudo fino al ventre incavato, camminava svogliatamente assorto, girando gli occhi, e al passo di fra i cenci gli si scopriva la coscia. Tentando di affrettarsi, Felice lo chiamò; fu sicuro di averlo chiamato, sebbene egli stesso non potesse dire con quale nome. Ma nell’ombra nebbiosa, quasi scivolando, con un sorriso di aperta beffa sulle labbra umide e un po’ gonfie, l’altro scomparve ad un bivio, fra pallidi muri e marciapiedi su cui correvano rigagnoli d’acqua piovana. Affannando Felice si inoltrò fra le case, finché rivide la svelta figura all’ombra di una chiesa quadrata; ma, sempre indifferente al suo richiamo, quella scomparve di nuovo. Febbrilmente, quasi acciecato dall’ansia della fuga, chiamando l’altro con voce sempre più fioca, il vecchio si aggirava in quelle vie tortuose e fredde. Le sue labbra impallidite balbettavano parole inutili; del fanciullo fuggitivo egli riusciva soltanto a intravvedere quando lo snello ginocchio sollevato, quando i riccioli mossi dalla corsa e gli occhi arguti e lucenti. Mai l’angoscia e la speranza, mescolandosi, avevano scosso fino a quel punto il suo cuore.

Alla fine, preso da una vertigine subitanea, vide le case circostanti sui loro portici screpolati, farsi dure e bianche come sassi, e subito dopo sciogliersi come liquide ombre. Vacillando cercò la via di casa, ma essa gli parve un viaggio tanto sterminato, che all’ultimo quasi aveva dimenticato la mèta, e fu l’istinto che lo guidò. E nel momento in cui, come un ragazzo timoroso dei fantasmi, nascondeva il capo sotto la coperta, vide le masserizie della cucina illuminata imbrogliarsi e cadere sfilacciandosi quietamente sul suo letto, senza suono né peso.

Da quel giorno, divenuto vile, non osò più uscire di casa. Allora tutti i fantasmi che già lo avevano perseguitato nei giorni precedenti si raccolsero in cerchio intorno a lui. Più che mai la presenza di Candida gli pareva la sua condanna. Se per un momento se ne dimenticava, qualcuno con voce grave gli sussurrava negli orecchi: Non può muoversi! ed egli sobbalzava, inseguito dal rumore feltrato di quelle ruote. Nel sogno, simile ad una statua di gesso, gigantesca ed immota la figura di lei lo guardava. E sempre in preda a rimorsi crudeli se pure indeterminati, il vecchio cercava scampo come un malfattore. Gli pareva che urgesse chiedere perdono, ma non sapeva dove, né a chi. Talora si accostava ad una delle figlie, verso le quali sopratutto si sentiva colpevole, e sollevava la mano in un vago cenno: «Figlia mia…» avrebbe voluto incominciare. Ma alla vista di quell’inconsapevole e freddo volto non osava pronunciare nemmeno queste prime parole che forse gli avrebbero dato il coraggio di dire il resto. E rimaneva là con la mano sollevata e un’espressione ebete nel viso.

Forse, in chiesa, domani? Ma le chiese, con la ricca e solenne facciata, gli parevano tribunali, ed egli tremava al pensiero delle loro ombre accusatrici.

Intorno a lui si svolgevano fatti e discorsi che egli avvertiva come un insetto acciecato, dalle ali rotte, che giaccia in fondo ad un alveare, avvertirebbe il ronzio delle pecchie. I soliti litigi scoppiavano, e ad essi succedeva un mortale silenzio. Valchiria dava un ballo, le ragazze piagnucolavano di nascosto perché il cognato non voleva dare danaro per i vestiti, ed erano costrette a rinunciare alla festa: - Bella festa, poi, deve essere! - dicevano sdegnose.

Curvo sulla tavola di cucina, Gioacchino faceva dei conti. Viene Valchiria, con le grosse trecce castane semidisciolte, gongolante, grassoccia e piena di fossette; mostra il suo bianco vestito da ballo. - Il bianco sporca subito, - commentano Angelica e Costanza.

«Essere vecchio, aver sempre lavorato, - pensava Felice ad un tratto, come attirato da un risucchio alla superficie della vita, - e non poter comperare un vestito alle proprie figliole».

Ma questo breve lampo svaniva. Spesso gli pareva di essere nella sua bottega, tutti i rumori intorno si trasformavano nel brusio degli orologi che accarezzava il suo sopore come una lieve pioggia; ed erano a un tratto le voci di tutti i cittadini che gli rinfacciavano le sue colpe. Un congegno essenziale si era spezzato nella sua mente.

D’improvviso, le sue labbra pendevano fra i tratti rilasciati del volto, ed egli, dimenticati i fatti passati e presenti, errava in regioni lontanissime da cui, balbettando smarrito, a tentoni cercava la via del ritorno. Riposo e strazio gli dava il pensiero del bellissimo fanciullo che certo, mentre egli nella sua timorosa inerzia restava in cucina, usciva trionfalmente gridando la propria merce per le strade assolate, o, reggendo gli strumenti da pesca, si aggirava seminudo lungo la riva del mare.

Una sera, solo nel buio della cucina, Felice si sentì attirare dal quadrato di luce che dall’uscio accanto si proiettava nel corridoio.

Venivano di là, dove le figlie erano raccolte, frammenti di conversazione che egli beveva avidamente; e infine rizzatosi in piedi si avventurò verso quella luce. Dentro la stanza da pranzo, impaurito per la propria audacia, poiché da tempo non osava tali atti confidenziali, si sedette nel fondo, lontano da loro. Le figlie non dissero nulla, gli gettarono appena un’occhiata di sbieco, e subito ritornarono l’una alla sua lettura, le altre al loro cucito; ed egli si sentì grato e tranquillo: «Ebbene, - pensò, - posso dirmi soddisfatto. Ecco qui le mie tre figlie, raccolte in pace in una casa comoda». E, sebbene avesse le ossa indolenzite come un insonne, lo invase un riposante benessere. Ma il fruscìo della pagina voltata dalla figlia maggiore aveva un suono singolarmente grave, e con angoscia egli si fissò su quel corpo immobile e disfatto. «E’ questo il momento», decise, colto da un subito pensiero. E con un sorriso attonito incominciò: Candida…

Aveva appena incontrato gli occhi distratti di lei, che sentì le proprie membra gelarsi e irrigidirsi come pietra: - Aiuto, - mormorò con voce tanto soffocata che nessuno poté udirlo. Pure, mentre pronunciava questa parola, un dimenticato tepore lo avvertì della vicinanza di sua moglie, che egli non aveva mai amato e che ora, accostandosi e confondendosi in lui, gli dava la sensazione di salire ad una giovinezza improvvisa e intera. Il gelo di poco prima si mutò in una raffica tanto forte da renderlo sordo; col sangue che batteva, percosso da rapidi colpi, gli parve di tornare all’attimo in cui la sua prima figlia era stata concepita e a precipizio ne ripeté il nome. Una vita strana, impulsiva e carnale fioriva dalle sue stesse membra, quando stupito si accorse che non il viso della moglie era davanti a lui, ma quello del bel fanciullo, tutto ravvivato dalla giovinezza come da un lume, con gli occhi immemori e volti altrove e un ingenuo riso.

- Angelica! - gridò la figlia maggiore; e incerta come un bambino che fa i primi passi, sorridendo trasognata con gli occhi pieni di lagrime, a un tratto si drizzò sulla sua sedia. Con gesto prudente, fra le due sorelle che la sorreggevano, ella sogguardò il pavimento spaurita, e spinse timida un piede. - Cammino! - gridò. «Che Dio ti benedica», le disse all’orecchio la voce di suo padre. Ma le figlie si accorsero che il vecchio nel fondo della stanza era scivolato senza rumore dalla sua sedia, e giaceva a terra, con gli occhi serrati nel volto livido e magro.

Affettuoso, grande e florido come un figlio primogenito, nutrito dal padre, cresciuto al sole, il più amato, il fanciullo si chinava su lui, gli porgeva il braccio per condurlo al suo letto. Felice giacque là, ed ebbe sonno. Ma che avveniva? Gli saliva alla gola una fredda ripugnanza, che lo faceva rabbrividire e sudare, un acuto gelo gli morse mani e piedi; e insieme una felicità indicibile, un presentimento d’adolescenza lo invadeva perché, viva e quieta come un albero, la presenza del fanciullo era nella stanza. - Finalmente, -

disse Felice, - sei venuto a farmi compagnia.

Non avendo risposta: - Devi saperlo figlio mio, - aggiunse, - la bottega si spopola e si copre di polvere. Il piccone butta giù i palazzi, e chi vuoi che in un simile quartiere si preoccupi dell’orario? - Rise piano. - Molti fanno a meno dell’orologio, molti guardano a quelli delle stazioni, ascoltano l’ora dei campanili.

Conviene calare le saracinesche e ritirarsi dal commercio. La colpa è mia. La colpa è mia.

Qui si arrestò. Si accorgeva infatti troppo tardi che le parole del lungo discorso, un tempo familiare e caro alla sua consuetudine, gli si aggiravano soltanto nel cervello e nel fondo della gola, ma alle labbra non ne saliva che un gorgoglio indistinto e doloroso, un pullulare sordo come di acqua che bolle. Anche il loro significato si oscurò, si deformò nella sua memoria, e il murmure si disperse in un frastuono remoto. Forse il mare irrequieto si agitava senza tregua, o forse i boscaioli segavano assi nella foresta. Ma tutto era lontanissimo dalla solitudine dei sordi e dei ciechi. Soltanto adesso, con orrore, Felice si rendeva conto che ciò che era stato, i recenti sogni e prodigi e lo stesso splendido fantasma, tutto questo era la morte.

Già incosciente, egli gemette come una bestia o un fanciullo; ma il suo bellissimo amico venne a chiudergli le palpebre con la bocca amorosa, per rendergli benigno il passaggio.

La signora giovane

«Se davvero è così buona e bella come tutti mi dicono, - aveva detto finalmente la mamma dell’innamorato, - e se proprio vi volete bene, e allora sposala. Non importa poi che sia tanto povera; ne abbiamo noi per tutti e due».

Meravigliose erano queste parole; ma chi le diceva conservava nel dirle quel suo orgoglio nativo che poteva sembrare superbia o durezza. Era un’alta e candida signora, con gli occhi neri e lucenti, e quella energia che non si spegne nella vecchiaia, ma anzi acquista una maestà e una forza nuove. Così, quando la sposa era entrata in quella casa, che prima le sembrava un regno beato ed ora era la casa sua, si era sentita un po’ come la bambina che entra in collegio.

Davvero un certo sgomento l’aveva presa; ma ad ogni momento si ripeteva che lì insieme a lei abitava l’amato, quello che era stato il primo sogno della sua adolescenza ed ora l’aveva scelta per moglie. E lei non era più per nessuno la signorina Bianca, ma la signora Torresi. Tutti parlando di lei dicevano: «la signora Torresi», e questo era anche il nome di lui.

Queste realtà, che Bianca si ripeteva ad ogni momento, le parevano miracolo e ancora per la troppa gioia le facevano rimescolare il sangue. E non si confessava che in quella casa, da cui per la maggior parte del giorno suo marito era assente, ella si sentiva sperduta e sempre paurosa di sbagliare, al punto che spesso le veniva voglia di piangere.

Era arrivata lì col suo corredo di ragazza povera, messo insieme con gran sacrificio di suo padre: sei camicie, tre vestiti, sei sottovesti. Il padre, col suo vecchio orgoglio, aveva voluto pensare lui stesso al corredo della figliola, sebbene questa andasse sposa a un uomo ricco. Ed ella, ecco, ora nei cassetti dell’armadio antico, rimirava quel povero corredino che la faceva ripensare ai tempi di quando era fanciulla e stava con suo padre.

Allora ricordava gli appuntamenti dati di nascosto al fidanzato, e le passeggiate alla periferia, e i consigli delle amiche: - Bada, quello è ricco, non ti sposerà mai, si prende gioco di te -. E lei che rispondeva: - Non m’importa, io gli voglio bene e voglio amarlo.

Non ho paura, io -. E più tardi le bastava guardare il fidanzato negli occhi per sentire di nuovo la dolce fiducia nell’uomo e sicura camminargli a fianco.

Ella rimpiangeva quei tempi. L’ardore di allora aveva ceduto nel cuore di suo marito a un sentimento più fermo e più tranquillo. Egli pensava ora assiduamente alle sue proprietà, al lavoro e agli interessi, e lasciava a casa la moglie. Questa avrebbe voluto pensare a lui, occuparsi delle sue cose e quasi rimpiangeva di non essere una di quelle povere mogli che rammendano i vestiti dello sposo e gli preparano il pranzo. Ecco, in quella casa, quasi che ci fossero le fate, tutto era già fatto, tutto era in ordine e pronto per l’uso, senza che la piccola moglie se ne dovesse occupare. In realtà, era la mamma di lui che provvedeva a tutto, e, senza parere, dirigeva la servitù nei minimi particolari delle faccende. Fin dalla mattina presto, la testa bianca e l’alta figura nella sua vestaglia viola si movevano per le belle stanze; ma se la sposina voleva alzarsi, la suocera le diceva: - No no, rimani ancora a letto. I giovani debbono dormire -. E a colazione, se Bianca non aveva appetito, la suocera insisteva affinché le venisse versato più cibo nel piatto: - I giovani devono mangiare, - ripeteva: - tu sei così pallidina, hai bisogno di nutrirti.

Una bambina, proprio una bambina la credeva. E la servitù stessa non le dava nessuna importanza. Per tutti suo marito restava il signorino e lei la signora giovane o la signora piccola. Ma la signora era la madre. Questi servi, poi, erano per lo più già vecchi, e invecchiati in casa, pieni di esperienza; e a Bianca parevano saccenti. In loro presenza essa, non abituata a comandare, si sentiva confusa, e le pareva che quelli la disprezzassero. Certo sapevano che era povera, e che da fanciulla aveva cucinato ella stessa il pranzo per suo padre. Questo ella pensava, e non osava dare un ordine, chinando il capo appena quelli dicevano: - Così vuole la signora.

La vecchia madre a tutto pensava; perfino ai vestiti del figlio, e ai vestiti, alle pettinature di Bianca. Aveva chiamato delle modiste e delle sarte, e la giovane nuora stava lì ferma, fra tanti specchi, piegando il suo viso ancora di bambina, e non osava dire una parola.

Una bambola, le sembrava di essere. E la vecchia suocera, col suo gusto sicuro, con l’autorità del gesto e della voce, consigliava i colori e le fogge. Le sarte eseguivano senza fiatare. Quando poi lo sposo rideva d’orgoglio nei suoi begli occhi ammirando la moglie, questa non provava neppure una vera soddisfazione. Era la vecchia che aveva scelto ogni particolare e l’aveva vestita. Ed ella si era sentita più felice quando, tempo prima, il fidanzato, magari solo per indulgenza e compassione, lodava un suo povero cappellino e lei diceva: - L’ho fatto io.

Non era stata essa, per lui, la regina, l’oracolo? Ma ora, ad ogni cosa che lei diceva, se la vecchia era presente, egli sorrideva scuotendo il capo come si fa coi bambini e timidamente guardava sua madre. E quando le due signore uscivano per la strada, e la gente s’inchinava, Bianca pensava che non certo per lei s’inchinavano; non molto tempo era passato da quando tutti la vedevano col suo cappottino frusto e il canestro della spesa. No, no, era per la vecchia che s’inchinavano. E la vecchia sorrideva a tutti volgendo il capo, come una imperatrice; anche Bianca sorrideva, ma appena appena, e di un sorriso confuso.

Qualunque decisione si dovesse prendere, un viaggio o un acquisto, o magari una semplice passeggiata, il marito diceva: - Parliamone alla mamma -. Al punto che Bianca pensava: «tutto per la vecchia, il suo cuore, e niente per me. E si capisce! lei che pensa a tutto, per lui; mi crederà una buona a niente, lui».

Un giorno, a furia di pensare a queste cose, disperata, Bianca si chiuse nella soffitta e passò un’ora a piangere, a piangere. E la suocera che non la trovava, dopo vide subito quegli occhi rossi, e il pallore del viso. - Ma che hai? - le diceva:

- stai male? Andiamo, agnellino, ridi. I giovani debbono essere allegri. Su che ti sciuperai queste belle guance, - e per vederla sorridere le regalò una spilla d’oro.

«Nemmeno della mia tristezza - pensava Bianca - sono padrona io.

Non potrò piangere quanto mi pare e sciuparmi la faccia quanto mi pare? Di tutto deve immischiarsi, la vecchia».

