Secondo giorno

Mercoledì

Al mattino, specchiandosi, Berté notò che le borse sotto gli occhi erano più gonfie della sera prima e di contro le guance sembravano più cadenti.

Disfacimento fisico.

Il fatto era che non aveva dormito abbastanza. Si era appisolato verso le cinque, dopo aver corretto più volte il suo racconto e aver terminato la lettura di quello di Conrad. Alle sette era sobbalzato al suono della suoneria del cellulare.

Era avvincente il suo racconto?

Mah...

A lui sembrava di sì, e gli pareva anche di averlo scritto bene, ma chissà con quali criteri gli editori distinguevano i libri pubblicabili da quelli da cestinare.

Mistero.

Meglio lasciarli ammuffire nel computer che subire avvilenti rifiuti, concluse spogliandosi.

Pusillanime.

Dopo la doccia, si infilò una polo azzurra a maniche corte. La camicia proprio non se la sentiva di indossarla. Faceva già troppo caldo. Tanto si trascinava dietro la solita giacca blu chiaro nel caso in cui dovesse apparire più serio.

Cercò di districare la massa informe dei capelli e di raccoglierli nella coda. Immaginò il comandante Barbagelata che compiva i suoi stessi gesti tentando di mantenersi in equilibrio sul bastimento in tempesta...

Infilò la Beretta 92 nella fondina e il cellulare in tasca, e scese nella sala per la colazione.

Due tavoli erano già occupati. Una famiglia, padre, madre e due figli chiassosi, e una giovane coppia di tedeschi, a giudicare dalla lingua.

Berté si diresse al suo tavolino d’angolo, vicino alla finestra. Anche qui, accanto al Corriere della Sera e al Secolo XIX che lui leggeva ogni mattina, era in bella vista un vasetto di fiori color lilla di cui non conosceva il nome. Cominciò a spostare il vasetto per vedere se anche lì sotto si trovasse un aforisma, un messaggio...

Chissà se le metteva a tutti quelle poesie in camera o sul tavolo?

Fantasiosa la Marzia!

Il comandante non si annoiava di certo con lei.

Sbirciò gli altri tavoli per vedere se anche loro avessero fiori. Sì, ma diversi e decisamente meno belli dei suoi. Ed era quasi certo che nessun altro ospite trovasse poesie sotto i vasetti. Dalle loro facce non sembravano lettori di poesie, e nemmeno molto spiritosi, a dirla tutta.

Penoso confronto come i bambini con le macchinine.

Si resta sempre un po’ bambini, in fondo...

«Buongiorno, commissario!»

La voce era quella della Giustina, la cameriera factotum.

«Solito caffè doppio?»

«Sì, sì, grazie.» Berté iniziò a spalmare di burro una fetta di pane tostato lanciando occhiate intorno. Prese il vasetto di marmellata di more (fatta in casa, gli aveva assicurato la Marzia) e vi intinse il coltello.

Un miagolio ripetuto lo distrasse, così il vasetto gli schizzò dalle mani e finì per terra.

«Lasci, faccio io» disse la Giustina dopo avergli messo davanti la tazza di caffè bollente.

«Mi scusi, non so come sia successo» Berté la aiutò a raccogliere il vasetto che aveva perso metà del suo contenuto, ma miracolosamente non si era rotto, «ho sentito il gatto, mi sono girato e il vasetto mi è scivolato via.»

«Deve essere Pegaso, stamattina è agitato, ma qui dentro lui e Cosette non possono entrare.» Giustina pulì il pavimento e si allontanò.

Berté si concentrò sulla colazione e sul quotidiano che aveva di fronte. Nella cronaca regionale c’era un articolone a più colonne sul caso Angelici. Se lo mise in tasca, in ufficio l’avrebbe letto con cura. Meglio sapere cosa frullava nelle teste creative dei giornalisti.

Avvertì il suo profumo prima ancora che arrivasse.

«Buongiorno!» La Marzia vestita di verde foglia era entrata salutando ad alta voce gli ospiti della sala. Era seguita da un gruppetto di nuovi pensionanti che fece accomodare in due tavoli vicini al suo.

«Tutto a posto, Luigi?» gli chiese a bassa voce accostandosi a lui. Una ciocca dei suoi capelli scuri gli sfiorò il viso, mentre si sedeva accanto a lui.

Luigi.

Berté annuì con la bocca piena e inghiottì il boccone rischiando di strozzarsi.

«Lei fa le ore piccole» gli sussurrò all’orecchio la proprietaria della pensione.

Si introduce in camera, semina fiori e poesie e controlla tutto!

«No, non la spio, commissario» proseguì la Marzia con un piccolo sorriso.

Mi legge nel pensiero? pensò Berté.

«...ma ieri notte ho fatto tardi anch’io. Stavo leggendo un romanzo storico ed era così avvincente che non riuscivo a smettere; quando l’ho terminato, verso le tre del mattino, ho notato dalla mia finestra la luce ancora accesa nella sua camera e ho sentito il ticchettio dei tasti. Lavora anche di notte?»

Udito fino.

Berté immaginò la propria espressione. Stupore e imbarazzo.

Un cocktail da idiota.

Scrivere non è un’azione criminosa, pensò, poteva dire una mezza bugia tipo: ’eh, sì, ho un mucchio di verbali da leggere, interrogatori da preparare’, e invece... a una poetessa poteva confidare la verità!

«Scrivo racconti» scandì con sicurezza, come se per lui fosse normale dirlo a tutti.

La Marzia lo guardò stupita per qualche secondo. «Non ho mai conosciuto uno scrittore!» L’ammirazione era evidente nella sua espressione.

«Scrittore...» le disse Berté schermendosi «non esageriamo.»

«Che genere di racconti scrive?»

«Potrei definirli dei ‘noir’.»

«Col suo lavoro non deve essere difficile trovare i soggetti.»

«Diciamo che il quotidiano mi offre gli spunti, ma poi entra in gioco la fantasia. L’ispirazione, però, intendo la spinta a scrivere, me la procura la rabbia che provo davanti alle ingiustizie; mi capita soprattutto quando indago su un caso di omicidio.»

La Marzia lo fissava attenta avvolgendolo con il suo sguardo ammaliante.

«Io adoro leggere, leggo di tutto, ma non saprei mai scrivere nulla di interessante.»

Quindi non era lei a scrivere le poesie.

E se non fosse stata lei a mettergliele in camera?

«Mi dica, come fa?» incalzò la Marzia.

«È semplice, mi siedo al computer e... volevo dire, mi fa l’effetto di un calmante. Mentre scrivo dimentico la rabbia che provo per i bastardi che giocano con le vite degli altri.»

Sputtanamento in corso.

Ecco, aveva finalmente parlato con qualcuno della sua passione per la scrittura. Sentì un benefico senso di liberazione.

«È una passione segreta» continuò spinto dall’euforia, «non l’avevo mai detto a nessuno.»

Restarono in silenzio per alcuni istanti. Fu la Marzia a riprendere a parlare. «La capisco. È bello avere una passione, intendo una passione artistica, culturale... non la abbandoni mai. Nessuno deve permettersi di... di... togliergliela.»

Pronunciata l’ultima parola, la Marzia si alzò di scatto, e si allontanò cercando di nascondere le lacrime che le erano salite agli occhi.

Berté rimase immobile.

Come un cretino.

Cos’era successo? Cos’aveva detto di così sconvolgente?

O forse lei si era offesa perché non l’aveva ringraziata per le poesie? Forse le aveva davvero scritte lei e lui non le aveva chiesto niente...

Sempre più cretino.

Il suono del telefonino lo salvò: era Parodi che gli comunicava che stava arrivando.

Berté si alzò e uscì dalla sala colazione senza guardare il banco del bureau. Con le sue rivelazioni fuori luogo aveva risvegliato in lei qualche ricordo poco piacevole, insomma, l’aveva fatta soffrire.

Idiota inconsapevole.

L’Alfa 159 lo aspettava nel parcheggio.

«Ai Bagni Medusa» ordinò Berté a Parodi che lo aspettava alla guida.

«Ma... dottore, si ricordi che in commissariato ci sono i parenti della Angelici che la aspettano.»

«Lascia che aspettino. Preferisco interrogarli quando sono sfiniti dall’attesa, capisci?»

Parodi non era uno sbirro da marciapiedi come lui, però annuì, facendogli intendere che aveva capito e approvava.

La barista era indaffarata con le consegne dei fornitori mentre la sua aiutante, una morettina dagli occhi lunghi che aveva sentito chiamare Mary, pettinata come la Valentina di Crepax, lavava le tazze.

