Primo giorno
Martedì
Era un martedì di fine novembre, una mattina di bassa pressione e pochi colori. Per intenderci: una di quelle più favorevoli all’insorgere dell’emicrania.
Non appena aveva aperto le persiane della sua stanza alla pensione Aurora e aveva visto quel cielo grigiastro, senza esitare Berté aveva ingollato il primo Sinflex della giornata. Gli avevano detto che l’unico modo per combattere il dannato disturbo era giocare d’anticipo e quindi, alla minima avvisaglia, ingoiava la pasticca arancione, una delle poche efficaci.
L’orologio segnava le 7 e 15.
Dopo la doccia si vestì, raccolse dallo scrittoio chiavi, cellulare, portafoglio e lo sguardo gli cadde sul suo PC sistemato accanto a un piccolo vaso di fiori bianchi.
Non scriveva racconti da luglio, dall’ultimo caso di omicidio che aveva risolto. Questo non faceva bene al suo umore, ma d’altra parte l’ispirazione gli veniva solo quando era sotto stress da ‘rabbia degli ammazzati’, come chiamava l’emozione che gli montava dentro davanti a un omicidio.
Berté passò la mano sullo schermo chiuso del computer per togliere un invisibile velo di polvere. Quasi una carezza a quell’insostituibile strumento.
Prese il cappotto nero e scese a fare colazione.
Da cinque mesi viveva lì e ancora non si era deciso a cercare un appartamento in affitto. Il sovrintendente Parodi gliene aveva fatti vedere una decina prima di capire che era tempo sprecato: lui trovava sempre difetti in tutti.
Criticone nato.
Mettere su casa a Lungariva significava rinunciare alla speranza di tornare a Milano.
Nella sua Milano, nella sua Questura, nel territorio che conosceva palmo a palmo. Lui, Gigi Berté, commissario celibe di quarantadue anni, mezzo milanese e mezzo calabrese, un metro e ottantacinque per novanta chili, a Milano era nato, cresciuto, e nei suoi quartieri aveva investigato per quasi vent’anni. Se era finito in Liguria era solo perché aveva combinato un maledetto casino.
La sua ritrosia a trovarsi una casa, però, era causata anche da un altro motivo...
Da un motivo con un corpo notevole.
Ammetterlo di fronte alla coscienza rompipalle e piuttosto caustica che si ritrovava non era piacevole. Forse un giorno felice il suo Super-Io avrebbe smesso di torturarlo con giudizi trancianti... No, non avrebbe mai smesso. Colpa della nonna Peppa e delle estati trascorse nella sua casa a Santa Priscilla, in Calabria: prima di trascinarlo in chiesa a confessarsi lo costringeva ad ascoltare la coscienza e i suoi richiami, e ormai quella voce viveva in lui.
Si chiese se a tutti gli umani succedesse lo stesso. Si rispose di no. Era da escludersi che Ruben – uno degli ultimi transessuali cocainomani che aveva arrestato a Milano per rissa e spaccio – avesse una coscienza. Ruben non aveva di certo alcun pensiero, alcuna remora, alcuna voce interiore in grado di frenare i suoi impulsi. Ruben agiva e i pensieri li lasciava agli altri.
Emicrania: conseguenza del troppo pensare a vanvera.
Comunque il ‘fattore nuovo’ aveva un volto, un corpo, e anche un nome: Marzia. Anzi ‘la Marzia’ con l’articolo davanti. Uso lombardo che gliela rendeva più vicina, più familiare e più sua.
Sperando che la pastiglia facesse effetto al più presto, Berté entrò nella piccola sala da pranzo e si guardò in giro speranzoso, ma della proprietaria della pensione Aurora non c’era traccia.
Intorno ai pochi tavoli, occupati da un paio di agenti di commercio e da una coppia di tardivi turisti stranieri, si aggirava solo la Giustina, l’anziana cameriera.
Era bello quando, al mattino, era la Marzia a servirgli il caffè addolcito con i suoi sorrisi – non aveva mai visto denti tanto bianchi e perfetti – e con le sue mani curate e affusolate. Chi l’avrebbe mai detto che avrebbe trovato armoniosa una taglia 50? Proprio lui, che le voleva snelle come la Patty!
La Patty... bionda, attraente, brillante e lato B da brasiliana. Adesso gli venivano in mente solo le sue qualità ma, quando si erano piantati dopo otto anni di relazione, notava solo i difetti!
Ora un po’ gli mancava.
Balla, pietosa balla.
Da quando era al ‘confino’ – come melodrammaticamente lo definiva lui – non aveva pensato spesso alla Patty.
Pensava di più alla Marzia.
Chissà dov’era in quel momento? Forse al mercato... al martedì lei ci andava sempre; oppure era presa dalle commissioni d’obbligo per la pensione che gestiva pressoché da sola...
Oppure era col marito.
Già, il comandante Marco Pestarino, che era rientrato due mesi prima a Lungariva, proprio sul più bello, proprio quando lui e la Marzia stavano per approfondire... la loro... la loro amicizia.
Amicizia? Pietosa balla, anche questa.
In effetti prima del ritorno del marito c’erano stati una serata a villa Dunielli, un’opera lirica all’aperto e... qualche bacio. Poi i loro rapporti si erano limitati a sguardi e poche parole.
Inutile trincerarsi dietro la storiella dell’uomo solo che cerca compagnia: la Marzia era lontana dal genere donna-consolazione; o invece...
Un pensiero fulmineo. Una meteora contro un cervello già aggredito dall’emicrania: la Marzia ingannava l’attesa del comandante intrattenendo i clienti prestanti?
Pensiero da terrone geloso.
Berté scosse la testa per allontanare quelle idee moleste e prese dal banco una fetta di torta Paradiso dall’aspetto soffice e senz’altro fatta in casa. La mise sul piattino, insieme con una fetta di focaccia salata. Era un accostamento orrendo, ma lui alla focaccia di Passalacqua non sapeva resistere a nessuna ora del giorno.
Al diavolo la glicemia!
Gli sarebbe venuto il diabete come alla nonna Peppa, che era golosissima e se qualcuno le sottraeva i dolci diventava pure incazzosissima. Poi era morta per tutt’altro, quindi tanto valeva non flagellarsi preventivamente.
Fece un cenno alla signora Giustina perché gli portasse il caffè. Lei sapeva bene che prima del doppio caffè mattutino Berté faticava ad articolare le parole e, servizievole, gli mise davanti anche il Corriere della Sera e il Secolo XIX. Un privilegio da Grand Hotel, questa rassegna stampa mattutina. Come i fiori.
Fiori in camera, sul tavolino della colazione, sul tavolo a pranzo e a cena. Fiori a lui, che li aveva sempre detestati. Continuavano a non piacergli, però ora li accettava come segno di un’attenzione speciale riservata a lui.
Vide che accanto al vasetto di fiori freschi c’era un foglietto. Lo prese e lesse:
Svegliati, svegliati!
e diventa amica mia
Farfalla che dormi.
Un haiku, delicata poesiola giapponese. Anche questo era un gentile pensiero della Marzia. Ogni tanto glieli lasciava in camera, sempre accanto ai fiori, e lui si scervellava per capirne il significato...
Zuccone razionale.
Forse, invece, doveva solo imparare a godere dell’attimo di incanto che procuravano al lettore.
Si infilò l’haiku in tasca e aprì il giornale alla pagina sportiva. Era martedì e senz’altro si trovava ancora qualche articolo sul trionfo domenicale del Milan, la sua squadra. Un quattro a uno non si dimentica in un giorno!
Sorseggiando il doppio espresso sentì ripartire i circuiti del suo corpo. Aveva dormito poco e male, sognando il cane che aveva da bambino intento a scrivere il suo nome su un foglio, e svegliandosi ogni due ore.
Affondò i denti nella fetta di torta che meritava il nome di paradiso e in rapida successione la focaccia. Stava giusto meditando sull’occhio di bue con la marmellata morbida come velluto che sembrava chiamarlo dal banco colazioni, quando vide entrare il sovrintendente Parodi.
«Dottore... buongiorno» disse quest’ultimo avvicinandosi al tavolo.
«Ahi, ahi, ahi, Parodi! Se sei già qui, vuol dire che c’è qualche grana. Perché non mi hai telefonato?»
«Ha il cellulare spento.»