Poi venne il tempo di preparare le fasce e un corredino coi bei corpetti, i baveri e le cuffie. Allora la vecchia si trasformò nel viso, una luce chiara la rivestiva, sulle guance le rinascevano i colori della giovinezza. Per il nipotino nuovo, ella rimetteva in luce i vecchi corpetti e le cuffiette del figlio. Una sposa, le pareva di essere. E Bianca non doveva affaticarsi né prendere il freddo, né quasi muoversi: doveva starsene là, come un’immagine sull’altare. vero che ora anche lei, insieme alla vecchia, cuciva il corredino per la creatura; e la vecchia sebbene anche ora volesse, come già esperta di queste cose, ammaestrare la giovane madre, tuttavia perdeva quella sua chiusa dignità, e si confidava, con le gote accese e gli occhi brillanti. Parlava del figlio quando era bambino, e del marito morto, e della guerra. Tutto raccontava di quei tempi; di quando essa era rimasta sola e da sola aveva nutrito ed educato il figlio.

Arrivò dunque il giorno della nascita, e, dal suo letto, Bianca vide avanzarsi la suocera che portava il bambino fra le braccia e, tutta lagrime, non faceva vista di piangere, ma anzi rideva. Così la vecchia portò il bambino, che già ella stessa aveva lavato e vestito di lino e merletti, sul letto della madre, e lo depose là. E il marito di Bianca venne a mirare la sua sposa e il figlio, mentre la vecchia silenziosa si ritraeva. A un tratto, fatta umile, ella si ritraeva da quei tre, quasi che il suo compito fosse finito e nessuno avesse più bisogno di lei. Pallida pallida vicino al figlio e al marito, Bianca girava gli occhi per la stanza, e là nel fondo la vide. A un tratto quella vecchia sola nell’angolo meno chiaro le parve incurvita e rimpicciolita, e chiusa in un cerchio nero, fuori della felicità di loro tre. Soltanto in quel momento Bianca si accorse di quanto in realtà amasse la vecchia. Parole confuse si levarono nel suo petto verso di lei: «Che Dio ti benedica, - pensò d’un tratto Bianca, - per la tua forza, per il figlio che hai fatto e cresciuto e poi dato a me, per la tua dignità e per la costanza con cui tu hai diretto la casa; che Dio ti benedica per la tua cara e vecchia fronte!»

In quel momento il bambino scuoteva le sue mani, al modo dei piccoli, e la vecchia, sola laggiù, neppur lo vedeva. - Guarda, -

diceva il marito a Bianca, - guarda! Già ti saluta e fa festa, già conosce la sua mamma.

- Non a me, - disse Bianca, - ma alla nonna fa festa, - e con un sorriso volse a quell’angolo la sua testa d’oro.

Le due sorelle

Le due Damasso, Lia ed Anna, sebbene già piuttosto vecchie, avevano sempre un innamorato per una. Si trattava per lo più di vecchi pensionati, vedovi, tutta gente a riposo, a cui le due sorelle donavano calzettine e cravatte e offrivano certi liquori fatti con l’erba. Mai passava, per loro, giorno che non fosse intiepidito dall’amore; ed essendo l’una grassottella e l’altra magra, non avevano rivalità fra loro, ma si scambiavano le tenere confidenze e andavano a braccetto.

Un inverno tutte e due si ammalarono di tifo e tutte e due guarirono sul principio di primavera. Si vide allora che il male aveva divorato a Lia quei pochi anni di amore che le restavano e l’aveva trasformata in una vecchia. Il viso, come si andava dicendo per la città, pareva un pane secco, i capelli caduti le avevano lasciato sul capo chiazze vuote, e perdeva i denti.

Nessun uomo la guardò più.

Invece Anna al posto dei capelli perduti si ritrovò vivaci riccioli corti, sulla sua magrezza malata risbocciarono fresche e rotonde membra, e perfino il riso le si illimpidì nella gola. Nel guardare batteva gentilmente le palpebre, camminava impettita come un grazioso anatroccolo.

E allora una guardia a cavallo s’innamorò di lei.

Egli passava sotto le finestre, batteva gli sproni, e con un gran gesto di saluto volgeva in su le sue guance rosse, i bei baffi castani. Non solo sapeva saltare gli ostacoli, ma altresì suonava il flauto. E aveva un’andatura così marziale da far tremare i vili, e un volto rubicondo di cherubino che addolciva il cuore alle madri.

Un giorno egli fu richiamato al Comando centrale nell’attesa di venir trasferito a nuova sede, e lasciando la città promise di scrivere subito il suo nuovo indirizzo. Il postino passava appunto nell’ora che Anna era fuori per le spese, e fu Lia che ricevette in consegna la lettera. Il cuore le si indurì come pietra, e, dopo averla letta, essa la stracciò coi suoi freddi polpastrelli e la gettò nella spazzatura.

Così Lia fece pure con la seconda e la terza lettera. Ogni giorno restava ad attendere il postino, bianca, dietro i vetri che il suo fiato ansioso appannava, e i suoi occhi scintillavano come per febbre. Al ritorno dalla spesa, Anna per orgoglio e pudore non osava chiedere, ma levava in su alla sorella gli occhi spauriti, e con un timido sorriso impallidiva. Lia restava silenziosa; di notte la sentiva smaniare e gemere piano come un bambino malato, ma taceva, fingendo di dormire.

Di giorno, per fierezza, Anna non si lamentava, non si confidava con la sorella. Forse scrisse di nascosto lettere che naturalmente non potevano arrivare. L’innamorato, nelle sue, sempre più dubitava e accusava, si faceva accorato; diceva che gli si spezzava il cuore:

«Perché l’amore mio non risponde? Forse sta male? O forse un fortunato rivale mi ha sostituito? Così presto!!!» Lia leggeva avidamente simili frasi, e tremando stracciava il foglio, attenta come una ladra. L’ultima lettera non diceva più «fiore mio d’aprile»

e non portava per firma «il tuo ragazzo che non ti scorda».

Diceva «perfida» e ripeteva che la donna è mentitrice, una piuma al vento, e che d’ora innanzi egli si dava tutto ai suoi doveri di guardia a cavallo.

Per la delusione, la giovinezza umiliata lasciava per sempre Anna, come al tramonto la luce si ritira pian piano da un’acqua. E

quell’anima sottile e ardente come fiamma che le dava la piega ai riccioli, alla carne il rosa e fossette al sorriso, quell’anima moriva, si accartocciava come un truciolo e al suo posto restava un secco, brutto nodo. Anna pure diventò vecchia e trista, e allora Lia poté riposarsi dal suo odio faticoso. Le due sorelle restavano insieme alla finestra, e tutto il giorno facevano pettegolezzi, sole sole.

Infanzia

Forse, simile a questa è l’infanzia degli eroi. Ma oggi nessuno è solo come Angelo, nato dalla serva allo stabilimento dei bagni, sul fiume. Non ha padre, e la serva, sempre occupata, lo depose quasi appena nato in una cuccia d’erba, sulla riva, da dove lo raccoglie soltanto all’ora del latte, e quand’è notte, all’ora di dormire. In quell’erba, Angelo cresce.

Sue madrine, che egli solo conobbe, furono le grandi maghe del fiume, dagli occhi verdi aperti, dai capelli d’acqua, dalla voce sperduta. Assorte e distese, come chi dorme, fuggono lungo la corrente; ma non si dimenticano di lui. Lo difendono dalle vespe e dai capitomboli e meravigliate guardano nel libro del suo destino, pieno di parole e figure stupende. Inventano per ninnarlo indicibili canzoni, che alternano coi suoni teneri, con le smorfie che piacciono all’età sua: «Povero Angelo, - dicono a volte, - come sei bruttino!»

E, tutte in coro, ridono.

Sullo spiazzo dello stabilimento, fra capanni di legna e paglia intrecciata, si aggirano spesso persone di cui Angelo vede con fastidio accostarsi i piedi polverosi. Quella gente infatti lo solleva palpeggiandolo fra gridi e stupori; ed egli scalpita, perché vuole tornare alla sua erba, e non vuole i loro baci.

Là dal basso, insegue fra balbettii rapiti il cammino del sole, e annaspa, nell’ansia di afferrare con le sue mani i frammenti di luce che danzano in giro. A volte, neri cavalli di nubi galoppano su di lui, e le piogge lo lavano tutto; ma l’aria fresca nata dagli arcobaleni lo asciuga. Col passare dei giorni, qualcuno provvede a dipingere i suoi occhi di un colore celeste, ad arrotondargli le guance e il corpo, e la sua pelle diventa una tenera e forte buccia.

In tal modo si avvera la promessa di una delle madrine che gli aveva detto: «Io ti farò bello».

Lungo il suo territorio, una valletta presso il galleggiante, dalle barche attraccate, si aggirano insetti con battiti di elitre e antenne. Oscillando al vento i girasoli perdono i semi disseccati, i petali rossi e neri dei papaveri volano, e i rami sottili degli alberi si protendono, percorsi da fremiti, con urto delle foglie.

Tutto questo fa una musica, sua delizia, che continua per lui quei concerti stellari finiti per sempre quando egli nacque. Con un sospiro, si addormenta, e le formiche, credendolo una montagna, gli passeggiano sopra. A volte sua madre tarda a venire, ed Angelo rimane là solo anche di notte, quando le ali dei fiori si piegano e arrivano per l’aria esseri impercettibili, che recano una lampada. Allora sulla corrente del fiume s’incurva il golfo della notte, percorso dai pesci di luce, dai navigli stellari. I carri fatti di stelle, le comete ronzanti, gli uccelli e le belve dalla coda di stelle, passano volando a sciami, gremiscono tutta l’aria. Dal fondo della loro camera subacquea le maghe cantano: «Buona notte, Angelo».

Anch’egli ha una sua nave per guidarsi nel sonno attraverso l’aerea città popolosa. Ma sua madre si accosta, taciturna se lo reca in collo, chiude l’uscio del capanno e gli porge il seno. Che cosa è sua madre per lui? Coi suoi capelli lunghi, e quell’amico selvatico aroma, è una foresta che gli dà riposo e ombra. una docile fonte. Non altro. Come una sosta del giovane cervo dentro la foresta dormiente, fra un pellegrinaggio e l’altro per valli e rovine; come il chinarsi alla fonte del cavallo vagabondo, che già scalpita nella voglia della prossima corsa: tali sono gli incontri fra Angelo e sua madre.

Un mistero li ha uniti; inconsapevoli essi ubbidiscono al mistero.

Senza domandarsene il perché, la madre lavora per sé e per lui. A volte, istupidita dal sonno e dalla stanchezza, umiliata dai rimbrotti della padrona, dimentica perfino l’esistenza del figlio. Ma più tardi l’appesantirsi del seno richiama alla sua mente quell’avida bocca.

Per lui, ogni risveglio segna l’approdo a nuovi paesi. Un giorno lo sorprese un’avventura strana: l’erba mossa dal vento gli toccò la gola, e a un tratto un fresco tumulto avvenne in lui, l’ala tremante del suo respiro lo levò in alto. Così nacque il suo primo riso; nessuno assisteva a tale prodigio beato; ma si dice che il sole camminando abbia detto: Guardate quell’omino che ride laggiù! (1).

La più bella avventura è, infine, questa. Una mattina un vecchio

«fiumarolo», uno di quegli uomini, vale a dire, che ad ogni stagione remano e nuotano, e si aggirano bruni lungo l’argine, propone ad Angelo una gita in barca. Chi tace acconsente. E presto Angelo, accoccolato nel fondo dello scafo, agitando le braccia, perduto in quella sua nuova festa del ridere, discende lungo il fiume. Ai suoi lati camminano rive in cui le foglie brune degli alberi si confondono in volo con le ali celesti dell’aria e gli occhi arguti del fiume si mirano in specchi tremanti. Ali e riflessi scherzano intorno ad Angelo; il vento ingenuo del mattino giuoca con lui; sulla corrente che rinchiude in sé le ombre colorate dell’argine, se ne vanno nuvole felici. Di quali idoli o mostri sono questi volti che guardano dalla terra, grandi, e svaniscono come nebbie? Qual è il nome degli uccelli e degli insetti che rossi girano al sole, come faville? Angelo non sa niente, e niente domanda; per questo ogni cosa, dimentica di se stessa, apre il cuore. Dietro i cespugli dell’argine, in cacce favolose si aggirano belve indolenti, e i cervi non toccano la terra.

Le età delle leggende si spiegano; luci ed acqua compongono cattedrali sospese e i Re Magi ne recano i loro doni. Il bosco violaceo dai lunghi rami è un organo che canta. Come gli angeli nei paradisi originari, ogni cosa porta in fronte la sua parola. un colloquio, una festa di Angelo e delle cose. Come ricordarsene più tardi?

Ma nel tempo di questo viaggio, la serva (è l’ora del latte), ha cercato Angelo. In ogni luogo lo ha cercato, timida, senza il coraggio di chiederne alla gente che pigra gode il sole. Poi si arrischia: - Hanno visto il pupo? - E tutti le rispondono di no.

Tendendo il viso bruno e sottile come un ramo secco, di tanto in tanto nella ricerca ella sogguarda la corrente, al modo spaurito di una bestia che difende i suoi cuccioli da un rapace. E alla fine il dubbio la getta in preda a una vertigine oscura. In realtà, inconsapevole come lo stelo che regge il fiore o la candela che porta in cima la sua fiamma, da quando le è nato il figlio, ella si è nutrita e consumata soltanto per lui. Ora che crede di averlo perduto, come avviene dinanzi alla morte, non sente più la vergogna di sé, che le faceva tenere la testa bassa. A tutti nemica, ma libera, grida e corre coi suoi piedi nudi, nel suo sudicio grembiule.

E i suoi occhi fissi parrebbero ciechi, ma ella ride come un’innamorata, appena, su dalla barca, le ritorna il suo Angelo.

Ora sono in due nella libera e regale solitudine; al di là di loro due soli c’è una povera folla di ombre. Tutta tremante, la donna riceve il figlio e lo chiama per nome. Ed Angelo, tornato dal viaggio, la riconosce! Essa è la sua patria. E questa voce è la stessa, un po’ roca, che a volte cantò per lui.

Ora a un tratto, da quelle trecce disfatte, dalle guance arrossate e scarne, dagli umili occhi che lagrimano viene a lui un richiamo nuovo, una letizia che non è né sapore né luce. Assai più bella che il nascere, e il ridere, e il viaggiare, si esalta come un volo di nuvole, accoglie come un nido. E insieme è fatta di quest’abito logoro della madre, del suo dolce petto. Qui, anima implume e tutta ansiosa di voli, si annida Angelo. Di tanto tripudio, egli avverte solo il confuso bisogno di incontrarsi in qualche modo con la madre.

E finalmente ride.

Così Angelo conobbe anche l’amore. Incantata, sua madre lo guardava. E l’uno e l’altra si baciarono quel loro riso.

Passarono fra tutta la gente. Ella pensava: «E’ mio». E forse l’erba si piegò dintorno, come quando, per primi, gli dei vi passarono.

NOTE:

(1) La frase che inizia con «ma si dice» (compreso il punto e virgola) fino a «laggiù!» è stata aggiunta a mano dalla Morante sul quaderno dove l’autrice incollava e conservava alcuni dei propri articoli.

Il gomitolo

Quando il signor Marco Brett chiese, uno dopo l’altro, sette figli al Signore, non prevedeva quello che sarebbe accaduto. Era un giovanotto ardito e pieno di risorse brillanti e i bambini possedevano, moltiplicate, le risorse brillanti di lui più quelle della madre. Avevano pupille nere e volubili, sorriso chiaro, e un meraviglioso linguaggio pieno di licenze poetiche e di grazie.

Durante il giorno (tutti sanno che egli faceva quattro o cinque mestieri) sia che salisse un’impalcatura o scrivesse a macchina, il signor Marco ridacchiava da solo pregustando la propria regale serata. Ritornato a casa, si sedeva in mezzo alla famiglia come in un teatro. Non c’erano soltanto la Commedia e la Favola per deliziarlo con la loro presenza, ma anche la Ambizione. Ché egli metteva in fila tutta la sua discendenza e già vedeva, al posto di quelle teste canore dai riccioli tintinnanti, ritratti di signori, come in una Galleria: Adolfo, barbuto in toga di giudice, Luigi, in divisa di generale, Giacomino, in solino e tuba, e le fanciulle tutte con lunghissimi veli di sposa:

- Che Dio mi conceda vita e salute, - ripeteva il signor Marco, battendosi il petto con occhi scintillanti, - e al resto ci penso io.

Qui, pur con amarezza, bisogna ammettere che in quel poema di piccole cantiche perfette che era la figliolanza del signor Brett si notava una macchia, una strana e inattesa stonatura. Forse un castigo per qualche grave colpa del signor Brett? Ma tutti sanno che era un giusto. O forse una distrazione di Dio, avvezzo ad ispirarsi alle tribù angeliche nell’inventare i piccoli Brett? Per carità, Dio non soffre di distrazioni. E allora non so che dire, ma una realtà rimane: Teresa era la terzogenita dei Brett. Diversa da tutti i fratelli, aveva capelli a frangia scolorati e lisci, occhi larghi e benigni come quelli di una pecora, ma velati da un’acqua torbida, bocca pallida e dischiusa. Pari ad una chioccia, Teresa se ne stava eternamente accovacciata in un angolo della cucina, senza mai cessare di svolgere e di riavvolgere un suo gomitolo di filo rosso.