La ragazza aveva le cuffie dell’iPod e si muoveva dietro il banco a ritmo di musica. A lui la musica era sempre piaciuta, soprattutto classici blues o fusion. Grazie all’Andreone era riuscito a mantenere un contatto con le novità, ma non conosceva i gusti di una ragazzina.

A gesti le fece capire che voleva parlarle e a malincuore ‘Valentina’ si tolse le cuffie.

«Mi dica» gli chiese con un sorriso guardando verso l’anziana barista che continuava a berciare col fornitore «vuole un caffè?»

«Sì, grazie» rispose Berté aggiungendo: «e poi mi devi dire che musica stai ascoltando».

«What Makes You Beautiful degli One Direction, una band inglese lanciata da X-FACTOR.»

«Ah! Mai sentiti.» Berté si sentì jurassico, doveva chiedere all’Andreone se li conosceva.

«Sono gli eredi dei Beatles, commissario!»

Berté si lasciò sfuggire un sorriso.

«Eredi dei Beatles? Mi sembra esagerato.»

«Perché non li ha mai sentiti! Io sono andata al loro primo fan event a Milano!» continuò la ragazza. «Credevo di impazzire... ho avuto il loro autografo e l’ho incorniciato!»

«Sei sicura che non siano più belli che bravi?» chiese sarcastico Berté. «E poi mi spieghi cosa diavolo è questo fan event...»

Mentre gli serviva il caffè (buonissimo!) Mary gli chiarì che era una specie d’incontro fra i cantanti e i fan. Non era un concerto perché la band non cantava e non suonava, semplicemente i fan avevano l’opportunità di vedere i beniamini dal vivo e stringere loro la mano o ricevere un autografo.

Sai che onore!

Berté si immaginò un giorno un fan event organizzato per lui, scrittore di fama mondiale. Stuoli di bionde, tipo la mammina sexy vista il giorno prima ai bagni, che sgomitavano solo per un autografo e si accapigliavano per dargli il loro numero di telefono.

Povero pirla.

Guardò di nuovo Mary. Era carina, anche lei sovrappeso, ma ormai Berté era rassegnato a relazionarsi solo con femmine dalle taglie forti.

La disarmante innocenza della ragazza e le sue passioni musicali gli fecero tenerezza. Doveva però fare anche a lei qualche domanda a proposito della regina.

Mary gli prese la tazzina sporca dalle mani e si chinò verso di lui: «Commissario» disse a voce bassa anticipandolo, «guardi che non sono malignità: Lidia era... Io non la giudico, sa, per noi ragazzi è così: ognuno fa quello che vuole di sé. Glielo dico solo perché potrebbe essere stato qualche disgraziato di quelli con cui andava a letto a...»

«Nomi?»

«Un pomeriggio ha inseguito uno di qui... uno al di là di ogni tentazione!»

«Chi è? Spara!»

La ragazza era titubante. «Comunque quello non può essere stato, è un tipo buonissimo!»

«Lo sai che se voglio lo scopro, e lascia giudicare me se è buonissimo.»

«È Angelino» disse a bassa voce Mary, «lavora sulla barca spazzina.»

Berté sospirò. Ne aveva già sentito parlare. «L’ha inseguito fuori dai bagni?»

«Sì, sì... io ho capito com’era il movimento, ma glielo ripeto, quello lì è davvero un tenerone. Invece un’altra sera ho sentito la regina che parlava al telefonino, diceva secca che lei si voleva divertire e se lui non la accontentava... se ne cercava un altro. Non credo che fosse Angelino perché ha detto un nome... ma non me lo ricordo. Però mi ricordo bene quello che gli ha detto, perché tra me e me ho pensato: accidenti la Lidia come parla chiaro, imparassi io!»

Berté la ringraziò, le promise che avrebbe ascoltato gli One Direction e si fece dare un lettino dal bagnino.

La spiaggia non era ancora affollata. Come gli avevano detto, la maggior parte dei clienti arrivava più tardi e si fermava anche nell’ora di pranzo.

Berté estrasse dalla tasca un foglio spiegazzato. Era la lista della cassiera, con i nomi dei mattinieri.

La prima fila di lettini, quella più ambita, era occupata da un gruppo di habitué sulla sessantina. Il clan della lettura, l’aveva definito la cassiera, perché leggevano sempre. Milanesi e torinesi per lo più, gente di buon gusto. Berté non sentiva, ma poteva immaginare ogni loro parola... Quella paccottara della Lidia aveva fatto una fine terribile, perché in fondo se l’era cercata, continuando a mettersi in mostra in modo volgare, con quelle frequentazioni maschili poi...

Avrebbe scommesso che nessuno di loro aveva scambiato con lei più di un saluto. Accorgendosi dei suoi sguardi alcuni si voltarono verso di lui, che accennò un saluto con la testa.

In seconda fila, famigliole sotto ombrelloni circondati da giochi gonfiabili, palette e secchielli, mamme con bambini di pochi mesi, alle prese con i capricci dei pargoli e le creme protettive da spalmare sulle coscette, e qualche anziano che leggeva il giornale e chiacchierava con i vicini.

Gli si avvicinò appunto una coppia di anziani molto distinti per rendergli una testimonianza inutile, più che altro volevano essere rassicurati che non ci fosse un serial killer in spiaggia. Non fu difficile per Berté intuire che non si perdevano una puntata delle fiction alla TV: Ris, Commissariato di Polizia, Antimafia... sapevano tutto. La signora era a un passo dal chiedergli un autografo e Berté non ebbe cuore di dirle che non era una star della TV. Li rassicurò informandoli che la spiaggia era sorvegliata da agenti in borghese, poi li salutò e li mandò in cuor suo a quel paese per il tempo che gli avevano fatto perdere.

Invece il capo bagnino gli confermò che l’unica barca che poteva essersi avvicinata era quella di Angelino, forse proprio nel momento del delitto.

«Ne sei sicuro?» gli chiese Berté.

«Sì, qualche volta si porta un aiutante, ieri non mi ricordo, sono talmente confuso. Qui i giorni sono tutti uguali, è facile confondersi.»

Ancora! Lo ripetevano tutti.

Alla lunga doveva essere alienante passare l’estate su quella striscia di spiaggia a occuparsi di gente in vacanza.

«Per quanto tempo Angelino si è fermato davanti alla spiaggia?»

«Non saprei, forse ci è passato anche più di una volta, ma non è sceso dalla barca, perciò non può essere stato lui.»

«Come lo sai?»

«Lo so perché ogni volta che si avvicina, aspetta che io fischi per allontanare i bagnanti. Ci guardiamo fin che lui sta nei paraggi e non l’ho mai visto ancorare la barca per scendere, non la può lasciare alla deriva.»

Berté annuì pensando tra sé che bastavano pochi minuti per uccidere, ma non poteva condizionare la testimonianza del ragazzo e non disse nulla. Congedato il bagnino, fece un cenno a Parodi che continuava a prendere appunti sulla sua agenda retrò.

«Con i tuoi verbali ci passo le notti, Parodi. Mi raccomando, ne voglio uno fresco fresco per le sette di stasera, fatti aiutare, ma i clienti dei bagni oggi li dobbiamo sentire tutti.»

«Dottore, ho già iniziato. Io e Sabatini non ci muoviamo di qui. Anche perché ci sono due vecchi che continuano a scocciare che dobbiamo stare in guardia contro il serial killer.»

«In effetti quei due scocciano, ma voi tenete comunque gli occhi aperti.»

Berté rifiutò la macchina, dirigendosi a piedi verso il commissariato. La calata del porto era ancora in ombra, ma il caldo si sentiva anche lì. Un caldo umido che rendeva il cielo quasi bianco e faceva precipitare la pressione sanguigna a zero. Berté si fermò in un bar alla moda e si concesse un aperitivo con patatine, olive taggiasche e focaccia.

Un attimo di relax.

Rotto subito dallo squillo del cellulare.

‘Patty’ apparve a intermittenza sul display, e già da come si annunciava la scritta, Berté ebbe il sentore di una conversazione difficile.

«Sono io, Gigì. Non ti ricordi che giorno è oggi?»

Nemmeno ciao, gli aveva detto.

«Ciao Patty. Perché: che giorno è oggi?»

«Il giorno in cui ci siamo messi insieme, otto anni fa! Che stronzo, l’hai già dimenticato!»

Spiazzato.

Forse lei, però, non ricordava che non erano più insieme da mesi.

«Sei sempre la solita!»

«E tu? Non ti ricordi che nel nostro anniversario uscivamo sempre a cena e poi festeggiavamo come piace a te...»

Quando faceva la voce da gatta c’era da stare attenti.

«Che c’entra, Patty? Tu sei lì, io sono qui e...»

«Lo so, brutto cafone, però io ci ho pensato! Potevi almeno mandarmi un SMS, no? Come si fa a spazzare via otto anni così?»