Berté mise la mano in tasca, estrasse il telefonino e constatò che era vero.
«Prima di parlare beviti un caffè.»
«Commissario, da quando lavoro con lei, sono diventato caffeinomane anch’io.»
«Dai, fammi compagnia.»
La cameriera che, oltre a capire i gesti, aveva le orecchie lunghissime, si presentò dopo un attimo con la tazzina per Parodi.
«Dottore, un omicidio!»
Paese tranquillo? Due morti ammazzati in pochi mesi.
«In via Marconi, vicino a un cassonetto della spazzatura, l’ultimo prima della salita per la collina di Vezzarigo» attaccò il sovrintendente in tono formale «è stato trovato il corpo senza vita di Adelaide Groppini. Pare che sia stata colpita alla nuca con un corpo contundente e che cadendo abbia battuto la tempia.»
«Già identificata! Personaggio famoso di Lungariva?»
«Era la preside dell’Istituto San Giorgio di Genova, un liceo privato molto prestigioso.»
«Quindi era di Genova?»
«No, era nata e abitava qui a Lungariva.»
Berté bevve l’ultimo sorso di caffè e, appoggiando la tazza, avvertì la fin troppo familiare sensazione di rabbia sorda che gli saliva dallo stomaco.
«A che ora è stata trovata?» chiese a Parodi.
«Mezz’ora fa è arrivata una telefonata in commissariato. Una vecchietta che abita da quelle parti è andata col suo cagnolino a buttare la pattumiera di buon’ora e ha trovato il corpo. Sabatini ci aspetta là.»
Berté prese il cellulare dalla tasca e chiamò il tribunale di Chiavari.
Il PM di turno quel giorno era la dottoressa Carla Rivalta, un donnone che di femminile aveva giusto il nome e che gli disse che lo avrebbe raggiunto appena possibile sul luogo del delitto.
«Anche la scientifica sta arrivando sul posto» aggiunse Parodi appoggiando la tazzina sul tavolo.
«Conoscevi la vittima?» chiese Berté.
«Di vista, dottore. Mia figlia è andata alle scuole pubbliche. Con le nostre paghe non potevo certo mandarla al San Giorgio.»
«Che tipo era?»
«Una bella donna, sulla sessantina, distinta, sempre elegante. Il marito è ingegnere e si chiama Alberto Savio. Hanno due figlie. Una famiglia ricca e per bene.»
«Amanti?»
Parodi fece un’espressione meravigliata.
«Che io sappia no. Certo non era come la Regina del catrame... altro tipo di donna!»
Berté ripensò al caso che avevano risolto in luglio, quello appunto di un’improbabile ‘regina’ mangiatrice di uomini.
La signora Giustina si avvicinò per prendere le tazzine, mentre i due poliziotti si alzavano da tavola.
Dirigendosi con Parodi verso l’uscita della pensione, Berté allungò lo sguardo sui due gatti della Marzia. Erano spaparanzati sul banco del bureau e facevano le fusa. Gli piacevano quei due Maine Coon, enormi, pelosissimi, curiosi e sempre fra i piedi. Gatti che si comportavano come cani.
L’appartamento della Marzia era proprio lì dietro. Gli sembrò di sentire la sua voce, una risata. Fece qualche carezza ai micioni guadagnandosi i loro miagolii soddisfatti e un paio di leccatine sulle mani.
«Venendo qui ho incontrato Pestarino che...» disse Parodi con un mezzo sorriso.
Berté cercò di assumere un’espressione interrogativa.
«...il marito di Marzia» spiegò Parodi.
Berté cercò di assumere un’espressione sorpresa.
«Ah sì?»
Grande guitto.
«Che tipo in gamba! Per portare in giro per il mondo certe navi e restare mesi interi in mare ci vogliono le palle quadre!»
Berté fece un gestaccio.
«Anche per restare qui ci vogliono le palle quadre! Muore più gente ammazzata a Lungariva che in mezzo all’oceano!»
Uscì a grandi falcate dalla pensione Aurora, cercando di ignorare lo sguardo di Parodi.
Con la fine delle vacanze estive il paesaggio di Lungariva era cambiato. La folla nevrotica dei turisti era rientrata nelle nevrotiche città e così il traffico di auto e motorini lungo la litoranea si era ridotto.
Anche il mare aveva ritrovato il suo stato naturale senza l’andirivieni di motoscafi e barche a vela: stanco di aver ospitato tutta quella gente, lambiva pigramente i ciottoli sulle rive. Solo durante il fine settimana ricompariva qualche villeggiante – quelli che avevano la casa e la barca di proprietà e se le volevano godere fino all’ultimo – ma durante la settimana la vita sembrava sopita e rallentata.
Mentre Parodi frenava per far passare un gruppo di studenti, Berté lo guardò di sottecchi.
Pensò che ormai il sovrintendente si fosse abituato al suo caratteraccio. Non doveva essere stato facile per lui accettare un capo che nei primi mesi era incazzato con il mondo intero. E d’altronde, quale poliziotto avrebbe digerito con facilità il passaggio dalla Questura di Milano al commissariato di Lungariva?
Non poteva dire che adesso fossero diventati ‘amici’, ma Berté doveva ammettere con se stesso che aver conquistato almeno la stima di Parodi lo rilassava. Il sovrintendente gli aveva anche presentato una sua nipote trentenne, una certa Rita. Una ragazza gradevole, ma a Berté proprio non interessava. Aveva capito subito che era una di quelle che appena hanno un uomo cercano di cambiargli gusti e aspetto come piace a loro: infatti, al primo incontro gli aveva chiesto perché non si tagliava la coda, che sarebbe stato più fresco e in ordine.
Assurdo!
Per lui tagliarsi la coda, lunga, appena brizzolata, crespa e amatissima, era inimmaginabile. Era l’unica vera amica che gli fosse rimasta. Una compagna per la vita che non tradisce. Solo a un’altra cosa non avrebbe rinunciato.
A scrivere.
Si chiese quando gli sarebbe venuta di nuovo l’ispirazione...
Parodi parcheggiò a pochi metri dal cassonetto presso il quale era stato ritrovato il corpo di Adelaide Groppini e Berté scese in fretta. Notò nei pressi una ripida salita che, con una stretta curva a gomito, si inoltrava verso le colline punteggiate da vecchie ville immerse in giardini ancora fioriti.
Da tempo meditava di fare una passeggiata da quelle parti. La Marzia gli aveva descritto la vista spettacolare che si godeva dalla cima. Aveva detto: è una passeggiata stupenda. Se vuoi ci andiamo insieme...
Basta! Doveva concentrarsi sul caso.
Sabatini, uno dei suoi agenti più giovani, aveva già circoscritto la zona, insieme con un collega.
Berté li salutò e si chinò a osservare la vittima.
La donna giaceva prona, ma il volto era visibile di profilo. Sotto la testa si allargava una macchia di sangue.
Parodi aveva ragione: era stata una bella donna. Aveva un viso dai lineamenti regolari, un trucco leggero e una folta capigliatura bionda. Era vestita bene: gonna di tweed, maglione di cachemire, giacca di renna, scarpe eleganti e accanto a lei, abbandonata a terra, una borsa di marca. All’anulare destro la Groppini portava un anello di brillanti di notevole valore e ai polsi diversi braccialetti d’oro.
L’assassino non era un ladro.
Suonò il cellulare. Era il questore di Genova, il dottor Terani.
«Buongiorno, dottore. Ha già saputo?»
«Sì, mi ha chiamato la Rivalta. Sono sconvolto, conoscevo bene la signora Groppini» il tono del questore era mesto «i miei figli hanno studiato nella sua scuola. Avete già avvisato il marito? Mandi un agente a prenderlo. Sto arrivando anch’io.»
Berté chiuse la comunicazione, mandò Sabatini a casa del marito della vittima e, in attesa della scientifica, si mise a parlare con l’anziana signora che aveva rinvenuto il cadavere. La vecchietta era sotto choc, continuava a ripetere la stessa storia e cercava di far tacere il suo cagnolino che abbaiava isterico. Era scesa per portare fuori il cane e la rumenta e non aveva visto nessuno, solo quella signora bionda stesa a terra. Non avendo il cellulare era corsa a casa a telefonare alla polizia, ma poi era tornata lì, dove c’era la polizia, perché aveva paura a restare in casa da sola.