Il giorno dell’avventura era pure spuntato per lei. Una volta (i Brett abitavano nel paese delle miniere, nel fumoso quartiere delle officine), qualcuno in casa aveva parlato di una pineta. Questa parola non solo aveva oltrepassato la soglia larga e fragile delle orecchie di Teresa, ma rimbalzando in quella piazza deserta e piena di nebbia che era l’anima di lei vi si era fermata per sempre nel centro come una fontana dalla colorata architettura. All’udirla, Teresa si era messa a ridere teneramente, come chi sogna, con una meraviglia sospesa. E la tremula cantilena della sua voce aveva pronunciato la frase memorabile: «Domani andiamo alla pineta».

Da allora, questa frase era stata quasi l’unica partecipazione di Teresa alle conversazioni familiari; senza cessare di occuparsi del suo gomitolo, essa la mormorava fra sé o la gettava quale timida offerta nel concilio dei suoi fratelli: - Do-mani andiamo alla pineta, - gorgheggiava incerta, col suo sorriso che pareva di una cieca.

- Chi sa, - si chiedeva talvolta la signora Brett, con lo sguardo di uno che non vede le cose intorno, ma un sentiero cupo scavato dentro di lui, - chi sa come se la immagina, Teresa, la pineta? - Forse come una chiesa con le colonne, - aveva suggerito la piccola Matilde, usando il linguaggio immaginoso proprio della famiglia.

Così stavano dunque le cose quando il signor Marco Brett fu chiamato a miglior vita. I fatti si svolsero nel seguente modo: un certo signor Luz impiegato (era una mattina di domenica), passeggiava leggendo il giornale. Il signor Marco Brett passava in bicicletta e, per evitare di travolgere il signor Luz, andò a sbattere contro un paracarro. Fu appunto questo paracarro che, picchiando contro la testa ricciuta di lui, ne scacciò per sempre l’anima, e quindi soppresse le serate famose della cucina Brett e scancellò dagli orizzonti futuri la Galleria di ritratti illustri profetizzata dal signor Brett sulle fronti dei suoi figli.

La vedova Brett cuciva e vendeva fazzoletti; ma il suo mestiere si rivelò presto insufficiente ai bisogni della famiglia. Spesso gli otto superstiti avevano per cena soltanto un’aringa o due patate crude; dormivano ammonticchiati per darsi, l’un l’altro, calore; e possedevano, fra tutti, un solo paio di scarpe, già di proprietà del signor Marco, da usarsi a turno e da legarsi con lo spago se il piede era troppo piccolo. Presto le anime dei piccoli Brett che prima, gioiose ed alate, si accendevano alla superficie dei loro occhi, finirono col rifugiarsi nel fondo di quelle pupille nere come bestiole selvatiche rintanate per paura dell’uomo. I rossi colori di frutto, già orgoglio del padre, lasciarono quelle guance avide e smunte; e al posto dei modi innocenti e liberi che erano stati la grazia gloriosa dei piccoli Brett, sopravvenne una diffidenza proterva, una viltà sempre all’erta. La sola che non cambiò fu Teresa, la quale, appena un poco impallidita, seguitava ad avvolgere il suo gomitolo e levando gli occhi col suo riso promettente e colmo di stupore balbettava: - Do-mani andiamo alla pineta!

- Sicuro, - diceva la signora Angela Brett. E quasi invidiava a Teresa, per gli altri sei figli quella beata solitudine.

In quei paesi, molte signore amano trascorrere la mattinata facendo commissioni. Una di tali signore un bel giorno, si accorse di non trovare più nel far commissioni quell’ebbrezza e quell’avventura che vagheggiava per i suoi giorni; e decise di sostituire il far commissioni con la beneficenza. Essa dunque si recava nei quartieri delle officine e calava nelle case come una giovane, loquace Befana.

Fu così che un giorno passò la soglia di casa Brett.

- Oh, quanti cari bambini, - essa incominciò, compiacente. E allora la signora Angela Brett fra timide reticenze e sospiri narrò la sua storia, e quella di suo marito. - Ma guarda, ma guarda, poveretta, -

disse la visitatrice, - sentite, bambini. Io conosco un signore molto molto simpatico, il quale possiede una casa molto molto carina detta

«L’altalena». In questa casa il mio buon amico raccoglie bambini orfani e poveri come voi e li tratta come figli di re. Ogni bambino ha il suo letto in una bella camera dipinta, mangia un buon pranzo e il dolce la domenica, legge bei libri e studia secondo la sua vocazione. Intorno alla casa c’è un giardino pieno di fontane e di alberi fruttiferi. E adesso per incarico del mio buon amico io devo scegliere uno fra voi sette e portarlo a lui.

Una lieve oscillazione si notò nel cerchio dei fratelli; ciascuno si piegava verso l’altro e lo guardava sottecchi, furbo e insieme diffidente. Una rivalità silenziosa, come una vibrazione elettrica, percorse l’aria. La pallida signora Brett aveva negli occhi sette rimpianti e sette invidie; vedeva ricomparire all’orizzonte la gloriosa Galleria del morto signor Brett, ma con un solo ritratto sdegnoso: Giudice o Consigliere? Fra tutti, si bilanciava

«L’altalena», d’oro e d’argento, aerea. E l’occhialino di tartaruga della visitatrice scrutava intorno con aria accorta: - Oh, che begli occhioni! - mormorava la signora, - oh, poveri angeli! E questa biondina quieta quieta? Di’ come ti chiami, cara?

- Do-mani andiamo alla pineta, - rispose Teresa con voce di pianto.

- Davvero! Sarà proprio magnifico. Ma io ti ho chiesto il tuo nome.

Rispondi alla signora -. A questo punto il fratello Adolfo credette bene d’intervenire battendo, con gesto significativo, sulla propria fronte le cinque dita raccolte. E la madre spiegò: - Signora, quella è un’infelice; non capisce.

- Ah, poverina, è idiota, - sussurrò, piena di comprensione, la signora, - povera anima, oh oh! E ripete che andranno alla pineta!

Com’è buffo! Che cos’è codest’oggetto che rigira nelle mani? Un gomitolino? Povera scimmietta, che ne diresti eh, di venire all’«Altalena»? - e la signora, con una parlantina svelta, intrattenne un poco a parte la madre Brett, spiegandole quanto fosse evidente che il caso più pietoso fra i sette era quello di Teresa, per cui Teresa appunto ella avrebbe portato via con sé. All’uscire di Teresa, gli occhi degli altri fratelli, come una turba di lupi, la seguirono famelici e neri. Vedevano la sorella partire lungo una scia che illuminava solo col suo riflesso il loro pallore. Poi si guardarono in faccia e chiusero l’uscio.

Né la facciata della cattedrale, né i viali di ribes, né gli orti della periferia, poterono distogliere Teresa dalla sua muta contemplazione del nulla. Introdotta nelle stanze solari e dipinte dell’«Altalena», si consolò, vedendo che anch’esse avevano quattro angoli; e in uno dei quattro angoli, col sospiro di un esiliato che ritrova la patria, si accoccolò.

- Do-mani andiamo alla pineta, - sussurrò con un altro sospiro.

A un tratto però si scosse e si guardò intorno smarrita, al modo di uno che riaffiora, in un subito risucchio, dalle acque del sonno.

Singhiozzi inconsolabili la squassarono, alternati con un rauco, monotono lamento. - Che succede? - ripetevano intorno a lei larve premurose; e credevano che piangesse per i fratelli rimasti a casa.

Ma anche i fratelli, per Teresa, erano larve come tutti gli altri, erranti nel torbido simulacro del mondo. Nessuno capiva il motivo del suo pianto: era per il gomitolo rosso, smarrito o sottratto durante il viaggio, che Teresa piangeva. L’anima di lei simile ad un uccello acciecato sbatteva contro alte pareti; né sole né luna potevano sostituire il gomitolo di filo rosso nel cieco labirinto di Teresa.

Peccato originale

La ragazza dormì, come al solito, nella stalla, sul fieno; assente da tutte le cose, e non ebbe sogni. I capelli arsi, crespi, di un rosso bruciato, sparsi indietro, e il sudore sulla fronte e nelle ascelle. Attraverso le inferriate il cielo lunare, che stagnava sul prato secco come un’acqua, entrava a riquadri lucenti. Scendendo per l’immoto chiarore, la magia filtrò nelle cose, ma la ragazza non la sentì. Invece si udirono le vacche muggire fievolmente nei loro sonni oscuri, e l’asina rossastra scosse le orecchie. I cavalli selvatici, spersi sulle erbe e le rocce, in preda all’incantesimo nitrirono e corsero; e gli uccelli si svegliarono, dilatando gli occhi tondi e stendendo le ali con uno strano fruscio.

La ragazza sentì solo, in mezzo alla notte, una trafittura sul labbro, come un morso. E quando si svegliò alla mattina, le streghe le avevano mangiato l’anima. La madre uscì spettinata, con urli e pianti e a tutti spiegava: Gli streghi! Gli streghi! Tutti corsero intorno alla ragazza rossa, e si segnarono. Essa pareva non vedere nessuno; camminava svagata e sonnambula, con le braccia rilasciate, e gli occhi appannati e fissi. Aveva una ferita, un piccolo grumo di sangue sul labbro; il corpetto le si apriva sul petto bianco venato; ma non se ne curava. Camminava innanzi, coi suoi piedi polverosi, e quegli altri si scostarono. Vedeva come in un pozzo le loro facce sovrapposte, corrose: in mezzo a fosse nere e a rughe, occhi morti, labbra pendenti, forme storte e maligne. Si accoccolò sui mattoni, lontano dal sole, e cominciò a farsi e disfarsi le trecce. Le galline, intorno, beccavano la sua veste sudicia, e la madre venne a lei e si curvò con gli occhi scintillanti e le labbra aperte e sbiancate; serrava i denti come se la volesse mordere: - Stanotte andrai da loro! Andrai a chiedergliela! Stanotte, al muro, a riprenderla! - e singhiozzava, mentre la ragazza, con un vago sorriso, scuoteva la testa in qua e in là, senza parlare.

Nella giornata estiva, sui campi scrosciò un’acqua torbida e calda, e poi venne la notte. La ragazza uscì sola. Nel cielo annuvolato si alternavano laghi tranquilli di luce nebbiosa e pesanti cumuli di tenebre. Sotto la luna, che di rado si scopriva al muoversi delle nubi, i rigagnoli si torcevano come bisce; la voce delle rane spezzata e rauca l’accompagnò dall’uscio della stalla all’alto muro.

E il fogliame dell’albero presso il muro, le parve un uccello nero assopito sul tronco.

Tutta la famiglia degli streghi era là; alti alti erano seduti sul muro e nelle luci interrotte si stendevano le loro ombre grandi come case. La vecchia aveva intorno al cranio, coperto di pochi capelli grigi che le scendevano sul collo, una corona che pareva di stagno.

Nella faccia tonda e gialla, simile a una mela raggrinzita, e sgorbiata dalle vene sanguigne, i suoi occhi erano chini, nascosti dalle palpebre senza cigli; e il labbro inferiore, pallido, spenzolava. Il corpo gigantesco e gonfio era coperto da una tonaca verdastra, e le mani si congiungevano sotto i risvolti delle ampie maniche. La vecchia pareva sorda e muta.

Il vecchio, invece, aveva un’aria allegra nel suo decrepito muso di cane. Portava con nobiltà la camicia bianca, i calzoncini gialli, il cappello dalla gran tesa rotonda, e scarpacce rotte, dalle suole pregne d’acqua. Aveva appesa al fianco una borsa floscia, ricamata di rosso, e in mano, trionfalmente, come un tirso, un ramo nudo con un ciuffo d’erba in cima. Vedendo la ragazza rise, e allora non parve più un cane, ma un rospo o un ranocchio che sollevasse la testa da una palude.

Il terzo era magro magro, ricciuto, vestito da pastore. Aveva le orecchie grandi e sporgenti, le ciglia lunghe, e i piedi nudi che parevano di creta. Quando la sua bocca rideva, le labbra sottili si stendevano e dagli occhi sprizzavano due aghi lucenti. Intorno alle pupille aveva due piccole aureole d’oro. Era vestito di velluti, di stracci, di pelli di capra. Anch’egli rise, vedendo la ragazza.

A questa le ginocchia si piegavano e prima di parlare batté i denti.

- Ridatemela, - biascicò umilmente, - ridatemela! - E in quel momento apparve la luna, e le tre ombre accorsero fino a lei, ed ella cercò di indietreggiare; ma su dalla terra erano sorte due mani oscure, e la ragazza radicava nella terra. Sul suo sangue passava una bufera di vento.

- Rivuole la sua anima! - abbaiò il vecchio. E la vecchia scosse il capo. I cavalli dalla notte fonda nitrirono. Allora il terzo si rizzò in piedi e la fissò.

- Io la strangolerò, la tua anima, - le disse. - La butterò giù con la scure, come un albero segnato.

La ragazza cadde in ginocchio davanti a lui, e piangeva, con una smorfia sulla bocca. Piangeva tanto da tremare e da sudare, finché, nel buio improvviso, le tre ombre sparirono. Quando la luna uscì di nuovo, non c’era che un’ombra delle tre. E il terzo, il ricciuto, si accostò, afferrò la ragazza per le spalle e la trasse fino al piede del muro. Da qualche parte lontana rise la voce del vecchio.

A giorno, quando essa tornò a casa, coi capelli fradici e sparsi di fieno, la madre non la riconobbe per figlia. - Via, svergognata, maledetta! - le gridò, e chiuse il cancello di legno.

La ragazza scese lungo la roccia, su cui lucevano specchi d’acqua piovana, e si rimirò in uno. Non si riconosceva, tanto la sua faccia di strega era bella. Il petto le pesava e sporgeva bianco dalla veste. I capelli rossi intorno alla faccia illuminata parevano foglie rosse intorno a un fiore. Ed ella riprese a discendere, senza voltarsi, ma chinandosi ogni tanto a raccogliere i papaveri per i suoi orecchi e per la sua cintura. E non la rividero più.

Il corriere

Viaggiavo di notte, sopra un sedile duro e senza neppure un cuscino da viaggio. Davanti a me era seduto un uomo altissimo, dalle ossa pungenti e dalle giunture nodose. Aveva grosse mani e grossi piedi, e, sotto sopraccigli a spazzola, occhi celesti le cui luci semispente si accendevano a tratti quasi con frenesia. Per molte ore della notte non parlò e rimase pressoché immobile nel suo angolo di sedile, vicino al finestrino. E neppure guardava fuori al paesaggio lunare, pieno di vento e di nubi; come viaggiatore esperto, a cui le strade più volte ripercorse non dicono nulla di nuovo.

Si sentiva in lui quasi una raccolta mania; ma nello stesso tempo intorno a lui pareva formarsi una zona di riposo. Il ronzante frastuono delle ruote, che per tutta la notte logorò con la sua monotona fatica le mie ossa di adolescente, e mi fece sobbalzare da brevissimi sonni inquieti, pareva comporsi intorno al gran corpo di lui come una musica di cui ciascuna nota è familiare, e quindi più grata. Compresi dopo che egli aveva fino allora taciuto per una sua paterna sollecitudine, volendo che dormissi. Accortosi poi che il sonno, dopo un fugace e sterile guizzare sulle mie palpebre, era svanito, e mi aveva lasciata in una attenta, nervosa prostrazione, pensò giunta l’ora di conversare. Ed egli stesso diede l’avvio.

Mi disse dunque di essere un corriere e di appartenere da molti anni ad una ditta che lo incaricava di trasportare merci da una città del Sud ad una del Nord. Non ricordo di qual merce si trattasse; ma ricordo l’orgoglio col quale il corriere mi spiegò essere il suo un lavoro di responsabilità e di fiducia.

Le due città fra le quali egli faceva la spola si trovavano quasi ai due opposti confini della nazione; ed essendo le commissioni quotidiane ed urgenti, l’uomo aveva appena il tempo, consegnata la merce, di lavarsi il viso e di ripartire col nuovo carico. E così via, da molti anni, in modo che, si può dire, il corriere passava la sua vita in treno. Ora, il suo corpo era tanto avvezzo al movimento e al rumore degli ingranaggi, che egli stesso andava a scegliersi proprio il sedile sotto il quale girava la ruota; e i suoi sensi parevano appagarsi nel ritmo insonne di quel giro.

E dormiva? Il corriere mi spiegò che un sonno vero non gli era mai concesso durante la settimana; ma la domenica, giorno di riposo, egli non viaggiava, e dalla mattina alla sera se ne stava a letto. Là gli veniva portato dalla moglie il pranzo domenicale; e là, sul morbido, fra lenzuola di bucato, egli dormiva per dieci o dodici ore, come immerso in un bagno generoso. Quasi mai gli accadeva di sognare; e se mai gli accadeva, per lo più sognava il suo mestiere, parendogli appunto di essere in treno col bagaglio delle merci. Di rado sognava il suo paese, non più rivisto dalla giovinezza: pianura di limpidi stagni e campi di grano.

