Quarto giorno
Venerdì
Berté si svegliò scontento di sé.
Si era rigirato nel letto tutta la notte, tormentato da un incubo. Era nella giungla nel mezzo di un’azione di guerra. Sembrava di essere sul set di Platoon: fumogeni, carne maciullata, carri armati... lui voleva scappare ma non riusciva perché le sue gambe erano ancorate a terra. Il tutto condito dalla disperazione di dover salvare qualcuno senza riuscirci.
Inutile dare la colpa alla cena della sera prima, anche se sua nonna diceva sempre che chi mangia patate a cena la notte fa sogni terribili. Il suo era stress puro. L’omicidio, certo... ma in più lui...
Baciarla in quel modo! In mezzo al corridoio!
Il bello era che non se ne pentiva, anzi se l’avesse avuta lì, l’avrebbe rifatto.
Uomo tutto d’un pezzo.
Uno sguardo allo specchio del bagno aumentò la sua scontentezza. Borse sotto gli occhi e pancia prominente. Prima il suo amico Stefano, e adesso anche la Patty gli aveva scritto che era ingrassato. Era bravissima lei a creare complessi! Non le avrebbe risposto... ma aveva ragione.
Si passò la mano tra i capelli e si accorse che la sua coda era moscia e più grigia della sera prima.
Inizio dello sfacelo.
Cosa trovava la Marzia in uno come lui quando aveva il bel capitano?
Berté si accorse di digrignare i denti.
Il periodo di assestamento dovuto allo choc del ‘confino’ era terminato. Rimpinzarsi di focaccia e gustare i vini locali lo aveva aiutato a superare la punizione e la nostalgia canaglia, ma ora occorreva un’azione drastica.
La Marzia gli sembrava dimagrire di giorno in giorno, mentre lui ingrassava. Quello che perdeva lei lo prendeva lui.
Diede un’occhiata fuori dalla finestra. Attraverso i rami grigioverdi dell’ulivo che cercavano di infilarsi nella sua camera, vide che la giornata si preannunciava uggiosa.
Non importa, si disse, sarebbe andato a correre sul lungomare per consumare calorie e vincere il malumore.
Si sciacquò la faccia, si lavò i denti e rimandò doccia, barba e rastrellata alla coda moscia a dopo la corsa.
Rovistò nell’armadio e trovò una tuta blu stropicciata che emanava un vago odore di funghi. La indossò sentendo un fastidioso strozzamento al giro vita che rafforzò la sua volontà di uscire subito e mettersi a correre. Trovò anche un vecchio paio di scarpe da ginnastica anch’esse puzzolenti come solo le scarpe da ginnastica sanno essere, e le infilò. Si strinse la coda con un laccio robusto e si appoggiò un asciugamano intorno al collo.
Un patetico Rocky Balboa.
Attraversò il corridoio dove la sera prima si erano baciati e il pensiero della Marzia lo acchiappò con i soliti spasmi al basso ventre. Con uno sforzo di volontà riuscì a ricacciarli indietro e uscì dalla pensione Aurora.
Si diresse a passo veloce sul lungomare ancora deserto.
Meno male.
Non era uno spettacolo edificante un commissario discretamente incazzato che correva nel buio di una brumosa mattina di novembre. Quasi un titolo da film francese.
L’umidità era feroce, la si respirava a ogni boccata e finiva fredda e vischiosa nei polmoni.
Berté accelerò il passo fino a trasformarlo in corsa.
E iniziò a pensare.
Il PM aveva decretato il fermo del Nardi. Le tracce di sangue sulla camicia erano una prova determinante. Il Nardi non era un uomo sincero. Per fargli sputare la verità aveva dovuto interrogarlo tre volte, e solo dopo le rivelazioni della peruviana. Per quanto però non provasse simpatia per lui, non riusciva a immaginarselo travolto da un impeto d’ira che spaccava la testa alla donna che amava.
Qualcosa in quella storia era stonato e c’erano invece alcuni particolari che non trovavano la casella giusta in cui essere inseriti.
Mentre cercava di mantenere costante il passo, venne affiancato da un uomo rasato a zero. Pantaloncini corti e canottiera, gambe depilate snelle e nervose. Sembrava uno dei soldati del suo incubo. Aveva più o meno la sua età, ma andava come un treno. Infatti lo superò senza fatica e si voltò per rivolgergli uno sguardo che lui giudicò di commiserazione.
Era proprio un catorcio?
Avrebbe voluto gridare a quel pirla che lui, Gigi Berté, ne aveva rincorsi parecchi di delinquenti, e modestamente li aveva sempre acchiappati.
Sbruffone!
Era giù di forma, questo sì. Appesantito sì, ma poteva rimediare.
Si fermò per respirare con ritmo meno parossistico. Appoggiato alla balaustra, attese che il suo cuore riprendesse il battito regolare.
Il mare era di un deprimente grigio sporco, calmo e senza la presenza di imbarcazioni; il cielo stava lentamente schiarendo, ma non aveva colore. Il tutto sembrava una vecchia cartolina sbiadita dal tempo.
Staccò le mani dal parapetto di ferro verniciato e si accorse che alcuni pezzetti di vernice verde erano rimasti appiccicati ai suoi palmi.
Di colpo recuperò un particolare che gli ronzava da tempo nella mente. Poteva essere insignificante, ma era qualcosa.
Berté invertì il senso di marcia e si diresse verso il centro. Il paese si stava svegliando. I primi negozi aprivano, motorini auto e bici avevano ripreso a circolare, gruppi di ragazzi andavano a scuola animando i marciapiedi di voci e risate. Ma lui non li vedeva.
Riprese la corsa e lasciò il lungomare dirigendosi verso il luogo in cui era stata trovata la Groppini. Arrivò a tempo record, considerate le sue condizioni fisiche. Era la dimostrazione che non era poi messo così male, solo che per correre aveva bisogno di una motivazione.
E la motivazione gli apparve.
Evidente e inequivocabile.
Si accorse di essere sudato fradicio e avvertì un fastidioso senso di freddo nelle ossa.
Non c’era tempo da perdere. Prese dalla tasca della tuta il cellulare e compose il numero di Parodi. Gli spiegò quello che doveva cercare, poi fece un rapido dietrofront e senza strafare raggiunse la pensione Aurora.
Quando scese, docciato e sbarbato, la sala colazioni era occupata da alcuni clienti che mangiavano silenziosamente. La Giustina gli fece un cenno di saluto mentre le passava davanti.
Della Marzia nessuna traccia.
Sul tavolino accanto al vasetto con i fiori bianchi c’era un pacchetto. Berté lo aprì: era il libro della Rossi. Come aveva fatto a scoprire dove alloggiava?
Editrice investigatrice, oppure era più famoso, e controllato, di quanto pensasse. Doveva chiamarla per ringraziare e... no, non era ancora il momento di parlarle dei racconti.
Mangiò in fretta un solo occhio di bue e bevve un solo caffè, sorprendendo la cameriera che però non fece commenti.