Mentre gli agenti cercavano di tenere lontano il capannello di persone che si era radunato intorno, arrivarono gli esperti della scientifica e il medico legale.
«Che mi dice, dottor Franzini?» gli chiese Berté dopo qualche minuto.
«Ha ricevuto un colpo letale nel cervelletto» gli rispose dopo un breve esame del corpo «e cadendo ha picchiato la tempia contro il marciapiede. Vede, la ferita coincide con il bordo del marciapiede, quindi credo sia proprio questo il luogo del delitto, ma sarò più preciso dopo l’autopsia. La morte dev’essere avvenuta intorno alle ventitré, mezzanotte al massimo.»
Berté annuì serio prima di aggiungere: «L’arma del delitto?»
«Un corpo contundente piuttosto pesante... come un bastone o un manganello.»
L’auto del questore frenò a pochi passi da loro.
«Che fine orribile» mormorò il Terani avvicinandosi al medico e stringendo la mano di Berté «chi avrebbe mai pensato che... Mi fido di lei, mi raccomando! Ecco il marito, vado a porgergli le condoglianze.» Terani si allontanò a passi rapidi verso un uomo di mezza età che si asciugava gli occhi con un fazzoletto.
«Abitava qui vicino?» domandò Berté a Parodi.
«No, in centro. Lei pensa che la vicinanza con il cassonetto dei rifiuti sia un messaggio dell’assassino?» ipotizzò il sovrintendente.
Berté scosse la testa.
«È presto per dirlo, ma non mi sembra. Sarebbe stata buttata dentro, se si voleva sottolineare lo spregio. Altri testimoni?»
«Per ora nessuno; ho mandato Sabatini a parlare con quelli che abitano qui intorno.»
Berté osservò i condomini signorili che circondavano la zona. Molte finestre erano chiuse: gli appartamenti erano di proprietà di milanesi o torinesi che vi trascorrevano le vacanze o i fine settimana. Per la maggior parte dell’anno quelle case rimanevano disabitate, quindi si riduceva la possibilità che qualcuno avesse visto o sentito qualcosa.
L’arrivo della dottoressa Rivalta riportò Berté di nuovo vicino al corpo. Notarono insieme che nell’espressione fissa degli occhi si intravedeva una punta di sorpresa: la vittima non si aspettava di essere colpita. Non c’erano segni di colluttazione né gli abiti erano sgualciti o strappati. Nessuna traccia nemmeno dell’oggetto con cui era stata colpita.
Dopo le foto di routine, col permesso del PM, Berté fece esaminare il contenuto della borsa della vittima. Portafoglio, cellulare, chiavi di casa, agenda e tutte le innumerevoli altre cose che le donne tengono in borsa.
Anche il marito, chiamato a riconoscere gli effetti personali della moglie, confermò che a suo avviso non mancava nulla.
La Rivalta affidò formalmente il caso a Berté e lo istruì su come desiderava organizzare le indagini. Era una donna molto pratica e di esperienza e Berté si trovò subito d’accordo con lei. Mentre salutava il magistrato che doveva rientrare in tribunale, si accorse di avere accanto la secca figura del Costa. Il cronista-avvoltoio era già planato sul posto. Chissà chi lo avvertiva? Arrivava più veloce delle volanti e mai una volta che scrivesse quello che gli si diceva. Si vede che li addestravano così i cronisti: ascoltate quello che vi dicono e scrivete quello che vi pare. Quindi Berté aveva imparato a dire sempre il meno possibile.
«...’giorno, commissario!»
«Eh no, Costa! Non mi chieda niente e ci lasci lavorare.»
«Ma almeno...»
«Su, faccia il bravo» Berté usò provocatoriamente il tono paternalistico. Gli diede una pacca sulla spalla e lo gratificò con un sorriso di comprensione, prima di filarsela.
In fondo quell’impiccione prezzolato gli stava simpatico, ma cosa poteva dirgli? Non sapeva nulla di quella donna se non che qualcuno l’aveva colpita e messa a tacere per sempre. Una vita spezzata che sarebbe diventata ben presto una notizia. E a lui spettava il compito di scavare nei segreti della vittima senza pietà né per chi le stava attorno né per lei.
Mestieraccio!
Ma se l’era scelto lui, e non avrebbe potuto fare altro.
Rientrato in commissariato, fece e ricevette alcune telefonate e lesse i primi verbali che erano arrivati, finché Parodi entrò nel suo ufficio.
«Commissario, ci sono il marito e le figlie della vittima.»
«Fai entrare prima lui, da solo» disse Berté segnandosi un appunto.
«Ah, dottore, guardi che a pochi minuti di strada dal luogo del delitto abita Tommaso Nardi, il proprietario del liceo San Giorgio. Ha una villa in collina.»
«Quindi la Groppini poteva essere stata da lui» osservò Berté.
«O magari ci stava andando» precisò Parodi.
«Contattate questo Nardi e convocatelo. Intanto fai entrare il marito.»
Alberto Savio entrò e gli tese una mano fredda ma energica che Berté strinse con altrettanto vigore.
Il verbale che Berté aveva appena letto lo indicava come sessantacinquenne, ingegnere, dirigente in pensione di un’azienda di Genova, per la quale collaborava ancora come consulente.
Da giovane doveva essere stato un uomo bellissimo. Non era molto alto, ma aveva un invidiabile fisico asciutto, occhi chiari e folti capelli argentei. Era abbronzato e portava con eleganza una camicia azzurra, impeccabili pantaloni blu e un pullover beige di cachemire. Un Paul Newman italiano.
«Ingegner Savio, sieda prego» Berté bevve una sorsata d’acqua e si schiarì la voce. Attese che l’uomo sedesse rigido davanti a lui e poi, guardandolo dritto negli occhi, esordì: «Le porgo le mie condoglianze... Io... mi rendo conto che lei sia sconvolto, ma purtroppo sono costretto a farle delle domande, anche imbarazzanti. Il fatto è che spesso, quando c’è di mezzo un assassinio, viene uccisa anche la privacy della vittima...»
L’uomo chinò la testa per annuire, visibilmente a disagio nella situazione in cui si era venuto a trovare, ma controllato. Berté provò una sensazione di forte fastidio che non seppe giustificare. Quell’uomo era affranto, ma anche sollevato. Quell’aggettivo gli venne in mente in modo chiaro e sentiva di non sbagliare.
Sulle labbra del Savio, a tratti compariva un sorriso, prontamente celato. Forse un tic nervoso dovuto allo choc.
«A un primo esame il medico legale ha ipotizzato come ora del delitto le ventitré di ieri sera. Lei dove si trovava a quell’ora?»
«A casa. Ero rincasato come sempre da Genova verso le otto. Sapevo che ieri pomeriggio Adelaide aveva un consiglio d’istituto e sarebbe rimasta a scuola fino a tardi. Poi, siccome capita spesso che si fermi con qualche collega a mangiare una pizza prima di riprendere il treno, non l’ho aspettata e ho cenato da solo. Ho visto un film e mi sono addormentato sul divano. Mi sono risvegliato solo stamattina, quando il suo agente mi ha citofonato. Mi sono reso conto solo allora che Adelaide non era rientrata.»
«Lei è rimasto solo per tutta la serata, quindi.»
«Sì, certo.»
Berté segnò sul taccuino: niente alibi.
«Sua moglie non la avvisava se si fermava a mangiare a Genova? Aveva il cellulare, no?»
Il volto del Savio si coprì di rossore. Eppure a Berté la domanda posta sembrava innocente.
«Sì... sì e no...» farfugliò imbarazzato «stamattina mi sono accorto che il mio era scarico.»
«E non avete un telefono fisso?»
«No. Non più, abbiamo disdetto il contratto l’anno scorso.»
Risparmio da genovesi, pensò Berté; con i luoghi comuni spesso ci si azzecca.
«Quindi ieri sera non ha avuto contatti telefonici con sua moglie?» Berté ritenne superfluo specificare che tanto lo avrebbe verificato subito controllando i tabulati.
Il marito della preside si prese tempo per rispondere.
«No, con Adelaide ci siamo sentiti verso le cinque. Mi ha chiamato lei in ufficio e mi ha detto che aveva il consiglio e che sarebbe durato almeno fino alle otto.»
«Non le ha detto se dopo doveva incontrarsi con qualcuno?»