Al suo risveglio, tutta la famiglia veniva intorno a lui; la moglie a parlargli degli affari, e i ragazzi a raccontare della scuola, e le figlie dei loro disegni. Nove figli aveva il corriere, quattro maschi e cinque femmine, delle quali due già sposate e madri. A questo punto, con una compiacenza grave, mi sottopose varie piccole fotografie: una bambina con le mani giunte e i veli della prima Comunione. - Questa, - mi spiegò, - è la mia penultima, Teresa -. Un soldato ritratto su sfondo monumentale, il ginocchio destro piegato e la mano appoggiata alla spalliera di una poltrona umbertina: - il terzo, Arturo -. E poi la figlia Anita da fidanzata, al braccio di un giovanotto ben chiomato, le due teste congiunte. - I colombelli, -

commentò il padre, nascondendo con l’arguzia l’intenerimento. In una fotografia poi si vedeva tutta la famiglia, quale era molti anni prima, coi ragazzi in fila, a scala, e Teresa ancora alla poppa. -

Tutta la Sacra Famiglia, - esclamò ammiccando il padre, - fuorché Vincenzina che ancora non c’era -. Nel dir questo, come un innamorato pudico del suo primo, casto amore, egli abbassò gli occhi per nasconderne l’improvviso illuminarsi. Capii che Vincenzina era la sorpresa e la festa della sua vita, qualcosa di troppo prezioso per lui. In atto di oramai conclusa amicizia e complicità, egli me ne mostrò l’effige: era una creaturina di forse quattro anni, in costume di ciociara. - bellissima, - dissi, e lo era infatti; e risi, per festeggiare la felicità che a quelle mie parole trasfigurò il corriere.

Stette ancora per qualche secondo a riguardarsi la figurina di sua figlia. Infine, dopo averla sfiorata con la mano quasi a toglierne le tracce di polvere o d’aria che potevano offuscargliela, se la ripose gelosamente nel portafogli logoro e gonfio. E pieno di confidente gratitudine stette dinanzi a me, poi, con tono schivo, in segno di estrema considerazione mi chiese se fossi una maestra.

Con l’alba, si avvicinava la stazione d’arrivo: il corriere doveva scendere una fermata prima di me. L’ombra notturna si scioglieva in torbidi vapori, e nelle prime luci scolorate mi apparve il pallore febbricitante del corriere fra i segni neri delle rughe, e i suoi occhi pieni di una strana, primordiale innocenza. In quella, si fece sulla soglia un giovanotto grave, alto e un po’ curvo. Con largo gesto di fiducia, quasi ad ammettermi nel cerchio dei suoi: - il mio secondo figlio, - disse l’uomo, - anche lui fa il corriere insieme con me -. Aiutandosi a vicenda, i due calarono giù certe grosse valige di fibra di cui si caricarono le spalle a modo dei facchini.

Intravedevo la stazione piovosa, le nebbie di quella città dove, ad un’altra stazione, anch’io fra poco avrei dovuto scendere; e spaurita nella mente ancor fanciullesca presentivo l’amarezza di esperienze ignote. Vidi il corriere e suo figlio allontanarsi sotto il carico, da cui le loro spalle non parevano umiliate, ma soltanto fatte pazienti. Così quei due dorsi curvi scomparvero sotto la grigia tettoia di ferro. Ma già mi pareva di vederli ricomparire, fra un’ora forse, sotto quella stessa tettoia, in attesa del treno diretto al Sud. E gli occhi celesti del corriere, pieni d’innocenza e di affetto, cercavano il sedile più prossimo alla ruota.

La matrigna

Dovevo fermarmi per ventiquattr’ore nella piccola città di P.

Questa città mi è rimasta nella mente per le sue vie strette e gli alti portoni i quali danno per lo più sopra un cortiletto ingombro di vecchi arredi, sedie spagliate e rifiuti che marciscono al sole e alla pioggia. Un uscio a un solo battente, quasi sempre aperto, dà sulle stanze del pianterreno, mentre una scaletta esterna di pietra grigiastra conduce al piano superiore.

Di tal genere appunto era la casa dove, mi avevano assicurato alla stazione, avrei potuto affittare una camera per la notte ad un prezzo inferiore che all’albergo. Portando io stessa la mia valigia salii la scaletta e bussai. Venne ad aprirmi un uomo il quale con voce tanto opaca e monotona da parere scortese disse che sì, c’era una camera; e riguardo al prezzo, prima vedessi la camera e poi se ne sarebbe parlato.

La camera non era diversa dalle altre dove già avevo dormito in quella provincia meridionale: sulle pareti una carta giallastra, a losanghe e fiorellini rosa; ritratti di morti e santi di cera sotto campane di vetro; cartoline illustrate e ritagli di giornali intorno allo specchio e sul muro; polverosi rami d’ulivo di chi sa quali remote Pasque. A tutto questo io, viaggiatrice povera e giovane, gettai solo uno sguardo distratto; e subito mi volsi all’uomo, che stava immobile presso l’uscio, per dirgli che andava bene.

Era un uomo sui cinquant’anni, tozzo e robusto, dalla grossa testa incassata fra le spalle. Sebbene fosse del tutto calvo, s’indovinava dal suo colorito smorto e sparso di lentiggini che i suoi capelli dovevano essere stati rossi. Aveva la fronte e il mento di una eccessiva grandezza, occhi larghi e bovini, grosse labbra pallide.

Raramente sollevava dagli occhi le palpebre per guardare in viso.

Tutto in lui, dagli sguardi furtivi al muover lento delle mani, al parlare basso e senza nessuna ricerca di simpatia, tutto rivelava l’avarizia, la testardaggine e la diffidenza.

Mentre ci accordavamo sul prezzo si udì nel corridoio uno scalpiccio frettoloso e comparvero tre ragazzetti, due maschi e una femmina, dai lisci capelli rossi e dalle guance pallide e lentigginose. Al modo del padre (una tale parentela si capiva a prima vista), se ne stavano sull’uscio scontrosi e taciturni; ma mentre l’uomo non guardava in viso, al contrario i loro occhiettini rossastri si puntavano su di me con furbizia e curiosità maligna. Ne fui subito intimidita; e accettai senza discutere le condizioni proposte, nel desiderio che quella compagnia se ne andasse, e mi lasciasse sola.

Sbrigate le mie faccende in città, mi ritirai nella mia camera per riposarmi. Grazie allo spessore di quei muri antichi, il torrido calore di fuori non penetrava nella casa; e già, grata di quella frescura, io stavo per chiudere gli occhi, quando mi scosse un rumore di voci nella stanza vicina, che per un uscio chiuso comunicava con la mia.

Si udì prima una vocetta sgraziata e dispettosa, in cui riconobbi la ragazzina dai capelli rossi; poi la voce bassa, minacciosa dell’uomo; infine un rumore di colpi. E a questi seguì un pianto timido, di un timbro assolutamente diverso; come, in un disordine di suoni stridenti, l’improvviso levarsi di una melodia da uno strumento musicale.

Tutto tacque di nuovo, e mi addormentai.

Alla mattina, mi svegliai qualche ora prima della partenza; e non avendo altro da fare in quella città, mi rassegnai ad attendere in camera l’ora del treno. Dal grande silenzio della casa capii che i ragazzi erano assenti, probabilmente a scuola. Fu bussato all’uscio, e una donna giovanissima entrò col vassoio della colazione. «La madre», pensai subito sebbene, guardandola, una tale supposizione mi apparisse assurda. Ella non dimostrava più di diciannove anni; e in tutte le sue membra piccole e rotonde, ancora quasi bambine, c’era la grazia nobile e tenera che si trova così spesso nelle popolane meridionali. Fra le belle trecce nere, il volto era piuttosto rotondo, con occhi neri ingenui e languidi: lunghissime le ciglia; le labbra ricurve e un po’ rigonfie. Pure a tanta grazia si mescolava un non so che di scolorato e di sciupato. Come negli angeli di pietra che se ne stanno sospesi all’aperto, fuori della cattedrale: le loro membra, pur conservando l’amorosa rotondità dei contorni, sono corrose dalla pioggia e dalla polvere, che le fa grige.

Anch’ella mi guardava incuriosita, ma non al modo malevolo dei ragazzi; bensì con una specie di stupore affettuoso, a cui si mescolava il fervore di un fanciullo che va incontro a un’avventura.

Certo le pareva strano che una donna come lei, della sua stessa età, viaggiasse per il mondo sola.

In atto di timida confidenza, mentr’io mangiavo si sedette in un angolo della camera. Forse perché di rado vedeva giovani donne sue simili, o non so per quali altre ragioni, è un fatto che in quella prima e ultima ora che trascorremmo insieme mi raccontò la sua storia. Si chiamava Ginevra, ed era figlia di gente poverissima; tanto povera, che ai suoi genitori era sembrata una fortuna, in un momento particolarmente arduo per loro, di poterla maritare ad un uomo più anziano di lei ma molto agiato, vedovo con tre figli piccoli: l’uomo appunto che avevo conosciuto il giorno prima. Suo marito, ella disse, era buono e non le faceva mancar nulla; ma purtroppo i bambini la odiavano, come matrigna. Se appena ella durante il giorno cercava di correggerli, essi, la sera l’accusavano al padre di violenze e di ingiustizie; e il marito, credendo ai figli, la rimproverava o la bastonava. Sulle matrigne corre una fama nera, e l’antipatia dei figliastri era comprensibile; ma ella non poteva rassegnarsi, e tutto avrebbe dato per conquistarli. Una notte aveva sognato che i ragazzi l’amavano, la festeggiavano e addirittura la chiamavano mamma; questo era stato un sogno. Pure ella accudiva a tutti e tre meglio che poteva, cercava di tenerli allegri e cuciva vestiti per loro; ma tutto riusciva inutile. Aveva, qualche giorno prima, offerto un cero alla Madonna: chi sa se questa, col suo Divin Figlio, le avrebbe fatto la grazia?

Nel dirmi tali cose, la matrigna scuoteva la testa, e i suoi grandi occhi, nel viso impallidito, si bagnarono di lagrime. Venne l’ora del treno, e lei stessa volle portare la mia valigia fin nella strada; in quel punto arrivarono correndo i tre figliastri, e sulla soglia la matrigna mi salutò. I tre bambini le si appendevano alle vesti, chi di qua e chi di là, traendola dentro la casa; e parevano tre formiche rosse che trasportassero insieme al formicaio una preda più grossa di loro.

La moglie brutta

Un bell’uomo aveva sposato una donna brutta, non certo per amore, ma per questioni di parentela, di eredità o non so bene di che cosa.

Davanti all’altare, la piccola donna brutta aveva detto: Sì, e aveva ascoltato il sacerdote che le imponeva: - Tu seguirai il tuo sposo dovunque egli crederà di porre la propria casa, e tu gli ubbidirai.

Ella sapeva, fin dall’infanzia, di essere brutta; e al tempo del suo fidanzamento, la madre e le sorelle l’avevano ammonita: - Bada, con la tua faccia è già una fortuna per te l’aver trovato un marito.

Non devi pretendere troppo da lui; è giovane, bello, ha il sangue nelle vene. Accontentati che ti rispetti e ti voglia bene a suo modo.

Chiedergli l’amore sarebbe uno sbaglio e ancor peggio voler limitare la sua libertà.

La donna aveva chiuso nella sua mente queste parole come una lezione da non dimenticarsi mai. Il giorno dopo le nozze, ella ripose in una cassapanca il bianco vestito del giorno prima, l’unico vestito leggiadro e sontuoso, da donna bella, che ella avesse indossato mai.

E da quel momento fu per il marito, più che una sposa, una madre, e in certi momenti una serva. Non si sarebbe mai detto che ella fosse più giovane di lui, quasi ancora una bambina, quando lo sposò. Con quegli occhi grandi nel viso troppo magro, dal naso troppo lungo, dalle labbra troppo sottili, ella pareva quasi una vecchia.

Il marito passava le sue ore di libertà nei caffè frequentati dalle donne belle, ai ricevimenti, alle danze. Spesso rientrava assai tardi la notte, ma la moglie non si lamentava mai. Essa trovava naturale che egli potesse vergognarsi di farsi accompagnare da lei, così brutta e goffa; e si vestiva sempre con certe giacchettine grigie e non si adornava, né si arricciava. Non che ciò le ripugnasse, ma capiva che sarebbe stato inutile, e perfino ridicolo. Le bastava che il marito non la beffasse né la disprezzasse; e non osava neppure di amarlo in segreto. Lo guardava con ammirazione dalla finestra ogni volta che egli, girando il suo bastoncino, usciva. E quando le vicine le dicevano: «Signora, che bel marito avete!», diventava tutta rossa dal piacere, per lui.

Egli si era abituato ed anche affezionato a quell’umile e tenera presenza. Qualche volta, confessiamolo, perfino l’obliava. E si stupiva di ritrovarla sempre là, docile e fedele, coi suoi capelli lisci e le scarpettine di pezza. A volte, divertito, le sorrideva.

Una volta, chi sa per quale sua fantasia o leggera follia, tornando da un viaggio le portò un meraviglioso regalo. Era il primo, l’unico regalo di un simil genere che ella avesse avuto mai; e nel riceverlo, le sue pallide manine tremarono convulse. Erano due orecchini in forma di fiore, fatti di turchesi, e, nel centro, il posto del pistillo era segnato da un rubino. Ella diventò tutta rossa, e rise piano, e corse nella sua camera; non osò neppure provarsi quei due fiorellini all’orecchio, essendo il suo viso indegno di loro. Ma li guardò fermi e tutti lucenti nella propria palma, e pianse su loro, e, Signore Iddio, li baciò. Poi li rinchiuse in una cassettina foderata di bambagia.

I primi giorni, spesso il marito le chiedeva: - Perché non ti metti i tuoi orecchini di turchese? - ed ella allora scuoteva la testa con aria di mistero e di indulgenza. Pensava che il marito avrebbe notato ancor più la sua bruttezza vicino a due cose tanto leggiadre, e preferiva non mettersi gli orecchini. Li guardava però, più volte al giorno, e rimirava quei minuscoli e vaghi segni d’amore, e subito il suo cuore batteva e lagrime di gioia le salivano agli occhi.

Questo durò per sempre, anche quando il marito si dimenticò degli orecchini e non gliene parlò più.

Ai due sposi nacque una figlia, che rassomigliava non alla moglie, ma al marito, ed era quindi assai bella. Una simile felicità, per la moglie, fu più sognata che vissuta; ed anche la vita del marito cambiò. Via via che la bambina bella cresceva, e si faceva fanciulletta e poi giovinetta, il marito disertava le compagnie mondane di un tempo, per uscirsene a spasso con la sua cara figlia.

Nel volto di lei si rispecchiava, più tenera, più giovane ed innocente, la bellezza del padre. E chi li incontrava diceva:

«Sembrate fratello e sorella!» E quei due si ridevano l’un l’altro, e andavano felici. La madre, che aveva adornato la figlia e pettinati i riccioli di lei perché ognuno l’ammirasse quando usciva col padre, aspettava in casa che essi tornassero.

Ora ella cercava nelle botteghe stoffe, nastri e fantasie, e, cosa che mai per se stessa aveva fatto, conosceva il cambiare delle mode, e tutta la sua nuova sapienza usava soltanto per render più vaga la figlia. Ma neppure a questa, mai, confidò l’esistenza di quegli orecchini di turchese.

Presto un degno giovane chiese in isposa la figlia bella, e si arrivò al giorno delle nozze. Il padre, fiero e felice, mostrava agli amici i regali, e niente gli pareva abbastanza ricco per la sua figliola: avrebbe spiccato le stelle dal cielo per cingerne quel collo bianco. Infine, ricordandosi, disse alla moglie: - E quegli orecchini di turchese, quei begli orecchini che ti portai tanti anni fa, e che tu non hai messo mai, perché non li dài a Patrizia?

La moglie balbettò subito: - Sì, sì, - e corse in camera; e, come un bambino che per ubbidire alla madre cede il suo più caro gioco, porse alla figlia i due piccoli fiori celesti. Poi si ritrasse, tutta rossa in viso; e subito dopo, impallidita, cominciò a lagrimare.

Tutti credevano che piangesse di commozione per la figlia che andava a nozze; e non sapevano che invece, in quel momento, ella piangeva per i suoi gioielli, gli orecchini di turchese.

La moglie di Antonio

Il nostro Antonio è diventato vecchio. Cerca di fingere il contrario e fedelmente, la sera del sabato, ci porta fino alla villa il canestro delle verdure. Tutti possono vedere che le sue mani dalle vene gonfie, posato il canestro, incominciano a tremare, e Antonio se le nasconde in fretta dietro il dorso, timidamente sorridendo a destra e a sinistra, nel suo modo fuggitivo e mansueto. Nessuno, per discrezione, gli chiede di sua moglie, ché la sorte di costei è tale da tenersi celata. Antonio se ne va, udiamo i suoi zoccoli battere sulle pietre del viottolo. Pure ancora, da qualche angolo della cucina, le luci alate degli occhi di Antonio ci inseguono, celesti e interrogative, e appannate già dalla morte.