Che l’universo maschile e quello femminile fossero molto distanti ormai, a 42 anni, Berté lo sapeva. Ma la Patty riusciva sempre a sconvolgerlo con la sua irrazionalità.

«Mi dispiace, Patty, sai, sto lavorando molto e...»

«Sì, sì... va bene. Guarda che parto, vado sul mar Rosso con una mia amica. Non cercarmi per un po’.»

Come poteva dirle che non ne aveva nessuna intenzione?

Sicuro?

La salutò sforzandosi di essere gentile, e lei alla fine gli appese il telefono in faccia, com’era solita fare quando non era soddisfatta.

Berté con un sospiro rimise in tasca il cellulare e riprese a guardare i bagnanti che andavano e venivano lungo la calata. C’era chi rientrava a casa per il pranzo e chi invece andava in spiaggia a pranzare. Contò almeno sei borse frigo su altrettante biciclette che si dirigevano ai Medusa.

Pagò una cifra che aveva più del furto che del prezzo e si alzò. Incrociò la badante dei due gemelli che parlava animatamente al telefonino nella sua lingua incomprensibile e che non lo degnò di uno sguardo, un paio di belle ragazze che ridacchiavano girandosi di tanto in tanto verso un gruppo di ragazzoni che le seguivano. Come scorse da lontano i due anziani dei Medusa fissati con i serial killer e le fiction, Berté fece una brillante deviazione che gli evitò un quarto d’ora di chiacchiere inutili e rientrò al commissariato sudato fradicio.

Dopo un caffè, quello del cognato di Parodi, il cui gusto migliorava faticosamente, Berté si sentì pronto ad affrontare i parenti della regina.

«Prego, si accomodi» esordì indicando la sedia alla giovane donna che l’agente Belli aveva fatto passare nel suo ufficio. «Signorina...?»

«Monica Virdis.»

Doveva avere all’incirca vent’anni. Era piccola, ben fatta, occhi scuri come i capelli, bel viso, vestita di nero, un nero modaiolo, non da lutto. Era truccata e gli orecchini che pendevano dalle sue orecchie erano grossi cerchi appariscenti, come vistosi erano i braccialetti che tintinnavano a entrambi i polsi.

Quella di ingioiellarsi era evidentemente una mania di famiglia.

La ragazza masticava una gomma e si passava una mano tra i capelli sciolti sulle spalle. Sedette rigida sul bordo della sedia e gli lanciò uno sguardo nel quale Berté lesse: ‘a me piacciono i telefilm americani con i detective fighi e guarda invece che mi capita questo vecchio con la coda mezza grigia!’

Con i suoi occhioni lampeggianti cercava di fargli capire che era scocciata per aver aspettato lì tutta la mattina e soprattutto era seccata perché Berté con la sua flemma mostrava di infischiarsene bellamente.

A Berté venne spontaneo confrontare la ragazza con la giovane barista dei Medusa: tanto quella era solare e tenera, tanto questa gli sembrava furbetta e maligna.

Mai provocare un commissario permaloso.

«Avevo un compagno di liceo con il suo cognome, ed era originario di Sassari» esordì Berté.

«Mio padre è di Alghero, ma io sono nata a Voghera.»

«Suo padre è il fratello del defunto marito della signora Angelici?»

«Sì, ma io la zia Lidia non la vedevo da Natale. Poverina! Chi l’ha ammazzata?» la voce della ragazza s’incrinò. «Io... non è che devo riconoscerla? Mi fa impressione vedere i morti, al pensiero non ho dormito tutta la notte.»

«No, non occorre. Lo chiederemo al cugino Angelici che è il parente più prossimo, piuttosto...»

Girò uno dei fogli che aveva davanti e, alzando lo sguardo e piantandoglielo in viso, disse: «Lei questa notte era a Genova, vero, signorina Virdis?»

La ragazza trasalì e non rispose subito. Berté notò che era sbiancata.

«Sì... a Voghera faccio la cassiera in un supermercato e ho preso tre giorni di ferie per venire a trovare una mia amica» balbettò confusa, poi riprendendo la sua espressione indisponente domandò: «lei come fa a sapere che ero qui?»

«Le domande le faccio io» disse duro Berté «lei risponda! Chiaro? Sua zia lo sapeva?»

«No... no... perché avrei dovuto dirglielo?»

«Lei ha telefonato a sua zia sabato alle ore 18.15» precisò Berté consultando il foglio dei tabulati telefonici «e anche domenica mattina alle 11.30 e infine lunedì alle 16. Avanti, dica la verità.»

Le lanciò uno dei suoi sguardi al veleno, di quelli che gli avevano procurato le confessioni di molti delinquenti e le antipatie di quasi tutti i superiori.

La vendetta di Aroldo Bellachioma.

La piccola sarda, sotto il suo sguardo, scoppiò in singhiozzi.

«Non lo dica a mio padre! È invalido, poverino, e non gli piace Gianni, dice che non ha voglia di lavorare e invece è un bravo ragazzo.»

«Gianni e poi?»

«Colli. Volevamo passare due giorni insieme al mare. Ai miei ho raccontato che andavo a Genova con un’amica... e guarda cosa va a capitare! Così quando avete chiamato a casa mia, mia madre mi ha telefonato sul cellulare e mi ha detto di venire da voi, visto che ero già in Liguria! Ma non lo sanno che anche Gianni è qui... Se no, mio padre mi ammazza.»

La prosa non è granché, ma il concetto è chiaro, pensò Berté porgendole la scatola dei Kleenex.

«Perché ha telefonato a sua zia?»

La ragazza alzò le spalle, prese un fazzolettino e si asciugò gli occhi. Prima di rispondere osservò la traccia nera che aveva lasciato sul Kleenex per sincerarsi di non aver eliminato tutto il trucco.

«L’ho chiamata... per sentire come stava.»

«Era malata?»

«No, no.»

«E allora?»

«Volevo farmi invitare a pranzo, ma lei mi ha detto che era impegnata e di chiamarla il giorno dopo, ma non poteva nemmeno allora...»

«Quindi lei era affezionata a sua zia? Solitamente tra zia e nipote c’è una sorta di complicità.»

«Be’... sì, lei non aveva avuto figli e con me era più gentile che con gli altri parenti. Andavo a trovarla ogni tanto, per le feste e poi lei faceva la spesa al supermercato dove lavoro.»

«Cosa può dirmi della sua vita privata?»

Negli occhi della ragazza si accese la curiosità.

«Perché, aveva un altro uomo?»

«Le ho già detto, signorina, che le domande le faccio io. Altro uomo oltre a chi?»

«Ah, io non so niente!» la ragazza con un colpo deciso della testa si levò una ciocca di capelli dagli occhi.

«Ha detto ‘altro uomo’: specifichi!»

Il tono di Berté non ammetteva che si potesse evitare di rispondere. La ragazza ebbe un piccolo sussulto che però represse in un attimo.

Sapeva controllarsi, la nipotina dark!

«Be’, si sapeva che mia zia aveva molti uomini... ma duravano poco. La mollavano tutti.»

«Sa il nome di questi signori?»

«Io? No, no... solo per sentito dire dai miei.»

«Era ricca sua zia?»

«Non so, aveva una tintoria. Si era messa a lavorare dopo la morte dello zio Beppe, suo marito. Mia madre dice che spendeva e spandeva in vestiti e divertimenti e così la pensione di mio zio non le bastava... anche a Natale mica ci portava dei regali! Il panettone, e via andare...»

«Quindi non le ha dato dei soldi nei giorni scorsi?» sparò a bruciapelo.

La ragazza trasalì.

«Soldi a me? No, non mi ha nemmeno invitata a cena.»

Berté si lasciò sfuggire un sospiro di insofferenza. La ragazza continuava a non piacergli. Masticava stizzosamente la gomma, era arida e lui sentiva che non era sincera.

«Grazie, signorina Virdis, per ora può andare, ma resti nei paraggi, perché ho ancora alcune cose da chiederle. Belli!» gridò rivolto alla porta.

L’agente entrò all’istante.

«E la zia Lidia, allora, non devo vederla?» chiese la ragazza. «La prego, io mi sentirei male...»

«Venga con me signorina, le spiego tutto io» la poliziotta la prese gentilmente per un braccio e le indicò la porta.

«Belli, venga qui un minuto.»

L’agente fece cenno alla ragazza di aspettarla fuori e rientrò richiudendosi la porta alle spalle.

«Non perdetela d’occhio e cercate il suo amico, un certo Gianni Colli. È qui a Lungariva e sento che non dev’essere un bravo ragazzo. Poi fai passare il cugino.»

«Subito, dottore.»

Poco dopo, il cugino dell’Angelici era seduto al posto della nipotina dark.