«No, ma come le ho già detto, è capitato altre volte che si fermasse fuori a cena e tornasse la sera tardi.»
Ancora quel sorrisino forzato.
«Nella zona dove sua moglie è stata rinvenuta abita Tommaso Nardi, il proprietario del liceo. È possibile che fosse andata da lui?»
Il Savio diventò ancora più rosso e sembrò ancora più a disagio.
«Forse capitava a volte che Adelaide dovesse andare da lui dopo un consiglio d’istituto, ma non lo so di preciso, come le ho detto, non ci siamo sentiti.»
«I rapporti tra lei e sua moglie erano buoni?»
«Siamo... eravamo sposati da trentasei anni, dottore. I rapporti tra noi erano buoni, sì, certo... lei capisce, ormai il nostro era un rapporto maturo.»
«Cosa intende per rapporto ‘maturo’?»
Il Savio abbassò lo sguardo. Si intuiva che stava soppesando con attenzione le parole da usare.
«Intendo che non ci telefonavamo ogni due ore come fanno i fidanzatini. Ognuno organizzava la propria vita senza consultare l’altro.»
«Le chiedo scusa per quello che sto per chiederle, ma io devo indagare se vogliamo prendere l’assassino: sua moglie aveva una relazione extraconiugale?»
Il Savio accusò il colpo e tossì imbarazzato prima di rispondere.
«No. Adelaide si dedicava al lavoro con grande passione e basta.»
«E lei?»
«No... nulla, nulla.»
Il modo in cui venne pronunciato quel ‘nulla’ aveva qualcosa di definitivo, come se la cosa fosse da escludersi a priori.
Berté lasciò cadere l’argomento.
«Torniamo a sua moglie. Una donna tranquilla, che svolgeva il suo lavoro di preside da diversi anni. Da quanti esattamente?»
«Una decina, da quando il dottor Nardi le aveva affidato la direzione del San Giorgio.»
«Siete amici con il Nardi?» Berté diede un’occhiata alle carte sulla scrivania.
«Ci si conosce dai tempi del liceo, ma per anni ci siamo persi di vista. Solo quando ha proposto a Adelaide di dirigere il San Giorgio abbiamo ripreso i contatti. Adelaide lo incontrava per ragioni professionali, direi una volta o due al mese, qualcosa di più se ce n’era la necessità. Io l’ho visto solo in poche occasioni formali. L’ultima al funerale di sua moglie, circa sei mesi fa.»
«La signora Groppini quindi aveva assoluta libertà nel gestire e dirigere l’istituto?»
«Sì, certo, Adelaide era una professionista e se la cavava anche se...»
«Anche se?»
«Ecco, Adelaide è... era una donna apparentemente molto decisa ma sotto sotto piuttosto fragile. Per esempio, ultimamente mi parlava spesso di un alunno, guardi, mi ricordo anche il nome: Matteo Rossi, che la contestava sempre anche in modo violento. Adelaide si era presa addirittura uno spintone da lui ed era caduta.»
«L’ha denunciato?»
«No, ma non sopportava questo Rossi e nemmeno la madre che lo difendeva e la contestava nelle riunioni di classe. Sosteneva che Adelaide fosse un’incapace, si figuri!»
«Un’antipatia personale?»
«Forse sì, non saprei. So che Adelaide voleva chiedere al Nardi di espellere il ragazzo. Per Adelaide era un fallimento, un colpo al cuore. Ripeteva sempre che il San Giorgio è una scuola privata, si sceglie volontariamente di frequentarla e se non piace...» l’ingegnere fece l’eloquente gesto che intendeva dire: ‘chi non condivide: smammi’!
«Le chiederò di essere più preciso a questo riguardo, ingegnere. Vorrei che poi si fermasse col sovrintendente Parodi per stendere il verbale e per darci tutti i dettagli che le vengono in mente su questo argomento. Ma intanto ci può dire di altre persone, professori, personale non docente, che potessero avere motivi di contrasto con sua moglie?»
«Fino al punto di ammazzarla? No, commissario, proprio no. Contrasti ne aveva, ma niente di così serio da...» il Savio si prese la testa tra le mani cercando di soffocare un singhiozzo «un paio di insegnanti con i quali non c’era feeling glieli posso segnalare, ad esempio la vicepreside, la professoressa Saltini, che forse ambiva al suo posto, ma da lì a pensare che...» la voce del Savio si incrinò impedendogli di finire la frase.
«Certo... va bene, ingegnere, ma devo farle un’altra domanda personale. La situazione economica sua e della signora. La avverto che dovremo predisporre un’indagine patrimoniale, quindi...»
«Non abbiamo segreti. Adelaide possedeva alcuni appartamenti qui a Lungariva che affittava, e anche un paio di capannoni industriali, uno affittato a un maglificio e uno a un’azienda alimentare. Adelaide lavorava per passione, avrebbe potuto benissimo farne a meno. E io ho sempre provveduto alla famiglia senza problemi.»
«Le vostre proprietà sono in regime di separazione dei beni?»
«Sì.»
«E che lei sappia, sua moglie aveva fatto testamento?»
«I beni di Adelaide andranno alle nostre due figlie, Gisella e Loretta. Abbiamo entrambi fatto testamento presso il notaio Serpi, può controllare.»
«Saremo costretti a farlo, ingegnere. Ma ora la lascio andare» concluse Berté annotandosi alcuni appunti, «se ricorda altri particolari non esiti a chiamarmi. Questo è il mio cellulare.»
Alberto Savio prese il biglietto da visita e si alzò visibilmente sollevato.
Troppo sollevato.
Perché quell’aggettivo continuava a tornargli in mente? Forse era quel sorrisetto nervoso a ricordarglielo.
«Grazie» mormorò l’ingegnere, «ho molto da fare, telefonate, parenti, amici, giornalisti, tutti cercano di parlarmi, ma io non mi sento di parlare con nessuno...» questa volta gli occhi blu del Savio mostrarono un dolore sincero.
Berté gli porse la destra e lo lasciò a Parodi per le formalità.
Si alzò provando la fastidiosa sensazione di chi alzando i veli per cercare la verità, trova situazioni impreviste e poco piacevoli.
Aprì la finestra per cambiare aria al suo ufficio e diede un’occhiata al sole malaticcio che cercava di farsi largo tra le nuvole. Nessun uccello volava nel cielo grigio. Solo una farfalla fuori stagione, dai colori spenti, gli svolazzò davanti prima di posarsi sopra la siepe di pitosforo che circondava il commissariato.
Berté guardò sotto. Tra le palme alte e sottili, sulla cui stabilità si interrogava da mesi, spuntavano operatori e giornalisti della RAI e di altre TV, fotografi e paparazzi tra cui riconobbe il solito Costa e altre vecchie conoscenze.
Richiuse la finestra con un colpo secco prima che qualcuno lo vedesse.
Il suo rapporto con la stampa era peggiorato da quando, in uno dei tanti ‘intervalli’ della sua relazione con la Patty, aveva avuto una storia, più che altro di sesso, con una giornalista di Canale 5 interessata a un caso che Berté stava seguendo all’epoca. Ed era quasi arrivata a mettere le mani su dei documenti riservatissimi. Lui l’aveva beccata appena in tempo, per poco non ci rimetteva la faccia. Per lavoro però, non poteva sottrarsi ai cronisti, e si sforzava di essere civile con loro. In fondo anche i giornalisti campavano stando sempre a contatto con la schifezza umana.
La schifezza umana... si presentava sotto specie diverse, ma la sostanza era sempre quella, e quando pensava di averla vista in tutte le sue peggiori forme, ecco che lo sorprendeva con qualcosa di ancora più raccapricciante.
Un soggetto sempre, amaramente, attuale.
Berté prese dalla tasca la sua pennetta personale e si trovò in mano anche il foglietto dell’haiku. Lo rilesse e sorrise fra sé.
Inserì la chiavetta nella porta USB del computer e aprì un nuovo file.
L’ispirazione era arrivata.
Farfalla nera
La chiamavano Farfalla, nel villaggio.
Il nome che alla nascita le aveva dato lo stregone nessuno lo ricordava più, nemmeno lei. Era stata da subito Farfalla, forse per le lunghe braccia sottili che sembravano ali e per il passo leggero che sfiorava la polvere rossa della savana come fosse un volo.