Sfogliò il Corriere cercando le pagine della cronaca di Genova. C’era un trafiletto sul fermo del Nardi, ma non diceva granché, alludeva solo al fatto che il movente dell’omicidio fosse passionale.
Diverso il Secolo XIX: il delitto della Groppini era in prima pagina, firmato dal Costa, e gli articoli che lo trattavano erano diversi e fantasiosi. D’accordo con il PM, Berté aveva detto lo stretto indispensabile alla stampa, ma quelli ci avevano ricamato sopra.
Lasciò i giornali sul tavolo e corse via, prima di farsi venire certi pensieri.
Tipo chiedersi dov’era la Marzia.
All’ingresso però c’erano i due gatti, appallottolati nel loro angolino preferito sopra il bancone del bureau. Forse ricordavano la scena del bacio in corridoio.
Ma non potevano parlarne.
Fuori dal commissariato il Costa capeggiava un gruppetto di cronisti assatanati, ma Berté li dribblò abilmente.
In ufficio la Belli e Parodi stavano fissando attenti lo schermo del computer e quasi non si accorsero che era entrato, ma Berté con una ringhiata chiamò il sovrintendente.
«Parodi!» Si tolse il cappotto nero e lo gettò su una sedia. «Voglio subito una piantina ingrandita del paese, poi...»
«Va bene, dottore. Ho fatto quello che mi ha chiesto, è tutto sulla sua scrivania. Cosa dice del Nardi?»
«Se in ventiquattro ore non confessa e il PM non convalida, siamo daccapo. Coraggio, al lavoro.»
Squillò il telefono sulla sua scrivania.
«Berté» rispose automaticamente.
«Commissario» era la voce del centralinista, «al telefono c’è l’avvocato Bernardi, è il legale del professor Revelant.»
«Passamelo» Berté mise in viva voce facendo intendere a Parodi di prestare attenzione.
«Dottor Berté? Sono l’avvocato Bernardi. Rappresento il professor Antonio Revelant. La madre del mio cliente ci ha riferito che lei vorrebbe parlargli.»
«Dove si trova il professore?» domandò Berté andando dritto al sodo.
«Al momento non si trova a Genova, tra l’altro è indisposto e non può presentarsi, le manderò certificato medico che conferm...»
«Avvocato, devo parlare al più presto col professore» lo interruppe Berté «come persona informata dei fatti, s’intende.»
«Non vedo in quale altra veste, dottore» rispose l’avvocato, «il mio cliente ha letto sui giornali dell’omicidio della preside e ha pensato che fosse suo dovere...»
«Di cosa ha paura il suo cliente, avvocato?» lo bloccò di nuovo Berté.
«Di nulla, dottore. La mia telefonata è solo per tutelarlo, niente altro, soprattutto ora che è stato fermato quel Nardi.»
«Lasci perdere il Nardi e faccia venire qui il professore.»
«Senta commissario, il mio cliente era lontano da Genova al momento dell’omicidio, e ha tre testimoni attendibili pronti a dichiarare che erano con lui. Ho già raccolto io le loro testimonianze firmate che le posso inviare quanto prima.»
«Io ho una mia ipotesi, solo un’ipotesi s’intende, riguardo quello che è successo al suo cliente: il professore è stato allontanato dal liceo San Giorgio per un motivo noto a lui, alla professoressa Groppini, a una terza persona di cui non faccio il nome, e ora noto anche a me. Se ne va perché ha paura di beccarsi una denuncia, ma dopo due giorni scopre che la preside che l’ha licenziato è stata assassinata; temendo di essere coinvolto in questo omicidio ha mandato avanti lei per giustificarsi.»
«Il mio cliente è completamente estraneo ai fatti.»
«Per il momento non c’è nessuna azione giudiziaria nei suoi confronti, ma la sua testimonianza potrebbe esserci d’aiuto per capire la dinamica dell’omicidio, quindi, appena l’indisposizione si sarà risolta, è indispensabile che venga qui. Intendo al più presto!»
«Senz’altro, dottore.»
«E oltre a porgergli i miei auguri per una pronta guarigione...» Parodi non riuscì a trattenere una risatina «gli dica anche di non scherzare con il fuoco.»
«Che significa, scusi? Che non crede alle prove che...»
«No!» lo interruppe per l’ennesima volta Berté. «Non discuto le prove, è solo un suggerimento che do al professore e che in genere do a tutti. Il fuoco brucia ed è meglio non scherzarci. Lei mi ha capito, avvocato Bernardi.»
Nessuna replica, solo il respiro lontano dell’interlocutore.
«Lasci i suoi recapiti al centralinista» concluse infine Berté. «Buona giornata.»
Abbassò il ricevitore questa volta senza sbatterlo con violenza.
«Il prof non è tutto bianco, dottore!» esclamò Parodi.
Già, pensò Berté allentando il laccio che gli tratteneva la coda. Di tutto bianco in quella storia non c’era nessuno.
«Quello se la sta facendo sotto» Parodi scuoteva il capo sconsolato: «con la ragazza qualcosa c’è stato... e se si viene a sapere, quello ha chiuso con l’insegnamento.»
La porta si spalancò di colpo e l’agente Belli entrò sventolando un foglio.
«Scusi, commissario, ma ho trovato qualcosa d’interessante» gli occhi miopi dell’agente brillavano e sembravano ancora più grandi «guardi: sono due bonifici bancari da cinquemila euro l’uno, fatti dal Savio in data 24 ottobre e 10 novembre. Il beneficiario è Dominique Clermont».
«Alla faccia della semplice amicizia!» sbottò Parodi.
«Fammi vedere.» Berté prese in mano il foglio e constatò le affermazioni della Belli, la quale guardandolo con ammirazione continuò: «Aveva ragione, commissario, la storia dell’amicizia acqua e sapone è falsa».
Berté rifletté per qualche istante.
«Francesca, tu controlla l’alibi della Clermont e anche del fidanzato. Mi pare che lui avesse detto che era a giocare a calcetto, no? Intanto io parlo col Savio. Vieni, Parodi, e tu, Belli, fai preparare la cartina da Sabatini. All’una e mezzo vi voglio qui tutti: devo parlarvi.»
Prese il cappotto e uscì seguito da Parodi.
Mancava solo: sincronizzate gli orologi!
L’ingegner Savio venne loro incontro con gli occhi cerchiati e un’aria più dimessa della volta precedente.
La consapevolezza della perdita, Berté lo sapeva per esperienza, nei parenti delle vittime si faceva strada lentamente.
«Buongiorno, commissario, si accomodi.»
Berté e Parodi entrarono in un salotto, molto classico, di buon gusto, che rispecchiava la Groppini. I suoi uomini avevano già setacciato l’appartamento in cerca di indizi o di qualche prova sul movente, ma non avevano trovato nulla.
Non appena si furono seduti, Alberto Savio partì in quarta indicando il giornale appoggiato sul tavolino di cristallo di fronte a lui.