Doveva avere una settantina d’anni, era calvo, grassoccio e sudato. Si passava di continuo un fazzoletto sulla fronte e respirava pesante.

«Lei è il signor...?»

«Ettore Angelici.»

«La sua parentela con la signora Lidia?»

«Siam... eravamo cugini, suo padre e il mio erano fratelli.»

«Mi può raccontare qualcosa di sua cugina?»

«Ah, poco, commissario! Non la vedevo mai, solo a Natale, qualche volta mi telefonava... non era una che cercava la compagnia dei parenti.»

«Quando l’ha vista o sentita l’ultima volta?»

«Aspetti, sarà stato... sì, un paio di mesi fa. Mi ha telefonato per chiedermi se potevo aggiustarle un tubo del lavello che perdeva, io facevo l’idraulico, ora sono in pensione, ma in quei giorni mi ero slogato un polso e allora le ho mandato un mio amico. Tutto qui, poi non ho saputo più niente, non mi ha neanche telefonato per ringraziarmi.»

«Il suo amico non le ha detto niente?»

«Mi ha detto che l’ha pagato e anche... che lei ci aveva provato, come al solito. La Lidia era così. Ci provava con tutti.»

L’uomo si passò ancora il fazzoletto sul viso.

«Quindi sua cugina...» gli diede l’imboccata Berté.

«Be’, commissario, è morta poverina, e in che brutto modo! Ma parlandone da viva, diciamo che... le piacevano gli uomini. Finché c’era suo marito, guardi, un sant’uomo, di lei non si poteva dire niente, ma dopo...»

«Conosce qualcuno di questi uomini?»

«No, no... cioè sì.»

«Allora sì o no?»

«Ma sì, qualcuno di Voghera. Le donne, sa, quelle spettegolano, dicevano ‘la Lidia è stata con quello, con quell’altro...’»

«Mi può fare i nomi?»

«No, quelli no, mica stavo attento alle chiacchiere, ma si sapeva che la Lidia...»

L’uomo ammiccò con un sogghigno.

«E lei dov’era ieri mattina dalle otto alle dieci?»

«Ero... aspetti, ieri mattina ero a Voghera. Sono andato a fare delle spese e... ma l’ho già detto ai suoi agenti.»

«E c’è qualcuno che può testimoniare di averla vista a Voghera ieri mattina?»

«Che dice, commissario? Io sono arrivato stamattina con il treno perché mi avete fatto chiamare! Guardi, ho il biglietto.» L’uomo si frugò nelle tasche, estrasse un biglietto ferroviario e glielo mostrò.

Berté lo prese e lo esaminò, prima di appoggiarlo sulla scrivania.

«Questo d’accordo, ma dovrà dimostrare dov’era e con chi all’ora del delitto.»

«Cosa le salta in mente? Che ragione avrei avuto per uccidere la Lidia?»

«Sa per quale motivo la signora Angelici abbia recentemente prelevato una cifra dal suo conto? Qualche spesa, qualche impegno da onorare?»

Il cugino spalancò la bocca sorpreso.

«La Lidia? Ma allora aveva i soldi?»

«Non ha risposto alla mia domanda.»

«No, io non so nulla! Anzi, mi stavo proprio chiedendo per le spese del funerale, sa... non è che parlavamo di soldi con lei...»

Gli avvoltoi si sarebbero scatenati presto sul tesoro della regina, pensò Berté.

«Va bene signor Angelici, per ora può andare... dobbiamo chiederle, purtroppo, di eseguire il riconoscimento; lei è il parente più prossimo della signora Angelici. Il magistrato ha già autorizzato il riconoscimento della salma quindi si dovrà procedere all’autopsia.»

L’uomo non parve soddisfatto di quell’incarico.

«Dovrò farlo... io?»

«Lei, sì. Buongiorno. Un agente le dirà cosa deve fare.»

Berté si alzò indicandogli la porta senza sorridere. Non aveva voglia di perdere tempo.

Anche l’uomo si alzò e gli lanciò uno sguardo nel quale Berté colse un giudizio che conosceva benissimo: poliziotto pericoloso.

Sì, lo era pericoloso, e l’assassino della Lidia lo avrebbe sperimentato. E non sorrideva a nessun possibile colpevole.

Non era in Liguria a passare le vacanze e a dispensare sorrisi.

E quando mai?

Chiamò un agente e gli affidò il cugino della Angelici, poi si risedette.

Si passò una mano sugli occhi. Un leggero mal di testa si stava facendo strada tra i suoi circuiti celebrali. Così concentrarsi gli sarebbe costato di più. Maledetta emicrania!

L’ingresso dell’agente Belli lo riportò al presente.

«Belli, bisogna telefonare a Voghera» le ordinò «e far controllare l’alibi del cugino, è stato troppo vago. Poi chiami sua moglie, vedrà che le racconterà un po’ di notizie sulla vita della regina. Si faccia dare i nomi dei... sì, insomma, degli amici della vittima. Adesso faccia entrare il prossimo» concluse massaggiandosi ancora le tempie.

Un uomo volgare. Non c’era altro modo per definire Gaetano Lo Cascio.

Parlava masticando un mezzo toscano spento e usava una colonia che sapeva di acido fenico. Cosa ci aveva trovato la regina, in quell’uomo?

E lui in lei, del resto.

«Signor Gaetano Lo Cascio, giusto? Professione marinaio.»

«Per servirla, commissa’. Non per dire, ma sono tre ore che aspetto qui fuori.»

«Ah sì? È nervoso, Lo Cascio?»

«No, no, commissa’, che nervoso? Però... il lavoro mi aspetta.»

«Dopo le faccio la giustificazione. Allora, Lo Cascio, conosceva Lidia Angelici, ci risulta.»

«Quella era una vampira, commissa’. Io di giorno devo lavorare, mica potevo starci addietro a quella...»

«Cosa intende per ‘starle dietro’?»

«Intendo che voleva sempre scopare, scopare, scopare...»

Berté emise un sospiro.

Un vero gentleman. Dritto al punto, però.

«Abbiamo verificato il suo alibi: lei ieri mattina, dalle ore 7 in poi ha lavorato sul ponte della barca.»

«Vero. E ce n’è di lavoro! L’ha vista che barca?»

«Dalla barca alla spiaggetta però ci vogliono pochi minuti... Avrebbe potuto assentarsi senza che i suoi colleghi se ne accorgessero.»

Lo Cascio lo guardò interrogativo.

«Che vuol dire, commissa’? Io non mi sono mosso! E poi quella non la vedevo da due o tre giorni, mi aveva telefonato e mi aveva dato del mezzo uomo, strillava che non le bastavo, che voleva di più, che ne aveva un altro... doveva sentire che richieste, che pretese... nemmeno fossimo ragazzini! Quella era una ninfea... commissa’!»

«Una ninfomane, vorrà dire.»

«Eh... sì, sì... che ho detto? Quello!»

«Non le ha fatto il nome di quell’altro?»

«No, mi ha telefonato solo per dirmi basta, ma io nemmeno ci ho creduto che aveva un altro. Chi la regge a quella? Andavo a casa sua e facevamo solo... mi ha capito? No, non so niente, commissa’, io non c’entro.»

«Come vi eravate conosciuti?»

«Una sera, ai primi del mese. Lei passeggiava lungo il porto e io stavo sul ponte, al lavoro. Si è fermata, mi ha chiesto questo, quello, della barca, sa, così per attaccare bottone.»

«E lei?»

«Eh... quella si capiva cosa voleva, l’uomo è uomo, che dovevo fare?»

«Certo, certo...»

«Le ho dato il mio numero e la sera dopo, che ero di riposo, mi ha chiamato, mi ha detto dove abitava e io ci sono andato. Non l’avessi mai fatto, commissa’! Dopo quella sera un tormento! Ogni minuto mi chiamava: e quando torni e quando puoi, e dai che ne ho voglia... anche di giorno, dalla spiaggia veniva al porto, sul lavoro, a cercarmi... ’na croce, commissa’!»

«Si era innamorata?»

«Ma che innamorata e innamorata! Fatti le docce fredde, le dicevo, che io devo lavorare.»

«Lo Cascio, si è fatto dare soldi dalla vittima?»

Gliel’aveva chiesto a bruciapelo e con lo sguardo cattivo.

«E che sono, un gigolò?»

«Non intendevo per le sue prestazioni!»

«Ah!»

«Insomma le ha dato dei soldi o no? Un prestito, ad esempio.»

«No... ma che! Quella mica aveva i soldi, commissa’! Quella aveva solo voglia di...»

«Va bene, va bene, Lo Cascio, vada pure, ma se le torna in mente qualche particolare...»

La Belli fece firmare il verbale al marinaio che poi si alzò rumorosamente dalla sedia e salutò portandosi dietro i suoi effluvi all’acido fenico misto a sudore.