Con la morte di Antonio cesserà finalmente l’umile e incosciente domanda degli occhi di lui, che a volte ci perseguita fin dentro il nostro sonno; e lo strano segno della vita di Antonio, sempre inspiegato, si cancellerà dal cielo della notte.

Da principio la vita non mostrò ad Antonio, come suol dirsi, un volto diverso che a tutti gli altri; se non, anzi, più chiaro, fresco e campestre come una viola, con begli occhi limpidi. E d’improvviso, lui che lo contemplava fiducioso ed amante vide un tale volto trasmutarsi in una maschera da teatro, di non umano pallore. Questo senza sua colpa, e così grave fu il mistero che Antonio ne diventò lo schiavo non cessando di chiedere all’incomprensibile riso e alla furia di quella maschera la grazia di una risposta. Naturalmente, la sua testarda intenzione è stata vana.

Antonio era così semplice di spirito da concentrare tutta la sua vita in un sol punto, e questo fu l’amore per sua moglie. Non a caso abbiamo prima parlato della viola, essendo la moglie di Antonio, da fidanzata, simile a questo fiore, per la sua pelle bruna e la tenerezza delle pupille; e a tutti si svelava la sua anima affettuosa, intelligente e pudica.

Sposandola, Antonio pensava di farne cosa sua, di averne molti figli, di starle vicino e di proteggerla fino alla morte. Come faranno gli sposi secondo il Testamento che ha detto: «Sarete una sola carne». Non solo il corpo, ma anche lo spirito di sua moglie apparteneva a lui, che era tanto ingenuo e aperto da leggersi facilmente; e i suoi modi, sebbene il minimo fra essi fosse ad Antonio mirabile e caro al punto da farlo tremare, pure non la distinguevano dalle altre spose pari a lei.

Già dunque Antonio la credeva congiunta a sé per sempre, quando il mutamento incominciò. A molti queste cose parranno forse oscure, ma noi possiamo solo raccontarle come furono, senza tentare di spiegarle. Un giorno dunque Antonio trovò sua moglie che piangeva con gemiti sommessi; e a lui che interrogava, ella con gli occhi pesti e le gote sgualcite dalle lagrime, raccontò piena di spavento di essere perseguitata da un nemico. Disse che costui non era un uomo, bensì come un fumo gigantesco; il quale meditava il male di loro due, e la inseguiva nella strada. A tutte le amiche, in segreto, ella raccontò di questo fumo. Diventò vile e pallida, e un giorno sul punto di uscire gridò che non voleva oltrepassare il recinto, al di là del quale c’era un muro d’acqua che la minacciava. - Aiuto, - disse ad Antonio. Poi tremando inorridita gli chiese perché tutti i paesani storcessero la bocca, perché tutti avessero tante macchie sul viso.

Da quel giorno, ella non volle uscire di casa, e già tutti sapevano che era, come si dice laggiù, svanita. Di solito, chi svanisce è rinchiuso nell’ospedale dei pazzi; ma essendo il male di lei dolce ed innocuo, ad Antonio fu consentito di tenerla con sé.

Del resto, gli spiriti che l’avevano assalita non erano tutti ostili. A volte ella additava, dove non c’era nulla, volti festanti, lampade accese; di molti invisibili spettacoli rideva con piacere puerile, e mormorava nomi teneri a creature delle quali Antonio non avvertiva la presenza. Ad ogni giorno che passava, sua moglie si divideva da lui; presto fu ad una favolosa distanza, in una regione inaccessibile, e le sue pupille sfuggirono a quelle di Antonio; né parevano più di donna, ma di bestiola che si rintana. La sua persona impallidita e sfigurata era di una straniera; in essa la vera moglie di Antonio vaneggiava pari ad una larva che si dibatte in un sogno, e di cui la sostanza non potrà mai salire alla luce.

A questa larva Antonio, nella sua cocciuta ignoranza, spererà fino all’ultimo di ridare giorno e corpo. Dov’è sua moglie? Chi la possiede? Perché non torna indietro? Da principio egli tentò di seguirla nel viaggio, e di ricondurla a sé per vie famigliari. Ma si avvide che le sue proprie domande battevano contro la mente della moglie come contro una rupe, riecheggiando senza significato. E la risposta di lei veniva da lontano, né si accostava ad esse. Domanda e risposta parevano due vagabondi su due strade parallele: non si vedono fra loro e ciascuno leva il suo grido straniero all’altro.

Oppure due sonnambule, che muovono il passo nella notte, ad occhi chiusi, ciascuna dietro il proprio filo di fumo.

Antonio: Ti ricordi quando andammo in carrozza, e il vetturino capì subito che eravamo sposetti, e disse: Evviva! evviva!, e noi ridevamo per vergogna?

La moglie: Lo dico sempre io, che bisogna buttare il vino. Fra poco il fuoco arriva alle viti. Eh, si capiva, stanotte c’era la nebbia.

Antonio: Perché non mangi? La pasta non ti piace più? Ti piaceva tanto. Ti ricordi?

La moglie in segreto: Hanno rubato il confessionale. Io lo so chi è stato. Ma tanto, mi metto lo stesso gli orecchini, domenica.

Ella non poteva avere memorie o progetti, tanto era mutevole.

Sebbene si vedesse che la presenza di Antonio le era, chi sa come, familiare, non lo aveva mai più chiamato per nome, e certo non riconosceva né se stessa né lui. Si scolorava ad ogni cambiare di vento, e nei giorni di burrasca pareva un cavallo che si adombra; in quei giorni si rannicchiava, e stravolta gemeva di aver male alla testa per il peso della bassa nuvolaglia che passava sulla casa.

Stava sempre discinta e non voleva pettinarsi; egli stesso, con pazienza, le ravviava i bei capelli, ma essa subito se li scompigliava di nuovo.

Pure, una simile moglie, che non gli dava figli né provvedeva alla casa, Antonio seguitava ad amarla e a proteggerla. La sostituiva nelle faccende, le faceva da padre e da madre, e si forzava di secondarla. La sua voce, nel parlarle, aveva imparato a farsi così docile, che essa ne pareva placata. Gli stava accanto silenziosa per ore ed ore come una sensitiva chiusa nelle sue foglie. Poi pareva riposarsi nelle parole consolanti di lui come un bambino si assopisce alle nenie di cui non intende il significato.

La moglie: Hai staccato le foglie dalle viti, perché non le rubino?

Antonio: Sì, Anna, le ho staccate e le ho riposte in cucina, nel cassetto del pane.

La moglie scuotendo il capo: L’avevo detto io di buttare via tutto il vino, adesso il tempo cambia, e il fuoco prenderà le viti.

Antonio: Il vino l’ho buttato via; ma il fuoco non verrà, non aver paura, perché stanotte fa bel tempo.

La moglie: E allora domani mi porti da mia sorella in America?

Antonio: Ti ci porto Anna, appena arriva il permesso del Podestà.

Antonio continua a credere nel ritorno di sua moglie, e spesso vagheggia il punto in cui, d’improvviso, ella riaffiorerà di fra la tenebra e guardandolo con occhi di sposa lo chiamerà per nome. A volte si ferma a spiarla amorosamente nel sonno (sonno inquieto, o di una gravezza mortale), sperando ad ogni istante di sorprenderla in quel punto.

Secondo il pio costume conservato fin dall’infanzia, tutte le sere egli dice una preghiera e si fa il segno della Croce. Accade che al veder questo segno la moglie, nella sua mente insensata, rida.

Antonio trema, e chiede perdono a Dio per quella povera stolta, che non capisce quel che fa. Poi lui stesso le guida la mano dalla fronte al petto e dice per lei: - Nel nome del Padre e del Figliolo e dello Spirito Santo.

La lezione privata

All’età di tredici anni, avendo già la licenza ginnasiale e dieci in latino, decisi di far denaro dando lezioni private. Pregai dunque il nostro pizzicagnolo, signor Michele, di esporre in bottega un cartello adorno di un fiocco rosa sul quale io stessa avevo scritto in bella calligrafia: «S’impartiscono lezioni accuratissime in ogni materia. Prezzi modici».

Pochi giorni dopo mi si presentò un omaccione sui ventitre anni di nome Catani Fiorenzo il quale doveva dare gli esami d’assistente. Di quale assistenza si trattasse non ricordo bene; comunque sia, Fiorenzo dichiarò che aveva bisogno di una maestra a buon prezzo, e per questo veniva da me. Fissammo il costo a tre lire l’ora e cinquanta centesimi di supplemento per ogni mezz’ora in più; né il Signore Iddio nei suoi misteriosi disegni volle un movimento tellurico o altro improvviso cataclisma il quale m’impedisse di concludere detto accordo.

Fin dal giorno successivo tutti i pomeriggi mi affacciavo alla finestra in attesa dell’allievo. Se le compagne passavano a braccetto e mi chiedevano perché non scendessi anch’io, rispondevo con aria di sufficienza che io non avevo tempo da perdere; così com’esse mi vedevano, affacciata alla finestra, aspettavo appunto il mio scolaro.

E le guardavo come un padre maturo e provato guarderebbe folleggiare i suoi figliuoletti.

Il Catani arrivava sempre con grave ritardo, sbuffando come un treno. Aveva la nuca rapata, le mani grosse e piene di nodi, i sopraccigli folti, e ad ogni occasione bestemmiava e diceva «Porca miseria». Sdegnata per così deplorevole usanza, subito con fronte corrugata e magistrale io lo ammonii, ricordandogli che quella stanza era una scuola, e come tale era sacra, io stessa ero una insegnante, e dunque gli proibivo assolutamente imprecazioni e bestemmie alla mia presenza. Fiorenzo mi guardò di traverso, e da allora prese l’abitudine di battersi la bocca ad ogni bestemmia, in via di avvertimento o di ammenda; con una botta così brutale che io sobbalzavo sulla sedia.

Inoltre, stando seduto, egli occupava tutto lo spazio disponibile coi suoi proprii gomiti, piedi giganteschi e mani, costringendomi a ritirare sempre più in fondo nell’angolo della tavola, fin quasi a sparire. Mentre io profondevo la mia fervida eloquenza egli stava là, coi pugni puntati sulla tavola, in aspetto diffidente e rassegnato.

Si vedeva benissimo che non credeva nemmeno una parola di tutto quello che dicevo io.

Il primo giorno per passare il tempo alla meglio si mise a fumare certe sigarette puzzolenti; in seguito a questo fatto, prima della lezione successiva io stessa appesi al muro di fronte al posto dell’allievo un cartello con la scritta: «Vietato fumare». Egli lo lesse e da quel minuto, per quanto lo interrogassi e lo esortassi, si chiuse nel più testardo mutismo; alla fine, con aria pensosa e cupa, disse che non poteva rispondere né ascoltare nulla perché senza sigarette era un uomo morto, ogni potenza intellettuale lo abbandonava. Dovetti dunque, per porre termine a tale sciopero, ammettere nella stanza quei vapori appestati; e dietro richiesta dello scolaro gli procurai pure una sputacchiera.

Per quanto mi prodigassi a beneficio del mio scolaro, con piccole complicate invenzioni e nuovissimi sistemi d’insegnamento, egli non apprezzava né il mio metodo né la mia cultura umanistica e spesso, quale commento alle mie spiegazioni, si grattava furiosamente il capo o sputava. Occorre aggiungere che non si curava affatto di studiare per proprio conto né di scrivere le sue diligenze, stimando evidentemente l’ora passata con me quale il massimo contributo che lui potesse concedere al sapere. E del resto il poveretto faceva benissimo a non affaticarsi per niente, essendo per sua natura talmente idiota, che qualsiasi sforzo cerebrale gli sarebbe risultato vano. Occorre aggiungere a questo proposito che il Catani si distingueva da tutti gli altri scolari, ed anche dai più idioti, per un particolare e cioè:

Mentre gli altri scolari, quando non sanno rispondere ad una interrogazione dell’insegnante ovvero danno una risposta erronea restano avviliti e compunti e ad occhi bassi ascoltano i rimproveri che l’insegnante ritiene giusti ed opportuni, al contrario il mio scolaro attribuiva i propri insuccessi all’insufficienza dell’insegnamento. Ogni volta dunque che ad una mia domanda restava muto o rispondeva con qualche bestiale o strana follia, subito mi dardeggiava con uno sguardo carico di sprezzo e d’ira che significava: «Ma insomma, signori, a che gioco giochiamo?» E poi per tutto il resto della lezione rimaneva fosco e taciturno, come chi rumina sordamente una minaccia. Io trepidante e smorta raddoppiavo di zelo, e mi preparavo con diligenza ad ogni lezione, ricopiando tutte le regole e riempiendo di appunti certi quadernetti che poi gli sottoponevo, affinché si persuadesse che non ero un’insegnante senza scrupoli di coscienza. Ma il Catani sogguardava appena con aria disdegnosa quelle mie sudate pagine; finché una volta con voce gemente in cui tremava un rimprovero e un’ingiustizia patita mi disse che sua madre era una povera vedova, la quale per mandarlo a lezione faceva sacrifici. E invece ecco qua, dopo tante lezioni, lui non si sentiva né meglio né peggio di prima, stava proprio allo stesso punto. Sarebbe stato assai meglio se invece di venire a lezione fosse andato a giocare al calcio.

Tali dispiaceri venivano riscattati dalla prospettiva del compenso.

Difatti, poiché il Catani adducendo dissesti economici rimandava alla fine del mese il pagamento delle lezioni, la somma da lui dovutami si accresceva di tre lire ad ogni giorno che passava; e già vedevo comporsi all’orizzonte una cifra così favolosa, che spesso la notte rimanevo sveglia per fare disegni e progetti. E se in una vetrina vedevo ciondolare un bel cappellino rosso, adorno di brillantini e di piume, e con appesa la scritta «Modello», subito gelosamente pensavo:

«Adesso, quando mi paga il Catani, vengo e me lo compro». Oppure, al minimo contrasto con mia madre o con mio padre, in tono di minaccia e d’indipendenza gridavo: - Quando mi paga il Catani prendo il treno e me ne vado via -. Ma tutti questi disegni, giacché la somma dovutami cresceva ancora, vennero offuscati da un altro ben più brillante; vale a dire, dalla decisione di comperare, quando mi avesse pagata il Catani, una di quelle bestiole da collo dette «puzzole». Avevo sempre infatti guardato alle fanciulle che possedevano una puzzola come a creature patrizie e ricchissime, degne del massimo ossequio; e presto anch’io avrei posseduto una puzzola, dopo il pagamento del Catani.

Giunta adunque la sessione estiva, il mio scolaro venne esaminato da una Commissione; e nel giorno che i risultati dell’esame venivano esposti sotto vetro all’entrata della scuola, dissi al Catani di andare e di ricopiare accuratamente i voti da lui stesso riportati, e poi di venire a mostrarmeli. Attesi ansiosamente alla finestra, e infine il Catani apparve, in aspetto indifferente, né triste né allegro. - Com’è andata? - dissi. - Così e così, - mi rispose. -

Almeno c’è la sufficienza? - domandai. - Qui c’è scritto cinque e quattro, - disse il Catani estraendo un foglietto spiegazzato e porgendomelo come chi declini ogni responsabilità sulla faccenda. -

Cinque e quattro, - esclamai desolata. - Questo significa insufficienza. Non potrete fare l’assistente. - Be’, - disse, e in atteggiamento sprezzante e ingiurioso raccolse il suo berretto dalla sedia e dicendo che sua madre sarebbe venuta a regolare il conto se ne andò pari a colui che si scuote la polvere dai calzari.

Il giorno dopo venne una vecchietta in gramaglie, con un cartoccio giallo in mano; la quale, appena mi vide e saputo che appunto si trovava in presenza della maestra, scoppiò in singhiozzi ripetendo che era una povera vedova. E stringendomi le mani raccontò che suo marito morendo le aveva lasciato due soli beni: il suo figliolo Fiorenzo, di rara intelligenza ma fannullone, e una piccola macelleria che bastava appena alla sussistenza sua propria e del detto figlio Fiorenzo. E per una povera vedova sua pari nonché per l’orfano Fiorenzo, spendere una somma come quella dovutami significava ridursi al fallimento o alla fame. - Mentre che a voi, -

soggiunse la signora, - si vede benissimo, non manca niente. E che bei riccioli avete, che Dio vi benedica. Occhi celesti e capelli neri: bellezza rara. E i dentini separati: fortuna. Che possiate sposare un principe, cara amorosa, come grida il vostro merito -. A questo punto io mi misi a piangere, perché già capivo che non avrei potuto comperare la puzzola; e la signora credendo che piangessi per la pietà e la commozione incominciò a benedirmi e a dirmi angioletto, pecorella e colomba. Poi mi spiegò che non poteva pagare in denaro, ma conosceva il suo dovere e si permetteva di pagare in natura. E

appunto quel cartoccio giallo era per me, e conteneva più di un chilo di pagliata.