«L’avete preso quel disgraziato! Lo sapevo che quell’uomo non era a posto! È un pazzo! Povera Adelaide...»
«Aspetti, ingegnere: il fermo del Nardi non ha chiuso le indagini» lo interruppe Berté.
«Cosa cercate ancora? Mia moglie non voleva acconsentire al suo amore malato e lui l’ha ammazzata. Mi sembra tutto chiaro.»
«Perché non ci ha detto nulla di questa relazione?» sparò Berté.
Il Savio accusò il colpo, ma non rispose.
«Che importa ormai? Lo avete preso, solo questo conta.»
«Alt, alt, ingegnere! Ci sono altre questioni in sospeso, quindi siamo costretti a continuare.»
Il Savio si prese la testa fra le mani.
«Che volete da me?»
«Che finalmente ci racconti la verità sui rapporti di sua moglie con Tommaso Nardi.»
Il Savio si passò un fazzoletto sulla fronte sudata.
«Il Nardi sapeva che lei era a conoscenza della relazione?»
«Mi sono sempre rifiutato di parlare con lui. Non è nel mio stile fare scenate. E poi che potevo dirgli? Una sera ho affrontato Adelaide. Lei era confusa, non voleva stravolgere la nostra vita e creare uno scandalo che avrebbe avuto ripercussioni anche sulla reputazione delle nostre figlie. Mi aveva promesso che non sarebbe mai andata a vivere con lui, che non avremmo mai divorziato, però voleva anche sentirsi libera di... aspetti, le sue parole furono ‘di vivere le emozioni che ancora la vita le proponeva’. Si sentiva attratta dalla personalità del Nardi e lui è bravissimo a farsi commiserare, l’ha sempre fatto! E poi la colmava di doni, di fiori, la trattava come una dea... e poi... l’ha uccisa, quel disgraziato!»
Berté stava per alzarsi, ma poi ci ripensò.
«Dalle nostre indagini risulta che lei ha fatto due cospicui bonifici sul conto della signorina Dominique Clermont.»
Il Savio arrossì di colpo.
«Avete frugato tra i miei conti? Per me non è legale il suo modo d’agire! Devo chiamare il mio avvocato». Il Savio si alzò di scatto seguito da Parodi.
«Le avevo detto che avremmo ribaltato la sua vita, non si sorprenda» replicò Berté in tono pacato indicando al Savio di risedersi, «comunque chiami pure il suo avvocato, chiami chi vuole... ma resta il fatto dei due bonifici alla signorina Clermont. Come li giustifica?»
Il Savio senza rispondere si risedette, mentre Parodi restava in piedi.
«Ancora non mi vuole dire la verità!» esclamò irritato Berté. «Ancora insiste a nascondere lo sporco sotto il tappeto!»
Il Savio si schiarì la voce e in tono controllato disse: «Il mio rapporto con la signorina Dominique non ha nessuna correlazione con la morte di mia moglie. Le do la mia parola».
«La sua parola non mi basta. Dovrà venire in commissariato a firmare un verbale.»
«Ma perché? Cosa c’entra il fatto che io, sì, insomma, anche se fossi stato con Dominique perché dovrei verbalizzarlo? E perché avete fermato il Nardi se continuate a sospettare di quelli che non c’entrano niente?» gridò il Savio violaceo. «Le due vicende non sono correlate. Dominique e Maurizio avevano bisogno di un prestito e io li ho aiutati. Tutto qui. Non si giri dei film che non esistono!»
«Diecimila euro in un mese sono reali e non sono pochi.»
«Senta, commissario, Dominique è una brava ragazza... non nego che mi piaccia, ma sono troppo vecchio per suscitare in lei un sentimento...» agitò in aria le mani per cercare le parole giuste «insomma non ci ho mai fatto niente!»
«Ingegnere, guardi che per l’amore mercenario non serve suscitare sentimenti!»
Il Savio tacque sempre più imbarazzato.
Berté decise di infierire.
«Comunque la prostituzione non è un reato, ma potrebbe esserci il favoreggiamento di quel Maurizio. Senza contare gli altri sospetti che possono ronzare nella mia mente malpensante.»
Il Savio lo fissò sbalordito.
«Ingegnere, sarà anche vero che lei ha solo prestato del denaro a una coppia di bravi ragazzi che devono sposarsi; lei però potrebbe essere vittima di un ricatto, oppure la coppietta potrebbe averle reso dei servigi prezzolati.»
«Pensa che io li abbia pagati per uccidere mia moglie? Lei è pazzo!»
Berté restò impassibile mentre il Savio cercava di riprendere il controllo.
«No, no... commissario! Io non ho ucciso mia moglie e quei due non c’entrano nulla, glielo giuro sulle mie figlie, sulla mia nipotina, su chi vuole...»
«E allora perché ha pagato, Savio?»
Nessuna risposta.
«Io ho una mia ipotesi, ingegnere: penso non sia piacevole per un uomo come lei, se lo lasci dire, ancora affascinante, accettare che la moglie, non più giovane, abbia un amante e voglia vivere ancora delle emozioni che lei evidentemente non riesce più a suscitare. Anche lei prova delle emozioni e il tradimento della signora le scatena la voglia di rivalsa. Frequenta quel Maurizio e fa compere nel suo negozio. Maurizio ha una fidanzata, bella, francese. Proprio il suo tipo. Le piace sempre più e sua moglie è sempre più assente. Può darsi che la Clermont non sia quello che sembra: lavorando al Metropole forse ha già consolato altri uomini soli in cerca di compagnia, e il suo fidanzato è consenziente anzi incoraggia. E i proventi sono niente male.»
Il Savio non parlava ma restava a testa bassa, schiacciato da quelle supposizioni. Berté però non ne poteva più dell’ipocrisia di quella gente.
«Magari sbaglio, e lei è stato il primo, o l’unico, che la Clermont ha deciso di consolare con il beneplacito del fidanzato. Ma non credo al prestito.»
Mentre parlava Berté ricordava le parole della Vernazza che descriveva il Savio come un uomo avaro. Avrebbe prestato diecimila euro solo per bontà?
Il Savio si prese la testa fra le mani mormorando: «Che schifo... che schifo!»
«Sì. Ha ragione» concluse Berté. «Mi chiami quando vuole. Io aspetto.»
Fece un cenno a Parodi e uscì dalla stanza.
Il campanile del duomo suonò dodici rintocchi, e subito dopo le campane delle altre chiese risposero con altrettanti scampanii.
«Qui si sa sempre l’ora esatta» disse Berté alla Belli che li aspettava davanti al suo computer.
«Così risparmiamo sugli orologi. Sa, noi liguri, quando si tratta di palanche...»
«Qualche novità, Francesca?»
«Sì, dottore. Il professor Revelant non entra nel suo profilo Facebook da venerdì scorso, quindi dal giorno in cui ha lasciato il San Giorgio. Ci sono alcuni messaggi di amici che lo cercano e gli chiedono dove sia finito, ma lui non risponde.»