Berté si lasciò andare sullo schienale della poltroncina. Se avesse posseduto il dono delle ‘prove istintive’ di cui parlava Scerbanenco nei suoi romanzi, sarebbe stato tutto più facile e invece non doveva tralasciare nessuna pista.

Il marinaio gli era sembrato sincero, ma per lui non era impossibile raggiungere la spiaggetta passando dai Bagni Onda, vicini ai Medusa e prospicienti il porto.

E il movente? Che ci guadagnava Lo Cascio a far fuori la regina? Voleva liberarsene perché era diventata troppo possessiva e così lo danneggiava? L’omicidio appariva sproporzionato rispetto al problema. Controllò sul computer e vide che non aveva precedenti penali, nonostante la faccia da avanzo di galera.

Però, però... poteva avere qualche scheletro nell’armadio, poteva avere qualche debito, anche se aveva negato, poteva aver invece proprio preteso dei soldi dalla Lidia per le sue... prestazioni. Si scrisse un appunto per farlo controllare da Parodi.

Avrebbe dovuto chiamare anche il PM, ma decise di finire prima le sue SIT per avere più materiale da sottoporgli.

Ci voleva un caffè prima di incontrare Angelino, l’uomo che puliva il mare.

Si avvicinò alla macchina del cognato di Parodi e gli diede la soddisfazione di assaggiare il nuovo aroma: arabica. Meglio degli altri, pensò sorseggiando. Doveva dirlo a Parodi appena rientrava.

Quando vide il personaggio avvicinarsi accompagnato da un agente, per poco l’arabica non gli andò di traverso. Era l’anello mancante tra l’uomo e la scimmia. Roba per Lombroso: sopracciglia cespugliose, occhi ravvicinati e quasi inespressivi, attaccatura bassa dei capelli, bocca sottile.

Aveva ragione Mary, la ragazza del bar: andare a letto con questo rasentava l’animalità.

«Si sieda» gli disse, accompagnando le parole con un gesto perché gli sembrava impossibile che capisse il linguaggio degli umani. «Lei si chiama Angelo Barbagallo, esatto?»

«Sì. Ma mi chiamano tutti Angelino.» La voce era meno sgradevole dell’aspetto.

«Angelino, sì... mi risulta che lei sia un dipendente comunale.»

«Sì, governo la barca che ritira i detriti sparsi sul mare.»

«Quindi lei è in possesso di regolare patente nautica?»

«Certamente, commissario.»

Il cervello del Barbagallo sembrava migliore del suo aspetto, pensò Berté lasciandosi sfuggire un sospiro.

«Può parlarmi dei suoi rapporti con Lidia Angelici?»

Angelino si portò una mano alla fronte, nascondendo gli occhi che si erano riempiti di lacrime.

«Commissario... sono disperato.»

«In che senso Barbagallo... si spieghi.»

«Quella poveretta, ammazzata come un cane. Non riesco a pensare ad altro.»

Il primo davvero dispiaciuto.

«Che rapporti aveva con lei?»

«Siamo stati insieme... due, no, aspetti, tre volte.»

«Insieme? Come...?»

«A letto.»

«Lei è sposato, Barbagallo.»

«Sì, e mia moglie una sera ci ha visti parlare. Non le dico!»

Angelino abbassò lo sguardo arrossendo.

«Sua moglie però non sa della sua relazione con l’Angelici?»

«No! Per carità! Mi ha fatto una scenata solo per avermi visto parlare con lei, se venisse a sapere il resto... la mia vita sarebbe finita. Sono riuscito a convincerla che mi avete convocato perché passo davanti alla spiaggia con la barca, anzi, commissario, io la supplico, i giornali, la stampa...»

«Non posso rassicurarla del tutto, Barbagallo, questo è un omicidio.»

L’uomo si mise a singhiozzare.

«Lo sapevo che non dovevo, non dovevo...»

«E allora perché l’ha fatto?»

«Lei, lei mi ha tolto il fiato, mi telefonava...»

«Le aveva dato il suo numero?»

«Sì, ci siamo conosciuti al bar dei Medusa, mi ero fermato a bere qualcosa e lei era lì. Quando sono uscito mi ha seguito e ha iniziato a propormi di... Io, io... vede sono anni che con mia moglie non... e io...»

«Insomma ha ceduto alla tentazione.»

«Sì, sì... ma non l’ho uccisa, io non potrei mai, io... nemmeno un pesce potrei uccidere, mi fa schifo solo il pensiero...»

«Ho bisogno di prove, Barbagallo, e faccio fatica a verificare il suo alibi. Lei è passato con la sua barca davanti ai Medusa quella mattina. Può dirmi a che ora?» disse Berté continuando a prendere appunti.

«Sono passato dopo che era già successo, commissario, glielo giuro.»

«Non aveva con sé il suo aiutante?»

«Ero solo, capita spesso.»

«Allora ieri mattina non ha visto l’Angelici che prendeva il sole nella spiaggetta isolata?»

«No, ieri non ho cominciato il mio giro dai Medusa, ho iniziato dalle spiagge dei grandi alberghi, sa, dall’altra parte del golfo. Quando sono passato di lì c’era già un gommone della capitaneria e mi hanno allontanato, può controllare.»

Berté ricordò la testimonianza del bagnino. Non era sicuro di averlo visto passare, aveva detto che lì i giorni sono tutti uguali... Comunque Angelino poteva benissimo essere passato dalla spiaggia dei Medusa senza che il bagnino ci facesse caso, aver ucciso la Lidia, e poi essere tornato più tardi per farsi notare dalla Capitaneria.

«Me lo conferma, Barbagallo?»

«Sì, il bagnino Simone forse era emozionato, ma se lo ricorderà se glielo chiede ancora. Io e Simone ci guardiamo sempre mentre lavoro perché ci devo stare attento, sa commissario, i bagnanti vanno sott’acqua e se ci passo sopra con la barca potrei combinare un disastro. Il bagnino quando mi vede fischia per fare allontanare la gente e solo allora io mi avvicino a riva per tirare su i rifiuti che vengono portati dalle correnti. Ieri sono passato tardi... dopo mezzogiorno.»

«E quando passa verso le nove c’è tanta gente in acqua?»

«No... a quell’ora infatti lavoro bene, arrivano tutti dopo.»

«Potrebbe dirmi chi sono quelli dei Medusa che fanno il bagno presto?»

«No, commissario, non li conosco, e poi lo sa quanti ne vedo ogni giorno? Hanno la maschera, i boccagli in bocca... chi se li ricorda? Io sto pochi minuti davanti agli stabilimenti perché la barca è rumorosa e i bagnini si lamentano se mi fermo di più, perciò faccio in fretta.»

«Barbagallo, mi dica, che tipo era l’Angelini?»

«Una donna sola... mi faceva pena.»

«Pena?»

«Sì, tanta.»

«E quando l’ha incontrata l’ultima volta?»

«Una settimana fa, a casa sua.»

«E poi?»

«Quella sera stessa, dopo che... lo abbiamo fatto, le ho detto basta. Non mi sentivo a posto, non potevo rischiare che mia moglie...»

«E lei si è risentita?»

«All’inizio sì, mi ha detto che ero un coglione, testuali parole, commissario, ma poi mi ha gridato che tanto ne aveva un altro e se ne fregava di me.»

«Le ha detto il nome di quest’altro?»

«No, no... io ho tagliato corto, mi sono rivestito e me ne sono andato. Ogni volta che lasciavo quella casa mi sentivo così male dentro... un senso di tristezza, non so come spiegarle...»

«Sì, sì, la capisco, Angelino.»

Finì che Berté gli offrì un caffè gusto arabica e lo accompagnò anche fuori dall’ufficio, dopo avergli raccomandato di tenersi a disposizione.

La regina veniva sempre mollata, come aveva detto la nipote, pensò rientrando nel suo ufficio. Dava se stessa con tutto il fuoco e il trasporto possibile, anche a uomini che non erano abituati a ricevere proposte, e nonostante ciò veniva sempre lasciata. Ci facevano sesso due o tre volte e poi diventava scomoda. Ad andare con lei si finiva per provare un senso di squallore e la sua fame d’amore e la sua insistenza allontanavano anche gli amanti occasionali.

Deliri da profiler.

Non erano deliri. Era giusto ragionare così! Anche nei telefilm americani c’è sempre lo psicologo che traccia le personalità dei serial killer: gli bastano due impronte o un indizio e ti descrive per filo e per segno le caratteristiche e i pensieri dell’assassino!

Balle da film.

Angelino gli era sembrato un brav’uomo, una specie di Gobbo di Notre Dame non molto intelligente, ma a volte anche i buoni si incazzano e il loro cuore scoppia.