La pagliata è una speciale ghiottoneria che i macellai ricavano, credo bene, dai ruminanti. La signora s’informò quanti fossimo in famiglia:

- Cinque, - risposi fra le lagrime, - la mamma il papà e io e altri due fratelli più piccoli di me. - Allora, - dichiarò, - qua dentro c’è pagliata per tutta la famiglia -. Ringraziai, ma la signora non si decideva ad andarsene, come chi esita, o diffida, o sta sopra pensiero. Alla fine timidamente mi domandò se poteva vedere mia madre. Risposi che mia madre era occupata, ma esponesse pure a me il motivo. E la signora mi spiegò che avrebbe preferito consegnare il cartoccio proprio nelle mani di mia madre, perché non le pareva il caso di affidare tutta quella pagliata ad una ragazzina piccola come me.

Fra i singhiozzi le risposi che stesse tranquilla, perché la pagliata mi faceva schifo; e fin da piccola due cose al mondo mi avevano sempre fatto schifo: la pagliata e il lesso rifatto alla campagnola. Quindi volentieri avrei ceduto il suo dono agli altri della famiglia perché se lo mangiassero loro. All’udir questo la signora mi chiese tante scuse e tutta contenta mi benedisse un’altra volta e se ne andò.

Le ambiziose

Quando, alcuni anni fa, conobbi le Donato, il contrasto fra la madre e la figlia maggiore era già grave. Angela Donato, la madre vedova, aveva tre figlie, e di esse Concetta, la maggiore, era senza paragone la più bella di tutte; e la più somigliante alla stessa Angela. In quei paesi meridionali le donne maturano presto; umori dolci e pigri scorrono nel loro sangue, e i loro corpi si colmano, con la grassa venustà delle tuberose, mentre l’ardore primitivo degli occhi si copre di un velo tenero. Concetta era ancora adolescente, nella sua raggiante snellezza; Angela già declinava, e sul suo grasso, maestoso corpo di madre il suo volto dai tratti grandi e decisi appassiva languidamente. Ma simile, nella madre e nella figlia, era il sorriso, insieme civettuolo e fervido; simile la forma degli occhi, nei quali l’affettuosità si mescolava, direi quasi, alla ferocia; simile il taglio delle labbra che, quando non ridevano, rivelavano una volontà orgogliosa. E simili, infine, erano le mani, bianche, piene e morbide, così belle da parer mani di gran dama; madre e figlia se le curavano amorosamente, riserbando le faccende più rudi alle sorelle minori. Sia la madre che la figlia, erano, difatti, vanitose, soprattutto nei riguardi delle loro mani bellissime. La madre soleva baciare quelle della figlia, ricordo, dando a ciascuna un bacio per ogni fossetta, un bacio per ogni dito; e di rimando la figlia baciava le mani della madre.

Entrambe, madre e figlia, avevano una voce fresca, alta e cantante; e fra le loro ambizioni c’era, appunto, quella di cantare; ma mentre la madre aveva sognato per sé i teatri, la figlia bramava di cantare in chiesa, nei cori delle suore, i mottetti sacri, accompagnata dall’organo. Tanto Concetta che Angela amavano le feste, la pompa; ma Angela vagheggiava i corsi affollati, le carrozze, i balli, i carnevali sulle piazze: mentre Concetta prediligeva le solennità nelle cattedrali, i gigli, le fiamme dei ceri, le leggende istoriate sui vetri. Ad Angela piacevano i bei vestiti, gli orecchini e le collane; Concetta si estasiava sulle pianete ricamate, sugli aurei tabernacoli, sulle ricche stole. Appunto qui stava il motivo di contrasto fra madre e figlia. Si aggiunga che, quando Concetta ebbe compiuto i quindici anni, sua madre incominciò a promettersi per la figlia un grandioso matrimonio, che portasse in casa quegli onori e quelle eleganze da lei sempre, e inutilmente, sospirati. E invece, Concetta, dopo aver parlato, con le suore, dello sposo celeste, non volle più saperne di nessun altro.

Già nel tempo della sua fanciullezza, a volte, trovandosi sola in una stanza, faceva udire fin nella stanza vicina lo schiocco gentile di certi suoi baci sonanti; e se ci si accostava a spiare di sulla soglia, la si vedeva gettar baci in aria, con sorrisi rapiti: quei baci erano diretti appunto al suo sposo prescelto, cioè al Signore.

La madre allora scuotendola per il braccio le diceva: - Ah, che cosa mi tocca di vedere, sciocca, insensata! - e Concetta, con occhi fiammeggianti d’ira, si liberava dalla stretta materna e fuggiva via.

Le quattro donne abitavano, nel centro del paese, e precisamente sulla Piazza Garibaldi, un appartamento di due piccole camere e cucina, con un balconcino che si affacciava sulla piazza. Le stanze erano adorne di quegli arazzi che vendono alle fiere i venditori ambulanti, raffiguranti la Madonna della Seggiola, o la Scoperta dell’America, o lo sbarco dei Mille in Sicilia. Inoltre, le pareti erano abbellite da ritagli di riviste, da vecchie fotografie e cartoline. Sui letti, erano stesi finti damaschi scarlatti. Non c’erano cameriere, e si pranzava in cucina, sotto un paralume di carta a smerli, a una tavola coperta da una tela incerata.

Quando io conobbi le Donato, Concetta era stata chiesta dal figlio del primo albergatore della città; e quest’offerta di matrimonio, quanto mai lusinghiera, aveva elettrizzato Angela. Già essa vedeva Concetta installata nell’ingresso dell’albergo, in abito matronale di velluto, con una spilla di rubini, ad accogliere gli ospiti con affabile sovranità; e se stessa, con la stola di pelliccia, piume e braccialetti, in visita dalla figlia, a sventagliarsi nel salone.

Invece Concetta rifiutò l’offerta del figlio dell’albergatore. E la rifiutò come se un tale rifiuto fosse cosa ovvia e indiscussa: con una risolutezza così insultante, che il giovanotto da allora giurò alle Donato eterna inimicizia. Incontrando la vedova Donato, egli la oltrepassava con piglio marziale, senza salutarla; e lei, a sua volta, lo sogguardava sprezzantemente, come un’imperatrice. Presto colui si fidanzò con un’altra ragazza; e passava apposta con lei sotto le finestre delle Donato, per far vedere quanto era elegante la sua fidanzata, e che tacchi, e che collane portava. Gli occhi incupiti dall’invidia, un sorriso indifferente sulle labbra, la vedova Donato lo adocchiava di dietro i vetri. - Eh, altro che lui, ci vuole, per mia figlia! - mi diceva, con supremo disdegno, - mia figlia è nata per girare in macchina fuori-serie, con autista, balia e porte-enfant!

Si dava spesso il caso, a quel tempo, che le scarpette di Concetta, come pure quelle delle sue sorelle, fossero sfondate. Me ne accorgevo quando, in chiesa, Concetta stava in ginocchio davanti a me. Gli occhi di Concetta, in quel momento, non potevo vederli, ma sapevo che essi, vòlti all’altare, parevano spiccare il volo, come due minuscole allodole verso il sole. Concetta possedeva molte immagini sacre, donàtele dalle suore, che contemplava tutto il giorno: in una si vedeva una monachella, non più in vesti da suora, però, ma in bellissime vesti di broccato, nell’atto di tendere la mano verso un affabile fantolino, il quale, all’aureola che gli cingeva la testa, si rivelava per il Bambino Gesù. Questi, con un sorriso amoroso, le infilava nell’anulare grassoccio la fede d’oro, mentre un angelo in tunica gemmata, librato sopra di loro, le posava sul capo una ghirlanda. In un’altra immagine, si vedeva un altissimo colonnato, istoriato d’auree scene, davanti al quale un’umile monaca stringeva la destra al Re del Cielo; testimone di tali nozze era un vecchione che all’abito sontuoso si sarebbe detto un Papa, e che con gesto benevolo sospingeva la verginella verso lo Sposo. Le suore spiegavano a Concetta che il prezioso colonnato del fondo non era altro se non l’ingresso della magione (così esse si esprimevano), della magione che doveva accogliere la sposina. Le chiese, spiegavano le suore, anche le cattedrali scintillanti di musaici, sono soltanto le case di Dio sulla terra; figurarsi che cosa dev’essere la magione di Dio in cielo. Il pavimento è un prato di fiori, ma i fiori sono di brillanti; nei giardini, al posto degli uccelli, volano angeli, e le loro ali, grandi come quelle delle aquile, nel battere suonano armoniosamente. La vita passa in continui suoni, danze, e in sorrisi d’amore. Angeli nascosti fra gli alberi, come pastori, cantano le lodi della Sposina. Altri le porgono le vesti principesche, altri le infilano i sandali rabescati. Ella non ha che da levare un dito, e tutto il Paradiso tace per ascoltarla.

Concetta splendeva d’orgoglio all’udire simili promesse; tutti i giorni fuggiva di casa per andare dalle suore, e, appena fu maggiorenne, entrò nel convento. A quel tempo, io non ero al paese e non assistetti alla sua vestizione, alla quale la madre e le sorelle si rifiutarono di assistere. Quando ritornai, le sorelle a bassa voce mi ammonirono a non parlare mai di Concetta davanti ad Angela; questa aveva giurato che per lei la figlia non esisteva più. Una volta me la nominò; si pose una mano sul cuore, e, con occhi oscuri, col tono solenne di chi getta un anatema, disse: - Il mio cuore era tutto per quella figlia là, e adesso, al posto del cuore tengo ‘nu sasso -. Poi gettò uno sguardo di altèra commiserazione alle altre due figlie, che erano entrambe piccole e tozze, coi capelli lisci e grosse mani ruvide.

Concetta intanto, dal convento, faceva (diciamo così) la corte a sua madre. Spesso le mandava regali, a esempio pizze dolci sparse di confettini, che la madre ricusava di assaggiare, e lasciava a noi; oppure strisce di seta bianca, sulle quali era stato ricamato un cuore rosso trafitto da una freccia. Questi ricami, che portavano in casa l’odore domestico e pio dei monasteri, la madre con ironico disprezzo li gettava in un canto. A Pasqua, arrivò una scatola di cartone, contenente una monaca di pasta dolce, lunga più di quaranta centimetri, col saio di cioccolata. Era opera di tutto il convento, e non si era trascurato di legarle alla vita una cordicella da cui pendeva una minuscola croce coperta di confettini rossi. Alla vista di questa monaca, la madre fu invasa da una fredda furia, e ordinò di gettarla nel fuoco. Le due figlie ubbidirono, non senza rimpianto.

La sera, di dietro le grate del convento, Concetta, le mani in croce, guardava il cielo stellato. Ella fantasticava che le stelle fossero le finestre illuminate della sua futura magione, e cercava d’indovinare quale, fra esse, appartenesse alla camera del suo sposo.

Concetta aveva ormai ventitre anni. Fu a quel tempo che si ammalò di tifo e morì.

Le sorelle vennero a trovarmi affannose, dicendomi che Concetta era entrata in agonia, e pregandomi di persuadere la madre a visitarla, almeno adesso. Corsi alla casa della vedova, ma subito capii che Angela s’era già persuasa, e solo per capriccio s’impuntava e pretendeva di farsi pregare. Con pupille scintillanti, due macchie vermiglie sulle gote, mi precedette verso il convento, e, senza neppure salutare la suora portinaia, con aria di padrona salì alla cella di sua figlia. Alle suore che bisbigliando le si accostavano, aveva l’aria di dire: «Scostatevi, mia figlia è mia, io sola ho il diritto di piangerla». Si avvicinò al letto, e coi modi teatrali, ardenti, che le mie paesane hanno nel dolore, esclamò: - Ah, Concettella mia, Concettè! - e, inginocchiatasi presso il letto della figlia, le prese la manina e la coprì di fitti baci.

A Concetta, per non dar peso alla sua testa affaticata, erano state tolte le bende di suora; i suoi capelli corti erano tutti a riccioli, come quelli dei bambini. Ma sebbene il suo viso fosse smagrito, si vedeva che il male l’aveva colta sul punto che la sua bellezza ormai maturava e si espandeva, come avviene in quei paesi alle spose. Il suo petto grande e florido affannava sotto il lenzuolo, il suo viso, dai languenti occhi cerchiati, aveva il pallore caldo e ricco dei gelsomini, di fra le labbra scolorite a ogni fiato apparivano i denti belli e minuti, di una grazia animalesca, ma leggermente ombrati dalla malattia.

- Muore come una santa, - mi disse la madre superiora scuotendo il capo. Angela udì, e gettò sulla superiora uno sguardo inviperito, di rivale. Poi si aggrappò a quel povero lettuccio di ferro, e con voce stridente, singhiozzando, prese a rimproverare sua figlia: - Com’eri bella, figlietta mia! - le disse, - ah, com’eri bella! Eri un giardino di rose. Un gran signore dovevi sposare, e non essere morta in questa cameruccia. Ah, figlia del mio sangue, sangue mio, chi ti ha ammazzata? Con tua madre dovevi restare, che ti baciava la tua bella bocca e non ti faceva morire. Eri tutta bellezza, che piedini avevi, che manucce preziose! Concetta, Concetta, ritorna con tua madre!

Tutte intorno tacevamo, come a uno spettacolo. Ma Concetta non dava nessun segno di accorgersi di sua madre. Apriva adesso, leggermente, le labbra, a un sorriso affaticato ed estatico, ma balenante ancora di una inesprimibile civetteria. E con una voce puerile e quasi spenta, sottile come una ragnatela, incominciò a dire:

- Vedo, vedo…

Tutte intorno sospendemmo il fiato. Ella piegava i cigli, con aria amorosa, e appena si udiva la sua voce che sospirava: - Vedo un prato di gigli, vedo i santi e gli angeli. Questo bel palazzo, è mio, Signore! Che bel palazzo, quante corone, per me… - Parve interrompersi, quasi cercasse parole di ringraziamento; la sua bocca era rimasta socchiusa, ma taceva. Vidi che intorno le sue compagne suore avevano un’aria trionfante, di vincitrici; guardai la gentile mano di Concetta che, inanimata oramai, giaceva sul lenzuolo, e mi accorsi che le sue unghie, dalla graziosa forma ovale, erano di un colore violaceo. Angela pareva annichilita; il suo volto silenzioso era esangue come quello di sua figlia, ma lo bagnavano fitte, pesanti lagrime. Ella lasciò la mano di Concetta, e si coprì il viso; quando si rialzò, aveva gli occhi asciutti, un’espressione dignitosa e dura.

Poco dopo, ella dava ordini nel convento per i funerali di Concetta, che avrebbe voluto sontuosi: - Mia figlia era una signora! -

dichiarò, con alterigia, alle suore che, in quel monastero, quasi tutte erano figlie di contadini e di artigiani. Esse ascoltavano a testa china, e annuivano umilmente, quasi fossero al cospetto della Madre Badessa.

Così ci ritirammo, lasciando alle suore del convento, secondo le usanze, il compito di vegliare sulla compagna. La quale fu rivestita degli abiti che la facevano riconoscere quale suora di Dio: la gonna nera, il crocifisso di legno, il soggolo, le ali nere sul capo. Il giorno dopo, rimasta in casa di Angela per non lasciar sola la madre, vidi dalla finestra la partenza di Concetta verso la sua sospirata magione. Per quanto si fosse fatto, il funerale era modesto. Sulla bara, portata a braccia, non c’erano che tre piccole corone, dietro venivano i preti oranti, e poi le suore; e infine le Figlie di Maria nei loro candidi veli da spose sotto cui si vedevano i vestitini di fustagno di tutti i giorni, a colori vivaci, e gli stivaletti sdruciti.

Angela guardava il corteo con occhi fissi; a un tratto, agitando il pugno chiuso, disse: - Non ha avuto neppure una parola per sua madre!

- e volse il viso da un lato, in un singhiozzo amaro di gelosia. Poi tornò a osservare attentamente le corone, il seguito, le Figlie di Maria coi lunghi ceri in mano; nei suoi occhi, dietro il velo vitreo delle lagrime, c’era una curiosità mondana, e sulla sua bocca apparve un broncio infantile che presto si risolse in una furia di pianto: -

Ah, la mia bella figlia! - gridò con vanità disperata, - guardala come se ne va! E invece le toccherebbero onori da regina! Era una regina, quell’infame! - E con disdegno si ritirò dalla finestra, mentre la breve processione scompariva dietro Piazza Garibaldi.