«Be’, non è così stupido. E tra gli amici non c’è Gaia?»
«No. Nessun alunno del San Giorgio e nemmeno i colleghi.»
«Tienilo d’occhio. Altro?»
«Sì. L’alibi del fidanzato della Clermont sembra valido, ho già due conferme dei suoi compagni di calcetto. Hanno finito la partita alle ventitré e poi sono andati a mangiare in una pizzeria vicino al campetto.»
«Non mi accontento, però. Quel Maurizio dobbiamo tenerlo d’occhio. Anche se lui e la Clermont sono estranei al delitto, secondo me ci marciano con quelli come il Savio.»
«Favoreggiamento alla prostituzione» constatò Parodi.
«Sì, ma esiste anche la possibilità del sub-appalto. È una ipotesi remota, ma potrebbero aver commissionato il crimine a qualche disperato per poche centinaia di euro» esclamò Berté.
«Le pensa tutte, dottore!»
«Mi pagano per pensare male della gente» replicò Berté tirando uno starnuto, seguito da altri due.
«Salute!» fece eco la Belli. «Non si sarà preso il raffreddore? Qui il mese di novembre è traditore, ci sono molti sbalzi di temperatura.»
«Grazie, Francesca, mi dovrò abituare se voglio sopravvivere in questo posto.»
«Dottore» Sabatini li raggiunse, «le ho messo sulla scrivania la cartina di Lungariva. Parodi mi ha detto di ingrandirla, spero vada bene.»
Per alcuni minuti Berté si concentrò sulla cartina di Lungariva. Sabatini e la Belli seguivano senza fiatare il suo grosso indice destro che percorreva le strade del paese e gli appunti che Berté segnava sulla cartina, dopo aver visionato i verbali che aveva sul tavolo. Alla fine si lasciò andare sullo schienale della sua poltroncina con un sospiro.
«Sì, potrebbe essere andata così...» mormorò. I due agenti lo fissarono aspettando una dichiarazione, ma Berté restò muto a osservare la piantina.
Fu la voce di Parodi a risvegliarlo dalle sue meditazioni.
«Commissario, spiega anche a noi quello che sta pensando?»
Berté rispose con un altro starnuto. Un leggero bruciore si insinuava nella sua gola. Accidenti alla sudata della mattina! Si soffiò il naso e capì di essersi ammalato.
Rocky Balboa KO alla prima ripresa.
I tre poliziotti lo guardavano in attesa.
«Allora» si decise a parlare, «adesso sono le dodici e trenta... Belli, tu vai a prendere qualcosa da mangiare, tu Parodi mi convochi qui i Valli, padre e figlia per le quattordici. Ah, bisogna chiamare la PM per sapere se dobbiamo avvisare il tribunale dei minori, magari mandano uno psicologo, non si sa mai.
«Sabatini, tu telefona in tribunale a Chiavari per sentire come va l’interrogatorio della Rivalta col Nardi. Io chiamo il questore.»
«Cosa vuole da mangiare, commissario?» chiese la Belli.
Le idee più golose sfilarono davanti agli occhi di Berté: focaccia alle cipolle, focaccia normale, focaccia al formaggio, verdure fritte, torta pasqualina, panissa, fettona di cima alla genovese... in fondo era malato e doveva concedersi un pasto nutriente se voleva guarire in fretta...
Invece disse: «Un pezzo di pizza e una Coca-Cola».
«Mi rifarò stasera» si giustificò Berté sotto lo sguardo stupito della Belli: «il pomeriggio sarà impegnativo» concluse soffiandosi sonoramente il naso.
L’agente lo guardò preoccupata. «Lei non sta bene, commissario, vuole un’aspirina?»
«Vada per l’aspirina» concesse Berté che in effetti si sentiva sempre peggio «prima la pizza, però. Andate.»
Mentre addentava il primo morso di pizza, triste ma bella filante, seguito da una sorsata di Coca, triste pure lei ma digestiva, squillò il cellulare.
Solito batticuore da Marzia.
Non era lei.
Era la PM. C’era un particolare che il Nardi aveva ricordato e che al giudice era parso importantissimo. La Rivalta gli passò il Nardi con il quale Berté ebbe una conversazione breve e secca, questa volta non interrotta dalle solite scene di pianto.
«Ne è proprio sicuro, Nardi?» domandò Berté prima di chiudere. La risposta giunse affermativa.
Rabbia.
Rabbia degli ammazzati.
Rabbia perché l’anima della gente è nera.
Berté prese ciò che restava della pizza e la gettò nel cestino. La sua fame era sparita. Bevve solo la Coca prima di chiamare il questore e informarlo sugli ultimi sviluppi.
Il Terani gli rispose sparando una serie di mi (mi faccia, mi dica, mi raccomando) che lo stordirono. Quando però Berté gli espose le sue idee e quanto aveva scoperto, ricevette un ‘proceda’ così immediato che lo lasciò basito e ancora più basito lo lasciò il ‘bravo’ che uscì dalle labbra del questore. Si era prefigurato una lunga discussione prima di sfociare in una serie di compromessi e invece... A volte succede con i capi: quando la pensano come te sono geni, quando hanno idee diverse dalle tue sono dei cretini.
Finita la sorprendente telefonata, Berté prese la cartina di Lungariva e la appese con quattro puntine su un pannello dietro la sua scrivania in modo che si vedesse bene, poi chiamò Parodi che si era fermato nell’ufficio vicino.
«Sono arrivati i Valli?» domandò.
«Sì, dottore, la Rivalta ha mandato anche una psicologa del tribunale dei minori. Carina!»
«E allora? Carina o brutta, va bene lo stesso!»
Bugiardo.
«Forse a lei non interessa, ma Sabatini...» Parodi abbassò la voce e ammiccando concluse: «è già cotto!»
«Ah!...» esclamò Berté. Quindi non era l’unico in commissariato a essere inn...
Eh no!
Berté guardò l’ora. Mancava un quarto alle due.
La Belli entrò con un vassoio che reggeva una tazzina di caffè, un bicchiere d’acqua e un’aspirina.
«Da dove spunta il vassoio? In questi mesi non se n’è mai visto uno... addirittura la tazzina di ceramica decorata!» si meravigliò.
«Cerco di alleviarle la sofferenza» disse la Belli porgendogli il tutto.
Berté sorrise inghiottendo prima l’aspirina con un sorso d’acqua, poi il caffè, pensando ai progressi che avevano fatto i suoi rapporti con la Belli. Ma i suoi pensieri furono interrotti dall’ingresso di Parodi.
«Dottore, sono tutti qui.»
«Falli entrare!» Berté si alzò per ricevere padre e figlia Valli e la psicologa ‘carina’ che a lui carina non sembrò, ma de gustibus...
L’avvocato Valli aveva un’espressione tirata e gli occhi cerchiati e cupi, non così la figlia che masticava una gomma e si guardava intorno incuriosita. La psicologa gli porse una manina fredda sussurrando il suo nome. Forse erano stati i suoi occhioni celesti a conquistare Sabatini.