A proposito di cuore, quello del comandante Barbagelata di sicuro batteva all’impazzata in mezzo ai marosi e in balia di un matto che tagliava pezzi di marinai e li seminava in giro.

Diede un’occhiata all’orologio. La socia della regina non era ancora arrivata e lui aveva tempo per scrivere qualche pagina. Estrasse la pennetta dalla tasca, la infilò in una porta USB del computer e...

Il comandante Barbagelata

La rivelazione

Il comandante Vasco Barbagelata scrisse con mano tremante un’altra data: 15 novembre 1978. Erano passati altri due giorni d’angoscia. Doveva stendere il diario di bordo, ma non ci riusciva. Le pagine precedenti erano solo un elenco di nomi di scomparsi, no, meglio chiamarli morti. Morti che si lasciavano dietro un pezzo della loro carne... ma dove finivano i corpi?

L’ultimo marinaio superstite si era suicidato buttandosi in mare un’ora prima, urlando come un ossesso. Lo aveva visto volare oltre la fiancata e sparire tra i flutti.

Restavano solo lui e il direttore macchine. Lui sul ponte di comando, l’altro rintanato in sala macchine. Entrambi chiusi nei loro sospetti. Entrambi ormai folli.

Barbagelata fece scorrere la mano sopra la mannaia da macellaio che aveva trovato in cucina. Avrebbe lottato fino alla fine quando l’assassino gli si fosse presentato davanti.

La tempesta continuava a scuotere la nave come se fosse una barchetta di carta, ma la sua esperienza e il suo fiuto gli facevano intuire che non sarebbe durata ancora per molto. La luce infatti stava aumentando.

Inutilmente.

Un’ondata fece barcollare il comandante che scivolò a terra.

Due gambe arcuate comparvero all’altezza dei suoi occhi.

Il comandante si alzò a fatica e si trovò a fissare il cuoco filippino.

Il giovane aveva nella mano destra due bulbi oculari azzurrissimi. Quelli del direttore macchine.

Vasco Barbagelata, assalito dalla nausea, vomitò schiuma e acidi. Il filippino buttò a terra i macabri resti e lo guardò sarcastico.

«Mi sono nascosto bene, vero, comandante?»

«Le tue dita...»

Il cuoco gli mostrò la mano sinistra fasciata.

«Me le sono tagliate! Erano deformi, non è stata una grande perdita.»

«Allora anche gli altri sono vivi?»

Gli rispose una risata fredda.

«Gli altri? Sono già cibo per i pesci.»

«Perché? Perché hai fatto tutto questo?»

«La colpa è tua...»

È un pazzo, non discutere, Vasco, aspetta...

«È tua, papà.»

Lo squillo del telefono interruppe Berté proprio sull’à accentata.

Il PM Magri voleva sapere come procedevano le indagini. Berté, che stava ancora sulla nave dei dannati, riuscì a stento a mettere insieme una relazione convincente sul caso della regina, ma il PM sembrò soddisfatto e tagliò corto.

Dopo aver salvato il testo sulla pennetta, Berté mise il computer in standby. Si alzò proprio nel momento in cui, preceduta da un colpetto alla porta, entrò l’agente Belli seguita da una donna.

«Dottore, la signora Carla Bianchi.»

«Prego, signora, si accomodi» disse Berté indicandole la solita sedia davanti a lui e sedendosi a sua volta, mentre la Belli si metteva al computer per il verbale.

La socia dell’Angelici era una donna tra i cinquantacinque e i sessant’anni, alta e robusta, vestita con un serio tailleur blu di cotone e un’espressione spaventata negli occhi arrossati dal pianto.

«Dunque signora Bianchi...»

«Che disgrazia! Che disgrazia, commissario!» lo interruppe. «Non riesco a pensare che sia vero.» La tintora sedette e scoppiò in lacrime. «Ma chi è stato?»

«Mi aiuti a scoprirlo.»

«La Lidia non era cattiva, sa? Si vestiva appariscente, le piaceva farsi vedere e...» non finì la frase.

«E...?»

La donna esitava a rispondere e intanto rovistava nella borsa. Alla fine estrasse un fazzolettino bianco, ricamato, e manco a dirlo, stirato alla perfezione. Si soffiò con discrezione il naso e si asciugò gli occhi.

«Vuole dirmi che all’Angelici piacevano gli uomini?»

«Che male c’è? Cercava un po’ di compagnia, qualcuno che le volesse bene e invece trovava sempre uomini che da lei volevano solo soldi o, con rispetto parlando...» la donna imbarazzata abbassò lo sguardo «mi ha capita?»

«Sì. A proposito dei soldi: mi risulta che nei giorni prima di essere uccisa abbia effettuato dei prelievi. Lei ne sa qualcosa?»

«No. Per la tintoria abbiamo un conto a Voghera e segue tutto una commercialista. Del suo conto personale io non so niente.»

«Lei dice che l’Angelici pagava gli uomini per...»

«Non è che li pagava, voglio dire che qualche volta ne approfittavano, ecco.»

Berté annuì e la invitò a proseguire.

«La illudevano con le promesse ‘vedrai che poi ti sposo, non dovrai più lavorare, ti mantengo io’... e invece si facevano dare dei soldi e poi sparivano o erano già sposati e finiva tutto lì.»

«Aveva subito violenze, ricatti... minacce?»

«Che io sappia, no. Erano uomini da poco, piccoli imbroglioni, ma non gente violenta, dopo un po’ non si facevano più vedere. Lei mi raccontava tutto, ero la sua unica amica. La lasciavano sempre... sempre...»

La donna scoppiò di nuovo in lacrime. E di nuovo si asciugò gli occhi. Berté attese in silenzio che lo sfogo finisse.

«Io glielo dicevo di lasciar perdere» riprese la donna «e negli ultimi tempi si era messa il cuore in pace, aveva capito che era inutile cercare il principe azzurro. Infatti non ha avuto più altri uomini. Mi raccontava che aveva delle avventure estive, ma che quelle non contavano, erano per far passare il tempo.»

«Lei può fornirci i nomi di questi gentiluomini?»

«Ah, non so se me li ricordo... forse i nomi, ma i cognomi... no. Uno si chiamava Luciano... aspetti, aspetti... Luciano Luciani, sì questo me lo ricordo! Un altro Roberto, ma il cognome proprio no, poi c’è stato un Mario...»

«Facciamo così, signora Bianchi: quando ha finito con me, insieme all’agente Belli» indicò la ragazza al computer «cercherà di ricordare bene i nomi e i particolari.»

La donna annuì. Dalla sua espressione concentrata s’intuiva che si sforzava di ricordare; forse le sembrava un modo per rendere giustizia all’amica uccisa.

«La vostra attività andava bene?» chiese ancora Berté.

«Ci si riesce a vivere, commissario, e andavamo d’accordo: lei si prendeva tutto luglio di ferie, tanto io non posso andare da nessuna parte perché mio marito è molto malato, e ad agosto siamo chiuse. Ma quando avevo bisogno di restare a casa, e succedeva spesso, sa, per la malattia di mio marito, lei mi sostituiva sempre, era molto disponibile. Gliel’ho detto, non era cattiva, anche se tutti la giudicavano male. Era delusa perché non aveva potuto avere figli... Quando andavo a trovare mio figlio e i miei nipotini che vivono a Milano, lei stava in negozio e andava anche a casa mia a far da mangiare a mio marito... ho perso un’amica... e in che modo, commissario!»

Berté unì il suo sospiro di comprensione a quello desolato della tintora.

«Bene signora, la lascio con l’agente Belli.»

Si alzò e porse la mano alla Bianchi. Questa era una brava donna, e a lei poteva stringere la mano con cordialità. Era l’unica che aveva accettato l’Angelici per quella che era, senza giudicarla.

La guardò uscire con la Belli, alla quale chiese comunque di verificare l’alibi e i conti anche della tintora.

Un poliziotto s’intenerisce, ma non dimentica che gli assassini possono essere bravi attori.

Nel pomeriggio sbrigò decine di formalità, telefonate, e-mail, verbali. Tutto col mal di testa.

Posto umido dell’accidenti!

Alle cinque e mezzo pensò di tornare ai Medusa.

Dopo un caffè preparato da Mary, che lo costrinse ad ascoltare un pezzo degli One Direction uguale a una delle canzoni di Grease, e dopo aver dribblato gli anziani disutili, dopo aver lanciato occhiate di rimprovero silenzioso ai bulletti tuffatori con le mutande sotto il costume e sguardi sinistri alle signore scandalizzate per la sua coda da capellone... e soprattutto dopo aver scavato con gli occhi e con la mente sotto quel piccolo mondo estivo, Berté si avvicinò a Parodi.