Ricordo di un giovane

poco adatto alla vita

Da tempo ho finito i miei studi, sono ormai un uomo. Della maggior parte dei miei compagni di scuola, non so più nulla. Solo dei più fortunati, mi càpita, a volte, di leggere il nome sui giornali. Di altri, mi giungono occasionalmente notizie qualsiasi: che si è sposato, che fa l’impiegato, ecc. Di uno, infine, Filippo Moroni, ho saputo per caso che è morto ancora ragazzo, appena un paio d’anni dopo che avevamo terminato insieme gli studi liceali. E adesso, ripensando a questo compagno quale io lo conobbi allora, quasi concludo che la morte nel fiore dell’età fu per lui, forse, l’unica soluzione possibile.

Era un ragazzo esile, serio, unico figlio di un impiegatuccio, e orfano di madre. Suo padre era un ometto frettoloso, che si toglieva il cappello perfino per salutare noi scolari. Si vedeva bene che una reciproca fiducia e premura legava padre e figlio: il ragazzo era il più studioso della nostra classe, pur non superando, nell’intelligenza, il livello comune; e si capiva che studiava tanto per compensare suo padre che lo manteneva agli studi ed essere presto in grado di aiutarlo. Era timido e scontroso, adatto a essere beffato perché sgobbone e debole di muscoli. Ma in verità era così discreto, e faceva così poco avvertire la sua presenza, che quasi sempre lo lasciavamo in pace. Né lui cercava troppo la nostra compagnia, soprattutto, suppongo, per la ragione che in classe eravamo tutti di famiglia piuttosto agiata; e Filippo si reputava inferiore a noi.

C’era inoltre, nei suoi modi, nello sguardo dei suoi occhi miopi e nel suo sorriso schivo e insieme affettuoso, un che di così giovane, di così fresco e innocente, da disarmare la nostra cattiveria.

Il motivo principale per cui (nonostante la nostra tolleranza) non gli risparmiavamo, tuttavia, qualche beffa, era l’assenza, nella sua vita, di avventure galanti. Nella nostra classe maschile già tutti, giovani dai sedici ai diciotto anni, chi più chi meno potevamo vantarci di esperienze amorose. Ma in lui sembrava essersi incarnato -

nel nostro secolo! - uno di quei Cavalieri leggendari, per i quali la donna era una creatura di specie divina e quasi inaccessibile. Se una ragazzetta delle classi femminili gli rivolgeva per caso la parola, lui arrossiva, e sapeva rispondere soltanto con dei poveri balbettii.

Poi si allontanava (ancora stordito come dopo un incontro celeste) seguito dalle nostre risate: con quell’andatura dinoccolata di sgobbone, e il grosso pacco dei libri legato con una cinghia e penzolante dalla sua piccola mano infantile.

Si avvicinavano gli esami, e i miei parenti, diffidando del mio zelo, mi esortarono a studiare insieme a Filippo Moroni, la cui fama di diligenza correva fra le famiglie. Mi recavo dunque a studiare nella modestissima casa di Filippo tutti i pomeriggi. Il padre, all’ufficio in quell’ora, arrivava soltanto quando io stavo per congedarmi e mi salutava con profonde scappellate. All’arrivo, mi apriva l’uscio la serva, di poco più giovane di noi.

Era una fanciulla alta, dalla persona molle e pigra su gambe robuste. I capelli di un biondo scuro le si appesantivano sulla nuca in una crocchia lenta; e nel volto, rassomigliava agli antichi dipinti della Madonna, in ispecie per la forma degli occhi, di un azzurro fulgido e fisso, e così grandi da occupare quasi tutta la larghezza della fronte.

La sua voce era strascicata, ancora bambinesca; e fino dalla prima visita mi meravigliarono i suoi modi. La ragazza trattava Filippo come se lei stessa fosse la padrona, e lui il servo. Non soltanto Filippo non osava darle ordini di sorta, ma al contrario era lei stessa che lo chiamava in cucina con malgarbo per essere aiutata in qualche faccenda, come per esempio spostare un armadio o scaricare il carbone dai sacchi. E, dalla stanza vicina, io sentivo i rimbrotti con cui lo feriva perché maldestro, e così delicato e piccolo di persona. «Su, occhialone», gli diceva, alludendo alla sua miopia.

Oppure: «Che braccine! Mi sembrate un ragno». Talvolta lo chiamava

«Professore», ma per beffarlo.

Poiché un giorno per disgrazia si rovesciò l’inchiostro, le sue pupille dardeggiarono Filippo con una occhiata così severa, che il ragazzo arrossì di confusione, e gli tremarono le labbra. Poi, con premura, le assicurò che avrebbe rimediato lui stesso al guaio, e si dette a pulire le macchie, con giornali e stracci, proprio come se fosse un domestico alle dipendenze di lei.

Infine io lo rimproverai, sdegnato al vederlo così docile: - Perché non la metti a posto? - gli dissi, - farti trattare a questo modo da una servaccia, da una volgarissima sguattera!

- Non è volgarissima, - egli disse, in una vampa di rossore, e mi apparve così spaurito e offeso, da farmi capire che la amava.

Presto ne ebbi una riprova certa. Un giorno la ragazza comparve con agli orecchi due pendagli di brillanti, montati all’antica. - Oh, che eleganza, - le dissi, e lei, compiaciuta, abbassò quei suoi occhi meravigliosi senza dir niente. Più tardi, si sente infilare la chiave nell’uscio di casa, è certo Moroni padre… Ed ecco la ragazza, svelta, staccarsi gli orecchini e nasconderli nella tasca del grembiule. - Perché te li togli? - le chiesi stupito. Lei rise; e Filippo, con uno sguardo supplichevole, mi fece segno di tacere: -

Dopo, ti spiegherò tutto, - mi sussurrò.

Era chiaro che aveva deciso di confidarsi con me; e infatti, trovandoci noi due soli, mi spiegò che quegli orecchini erano l’unica eredità di sua madre, e che lui, all’insaputa di suo padre il quale ancora non si era accorto di nulla, li aveva sottratti da un cassetto e regalati alla ragazza. Perché l’amava! (E nel farmi questa confessione, pareva un febbricitante). Aveva perfino compiuto un voto (salire a piedi scalzi la Scala Santa di San Giovanni) per chiedere la grazia di piacerle… Si vedeva che il parlare della sua speranza lo rendeva esultante e quasi ubriaco. E fu con un fervore strano in lui così timido che mi chiese infine di giurargli il segreto su tutto questo. Ricordo che, nel suo vivo modo meridionale, mi disse:

- Giura, fratello mio.

Ma, nei giorni successivi, in lui fu notato un mutamento, e io lo notai prima degli altri. Appariva sempre più pallido e scarno, e si capiva che non era soltanto lo studio a consumarlo. Il suo nervosismo era tale, che spesso, nel dire le cose più semplici, le sue labbra tremavano quasi volesse piangere. Ed era tanto assorto in un suo pensiero, che talvolta, a una domanda, ti guardava smarrito, come chi, risvegliatosi appena dal sonno, non sa bene dove si trovi.

Intanto, seguitava a studiare con accanimento, ma con una fatica cieca, alla maniera di un povero soldato che, invece di buttarsi a riposare all’ombra, deve continuare a marciare per una interminabile strada afosa.

Io capii che soffriva d’amore, e lo interrogai; ma, invece di esaltarsi nella confidenza come l’altra volta, parve ritrarsi con disgusto dall’argomento della sua pena. Non tardai, però, a scoprire l’accaduto.

Un giorno, arrivato all’uscio di Filippo, sorpresi la ragazza che, sul punto di rientrare in casa, si congedava da un giovane robusto, all’aspetto un manovale, dalla nuca larga, braccia e collo nudi.

Costui non dimostrava più di diciotto anni, aveva un’aria seria e fanciullesca. La sua tinta bruna era evidentemente dovuta al sole, giacché i suoi occhi erano di un celeste vivo, e i suoi folti capelli erano biondi. Ora appunto, nel salutarlo, la ragazza si levò sulle punte dei piedi e, chinata un poco verso di sé la testa di lui, prese un riccio di quei biondi capelli, se lo avvolse per gioco intorno a un dito, e sorridendo lo baciò.

Intanto, io avevo bussato, Filippo aperse l’uscio, e ci vide tutti e tre. La ragazza, senza abbassare i suoi occhi lucenti, entrò in casa come nulla fosse.

Filippo, rosso in viso, non mi disse nulla da principio; ma quando avevamo già iniziato la nostra solita lezione, s’interruppe d’improvviso. Con volto mutato balbettò che io ormai sapevo tutto, e tanto valeva che sapessi il resto. Dunque, ecco che cosa aveva da farmi sapere: che lui aveva deciso di disfarsi del giovane operaio.

Tutte le sere costui soleva accompagnare la ragazza a casa; e una bella sera Filippo, fingendosi amico, l’avrebbe invitato ad accomodarsi e gli avrebbe offerto un bicchier di vino nel quale fosse stato, prima, versato un veleno mortale. A questo punto, Filippo mi domandò se, come suo solo amico, io volevo farmi suo complice col suggerirgli un veleno adatto e aiutarlo a procacciarselo. Si vedeva che già da tempo aveva sviluppato, fra sé, questo suo piano; a me venne da ridere, ma seppi nasconderlo.

- Ucciderlo? - dissi, - sei pazzo? A che ti servirebbe? Saresti condannato alla prigione a vita e lei non ti amerebbe per questo.

Bella forza ammazzare un altro a tradimento! Invece, - suggerii non senza perfidia, - se sei un uomo va’ a cercarlo, e battiti con lui.

La ragazza toccherà al vincitore. Così conquista le donne, un vero uomo.

Con simili parole lo persuasi, anzi gli infusi un nervoso entusiasmo.

- So il cantiere dove lavora, - disse. - Va’, dunque, - lo esortai. E

gli offersi di accompagnarlo io stesso fino nei pressi del cantiere.

Notai che, a questo punto, i suoi orecchi e le sue narici ebbero un trasalimento appena percettibile, come quello che hanno i conigli quando ci si avvicina troppo alla loro gabbia; ma subito dopo, rabbiosamente, dichiarò: - Ci vado -. Così lo vidi avviarsi; aveva un’andatura incerta come di barca in un mare burrascoso, e io lo attesi a duecento metri dal cantiere con una specie di divertimento malvagio: «Le prenderà, - pensavo, - ma forse no: il furore fa miracoli, qualche volta, anche nei passerotti come lui».

Infine ricomparve: «Porta ancora gli occhiali, - pensai, - vuol dire che non si è battuto». E del resto non appariva in lui nessun segno di lotta, né ferite, né abiti strappati, né lividi. Mi volse un sorriso effimero. - Com’è andata, - chiesi, - non l’hai visto? - Sì, l’ho visto, - balbettò a malincuore. - E allora non vi siete battuti.

- No, - rispose.

- Gli hai parlato, almeno? - No, - disse ancora.

A questo punto scoppiò a piangere. Da molti anni non vedevo un mio amico piangere, dal tempo della mia fanciullezza, e non sapevo che cosa fare per consolarlo. D’altra parte, mi accorsi che il suo pianto non era già più di amore, o di dolore o di odio, ma soltanto di umiliazione. E adesso, ripensando allo sguardo che mi volse sul punto di scoppiare in pianto, capisco che forse gli fu necessario morire così giovane.

Tempo di pace

I giorni si succedono, e la mia vita procede, regolare, onorata, comoda, in questa città di provincia dove sono nato. I miei concittadini, lo so, m’invidiano, e mi giudicano un uomo prediletto dalla sorte. Nessuno, difatti, potrebbe giudicare altrimenti, vedendomi ricco, giovane, fortunato nella carriera, e sposato ad una donna onesta che amai fin dall’infanzia. Perfino la guerra, questa insensata furia, mi ha risparmiato, al punto che né un membro della mia famiglia e parentela, né un frammento della mia ricchezza, non hanno subito alcun danno. Malgrado tutto questo, io mi domando sovente, pensando ai più miserabili abitatori di questa città colpita dalla guerra, se fra le loro vite ve ne sia una così disumana e senza scampo come la mia. Né m’avvedo, ragionando in tal modo, d’essere fatuo, non meno di tutti i miei pari viziati dalla fortuna: i quali usano spesso di credere il proprio male inimitabile, e anche della sventura vorrebbero farsi un privilegio.

Il mio male mi fu rivelato una notte, pochi anni fa, nel pieno della guerra. Da allora, s’io ripenso alla mia vita, la vedo separata in due zone distinte. La prima, anteriore a quella notte, è una specie di limbo nel quale io mi aggiro incosciente, frivolo, e presuntuoso, tanto che non posso, oggi, non vergognarmene; la seconda nella quale mi muovo tuttora, non chiude in sé altro che finzione, oscuro disordine, e vigliaccheria.

L’una di notte, ricordo era già suonata, ma io non potevo ancora dormire. M’inquietavano angoscia, paure, e domande senza risposta; ma, non senza pena, mi sforzavo di rimanere calmo e immobile, per non turbare il sonno di mia moglie, che dormiva al mio fianco. Ero sposato da pochi mesi; e, soprattutto negli ultimi tempi, mia moglie, di cui fin dall’infanzia conoscevo l’indole sensibile, mi appariva tanto mutata, da farmi temere per la sua salute. Anche allora, nel sonno, la sentivo agitarsi; e il pensiero che la persona da me più amata sulla terra, colei che per tutta la vita avevo sperato di rendere felice, era invece la vittima di una sofferenza che non le lasciava riposo neppure la notte; questo pensiero, fra gli altri, mi colmava d’incertezze e di rimorso. Anche di rimorso: poiché, pure non vedendo un possibile rimedio al male di lei, temevo di averne in parte la colpa.

Figli di due famiglie amiche, vicini di casa, compagni di studio, mia moglie e io siamo cresciuti insieme in questa città di provincia.

Lei era una scolara diligente; sebbene, per la sua femminea debolezza e per la fragilità della sua persona, non potesse dedicarsi troppo severamente agli studi. Devoto e forte, io sempre l’aiutai nelle sue lezioni, risparmiandole, quando era possibile, i compiti più faticosi. Né posso ricordarmi di un tempo in cui, vagheggiando una moglie ideale, non me la figurassi con le fattezze di Elisa. Un corpo morbido e magro; una pelle fin troppo bianca; una treccia di pesanti, nerissimi capelli; e un viso dai tratti sottili, dalle vene trasparenti, in cui gli occhi rilucevano cangianti e umidi, e le labbra vermiglie palpitavano nel parlare: ecco Elisa, ecco tutte le donne, per me. I genitori di lei, stimandomi, per la mia nascita e per il mio carattere, un fidanzato degno, guardavano con benevolenza il nostro innocente amore. Mia madre, rimasta vedova assai presto, e senza altri figli, non mi contrastava in nulla. Per cui, cresciuto nell’agiatezza e nella speranza, e ignorante come ero del mondo, fuori di questo angolo provinciale, avevo creduto che la vita, gentile e docile come la mia fidanzata bambina, dovesse piegarsi ai miei gusti, e concedermi i suoi favori, fino all’ultimo giorno. Del resto, domandavo io forse qualcosa che non fosse umano e giusto?

Compiere i miei studi, aver successo nella mia professione, accogliere la donna prescelta, come legittima moglie, nella nostra casa antica, dove mio padre era morto; essere stimato dai miei concittadini, come lo erano stati mio padre, mio nonno e il padre di lui; questo mi bastava, tali erano le ambizioni della mia giovinezza, e pareva che nulla dovesse contrastarle. Mia madre morì che ancora non avevo terminato gli studi; rimasto solo padrone della mia casa, io guadagnai la laurea, e mi sposai con Elisa nella chiesa stessa dove la mia cara morta aveva ricevuto l’ultima benedizione. Al tempo del mio matrimonio, era già scoppiata la guerra; ma io non avevo, per motivi di famiglia, obblighi militari, e, i primi tempi, se si esclude la partenza di alcuni miei compagni, la vita nella città rimase immutata. Incominciavo a esercitare la professione, e la pienezza della mia vita, la gioia di possedere Elisa, mi facevano quasi insensibile al significato della parola guerra. Ora mi sembra che tutto l’accaduto altro non sia che un castigo della mia cieca viltà. Ma sono ancora così vile da pensare talvolta, nella confusione della mia mente, che il castigo sia troppo più grave della colpa.

Nella mia felicità, la sola inquietudine era uno strano turbamento di Elisa fin dagli ultimi tempi che eravamo fidanzati. La sua passione per me si era fatta, dopo le nozze, più forte che mai; anzi, a dir meglio, la sua tenera devozione di bambina e di fanciulla, si era trasformata in una passione quasi morbosa. Elisa non poteva rimanere lontana da me neppure per qualche ora senza cercarmi con telefonate, con messaggi, e con visite nel mio stesso ufficio. E

poiché, per non essere interrotto nel mio lavoro, la distolsi dolcemente da tale abitudine, mi accadde tornando a casa di trovarla piangente. Certe volte, più che abbracciarmi, si aggrappava a me, quasi che, nella sua debolezza, mi chiedesse consiglio e aiuto.