«Prego, accomodatevi» esordì Berté indicando con un gesto della mano i posti davanti a lui.
«Vi ho convocati per approfondire alcune dichiarazioni della signorina Gaia.»
«Mi sembra che la testimonianza di mia figlia sia stata esaustiva» iniziò il Valli con una manifesta punta di polemica. «La sua ha l’aria di una fissazione. Soprattutto dopo aver effettuato un fermo non vedo...»
Berté fece un sospiro spazientito che tutti sentirono e interpretarono nel modo giusto. Anche il Valli ritenne saggio tacere.
«Allora, Gaia, vorrei che tu mi dicessi che strada hai percorso con la tua auto quella sera dalla casa della tua amica Lella fino alla tua.»
La ragazza ci pensò su qualche istante.
«Sono scesa da Vezzarigo e ho percorso la via Garibaldi, quella che va verso il centro.»
«Ne sei certa?»
«Scusi, ma che c’entra la strada che ha fatto mia figlia per tornare a casa?» Il Valli si agitò nervosamente sulla sedia.
«Avvocato, per cortesia! Mi lasci procedere. Le sembra una domanda indiscreta?»
L’avvocato non insistette, ma prima fissò lui con evidente fastidio, poi la figlia con palese preoccupazione. Berté pensò a come si sarebbe sentito se fosse stata sua figlia a essere sulla graticola.
Male, molto male.
«Gaia, cerca di ricordare: hai lasciato la tua amica qui...» Berté si alzò e indicò un punto preciso della cartina appesa dietro a lui «e poi da che parte sei tornata a casa?»
«Da via Garibaldi» ribadì la ragazza seccata.
«No!» esclamò deciso Berté, cambiando tono di voce. «Io penso che tu abbia fatto un’altra strada, via Marconi per la precisione.» Con l’indice segnò sulla carta il percorso che dalla casa dell’amica di Gaia scendeva verso la villa del Nardi e portava alla curva a gomito vicina al luogo dov’era stata trovata la preside «e qui hai incontrato la signora Groppini che tornava dalla casa del Nardi.»
«Lei è pazzo!» gridò il Valli scattando in piedi. «Cosa vuole insinuare?»
«Si calmi, avvocato!» gridò a sua volta Berté. «Lei sa che la sua presenza qui è dovuta solo alla mia cortesia, vero? Se non mi lascia interrogare la faccio allontanare! Chiaro?»
Era stanco di sentirsi dare del pazzo da tutti a Lungariva.
L’avvocato si risedette, fissando Berté con odio.
«Allora, Gaia» riprese Berté, «adesso ti racconto come la vedo io: tu sei andata ad accompagnare la tua amica a Vezzarigo con la tua macchina. Lella ha confermato che l’hai accompagnata, ma tu mi hai mentito sull’ora: l’hai lasciata a casa sua prima delle ventitré. Poi, com’è logico, vista la posizione di casa tua, hai preso via Marconi, non via Garibaldi» puntò di nuovo il dito sul percorso «e il destino ha voluto che tu incontrassi la preside qui, nei pressi del cassonetto. Sono certo che desideravi incontrarla a tu per tu perché avevi qualcosa da chiederle, ma non avevi ancora trovato l’occasione per farlo. Quella sera, riconoscendola, per l’emozione hai strisciato la fiancata destra della tua auto contro il muro. Poi hai frenato e sei scesa dalla macchina.»
«Che prove ha per fare queste affermazioni?» intervenne nuovamente il Valli.
«Sul muro della curva ci sono segni di vernice rosa lasciati dalla tua macchina, Gaia» disse Berté sempre fissando la ragazza e ignorando il padre, «la curva è stretta e se si sbaglia la manovra, è facile graffiare la portiera destra. Sul muro ci sono i segni di vernice di altre auto, ma la tua è riconoscibile dal colore rosa acceso. Non è un colore comune.»
«Non è stata lei a strisciare, sono stato io... qualche giorno fa» disse di getto il Valli.
«Non aggravi la sua posizione con una falsa testimonianza, avvocato. Lei per sua stessa ammissione, e noi abbiamo verificato, la sera del lunedì era a Milano ed è rientrato a Lungariva solo la mattina del martedì. L’auto è stata portata dal carrozziere Pittaluga la mattina stessa da sua figlia.»
«Una prova veramente campata in aria! E anche se risultasse che Gaia è passata di lì quella notte e ha rovinato la macchina sbagliando la curva? Che cosa dimostra? Solo quello!»
«Il carrozziere Pittaluga, che aveva sistemato la macchina per un precedente tamponamento e l’aveva riconsegnata a sua figlia proprio lunedì pomeriggio, ha dichiarato che la macchina allora non aveva nessun segno. Non solo: il Pittaluga si è stupito quando martedì mattina si è ritrovato la macchina in officina con la fiancata destra graffiata. Parodi?»
Parodi esibì la bolla di pagamento per la riparazione, con le date ben evidenziate e la firma del carrozziere sotto la dichiarazione.
«Nessun giudice prenderà questa prova per valida!» affermò l’avvocato.
«Allora, Gaia, continuiamo: incontri per caso la preside. Non ti sembra vero, siete sole e le puoi porre la domanda che ti tortura da giorni: dov’è finito il professor Revelant? A casa non c’è – come sai, ho la testimonianza scritta di alcune persone che ti hanno vista citofonare più volte e insistentemente al portone di casa sua – al telefonino non ti risponde – l’hai chiamato decine di volte senza successo, come risulta dai tabulati del tuo telefono. La Groppini ti risponde a tono, era già alterata di suo, e ribadisce che ha già fatto un regalo a entrambi non rendendo pubblica la vostra relazione. Con il suo modo indisponente ti ripete che non sa dove sia finito il professore, che lei stessa gli ha suggerito di cambiare aria e ti ripete che per te è meglio dimenticare quella storia, ma tu insisti e la Groppini, dopo averti minacciata di dire tutto a tuo padre e denunciare il Revelant, ti volta le spalle furibonda. Ma tu lo sei di più. Apri la portiera dell’auto, prendi il bloster – il carrozziere ha confermato in quella relazione che ce n’era uno nella macchina almeno fino al lunedì pomeriggio – e la colpisci alla nuca.»
«Non è vero!» gridò la ragazza. «Io non c’entro niente!»
«Gaia, non mentire!»
«Basta, commissario!» scattò il Valli. «Sta esagerando! E lei cosa ci sta a fare?» continuò rivolgendosi alla psicologa. «Per mia figlia questo interrogatorio è insostenibile!»
La psicologa si limitò a prendere appunti e a osservare Gaia.
«Ti hanno vista, Gaia. Ho un testimone che ha visto la tua macchina allontanarsi dal luogo del delitto a quell’ora.»
«Ma perché? Perché?» gridò il padre di Gaia. «Per quale motivo avrebbe dovuto ucciderla?»