Il sovrintendente era ancora occupato a prendere informazioni un po’ da tutti nell’ufficio della cassiera. Appena vide il suo capo, si interruppe, lo salutò e lo guardò con sconforto.

«Dottore, qui niente d’interessante.»

«Hai finito?» chiese Berté.

«No, me ne manca ancora qualcuno.»

«E allora vai avanti. Notizie della rubrica telefonica della Angelici?»

«Niente. SMS non ne mandava, non sarà stata capace, come mia moglie, non impara nemmeno se la picchio. Aveva un’agendina in borsa, ma i numeri di telefono segnati erano quelli del parrucchiere, della fruttivendola... niente di strano.»

«Povera regina... una vita piatta.»

«Be’, si dava da fare, però!»

«Eh piantala di fare il moralista, Parodi! Pensa a quello che le hanno fatto!»

«Mi scusi, ma se dava retta al bagnino e si teneva il reggiseno...»

«In Liguria le fate fuori quelle che si tolgono il reggiseno?»

«No, no, non dico questo...»

«Dai Parodi, vai avanti, va’!»

Berté si allontanò nascondendo un sorrisetto. Si era sentito benissimo, Parodi lo aveva mandato affanculo, sottovoce.

E quel vaffanculo Berté se lo portò dietro nella passeggiata serale lungo il porto. Camminare distendeva i suoi nervi e l’aria salmastra con le sue puzze aspre gli era sempre piaciuta.

Nella prima parte della banchina erano ormeggiati i gozzi, e poi le barche a vela e a motore, anzi, a ben guardare, erano in numero maggiore quelle a motore. Tutte, dalle più piccole alle più grandi, erano ben tenute.

Solo in fondo al porto vide una piccola barca a vela, molto vissuta, con il bucato steso ad asciugare sulle draglie. Era senz’altro la barca di un navigatore solitario: infatti l’uomo barbuto che in quel momento stava trafficando con cime, scotte e altre funi, di cui Berté ignorava il nome, ne aveva tutto l’aspetto. Asciutto, abbronzatissimo e senz’altro libero...

Un uccello d’alto mare, come venivano solitamente chiamati.

Forse il suo era il modo più poetico e naturale di affrontare la vita... si disse Berté, ma in cuor suo dovette ammettere che gli yacht di lusso gli piacevano parecchio.

Infatti dopo la barca del navigatore solitario iniziava la parte del porto riservata alle imbarcazioni di grosse dimensioni. Leggendo i fantasiosi nomi dei natanti, si ricordò di quello su cui lavorava il Lo Cascio e pensò di andare a dargli un’occhiata.

L’Alcyon era lungo una quarantina di metri, aveva uno scafo bianco di forma classica e di gran effetto; a occhio, per quanto ne capiva lui, richiedeva un equipaggio di almeno quattro o cinque marinai.

Berté ne osservò il salotto esterno: divanetti bianchi, tavolo basso di tek con rifiniture in ottone e un grosso vaso di fiori sfacciati sopra. Sembrava che non ci fosse nessuno a bordo.

Fare una crociera su una barca così era il sogno della Patty, pensò ridacchiando, ma con lo stipendio di un vicequestore aggiunto non c’erano speranze. Nemmeno questa volta aveva fatto sei al Superenalotto. Aveva controllato bene i numeri sul giornale: neanche uno ne aveva azzeccato! Rise pensando al faccino deluso che avrebbe fatto la Patty. Lei amava il lusso... le sarebbe piaciuta una vita da vera regina.

Scacciò subito il pensiero del volto della Patty sovrapposto a quello maciullato della Angelici. Evocò invece il sorriso della Marzia. Chissà se era mai stata in crociera col marito? Che donna bizzarra: rideva, piangeva e lo spiazzava sempre.

Stava per allontanarsi quando all’improvviso sentì delle grida provenire dall’interno dell’Alcyon. Sembrava una rissa tra marinai. Riconobbe la voce del Lo Cascio che imprecava, ma non riusciva a distinguere le parole.

Poi vide comparire a poppa un giovane marinaio. Il ragazzo superò di corsa la passerella e atterrò sul molo seguito dal Lo Cascio. Berté riuscì a placcarlo prima che fuggisse.

«Ehi... che succede? Fermati!» gli gridò Berté.

«Fatti i cazzi tuoi!» gli urlò dietro il ragazzo, ma ormai Berté lo aveva bloccato e alla sua presa era difficile sfuggire.

Il Lo Cascio si avvicinò ansimante.

«Lo tenga fermo!»

Berté spinse il ragazzo verso il muro trattenendolo per le braccia.

«Chi cazzo sei?» gli gridò inferocito il marinaio che aveva un labbro sanguinante e un livido su una guancia.

«Quando te lo dico mi sa che ti sporchi i pantaloncini bianchi» gli rispose Berté lanciando uno sguardo verso Lo Cascio che si era avvicinato rosso e trafelato.

Alcuni passanti li osservavano perplessi, ma nessuno osava intervenire.

Berté intuì che pensavano che il malavitoso fosse lui, e allora gridò: «State alla larga. Sono della polizia. Circolare... aria».

Si creò il vuoto intorno a loro.

Berté teneva sempre il marinaio incollato alla parete.

«Allora, bello, dimmi perché scappavi.»

«Scappavo perché quello mi vuole ammazzare di botte! È un animale!» urlò rivolto verso il Lo Cascio.

«E tu sei un fottuto ladro!» gridò di rimando il Lo Cascio.

«E basta!» zittì entrambi Berté. «Cos’è successo?»

«È successo che questo fetente mi frega i soldi dal portafoglio! Ma stavolta l’ho beccato.»

«È così?»

Il ragazzo sfidava il Lo Cascio con lo sguardo e non rispondeva.

Berté gli strinse più forte le braccia. Qualche anno prima avrebbe usato metodi più forti, ma ultimamente aveva più autocontrollo. Il suo sguardo però non era mutato e il ragazzo iniziò a vacillare.

«Gli ho preso in prestito solo venti euro!»

«Ma quale prestito! Mo’ basta! Quando torna il comandante tu te ne vai!» gridò Lo Cascio. «Commissa’, questo si droga! Tutte le sere se la va a comprare e se la fuma sul ponte. Adesso basta, il comandante lo deve sapere e questo se ne deve andare!»

«Commissario, ha tentato di ammazzarmi di botte...» farfugliò il ragazzo.

«Ma sentilo, ’sto strunzo! Quale ammazzare, tu rubi, disgraziato!»

Berté capì che doveva fare la voce grossa.

«Adesso basta!» gridò. «Tu te ne stai buono, mentre io telefono, altrimenti...»

Non terminò la frase, ma ai due il concetto apparve chiarissimo.

Guardandosi in cagnesco ubbidirono, mentre Berté digitava il numero di Parodi sul telefonino.

Ci volle un’ora buona per ricostruire la situazione, che peraltro era piuttosto semplice. Il ragazzo aveva un debito con uno spacciatore e rubava dal portafoglio dei colleghi banconote di piccolo taglio. Lo Cascio lo aveva colto sul fatto, non era riuscito a controllarsi e l’aveva pestato.

Risultato: il giovane marinaio si sarebbe beccato una denuncia per furto e sicuramente avrebbe perso il posto.

Dirigendosi a piedi verso la pensione Aurora, Berté rifletteva. Lo Cascio aveva ragione, ma la sua esplosione di violenza non era da sottovalutare: un uomo sanguigno e furibondo come quello poteva uccidere una donna a sassate?

Per quella sera la cena alla pensione Aurora consisteva in un piatto di minestrone freddo alla genovese, un branzino al forno con patate e gelato alla panera, un gusto che si trovava solo lì a Lungariva e che a Berté piaceva da morire perché sapeva di panna e caffè. Vino bianco gelido e focaccia untissima facevano da accompagnamento.

A causa dell’incidente col marinaio ladro era arrivato tardi alla pensione, quando ormai gli altri ospiti erano usciti nel giardinetto o erano andati a fare quattro passi.

La Giustina lo aveva accolto con uno sguardo di muto rimprovero per il ritardo e lo aveva servito con velocità. Meglio, lui aveva fame e stare troppo a tavola non gli piaceva.

Sul suo tavolo era in bella vista una composizione di piccole zucche e fiori, allacciati con peperoncini rossi e verdi.

E sotto, l’immancabile poesia.

Questa solitudine

verresti a condividerla

foglia di paulonia?

Berté ingoiò un groppo di saliva.

Era una proposta, non c’erano più dubbi. E non fece nemmeno in tempo a riprendersi perché dal fondo della sala comparve lei. La Marzia. Si infilò il foglietto in tasca di volata.

«Andava tutto bene, Luigi?» gli domandò la Marzia arrivandogli alle spalle.