Anche adesso, nel lussuoso hotel sulla costa dove lavora, la chiamano Farfalla. L’immacolato grembiule sottolinea la sua vita snella e la rotondità dei suoi fianchi mentre lei si libra da un tavolo all’altro servendo bibite fresche e vassoi di frutta. Sorride con i suoi denti candidi e scuote i capelli ricci raccolti sulla testa come un ananas. Ha la pelle lucente come seta nera.
Qualche porco bianco a volte tenta di acchiapparla con i soldi o con la forza, ma lei vola via senza che nemmeno un granello della polvere dorata delle sue ali rimanga attaccato a quelle dita schifose.
È durata poco la sua infanzia... ma è stata felice.
Le capanne del villaggio di fango rosso erano spoglie, appena qualche utensile per mangiare e i giacigli per dormire. Le donne però cantavano mentre andavano al pozzo a prendere l’acqua reggendo le brocche sulle teste da regine. I bambini le seguivano rincorrendosi per gioco, nudi e liberi.
L’acqua, il bene più prezioso: guai sprecarne anche solo un goccio! Oggi all’hotel ce n’è tanta, ma lei non riesce a farla scorrere a lungo perché il ricordo della sete è ancora vivo.
Come quello delle stelle, così vicine da poterle toccare, così rassicuranti con la loro luce scintillante nel nero della notte.
Sotto quel chiarore spiava gli animali che si avvicinavano alle capanne per cercare cibo. Il ricordo dei loro versi e dei loro richiami è una musica che suona nel cuore e che non scorderà mai.
Sì, era stata felice al villaggio. Anche con la pancia vuota, e gli occhi a volte chiusi perché infetti. Le donne portavano i bimbi malati dai dottori bianchi che li curavano e davano loro da mangiare. Anche quella era una festa. E poi la sera fratelli e sorelle, cugini e cugine, zii e nonni, tutti uniti intorno al grande falò ad ascoltare gli anziani raccontare le storie del loro popolo.
Ma un giorno tutto finisce. Le stelle si spengono, gli animali tacciono. Arrivano i guerriglieri.
Più feroci dei leoni, più velenosi dei serpenti.
In un angolo nero dei suoi ricordi sono impressi il sangue, le grida, i corpi fatti a pezzi dalle mitragliatrici, il fuoco che divora le capanne, l’odore della carne bruciata e dello sperma dei nemici che la violentano.
Quello che resta di lei lo raccolgono le suore missionarie. La missione diventa la sua casa, la sua scuola, la speranza.
Impara la loro lingua, le loro incomprensibili preghiere, impara a lavarsi, a vestirsi, e a districare la sua regale criniera.
Credere ancora negli uomini non è facile. Nei primi tempi si nascondeva dietro la veste di suor Marcella anche quando venivano in visita alla missione il vecchio padre Antoine o i medici della Croce Rossa. Non credeva più che gli uomini potessero essere buoni.
Ma un giorno arriva John...
Il suono del telefono lo fece sobbalzare.
«Berté» scandì al microfono salvando il file e togliendo la chiavetta dal computer.
«Novità?» era la voce nasale del questore.
«Non ancora, dottor Terani. So solo che forse la vittima era stata a casa del Nardi, il proprietario del liceo, ma non l’ho ancora sentito.»
«Mi aspetto che mi risolva in fretta questo inaudito omicidio. Una donna irreprensibile, una colonna della società di Lungariva!»
«Ci proverò, dottore... ma non ho la verità in tasca» si infilò, in tasca appunto, la chiavetta, «deve darmi tempo.»
«Be’, lei viene da Milano, la città del tutto e subito. Sarà abituato a fare in fretta... o mi sbaglio?»
L’ironia del questore era palese. Berté però intuì che non c’era malanimo nella sua battuta, ma solo gusto per la canzonatura e un pizzico di provocazione.
«Bastasse venire da Milano per scoprire un assassino in poche ore!» rispose Berté.
«Si ricordi che abbiamo la stampa addosso. Non mi tratti male la stampa, Berté. So come la pensa, ma ci vada piano! I giornalisti fanno il loro lavoro e noi dobbiamo collaborare. Non mi faccia scherzi anche qui, eh? La prego di contenere i suoi malumori. E mi tenga informato.»
La conversazione era finita.
Tutti quei ‘mi’! Mi risolva, non mi tratti male, non mi faccia scherzi, mi tenga informato!
Berté appoggiò con un gesto secco il ricevitore.
Non era stato così pressante con il caso della Regina del catrame... pensò, ma questa volta la vittima era una sua amica e quindi il Terani ci teneva particolarmente.
E il questore aveva ragione: doveva agire in fretta.
In fretta segnò sul taccuino un appunto per il racconto che aveva dovuto interrompere, poi convocò Parodi in ufficio e gli disse a raffica: «Allora, convoca immediatamente il Nardi. La Rivalta vuole che lo sentiamo subito».
«Mi sono preso la libertà di anticiparla, dottore, ma il Nardi non si sente bene. È sotto choc.»
«Allora andremo noi da lui. Ah, senti: dobbiamo parlare anche con un certo Matteo Rossi, un allievo del liceo, abita a Lungariva.»
«Va bene, dottore. E al liceo quando andiamo?»
«Andateci adesso tu e Sabatini. Fate preparare una lista degli studenti con i numeri di telefono di tutte le famiglie, e una lista dei dipendenti della scuola, dagli insegnanti ai bidelli. Per prima sentite la vicepreside Saltini, sembra che non andasse d’accordo con la Groppini. Fatemi una relazione sull’ambiente scolastico per stasera. Poi il Savio: controlla tutte le sue chiamate di ieri, anche quelle che ha ricevuto in ufficio. Insomma mettiamo a nudo la sua vita. Mi ha dato l’impressione di essere un topo nella trappola, ma anche di essersi liberato di un peso, non so perché.»
Il sovrintendente, mentre prendeva appunti, aveva un’espressione perplessa.
«Sospetta di lui, dottore?»
«È presto per dirlo, ma non ha un alibi per quella sera.»
«In questi casi è sempre il marito il primo della lista.»
«Credo che lui e la Groppini non fossero la coppia modello che volevano far credere. Separati in casa o giù di lì, secondo me. Lui ha negato, ma io penso che entrambi si siano fatti qualche giro di valzer.»
«Li conosco da anni e proprio non riesco a immaginarmeli in certe situazioni.»
«Non ti far fuorviare da quello che sembrano. La verità potrebbe essere diversa. Ho capito che in questo posto funziona così: prima di tutto salvare le apparenze.»
«Non riesco però a pensare al Savio che ammazza la moglie in quel modo...»
«Te lo ripeto: tutto è possibile. Uno scatto d’ira... e poi non è detto che l’abbia ammazzata lui con le sue mani, no?»
«Un killer?»
«Prima indaghiamo poi deduciamo. Ah, senti, ci sono qui sotto la RAI e un paio di emittenti locali.»
«Li ho visti e sentiti: scalpitano per avere un’intervista.»
«Qualcosa bisogna dare in pasto agli avvoltoi, cioè qualcosa dobbiamo dirgli: fallo tu.»
Vigliaccata.
«Io, dottore?» Il sovrintendente spalancò gli occhi.
«Sì, tu, sei del luogo e hai un aspetto serio, da poliziotto che dà fiducia... ecco, sì, fiducia nelle Forze dell’ordine.»
Parodi annuì poco convinto. Si capiva chiaramente che aveva mangiato la foglia.
«Digli le solite cose» proseguì Berté «che stiamo indagando, che seguiamo molte piste e presto arriveremo alla cattura del colpevole... inventati qualcosa per tenerli buoni e soprattutto lontani.»
«Ci proverò, dottore» disse Parodi uscendo.
Berté si mise comodo sulla sua poltrona e si passò una mano sugli occhi.
Perché mai si era messo a scrivere la storia di una ragazzina africana violentata dai guerriglieri? Nemmeno il dottor Freud l’avrebbe capito. Che nesso c’era tra la piccola Farfalla nera e la preside Groppini? Nessuno, se non il fatto che erano donne. L’universo femminile era misterioso e per molti uomini cercare di interpretarlo un inutile esercizio. Non per lui. Era circondato da donne: prima mamma, nonne, zie, cugine e poi la Patty, la Marzia. Anche nell’ultimo caso di omicidio che aveva risolto, la vittima era una regina, e ora la Groppini...