«Forse la dottoressa ci può aiutare» rispose Berté rivolgendosi alla giovane psicologa. «Io mi sono fatto una mia idea sui meccanismi mentali di questi ragazzi che vogliono tutto, non accettano rifiuti, non tollerano rinunce, sono abituati dalle famiglie ad avere esaudito ogni desiderio... Tu sei così, Gaia. E di certo non è solo colpa tua.»
Padre e figlia si guardarono in silenzio.
«Il professor Revelant ha confessato la vostra relazione! Ha ammesso di essere stato allontanato dalla Groppini perché vi ha colti in flagrante a scuola...» continuò Berté incalzante.
«Dottoressa!» il Valli si rivolse di nuovo alla psicologa, che sedeva attenta accanto a Gaia. «Dica qualcosa: non possiamo continuare con questa pressione sulla ragazza.»
Ma la dottoressa taceva.
«Perché lo proteggi?» continuò Berté. «Lui ti ha piantata, piantata, hai capito? Se n’è andato in un’altra città, è scappato per paura di prendersi una denuncia per atti sessuali con minorenne! Lui non ti ama, lui se ne frega di te! Tu non conti niente per lui! Sei una delle tante ragazzine che gli piacciono e con le quali gioca a fare il seduttore... e tu, stupida, per lui ti sei rovinata la vita!»
Gaia balzò in piedi e lanciò un urlo.
«Basta! Basta!» si prese la testa fra le mani e scoppiò in un pianto isterico gettandosi tra le braccia del padre.
«Io la denuncio! La faccio radiare, la rovino!» sibilò il Valli.
Ma Berté non aveva ancora terminato.
«Di’ la verità, Gaia, confessa quello che hai fatto! L’hai fatto per lui, ma lui non se lo merita! Può far male ad altre ragazze! Lo vedi cos’ha fatto a te? Ti ha usata e buttata via!»
La ragazza si liberò di colpo dall’abbraccio del padre e fronteggiò Berté con occhi spiritati.
«Sì, sì, è vero! Ho colpito io la Groppini!» urlò. «Mi ha chiamata puttana! Quella donna era un mostro! Ma io... io non volevo ucciderla, ero solo fuori di me per come mi aveva trattata...»
Farfalla nera ti ho catturata.
«Gaia!» l’avvocato era impallidito. «Ma che dici? Gaia!»
«Papà, mi insultava! Diceva che Antonio è un maiale. Allora io non ci ho visto più. L’ho colpita da dietro e... è caduta per terra. Non mi esce dalla testa il rumore che ha fatto quando ha picchiato per terra... come un melone che si rompe; è da quella notte che non chiudo occhio ricordando quel rumore!» la ragazza crollò sulla sedia tra i singhiozzi.
Berté lanciò uno sguardo alla psicologa che si avvicinò a Gaia mettendole una mano sulle spalle, mentre il Valli si abbandonava sulla sedia come un manichino.
«Cerca di calmarti, Gaia, è tutto finito» le disse dolcemente la dottoressa, «raccontaci con calma quello che è accaduto.»
La Belli portò un bicchiere d’acqua che Gaia bevve a piccoli sorsi prima di riprendere a parlare. Berté e gli altri restavano in silenzio, in attesa.
La farfalla si dibatte senza speranza.
«Venerdì scorso la Groppini ci ha sorpresi nel laboratorio di scienze... ci stavamo baciando. Mi ha spedita in classe in malo modo e ha chiamato Antonio nel suo studio... non so cosa gli ha detto, ma di certo l’ha costretto ad andarsene e a non vedermi più...»
«Non lo hai più sentito?» chiese Berté.
«No... non so dov’è... Io lo voglio, papà, lo voglio rivedere, gli voglio parlare... io lo amo, papà, ti prego, ritrovalo, papà...»
Gaia continuava a piangere e anche l’avvocato guardò Berté con gli occhi pieni di lacrime.
Questo giocattolo non te lo può comprare.
«Hai usato il bloster, vero?» chiese Berté.
La ragazza, scossa dai singhiozzi, annuì.
Berté si asciugò la fronte con il fazzoletto. Era fradicio e sentiva le tempie pulsare. La Belli, Sabatini e Parodi lo fissavano in silenzio.
«Cosa ne hai fatto, Gaia? Dove l’hai buttato?»
L’avvocato Valli guardava la figlia sconsolato, Berté intuì che avrebbe voluto chiederle di non rispondere, di non dire più nulla, ma il dolore che provava era più forte.
«In mare» rispose infine Gaia in un sospiro.
Berté si rivolse alla psicologa che a sua volta pareva impressionata.
«Dottoressa, la lascio nelle sue mani» le disse con voce roca.
«Sì» sussurrò lei di rimando, «potrei stare con Gaia in una stanza, da sola?»
«Cerchi di calmarla mentre aspettiamo il PM. Dovrà parlare anche con la dottoressa Rivalta. Parodi» disse Berté al sovrintendente che si avvicinò con espressione grave, «accompagnale nella saletta qui a fianco e chiama in Tribunale. E lei, Valli... si faccia coraggio. Fate un caffè all’avvocato.»
Si risedette alla scrivania mentre la ragazza, abbracciata al padre e affiancata dalla psicologa, usciva dall’ufficio.
La Belli gli si avvicinò con gli occhi miopi che brillavano per l’emozione.
«Dottore, come ha fatto a intuire che l’arma era un bloster?»
«Mestiere e fortuna, Francesca. Tanti piccoli tasselli che uno a uno sono andati al loro posto. Continuavo a pensare all’arma del delitto: la perizia diceva che il colpo era stato sferrato con grande violenza da una persona più alta della Groppini, con un attrezzo di ferro piuttosto pesante. All’inizio mi ero fissato su una mazza da golf, perché sospettavo del Riggi, ma poi il suo alibi è stato confermato.»
«In effetti Gaia è un’atleta» intervenne Sabatini.
«Già, è una tennista. Ma una racchetta non era un’arma compatibile con il colpo letale. Il ragazzino, quel Simone Fazi, mi aveva detto che a Gaia avevano già rubato una macchinina come quella. Costano molto quei trabiccoli e quindi i proprietari si muniscono di antifurti di ogni genere. Ho pensato di chiedere al carrozziere se nella macchina di Gaia avesse notato un bloster... è ancora un metodo che funziona da deterrente per i furti, costa poco ed è facile da usare. E il carrozziere ne aveva visto uno rosso di fianco al sedile del passeggero. Era sicuro che il martedì mattina, quando gli hanno riportato la macchina per riparare l’ammaccatura nuova, non ci fosse più... mi è bastato per ipotizzare che quella fosse l’arma del delitto.»
«È il Nardi il testimone?»
«Lui. Ha telefonato prima dell’interrogatorio: si era improvvisamente ricordato di aver visto una macchina piccola di colore rosa che si allontanava, mentre scendeva in motorino per rincorrere la Groppini. Per pochi attimi il Nardi non ha assistito all’omicidio, pensate che destino!»