Berté fece per alzarsi, rischiando di tirarsi addosso tutto il tavolo e quello che c’era sopra, ma lei gli appoggiò una mano sulla spalla.

«No, non si alzi, mi siedo io.» Scivolò sulla sedia di fronte alla sua con il solito sorriso da diva americana.

Trenta chili di meno e quella ragazza sarebbe stata uno schianto, pensò Berté. Ma non riusciva a immaginarsela magra. Di solito le donne grasse gli provocavano un senso di fastidio, lei invece era la prima carrozzeria robusta che trovava affascinante.

Notò che aveva i capelli raccolti alti sulla testa con un fiore fresco infilato sopra un orecchio e indossava una camicetta nera aderente che lasciava intravedere l’attaccatura del seno.

«L’ha fatta lei questa composizione?» le chiese Berté per distrarsi dalla vista della scollatura.

«Sì, le piace?»

«Molto... d’effetto. È appassionata di giardinaggio?»

E come no? E chiedile che è ’sta paulonia!

«Sì, moltissimo. È stata mia madre a trasmettermi questa passione. Veniva da una famiglia contadina e per lei la terra e le piante erano la vita stessa.»

Berté stava lottando con se stesso. Non sapeva come affrontare il discorso «poesie». O meglio «proposte». Optò per prenderla alla larga.

«Allora mi potrà spiegare un fatto insolito... ho notato che qui ci sono alcune palme altissime, con il fusto sottile, sottile: come fanno a reggersi e a non cadere?»

La Marzia lo guardò prima seriamente poi scoppiò a ridere a gola aperta. Berté notò i denti bianchi e ben allineati e la bocca dal disegno perfetto.

«Lei è un osservatore attento. Le nostre palme sono... un miracolo di equilibrismo! Ma sinceramente non so come riescano a salire, salire, salire e non piegarsi. Avranno radici molto estese e fusti flessibili... è tutto quanto sono in grado di dirle.»

Berté non aveva ascoltato la spiegazione perché distratto dalla musicalità della sua voce e dall’eleganza delle sue mani mentre gesticolava, quindi quando la Marzia finì di parlare restò qualche secondo zitto, come se stesse riflettendo su ciò che aveva sentito.

«Non la convince?» chiese la Marzia.

«No, no... anzi, ha ragione, è che sono ammirato dalle vostre palme.»

Ma quali palme!

«Sono contenta che apprezzi qualcosa della nostra Liguria.»

Touché!

«Si sbaglia, mi piace molto la vostra regione, solo che...»

«Solo che la vita alla quale era abituato era diversa.»

«Esatto.»

«Senta, è una bella serata e io ho già preparato tutto per domani, perché non andiamo a fare quattro passi? L’ha mai visto il giardino di Villa Dunielli?»

«No, non ancora.»

«E allora andiamoci.»

Senza nemmeno accorgersene Berté si ritrovò ad arrancare sulla salita che portava alla villa settecentesca, accanto a una Marzia che saliva spigliata, senza nemmeno ansimare. E per niente imbarazzata nel mostrarsi a passeggio con lui.

Brava! Non era affatto provinciale, non si curava dei giudizi altrui.

La villa, posta su un’altura, godeva di una vista meravigliosa proprio sul porto. Berté scorse anche l’Alcyon che beccheggiava sull’acqua.

«Che peccato, questa sera la villa è chiusa, se no l’avremmo visitata anche all’interno, è bella, sa? In questo periodo ci sono i villeggianti e allora il Comune usa il salone delle feste per concerti o presentazioni di libri» precisò Marzia mostrando il suo sorriso pericoloso e gli si fece vicina aggiungendo a bassa voce: «pensi se un giorno ne presentassero qui uno dei suoi!»

Berté le sorrise sognante.

Uno sfottò?

Stava per fare una domanda sull’architettura della villa quando si sentì una voce acuta di donna: «Commissario! Proprio lei speravamo di incontrare! Ci sono novità sull’assassino? Ci dica, ci dica...»

Berté si irrigidì davanti ai due vecchietti ficcanaso dei Medusa. Detestava il genere. Morbosi, appassionati di storie truculente, sempre a caccia di particolari scottanti, fingevano invece di essere impauriti.

«Ancora niente, signora... ma mi perdoni, ora non sono in servizio.»

Berté dribblò abilmente la coppia e si allontanò senza nemmeno salutare.

«Be’, li sa mettere a posto i rompiscatole!» esclamò la Marzia raggiungendolo.

«Dov’eravamo rimasti?» chiese questa volta prendendo lui sottobraccio la donna.

«Venga, sediamoci su questa panchina, è la mia preferita perché da qui si vede tutto il golfo.»

La Marzia sedette su una panchetta di ferro nero. Scomodissima, pensò Berté accomodandosi a fatica accanto a lei.

La vista però era veramente mozzafiato e per fortuna non passava nessuno.

«Che pace c’è quassù!» mormorò la Marzia.

Urge chiarimento.

«Marzia, volevo ehm...» iniziò Berté schiarendosi la voce imbarazzato «volevo scusarmi per l’altra mattina, con le mie confidenze l’ho turbata. Sono molto dispiaciuto, a volte mi comporto come un elefante. E poi... e poi volevo ringraziarla per... quelle belle poesie. Le scrive lei?»

La Marzia si girò di scatto verso di lui e Berté tacque ancora più a disagio.

Come peggiorare le cose.

Ma la donna sorrise.

«Sono io che devo scusarmi, anzi sincerità per sincerità, l’ho invitata qui proprio per giustificarmi. Avrà capito dal mio ultimo haiku che le proponevo un incontro.»

Haiku?

Berté non poté evitare di guardarla sorpreso.

«Sì, sono poesie giapponesi quelle che le ho lasciato. Risalgono al 1600, pensi! Io le leggo sempre, mi regalano brevi momenti di serenità. Ho pensato che le potessero piacere» continuò la Marzia «e poi lasci che mi giustifichi per averla piantata lì senza darle spiegazioni.»

Attenzione... allarme rosso.

«Anch’io avevo una passione: volevo diventare un soprano, sì, sognavo di cantare nei teatri di tutto il mondo. Avevo una bella voce naturale e ho convinto i miei genitori a farmi studiare. Non è stato facile, sa, ore e ore di lezione, tanti sacrifici miei e loro, ma i maestri mi incoraggiavano.»

«Ecco chi era l’allodola!» esclamò Berté.

La Marzia sorrise tristemente, e poi continuò.

«Venne il giorno dell’audizione a Milano. Ero più felice che emozionata perché per me il canto era felicità, ma si vede che non era destino. Quella mattina, prima di accompagnarmi alla stazione, mio padre fu travolto in bicicletta da un autobus e morì sul colpo. Da quel giorno smisi di cantare. Ho sentito il dovere di aiutare mia madre nella gestione dell’Aurora. Lei morì tre anni dopo, ma per me era tardi per ricominciare a cantare. Così ho messo nel cassetto la vera passione della mia vita.»

Gli occhi della Marzia erano asciutti mentre raccontava, ma Berté vi colse dolore e rimpianto. Sentimenti che conosceva bene.

Che parole trovare per riprendere il dialogo?

Le trovò la Marzia.

«Mi consolo pensando che forse all’audizione mi avrebbero bocciata!» esclamò ricominciando a sorridere.

Berté le accarezzò fugacemente una mano.

«Per lei però, questa sera voglio cantare» lo stupì la Marzia alzandosi in piedi davanti a lui.

Tutto Berté si sarebbe aspettato, ma questo no.

Un soprano sovrappeso che canta per un commissario di polizia nel giardino di una villa in un posto di mare.

Una trama da teatro dell’assurdo, ma era troppo tardi per le considerazioni. La Marzia aveva iniziato a cantare.

... In quelle trine morbide... nell’alcova dorata v’è un silenzio gelido, mortal...

La paura del ridicolo si dissolse e quando la romanza terminò, Berté aveva dimenticato la sua allergia alla lirica.

Ma era scombussolato.

Il testo era chiaro: la bella Manon trova gelido il letto in cui dorme con un vecchio ricco e rimpiange le carezze del giovane e focoso amante che aveva lasciato per vivere nel lusso.

L’aveva scelto a caso quel brano o...

Meglio non indagare.

«No, non dica niente...» la Marzia, con gli occhi umidi, fece un gesto deciso della mano «non ho cantato per farmi dire quanto sono brava, ho cantato per liberarmi da un blocco psicologico che mi tormentava da anni. Lei mi ha fatto una confidenza e io ho voluto ricambiare così. Ora però è tardi, torniamo.»

A Berté non rimase che seguirla in silenzio. Le considerazioni le avrebbe fatte più tardi...

O forse mai.