Preceduta da due discreti colpi alla porta entrò l’agente Belli.
«Dottore, le figlie della signora Groppini aspettano da due ore...» disse l’agente.
Altre donne.
«Le faccia entrare.»
Dopo alcuni istanti comparvero sulla porta due donne sulla trentina di cui una assomigliava al padre, l’altra invece era la fotocopia giovane della madre. I loro occhi erano arrossati e gli sguardi smarriti, ma Berté vi colse anche una certa dose di fastidio e supponenza. Belle donne, però.
Testosterone sempre in allerta.
«Prego, accomodatevi.» Berté indicò alle due sorelle le poltroncine di finta pelle davanti alla sua scrivania. Seguì un attimo di silenzio pesante.
«Allora, Gisella e Loretta Savio. Giusto? Signore, signorine...»
«Io sono sposata da un anno e mezzo» disse la bionda Gisella «e ho una bambina di un anno. Vivo a Lungariva.»
«Io convivo con il mio fidanzato, a Genova» precisò Loretta ‘occhi azzurri’.
«Non si sta bene qui a Lungariva?»
«Ho studiato in città e ho là le mie amicizie, e poi il mio compagno lavora a Genova.»
«Non avete frequentato il San Giorgio?»
«No. Io ho fatto il liceo scientifico, mentre Loretta il linguistico» disse Gisella.
«Con i nostri genitori i rapporti sono ottimi, ci tengo a dirlo» intervenne Loretta con enfasi sporgendosi in avanti e mostrando un notevole décolleté.
«Certo, certo...» annuì Berté distratto dai due seni sodi che non aveva potuto evitare di adocchiare.
«Commissario» chiese Loretta con un tremito nella voce «chi può aver fatto una cosa simile alla mamma?»
«Siamo qui per scoprirlo. Voi non avete nessun sospetto?»
«No, no... Nostra madre viveva per la scuola. Si può dire che si sia dedicata di più al San Giorgio che a noi. Usciva al mattino per andare a Genova e tornava nel tardo pomeriggio, a volte lavorava anche di sera. La nipotina la vedeva solo nel fine settimana e nemmeno sempre.»
«Quindi è all’interno del San Giorgio che potrebbe essersi fatta un nemico?»
Le Savio si guardarono spaesate.
«Chi ha potuto colpirla così?» chiese Loretta. «Sarà stato un pazzo, uno di quei maniaci che...» guardò la sorella per cercare conferma «non vivendo più in famiglia non possiamo sapere se... forse ne sa di più il papà.»
«Quando avete visto per l’ultima volta vostra madre e dove vi trovavate ieri sera intorno alle ventitré?»
«Prego?» Gisella lo guardò allibita. «Non penserà che noi...?»
«È la procedura, signora, ma non si allarmi, questo non è un interrogatorio, sto solo indagando.»
La donna lo guardò piccata e rispose d’un fiato. «Ho visto mia madre domenica, a messa, e ieri sera ero a casa con la mia bambina.»
«E suo marito?»
«Al lunedì Carlo gioca a bridge con i suoi amici del golf.»
Berté prese l’appunto.
«Io invece» rispose Loretta con un filo di apprensione nella voce «ero a cena da amici con il mio compagno.»
«D’accordo, poi siglerete il verbale e ci darete i recapiti delle persone che erano con voi. Naturalmente dovrò incontrare anche i vostri mariti. Dove si trovano in questo momento?»
«Mio marito è a casa con nostra figlia. Capirà, quando è arrivata la vostra telefonata... come facevo a chiamare la babysitter?» disse Gisella agitandosi sulla sedia.
«E io sono stata avvisata quando Giorgio era già al lavoro, mi sono precipitata qui senza aspettarlo. Ma scusi, perché continua con queste allusioni?» la voce di Loretta era salita di tono. «Perché vuole sentire chi stava con noi? Stiamo scherzando? Era nostra madre! Non vorrà sospettare di noi!»
Berté si trattenne dal metterle al loro posto. Si mostravano più suscettibili che addolorate.
Le due sorelle si guardarono, di nuovo sorprese. Forse avevano colto i suoi pensieri, ma anche lui intuiva i loro. I soliti: un commissario con la coda, di certo comunista – si sbagliavano – di certo – e si risbagliavano – incapace...
Forse avevano ragione...
...rovistava nelle loro rispettabili vite senza tatto; insomma pensieri da giovani ricche e stronze.
Prima giovani e stronze erano in testa al gradimento.
«Sono domande d’obbligo, ma non vi preoccupate» cercò di assumere un’espressione rassicurante «scopriremo la verità e arresteremo l’assassino di vostra madre. Ora vi affido ai miei uomini. Ci sono alcune formalità da sbrigare per l’autopsia e altri dettagli tecnici. Arrivederci.»
Berté si alzò e indicò loro la porta dell’ufficio.
Le sorelle Savio, sorprese per il frettoloso commiato, si alzarono e uscirono rivolgendogli un cenno di saluto a collo rigido. Si leggeva nei loro occhi truccati la convinzione che le indagini affidate a quel commissario che sembrava un malavitoso non avrebbero portato a nulla.
Sull’aspetto non hanno torto!
Perché era così brusco con i componenti della famiglia Savio? Non se lo spiegava, almeno non in modo razionale, ma avvertiva in loro una nota stonata che lo irritava. E, maledizione, non riusciva a controllarsi! La morta non l’aveva conosciuta, ma in modo del tutto illogico aveva già deciso che da viva gli sarebbe stata antipatica pure lei. Non era il tipo di persona con la quale un poliziotto mezzo terrone con la coda sarebbe potuto andare d’accordo. Anche mentre parlava col Savio aveva sentito che qualcosa non funzionava. ‘Odore di perbenismo’ avrebbe potuto definirlo, una sorta di patina che voleva coprire qualcosa di marcio. Quel genere di persone gli stava sulle palle. Nulla di sociale o politico: aveva smesso da tempo di avere idee politiche – troppo deluso da tutti – piuttosto qualcosa di ‘morale’. Le persone apparentemente senza macchia, sempre pronte a giudicare gli altri e attente a non mostrare nulla di sé gli davano sui nervi. Preferiva gli estrosi o gli idealisti estremi, i rissosi o quelli che avevano il coraggio di essere se stessi senza nascondersi dietro abiti firmati e profumi francesi. Sepolcri imbiancati.
Così parlò l’uomo senza peccato!
Berté si rimise a sedere sbuffando. Va be’, anche lui non era perfetto.
«Dottore, posso entrare?» Parodi comparve sull’uscio.
«Vieni.»
«Ho controllato la scheda telefonica del Savio e c’è qualcosa che le sembrerà interessante.»
«Una donna.»
«Giovane, anche. Si chiama Dominique Clermont, una francese. Lavora al bureau dell’hotel Metropole. A quanto risulta dai tabulati, il Savio le telefona spesso.»
«Che tipo è?»
«Dalla foto della carta d’identità sembra carina. Molto fine, un tipo di classe.»
«Me lo sentivo che il Savio aveva qualche segreto. Vedi, Parodi, come sono questi? Fuori sembrano perfetti e invece...»
Parodi tossicchiò imbarazzato. «Guardi che tutto il mondo è paese.»
«Tu pensi sempre che io ce l’abbia con voi liguri, ma ti sbagli. Io ce l’ho con l’umanità in generale.»
Parodi allargò le braccia come per dire: ‘allora non c’è speranza!’
«Hai altro?»
«Sì, ho l’indirizzo di Matteo Rossi, il ragazzino che ha spintonato la preside. Abita vicino al supermercato Gulliver e ho anche raccolto qualche notizia sui compagni delle sorelle Savio. Il marito di Gisella, Carlo Riggi, è architetto. Vivono qui a Lungariva, e attualmente non risulta che segua nessun cantiere. Diciamo che frequenta volentieri il golf club, è socio onorario e praticamente vive lì. L’altro, Giorgio Oneto, fa il sindacalista. È un tipo che non c’entra niente con la Groppini. Volevo anche darle le informazioni che mi ha richiesto sul Nardi: appartiene a una famiglia facoltosa di qui. Hanno fabbriche, terreni, immobili. Lui da qualche anno amministra solo le sue proprietà, le aziende le seguono i dirigenti. È rimasto vedovo sei mesi fa. La moglie, Tania Stoeva, era bulgara, ed è morta di tumore. Niente figli né scandali né pettegolezzi.»