«Complimenti, dottore!»
«Se non avesse confessato, cara Francesca, queste prove e queste deduzioni non mi sarebbero servite a molto: sono confutabili.»
«La ragazza sembrava un osso più duro, invece...»
«Ha diciassette anni, Sabatini. È fragile, e suo padre l’ha viziata.»
«E il Revelant?»
«Continuate a cercarlo; la sua fuga è stata inutile, adesso la stampa lo sbatterà in prima pagina. Non vedo un futuro per la sua carriera scolastica.»
«Pensi, dottore» intervenne la Belli, «se la Groppini avesse denunciato il professore e avesse parlato col padre della ragazza, ora sarebbe ancora viva.»
«La Groppini aveva il vizio di insabbiare le verità, ha taciuto un episodio che avrebbe gettato discredito sul suo istituto e così ha pagato con la vita. E il Nardi? Dice di aver amato quella donna e invece per paura l’ha lasciata lì come un rifiuto, tutta la notte, senza chiamare nessuno, senza pietà! Vergognoso! Adesso portatemi un altro caffè, per favore, devo fare il verbale e mi scoppia la testa.»
La testa continuò a scoppiargli per tutto quel lungo pomeriggio, nonostante i caffè, i pastiglioni arancio e un’altra aspirina.
Dovette partecipare a un incontro con il Terani, con la PM e con la psicologa, e anche intervenire a una conferenza stampa alla quale il questore aveva preteso che fosse presente. Aveva dovuto compilare le pratiche per il Nardi il cui fermo, ovviamente, non era stato convalidato.
E il tutto con un peso enorme sul cuore: quello di aver smascherato un’assassina minorenne.
Non provava nessuna soddisfazione.
Una donna uccisa, una giovane vita spezzata, un vespaio di verità scomode venute a galla. Ecco il riassunto di quella vicenda tragica.
Alla sera si ritrovò distrutto come di rado si era sentito e si fece riaccompagnare in pensione con la volante.
All’Aurora trovò la Marzia e i suoi gatti che lo accolsero con sorrisi e miagolii, ma non ebbe la forza di fermarsi a parlare e si diresse come uno zombie verso la sua camera farfugliando qualcosa come ‘non mi sento molto bene’.
Appena in camera s’infilò il pigiama.
Era l’ammissione definitiva della sua malattia. Lui odiava il pigiama proprio perché lo metteva solo quando era malato. Solitamente andava a letto in mutande e maglietta: era caloroso e avere addosso qualcosa sotto le coperte gli dava il soffocamento. La Patty aveva cercato di convertirlo all’uso del pigiama regalandogliene di griffati, ma quei completi dai colori assurdi, con il marchio ben in evidenza, gli mettevano ancora più tristezza. E infatti giacevano incellofanati nei cassetti di casa sua a Milano. Salvo questo a righe azzurre, il più serio, che si era portato a Lungariva per l’evenienza di una malattia. Che si era prontamente manifestata.
Grande, grosso e cagionevole.
Aveva la febbre, ne era certo, a giudicare dal male alle ossa e dai brividi. L’effetto aspirina della Belli si era ormai dissolto. Stava per chiamare qualcuno quando sentì due leggeri colpi alla porta.
«Luigi? Sono io, posso entrare?»
Era la Marzia.
Visita a un commissario cisposo.
«Grazie, vieni pure» gracchiò cercando di mettersi a sedere e di assumere un’espressione meno stordita.
La Marzia entrò reggendo un vassoio dove troneggiavano una teiera, una tazza e altri ammennicoli che Berté non mise a fuoco. La Marzia appoggiò con cura il tutto sopra un tavolino e si rivolse a lui con uno dei suoi sorrisi devastanti.
«Come sei ridotto!»
Lui rispose con una sequela di starnuti.
Sfacelo completo.
La Marzia gli porse il pacchetto dei fazzolettini di carta. Berté si soffiò il naso vergognandosi della sua condizione.
«Ti ho visto salire le scale con una faccia così pallida, così sofferente e mi sono preoccupata.»
«Devo avere l’influenza, hai un’aspirina, per caso?» tossicchiò Berté.
«Prima bevi questa tisana.»
Pigiama e tisana: fine di un uomo.
La Marzia riempì la tazza con un liquido verdastro, vi mise dentro un cucchiaino di sostanza collosa – miele si augurò Berté – rimestò con cura e gliela porse.
«Bevila tutta, vedrai che ti sentirai subito meglio.»
Pozione magica?
«Non è troppo calda? Ho anche la gola in fiamme.»
«No, è appena tiepida, fidati.»
Pinocchio e la Fata Turchina.
Berté inghiottì il beverone privo di sapore, che però non era repellente come temeva, guardando di sottecchi la Marzia. Anche ridotto come un relitto, sentì di desiderarla. Aveva i capelli neri raccolti in cima alla testa, ma una ciocca sfuggiva e ricadeva sull’occhio sinistro, dandole un’espressione provocante. Indossava una maglia blu scuro, scollata a V. Molto scollata.
Troppo scollata.
Quando si chinò per riprendere la tazza vuota, Berté si trovò i seni, una quinta, sotto gli occhi. Anche con il raffreddore, e di conseguenza il naso tappato, la testa intontita, la gola tizzone d’inferno, la vista di quel seno, e il profumo che emanava, produssero un evidente effetto che sperò rimanesse nascosto dalle coperte. La Marzia ci mise un tempo esagerato per rimettersi dritta e lo sguardo che gli lanciò non era equivocabile. Berté temette di fare uno sproposito e di rovesciarla sul letto e...
Invece...
«Non starmi troppo vicina, sono contagioso» disse mettendosi il lenzuolo sulla testa.
La Marzia scoppiò a ridere ripescandolo da sotto le coperte.
«Non ho mai avuto un raffreddore in vita mia, non lo prenderò da te, stai tranquillo, piuttosto ti sto facendo preparare una minestra di verdura. Più tardi te la porto così potrai prendere l’aspirina a stomaco pieno.»
Il bromuro sarebbe più indicato.
Berté si sentì perso davanti a lei. Era stravolto dalla stanchezza, dal calo di tensione, dal malessere, ed era... come aveva detto Parodi di Sabatini? Ah sì, era ‘cotto’, cotto della Marzia. Ma non poteva dirle quello che aveva nel cuore.
«Marzia, non possiamo andare avanti così, non siamo ragazzini.»
«Parla per te! Io sono una ragazza. Non ho ancora quarant’anni!» rise la Marzia sistemandogli le lenzuola.
«Marzia, hai capito?» Berté era serio. «Tu sei sposata e mi pare anche felicemente. A che gioco stiamo giocando?»
Anche la Marzia divenne seria.
«Non è un gioco, almeno non per me. È solo che nella vita è tutto complicato... ti sembra di avere accanto la persona giusta e poi... ecco che ne spunta un’altra che ti sembra ancora ‘più giusta’ e allora...»