Quand’io l’interrogavo ansiosamente, non rispondeva nulla, ma a sua volta mi interrogava ripetendo se l’amavo, se l’amavo realmente, se mi piaceva di averla per moglie. E alla mia risposta appassionata, chiudeva gli occhi e coprendosi di pallore mi supplicava (è questa la parola adatta), mi supplicava di stringerla forte, di baciarla, di farle dimenticare la sua vita. - Ma quale vita? - io le dicevo nella mia tenerezza senza limiti, - non è la vita che abbiamo sempre desiderato insieme, non è la nostra vita? - A tali parole, era presa da un tremito, oppure distoglieva da me il viso e aveva un lamento doloroso, quasi che la mia domanda così naturale l’avesse ferita crudelmente. Queste debolezze irragionevoli si alternavano in lei con durezze e rancori. Il carattere di Elisa, benché delicato, aveva sempre rivelato una sua forza, non mai dell’asprezza; da qualche tempo, invece, senza motivo sufficiente, ella mi gettava parole amare, o addirittura insultanti e indegne delle sue labbra. Inoltre, cosa insolita, era diventata facile ai rossori; e talvolta una futilità qualsiasi provocava in lei delle risate folli e senza allegria di cui l’eco mi perseguita ancora adesso.

In quel tempo, si cominciò a temere che la città per le sue fabbriche potesse venire bombardata, e parecchie famiglie si ritirarono nelle campagne. Io possedevo una tenuta, dentro i confini della nostra provincia, ma non potevo risolvermi ad abbandonare il mio lavoro; né Elisa, per quanto io la sollecitassi, volle partire senza di me. La sua coraggiosa devozione me la rendeva ancora più cara, e assecondava l’egoistico desiderio del mio cuore. Ma non potevo, senza inquietudine, guardare il suo volto dimagrito, e mi sbigottiva il pensiero delle paure mai concepite da noi, degli inesprimibili orrori che incombevano su quella fragile persona.

La notte avanti a quella con cui comincia il mio racconto, vi fu il primo bombardamento sulla città. Parecchie case della periferia crollarono; e fra queste il Reclusorio per le ragazze traviate.

Questo giallo fabbricato sorgeva proprio al limite della città, là dove cominciano i campi. Perciò, veduto da lontano, faceva pensare a una fattoria; senonché le finestre a inferriate lo rendevano molto simile a un carcere. Di rado mi accadeva di passare da quelle parti, né mi recai, la mattina dopo il bombardamento, a visitare le rovine della notte, come altri cittadini spinti da una tetra curiosità. Ma, giunto all’ufficio, telefonai subito al Comune e agli ospedali per conoscere se fra le recluse mancanti all’appello vi fosse una certa Margherita F., ragazza di mia conoscenza arrestata alcuni mesi prima; mi risposero che il suo nome era fra quelli delle vittime. Di ciò, non feci parola a mia moglie, temendo che la notizia sconvolgesse il suo spirito già turbato; lei pure infatti aveva conosciuto la morta.

Elisa non accennò nemmeno alla distruzione del Reclusorio; per cui sperai che non avesse visto i giornali. Ella appariva tuttavia così ansiosa e stupefatta dopo le paure della notte, ch’io la scongiurai di partire subito per la campagna; quanto a me, proprio in quei giorni un dovere urgente m’impediva di lasciare l’ufficio, ma l’avrei raggiunta al più presto. A queste preghiere, però, mia moglie scoppiò in pianto; e nella sua voce rotta e febbrile mi gridò con tale violenza di non voler allontanarsi da me neppure per un giorno; e con tali brividi si strinse a me supplicandomi di non lasciarla sola, ch’io dovetti cedere a così tirannico affetto. Elisa rimase dunque in città; ma per tutto il giorno quel suo viso ostinato, quelle pupille che all’avvicinarsi della sera si dilatavano per lo spavento, mi causavano acerbi rimorsi. Giunse così la notte di cui vi parlavo sul principio.

Fra le ombre che mi visitavano in quella notte, la più assidua era quella della povera Margherita F. Questa ragazza era entrata quale cameriera in casa nostra pochi mesi prima che mia madre morisse; di circa sedici anni, e senza famiglia, era stata allevata per carità nel Convento delle suore. Era una bella, esuberante ragazza dalle membra floride, i capelli crespi di un biondo quasi rosso, la bocca ridente. Aveva un volto rotondo, un poco lentigginoso, di un colore di frutto, e gli occhi non molto grandi, ma graziosi e celesti. Le suore, adesso che era cresciuta, non amavano più di tenerla con loro; la ragazza infatti rifiutava di farsi suora e, sebbene non vi fosse nulla di grave da rimproverarle, esse la accusavano di usare modi troppo allegri e familiari coi garzoni di bottega e gli altri uomini che capitavano al convento. Questo dissero, affidandola a mia madre, che conoscevano per la sua pietà. E lei, prendendo la fanciulla sotto la sua cura, si ripromise di sorvegliarla. In realtà, le maniere di Margherita, che spiacevano alle suore, nascevano piuttosto dal suo spirito allegro, dalla sua fiorente giovinezza che da istinti malvagi. Ella confessava, è vero, di non sentire la vocazione di farsi suora, sebbene credesse in Dio; e inoltre, s’intratteneva talvolta a scherzare con qualche giovane popolano che le faceva la corte. Però, tale umore gaio lo mostrava non soltanto coi giovanotti, ma con tutti coloro che accostava, compresa la sua vecchia padrona. E

se spesso si rivelava un po’ vanitosa, e ambiziosa di migliorare il suo stato, queste non erano colpe gravi in una bella giovinetta. Così concluse mia madre, tutta contenta: ma dovette scoprire più tardi, nella sua protetta, un vizio che le suore stesse non avevano conosciuto in lei.

Dallo scrigno di mia madre, lasciato una mattina incustodito, scomparve un paio d’orecchini adorni di smeraldi. Poiché l’altra cameriera, invecchiata nella casa, non poteva destare sospetti, fu interrogata Margherita. Rossa in volto, con voce di lagrime, lei si disse innocente; ma, terminato l’interrogatorio, mia madre la fece allontanare di casa con un pretesto e salì nella stanzetta dov’essa dormiva. Qui, cercando fra i pochi indumenti di lei, scoprì gli orecchini rubati nascosti in una calza, e di più, un paio di fini calze di seta, nuove, e pochi metri di velo con piccoli disegni di fiori, quali usano le signore per la biancheria.

Nel mezzo di questa indagine, Margherita pallida e ansante comparve sull’uscio. Fra i singhiozzi, confessò di aver sottratto, oltre agli orecchini, varie piccole somme dai denari che mia madre le consegnava per la spesa. Mia madre non si era avveduta di così esigui furti; e, con la somma raccolta, un bel giorno Margherita aveva acquistato le stoffe stampate e le calze di seta, ardendo di voglia per tali frivolezze non adatte alla sua condizione. Incoraggiata dal silenzio della padrona, aveva infine osato il furto degli orecchini, che le eran piaciuti per il colore e per la bellezza delle pietre, sebbene non li credesse oggetti di grande valore. In breve, la ragazza si mostrò così pentita, e così ingenua nel modo stesso con cui cercava di giustificarsi, che mia madre si risolse a perdonarle. Per sua natura, mia madre non fu mai severa; e la faceva, allora, più indulgente l’avvicinarsi della morte. Spiegò dunque a Margherita, con parole adatte, quanto grave fosse la sua colpa: le dipinse solennemente le pene che sogliono seguire simile colpa, in questa e nell’altra vita. Le promise finalmente il silenzio sull’accaduto, e le accordò di rimanere nella casa, a patto che ella giurasse sul Vangelo, in quello stesso momento, di non lasciarsi tentare nel futuro. La ragazza, più ancora che dalla gratitudine, sembrò vinta dalla stupefazione vedendosi perdonata; terminato il suo giuramento, rimase in ginocchio, e prese a baciare i piedi e le mani di mia madre, dandole nell’enfasi i mistici nomi coi quali nel convento aveva udito celebrare la Vergine. Ai baci e alle lodi mescolava delle risate piene di gioia; mia madre allora, ridendo a sua volta la fece rialzare in piedi, e l’abbracciò non da padrona, ma da eguale.

Nessun altro assistette a questa scena, che mi fu descritta da mia madre. Questa infatti non sapeva tacermi nulla; ma poiché la ragazza l’aveva supplicata di tener segreta la sua colpa a me in particolare, mi esortò a fingere, per compassione, d’ignorare l’accaduto. La storia di questo furto, infatti, io la tenni segreta a tutti; fuorché alla mia fidanzata, per cui non avevo segreti.

Dopo questi fatti e più ancora dopo la morte di mia madre, che avvenne di lì a poco, Margherita, rimasta al mio servizio, tenne una tale condotta che nessuno avrebbe dubitato del suo ravvedimento. Non solo pareva sforzarsi, con una onestà scrupolosa, di meritare la fiducia di tutti; ma perfino quella sua gaiezza esuberante aveva ceduto adesso alla pensosità e quasi alla malinconia. Già quando mia madre mi aveva svelato il desiderio di Margherita che io non conoscessi la sua colpa, mi era nato il sospetto che la fanciulla nutrisse per me un sentimento più forte che per tutti gli altri. Col tempo, certi suoi rossori, e la fanciullesca passione ch’ella metteva nel servirmi, nel favorire ogni mio desiderio, nell’ordinare le mie carte, e certi suoi sguardi umili e felici rafforzarono il mio dubbio che, in gran parte, quel suo sentimento per me avesse operato la sua trasformazione. Simile scoperta non provocò nel mio cuore nessun interesse o curiosità per la fanciulla: per me non esistevano altre donne fuori di Elisa, soprattutto allora, quasi alla vigilia delle nozze. Tuttavia, la devozione di Margherita non mi dispiaceva, perché nel mio cuore, come in quello di ogni giovane, non mancava una leggera fatuità.

Ed ecco un giorno (circa un mese avanti le mie nozze), Elisa venuta a passare il pomeriggio in casa mia per sorvegliare certi lavori nelle nostre future stanze, d’un tratto entrò nel mio studio. E in aria misteriosa, a voce bassa mi raccontò come pochi minuti prima avesse lasciato per dimenticanza sulla specchiera dell’ingresso la preziosa spilla con cui soleva chiudersi il soprabito; ricordatasi era subito corsa nell’ingresso, per riprendere la spilla: ma questa non c’era più.

La notizia mi rattristò, e non volendo rassegnarmi all’idea di un furto, aiutai la mia fidanzata nelle più minuziose ricerche. Ma la spilla non si trovava e infine dovemmo interrogare Margherita, che era stata veduta poco prima rientrare in casa non già dall’uscio di servizio, ma proprio per l’ingresso principale. Alle nostre domande, Margherita fu vinta da un terribile spavento; lei stessa volle condurci nella sua stanza, dove sotto i nostri occhi vuotò i cassetti, e ci fece esaminare uno per uno i propri indumenti, fin le sue scarpette della festa. - Eh, - disse Elisa, fredda, - non ti crederemo così ingenua da nascondere la spilla proprio in questa camera -. Poi soggiunse: - Scusami, cara, ma non vorresti mostrarci anche le altre scarpette, quelle che porti addosso? - e Margherita tutta rossa, ubbidì e si tolse le scarpe. Elisa allora, con occhi accusatori e lucenti, ripeté: - Perdona cara, - e allungò la mano verso il grembiulino ricamato che la ragazza portava sull’abito scuro, come sempre nel pomeriggio. La mano nervosa di Elisa scosse il grembiulino; e dalla tasca balzò a terra la spilla. - Ah! - gridò Elisa, in trionfo. E l’altra non disse parola, ma sbarrò gli occhi quasi che quel fronzolo gemmato fosse un drago, o uno spettro.

Quindi, girò gli occhi dalla mia fidanzata a me, ben sapendo di non avere argomenti possibili a sua difesa, dopo una simile prova.

Tuttavia, quasi delirando, incominciò a ripetere che non aveva rubato, non aveva rubato, e a giurare sul Vangelo che il gioiello non l’aveva preso lei, ma certo era caduto nella tasca del suo grembiule per un caso. Invocava a testimoni la Vergine, e mia madre morta, e queste invocazioni, invece di commuovermi, irritavano il mio sdegno contro di lei, rivelatasi, oltre che ladra, empia e spergiura.

L’ipocrisia con cui la ladra ci aveva invitato a frugare nella sua stanza, sapendo di nascondere la spilla addosso, mi sbigottiva, se pensavo ch’essa era così giovane. E ad accendere il sentimento dell’oltraggio, vi era in più la mia coscienza che mi beffava, per essere io stato ingannato da una, da cui mi credevo amato. Offeso nella memoria di mia madre, nel mio rispetto alle leggi della morale e della società, nella mia fiducia, e infine nella persona stessa della mia fidanzata, cui si era voluto recar danno, io guardai la colpevole con occhi vendicativi. E stringendo a Elisa la mano tremante, uscii con lei da quella stanzetta. Di là il giorno dopo Margherita, da me denunciata come ladra, fu tratta via con vergogna.

Non essendo ancora maggiorenne, fu rinchiusa nell’Istituto di Correzione della nostra città. E io pensai che questo fosse il solo ricovero possibile e giusto per uno spirito corrotto senza rimedio.

Adesso, nell’insonnia, io mi raffiguravo quella giovinetta ridente, e quelle luttuose rovine. E non potevo scacciare il pensiero d’avere io medesimo, sebbene senza intenzione, causato la fine della ragazza.

Inutilmente mi ripetevo che la morte, se era scritta nel destino di lei, l’avrebbe potuta cogliere in qualsiasi altro luogo, e magari nella nostra stessa casa. Ero forse io sicuro che fra poco, nel silenzio della notte, come ventiquattr’ore prima, non dovesse risuonare l’allarme, e la strage abbattersi su di noi? Ma queste considerazioni erano vinte dalla certezza che, se io pochi mesi prima non avessi ubbidito al mio rigido senso della legge e non avessi denunciato la ragazza, questa sarebbe oggi ancora viva. Mi difendevo allora dicendomi che io volevo per lei l’espiazione, e non la morte; ma d’altro canto mi veniva fatto di dubitare del mio diritto a esigere quell’espiazione. Ma lei, perché ha rubato? mi chiedevo a questo punto, nel mio sgomento. Non era stata già perdonata un’altra volta? Non era una fortuna, per lei, senza famiglia e senza casa, di aver trovato un buon padrone, protezione, affetto, e la speranza di una vita decorosa? Perché distruggere tutto questo con un futile delitto? Dallo strazio di quella giovane esistenza, il mio pensiero andava adesso all’agonia della città nella quale ero nato, e in cui tutto, edifici, famiglie, istituzioni, mi era parso finora così logico, immutabile e giusto. Perché, mi domandavo, degli uomini, simili a me, hanno voluto sconvolgere, violare senza scampo una vita così civile, rispettabile e tranquilla? Una vita in cui la gente abitava nella propria casa, al solido riparo delle mura, - e le unioni erano consacrate dalla Chiesa, - la proprietà e il diritto protetti dalla legge, - i poveri aiutati dalla beneficenza, - il lavoro pagato, - i delinquenti banditi dalla società, - i giovani saggi avviati a nobili studii, - e quelli traviati rinchiusi in Casa di Correzione? Non era, tutto ciò, ottimo e naturale? Non bastava, forse? Anche il dolore, in una vita cosiffatta, aveva un volto umano, era qualcosa di domestico e di misericordioso. La morte stessa, grazie ai sepolcri, ai riti e alle preghiere, aveva assunto un’apparenza familiare. Mi pareva, se lo confrontavo a questa notte, quasi sereno e degno di rimpianto il giorno che avevo accompagnato in chiesa la salma di mia madre. Allora, a me era concesso di piangere, agli amici di aver compassione, e il rispetto dei cittadini accompagnava la Signora defunta. Piangere un parente scomparso, un amore infelice, un’ambizione fallita, tutto ciò si spiega, ha una ragione, si chiude in limiti umani. Ma ciò che mi sovrastava in questa notte, se l’allarme avesse interrotto il silenzio, non era umano dolore, ma istinto e paura. Quel caso, quella strage, erano da bruti, non già da uomini pensanti. Come una schiera di formiche, mi dicevo. E davanti a tale enigma, invidiavo qualsiasi dolore di prima; giacché non mi pareva terribile esser degni di pietà, ma vedere la fine della pietà, la rovina di un ordine creduto eterno, e la mia città, la mia società, ridotti a immagine di formicaio. A ciò mi ribellavo, e mi dicevo che gli uomini non lo meritavano, che era ingiusto. Quasi che io mi trovassi non in una nazione d’uomini, appunto, che si facevano la guerra; ma in un deserto, in balia di un turbine scatenato dalla natura.

Il sonno inquieto di mia moglie, accanto a me, rendeva il mio sgomento più acerbo. Giacché non mi era neppure concesso, come prima, di fare di quella inquietudine il centro dei miei pensieri, e consolarla, guarirla. Col senso amaro dell’ingiustizia, e di una pietà inane, pensavo a quella giovane esistenza, che mi era stata affidata dall’amore, e che vedevo, insieme a me, vittima dello stesso enigma.