«Va bene, più tardi lo incontrerò.»
«Sì, dottore. Allora io vado a Genova a parlare con la vicepreside.»
«Stasera vieni a cena con me?» gli chiese Berté a bruciapelo. «Voglio provare una nuova trattoria in collina, a pochi chilometri, mi pare si chiami La mela verde.»
«Niente pensione Aurora?»
La domanda era stata posta senza malizia, ma Berté non riuscì a impedirsi di arrossire.
Come un cretino.
Possibile che un semplice accenno al ‘pianeta Marzia’ lo mandasse in tilt?
Possibile.
E comunque Parodi aveva colto nel segno. Non ci voleva andare, a cena all’Aurora.
«No... no, stasera voglio cambiare. Proviamo questa trattoria, me l’hanno tanto decantata! Ci vediamo qui quando torni da Genova, durante la cena facciamo il punto della situazione.»
Parodi annuì, senza commentare né il rossore né l’uscita precipitosa del suo capo dall’ufficio. Troppo precipitosa: l’inconsapevole agente Belli che transitava di lì si ritrovò travolta e schiantata a terra lunga distesa.
Discreto lato B per un’agente di polizia.
La mattinata era stata caotica e Berté decise di concedersi una pausa. Era fatto così: macinava, macinava, poi a un certo punto doveva staccare e fermarsi, per poi riprendere con più slancio.
Decise di mangiare da solo, un panino ma in riva al mare. L’opzione ‘ritorno alla pensione Aurora così magari incontro la Marzia’ venne scartata con gesto eroico.
O da fesso.
Comunque resistette.
Lasciata la via del commissariato, entrò nel carruggio dove si trovava l’unica libreria del paese. Era chiusa per la pausa pranzo. Berté diede un’occhiata all’interno. Il libraio non c’era. Spesso andava da lui a fare quattro chiacchiere, ad acquistare i libri e a parlare di Milano. Anche il Guido Necchi era un milanese in esilio – nel suo caso voluto – ma il cuore gli era rimasto meneghino. Prima di allontanarsi Berté diede una scorsa alla classifica dei libri più venduti esposta in bacheca. Si chiese con quale criterio la gente scegliesse i libri... mai che fosse in testa alle classifiche uno che gli piaceva!
Lettore dai gusti astrusi.
Scuotendo la testa si diresse verso il lungomare e camminò per una decina di minuti. Voleva allontanarsi dal paese. Alla fine scelse di sedersi al tavolo di un piccolo bar affacciato sul mare. Un mare di novembre, dai colori spenti e dall’odore asprigno, calmo e rilassante.
Il destino però cospirava contro di lui sotto forma di musica.
Niente pop niente disco niente rock, come ci si aspettava dalla radio di un baretto sfigato. No. La radio di quel baretto sfigato trasmetteva un’inaspettata musica classica. Solo classica.
Così Berté si ritrovò col pensiero in quella sera d’agosto trascorsa all’opera con la Marzia. E riprovò quel rimescolio non certo dovuto all’opera in sé, eseguita da un ensemble mediocre, per quanto volonteroso. Quello che l’aveva fregato era stata l’emozione che la Marzia gli aveva comunicato. Seguiva la Madama Butterfly come in estasi e durante gli intervalli gli elencava tutti i passaggi più significativi con gli occhi verdi che brillavano. Gli aveva anche parlato del suo passato di promessa della lirica, un sogno spezzato dalla morte improvvisa di suo padre che l’aveva costretta a occuparsi dell’albergo di famiglia. Una sera aveva cantato per lui... e lui era rimasto imbambolato come un cretino senza dirle niente.
Però...
Prima di rientrare ognuno nella propria stanza si erano baciati.
Era stato tutto così naturale che ancora oggi Berté si chiedeva se fosse stato lui per primo a posare le labbra su quelle di lei o viceversa. All’inizio il contatto era stato timido, rispettoso, poi entrambi, Berté ne era certo, avevano avvertito una scossa e il bacio si era fatto appassionato.
Non baciava così da quando era un ragazzo.
Romanticismo decadente.
Certo con la Patty non si erano fatti mancare niente, ma era tutto molto più cerebrale, meno spontaneo.
La mattina dopo, tanto lui che la Marzia si erano comportati normalmente... o meglio, quasi normalmente, perché gli era sembrato che i loro sguardi fossero più penetranti. Molte volte, nei giorni seguenti, avrebbe voluto intavolare il discorso sul significato di quei baci, ma poi era tornato suo marito. La Marzia non aveva mai accennato ad alcuna crisi matrimoniale e lui non se l’era sentita di iniziare un discorso che non sapeva dove poteva andare a parare.
Fifone.
In quel momento la cameriera del bar gli si avvicinò. Era una sorridente mulatta, munita di un davanti e un didietro come si conviene, con una coda di capelli crespi da rivaleggiare con la sua.
Quando si dice il caso.
Berté le ordinò una focaccia prosciutto e formaggio, e non appena lei si fu allontanata prese il taccuino dalla tasca e iniziò a scrivere di getto.
Farfalla nera
John! John!
È così bello! Le ricorda l’eroe guerriero delle leggende, quello che uccideva i leoni a mani nude e beveva il loro sangue, quello che rubava le stelle dal cielo e le portava nelle capanne per fare luce e scegliere la giovane più bella per farla sua.
John è americano, ufficiale e nero.
John è venuto con i suoi soldati a proteggere la missione dai guerriglieri, parla a tutti con dolcezza, gioca con i bambini, ha sempre un regalo per lei, e il suo fucile tiene lontani i malvagi.
Con lui si intende, grazie all’inglese che le suore le hanno insegnato.
John, raggio di sole, sorride e le parla del suo grande Paese dove sarebbe tornato presto, di grandi città con palazzi che arrivano al cielo, di auto che corrono come il vento, di luci colorate più sfavillanti delle stelle.
Inutili i consigli delle suore e delle vecchie sopravvissute: l’amore non vuole ascoltarli. Il sangue si incendia nel cuore, il desiderio cancella la paura.
È bello stare sdraiata nell’erba con John, lasciare che le sue mani la esplorino, lasciare che lui entri in lei depositando il seme nel suo ventre.
Non capiscono le suore malauguranti che questo è il solo modo per lei di dimenticare l’odore della morte e per volare nel domani...
Ma John deve partire, con l’ultimo bacio le lascia un numero di telefono e un indirizzo postale.
È tornato di nuovo il tempo delle lacrime, dei sospiri e dei sogni... mentre il ventre di Farfalla si gonfia.
Lui non chiama, lui non scrive dal suo grande Paese. Il suo telefono è sempre spento e non risponde alle sue lettere.
Alle autorità internazionali che ancora presidiano la zona però l’orgogliosa Farfalla non chiede di rintracciare John.
Se lui la ama verrà a prenderla...
Un clacson insistente strappò di colpo Berté dalla sua Farfalla.
Guardò l’orologio. Era trascorsa più di un’ora.
Quando scriveva perdeva la cognizione del tempo e adesso era in ritardo.
Berté mise nel taschino della giacca la penna e si infilò in tasca il taccuino. Pagò il conto sotto lo sguardo incuriosito della ragazzina, alla quale lasciò una generosa mancia, sia per compensarla dell’inconsapevole ispirazione sia perché era femmina con i fiocchi e lui era un esteta, e si diresse quasi di corsa verso il commissariato. Prima o poi avrebbe dovuto far leggere i suoi racconti a qualcuno. Perché non alla Marzia? In fondo lei aveva cantato per lui, e lui in cambio le aveva confidato questa sua velleità. Sentiva che tra loro esistevano...
Affinità elettive? Ridicolo!
Sì, il vecchio Goethe aveva ragione. Le affinità elettive esistevano.
Con la Marzia sentiva di averne, anche se lei non corrispondeva proprio al suo tipo fisico. Almeno non al suo ideale... difficile che una donna stazza novanta chili sia l’ideale di qualcuno, anche se... ultimamente, non la vedeva più così grassa come nei primi mesi. Forse un po’ era dimagrita.
Fissare visita oculistica.
La Belli lo aspettava nel suo ufficio con quello che a lui sembrò uno sguardo di rimprovero.