«Devo andarmene per un po’, Marzia» disse Berté cercando di essere convincente anche con gli occhi lucidi per la febbre: «ho quindici giorni di ferie arretrate e penso sia arrivato il momento giusto per una vacanza».
«Come vuoi, Luigi» la Marzia gli rimboccò le coperte proponendogli ancora la visione dei suoi seni. «Io ti aspetto qui.» Gli passò una mano sulla fronte: «Scotti proprio! Senti, intanto fatti una dormitina, più tardi ti porto la minestra».
Si chinò e fece quello che Berté più temeva: lo baciò sulla bocca.
Addio buoni propositi.
Quel che avvenne dopo Berté lo classificò, nei giorni a venire, come ‘sogno di un commissario febbricitante’, un sogno particolarmente realistico, di cui bearsi e pentirsi per il resto della vita. Fatto sta che quando la Marzia se ne andò, Berté si sentì stranamente meglio.
Forse la tisana era miracolosa...
Che grande paraculo!
Si sentiva così bene da decidere di finire il racconto. Si alzò, prese il computer e se lo sistemò sulle ginocchia.
Doveva decidere la fine del volo della Farfalla nera.
Le sue dita iniziarono a scorrere sulla tastiera, veloci, sicure, febbricitanti, felici.
Farfalla nera
Come ogni mattina Xavier Ribeira bacia sua moglie prima di andare in città. La ama ogni giorno di più. È stata una gran fortuna quando lei gli ha detto sì ed è diventata sua.
Ricorda ancora la notte in cui aveva sentito bussare alla sua camera.
Aveva un po’ di febbre e non riusciva a dormire. Il leggero, insistente picchiettio lo aveva incuriosito. Si era alzato ed era andato alla porta.
«Chi è?»
«Sono io, mister Ribeira, sono Farfalla.»
Lui si era affrettato ad aprire. Sulla soglia c’era la ragazza che desiderava più di ogni altra, forse perché non era mai riuscito a comprarla.
Era grondante d’acqua e tremava.
«Che ti è successo, piccola?»
Farfalla era già entrata e aveva richiuso la porta.
«È ancora valida la sua proposta, mister Ribeira?»
«Quale, piccola?» domandò lui per essere sicuro di aver capito, e non illudersi.
«Quella di diventare sua moglie.»
Il suo cuore aveva fatto un balzo. Perché desiderasse quella ragazza dagli occhi inquieti non lo sapeva e nemmeno gli importava. Aveva sputato sangue per arrivare a potersi permettere tutto. Gli mancava quest’ultimo piacere.
«Sì, dolcezza... è sempre valida. Se vuoi prenderti questo uomo innamorato... lo dovrai curare, però. Ho la febbre questa notte.»
«Accetto, mister.»
«Piccola Farfalla, fatti abbracciare» l’aveva presa fra le braccia sentendosi il fuoco nel sangue e la tenerezza nel cuore «e chiamami Xavier.»
«Ascolta, Xavier... Se mi vuoi, prima mi devi aiutare. Sono morta, Xavier, ma posso rivivere... se tu lo vorrai.»
Ripensandoci Ribeira provava ancora l’emozione che il racconto di Farfalla gli aveva provocato. Era scoppiato a piangere con lei, si era sdegnato, aveva riso e infine accettato quello che lei chiedeva. Con le sue conoscenze e il suo denaro tutte le porte si sarebbero aperte. E il volo verso una nuova vita sarebbe divenuto realtà.
«Mi vorrai un po’ di bene anche tu?» le aveva sussurrato con un tremito nella voce, stringendo le sue mani.
«Sì, Xavier, ti darò tutto il bene di cui sono capace.»
E così era stato.
«Farfalla» le dice stamattina, «fatti bella perché questa sera ti porto a ballare in quel locale sul mare che ti piace tanto. Ti farò danzare tutta la notte.»
La sua piccola Farfalla, in un elegante costume nero, stesa su una sdraio tra i fiori della terrazza, ricambia con affetto i suoi baci.
Lo vede partire con la sua lunga auto azzurra e riprende a leggere: giornali americani, come sempre, da molti anni ormai.
Ne sfoglia attenta uno, poi quando l’ha terminato, lo lascia cadere a terra e ne prende un altro. Così da tanto tempo ormai.
Ma quella mattina Farfalla tra le pagine di un quotidiano trova la notizia tanto attesa. L’aspettava da anni, ci aveva tanto sperato, ma non era certa che un giorno l’avrebbe trovata... e invece...
Scoppia in una risata lunga, travolgente, inarrestabile.
Ride, ride, ride, poi si alza e inizia a volteggiare.
È un’antica danza tribale che pensava di non ricordare più e che invece balla come se fosse ancora tra la sua gente, nello spiazzo polveroso davanti alle capanne, sotto lo sguardo vigile dello stregone.
Alza le braccia al cielo e ringrazia le stelle, il sole, la luna pensando alla tribù di quell’orfano: era considerata la vergogna del loro paese perché pazzia e violenza erano presenti in molti maschi della genia. L’idea di prendere quel bambino che nessuno voleva perché nato dal più feroce, folle, smanioso guerriero della sua tribù, e fingere con John che fosse suo figlio si era alla fine rivelata vincente... la magia nera era sempre stata il suo credo, nessuno era riuscito a scardinare la sua fede, non il dolore, non le violenze né la carità delle suore. L’amuleto che lo stregone aveva messo al collo del piccolo orfano racchiudeva la voce della sua vendetta, avrebbe risuonato nella giovane mente inconsapevole fino allo stremo. Così aveva deciso Farfalla, celando il suo cuore oscuro, incapace di perdono.
«Mamma, perché balli e ridi? Vieni qui con noi!»
Sono le voci di Little John e di Gisela che stanno nuotando nella piscina sottostante. John è diventato bello e forte, e Gisela, una bambina robusta con tanti capelli, assomiglia tutta a Ribeira.
I suoi figli non l’hanno mai vista così allegra. Li saluta con un bacio e vola da loro, impalpabile farfalla dalle ali nere.
La notizia che aveva fatto così bene all’umore di Farfalla si trovava nella cronaca nera dello Stato di New York.
«Tragedia familiare alla periferia di New York. L’altro ieri sono stati ritrovati i corpi senza vita di John e Marge Pinkerton. I due coniugi sono stati uccisi dal figlio quindicenne, Little John. Li ha massacrati con una scure, poi ne ha nascosti i pezzi in cantina. I vicini, non vedendoli per alcuni giorni, hanno dato l’allarme alla polizia. Ignota per il momento la causa che ha scatenato la carneficina. Figlio legittimo di John Pinkerton e di una giovane africana morta suicida, a cinque anni Little John era stato portato in America e riconosciuto dal padre. Da subito però aveva creato problemi ai genitori per la sua indole ribelle, per atti di violenza sui compagni, per gli ingiustificati scoppi di follia, fino all’estremo atto criminoso...»
FINE