Come darle torto? C’era un assassino da prendere e lui spariva per un’ora. Se poi la Belli avesse saputo che era stato in riva al mare a scrivere racconti...
Non lo avrebbe saputo.
Pochi minuti dopo, era in macchina alla sua destra. Guardandola Berté si chiese come avesse potuto poco prima fare un pensierino non professionale su di lei. Giovane era giovane, una trentina d’anni non di più, buon lato B per carità, ma troppo piatta per i suoi gusti.
Gusti ultimamente modificati.
Era sempre inappuntabile e profumata, capelli a posto, ma i pesanti occhiali da vista bordati di nero e il naso adunco le davano un’aria arcigna. Sorrideva poco, anche. Tutte le ore che passava al computer la ingrigivano. Senza di lei, però, anima tecnologica, in commissariato sarebbe stato un bel casino.
L’agente mise in moto e partì veloce. Guidava bene, si stupì Berté. Per essere una donna se la cavava egregiamente. Per lui, abituato alla guida della Patty – un disastro di donna al volante, lenta e insulsamente sempre in mezzo alla strada – l’agente Belli era Michael Schumacher.
Gli sembrò gentile dirglielo.
«Sa che guida bene? Dove ha imparato?»
«Grazie, dottore! Mi è sempre piaciuto, ho fatto anche alcuni corsi di guida veloce e poi mio padre è meccanico e il mio ragazzo un istruttore di guida.»
«Allora ha i professionisti in casa! Adesso ho capito, sa, le donne di solito...» si interruppe pensando che stava per fare la solita gaffe maschilista.
«Eh, lo so che le donne sono considerate pessime guidatrici, ma intanto fanno meno incidenti degli uomini.»
Touché.
Per salire verso la villa del Nardi ripassarono vicino al luogo del delitto, ancora piantonato e affollato di curiosi.
La Belli però non si fermò e fece l’ultima curva a gomito in una sola manovra, guadagnandosi un fischio d’ammirazione di Berté; poi lasciò la strada e frenò con dolcezza sul piccolo spiazzo che si allargava davanti al cancello della villa.
Uscirono entrambi dalla macchina.
‘Villa Giacinta’, come recitava la targa di pietra grigia incastonata in uno dei due pilastri che reggevano la cancellata, era una solida costruzione ottocentesca con muri color ocra e imposte verde scuro.
Un paio di queste però erano imposte finte, solo dipinte, per simulare la presenza di finestre che in realtà non c’erano. Una stranezza che Berté aveva notato anche in altre case di Lungariva, stravaganza che lo affascinava proprio perché non ne capiva fino in fondo il senso: era una questione di equilibri architettonici? O i proprietari volevano risparmiare sugli infissi o sul riscaldamento riducendo le aperture? O semplicemente i liguri volevano prendere per i fondelli le persone? In altre due finestre finte, dipinte come se le persiane fossero aperte, aveva persino visto ritratta una donna affacciata e in un’altra un gatto.
Pittori buontemponi, pensò Berté premendo con decisione il pulsante del citofono.
«Sì? Chi è?» la voce tradiva una provenienza sudamericana.
«Polizia, devo parlare con il signor Nardi» scandì Berté.
La serratura scattò.
Berté spinse il cancello di ferro battuto ed entrò nel giardino seguito dalla Belli, che si guardava in giro incuriosita. Il giardino non era grande ma ben curato e ricco di piante. Una parte, adibita a parcheggio, era occupata da una Jaguar XJ verde e da uno scooter nero. Il vialetto che portava all’ingresso della casa era in ghiaia fine e ben rastrellata.
Il portone venne aperto da una domestica dall’aria assonnata che rispondeva all’immaginario collettivo di donna peruviana: piccola, scura e ben piantata. Occhi neri, sottomessi, ma con un fondo di latente istinto felino. Indossava una divisa rosa con grembiule bianco.
Berté le mostrò il distintivo.
«El señor Nardi riposa ancora, non è stato bene. Ha dovuto prendere le pastiglie» disse la donna, ma Berté era già entrato nell’ingresso.
«Lo chiami per favore.»
La cameriera li fece accomodare in un salottino e si girò pigramente per andare a chiamare il suo padrone, ma Berté la trattenne.
«Senta signora... come si chiama?»
«Honoria Gomez» rispose la donna.
«Lei dorme qui, Honoria?»
«Sì, vivo qui.»
«Ieri sera era in casa?»
«Sì.»
«Bene, vada pure a chiamare il signor Nardi.»
Mentre si allontanava la donna lo guardò con una leggera sfumatura d’apprensione che non sfuggì a Berté.
Il salottino era tappezzato con una stoffa di damasco dorato e aveva alle pareti alcuni quadri pregevoli. Paesaggi, marine e battute di caccia soprattutto.
Appoggiate su un tavolino intarsiato Berté notò alcune fotografie incorniciate. Si avvicinò per osservarle meglio.
Un giovane uomo alto e massiccio, in tenuta da caccia, che teneva sollevata per le zampe una lepre, lo stesso uomo accanto a una donna alta e formosa in tenuta da montagna con sfondo di cime innevate, di nuovo i due in costume da bagno su una spiaggia esotica. Ricordi di giorni felici.
Tommaso Nardi entrò nel salotto lentamente, come chi sa di dover affrontare una prova e cerca di ritardarne il momento, pensò Berté. L’uomo alto e massiccio delle foto era ora un uomo di mezza età con cui il tempo era stato misericordioso. La scheda che gli aveva preparato Parodi riportava la sua età: 62 anni. Portati bene. Viso con poche rughe e fisico atletico. Il naso importante e leggermente arcuato, la bocca carnosa dal labbro volitivo con una piega che Berté definì crudele. Ma forse si sbagliava: l’uomo era solo nervoso e le sue labbra erano tese per l’agitazione. Gli occhi color nocciola erano arrossati come quelli di chi ha pianto o non ha dormito.
«Signor Nardi, sono il vicequestore Berté e questa è l’agente Belli.» Mostrò il tesserino e poi proseguì: «Devo farle alcune domande in merito alla morte della signora Adelaide Groppini».
«Prego, accomodatevi» disse il Nardi indicando loro un divanetto e sedendosi su una poltroncina di fronte. «Posso offrirvi qualcosa?»
«Grazie, signor Nardi, ma non prendiamo nulla» rispose Berté guardando la Belli che fece di no col capo «non si disturbi.»
«Sono a pezzi, commissario! La fine tremenda di Adelaide mi ha distrutto...» la voce del Nardi si spezzò e l’uomo scoppiò a piangere. Berté e la Belli rimasero in silenzio, in attesa.
«Non volevo crederci stamattina! Mi ha telefonato un amico che abita nella via dove è stata trovata Adelaide. Sono corso subito lì, ma lei era già stata portata via. Volevo venire in commissariato, volevo almeno parlare con Alberto, ma mi sono sentito male.»
Il Nardi estrasse un fazzoletto siglato con le sue iniziali e si asciugò gli occhi.
«Scusatemi, sono certo che mi capiate... ho chiamato il medico che mi ha dato dei calmanti.»
«Quali erano i suoi rapporti con la signora Groppini?» tagliò corto Berté.
«Era la preside del mio istituto, il San Giorgio. L’ho ereditato da mio padre che ne è stato il fondatore e, circa dieci anni fa, quando il vecchio preside è andato in pensione, tra i vari curricula che mi sono arrivati c’era anche quello di Adelaide. Aveva insegnato a lungo alle superiori e voleva affrontare una nuova sfida. Così ho affidato a lei la guida del liceo. È stata un’ottima preside.»
«La conosceva già, voglio dire, prima di affidarle l’incarico?»
«Sì, ci conoscevamo dal liceo. Io avevo qualche anno in più, ma frequentavamo le stesse compagnie, tornavamo insieme in treno da Genova, la stessa spiaggia d’estate. Poi ci siamo persi di vista. Io dopo la laurea sono andato all’estero per lavoro e sono ritornato a Lungariva per occuparmi degli affari di famiglia solo alla morte di mio padre.»
«Vi frequentavate anche al di fuori del lavoro?»
Una lieve esitazione.
«Eravamo amici da tanti anni, dottore, mi è stata molto vicina quando è morta mia moglie Tania, sei mesi fa.»
«Conosce bene anche l’ingegner Savio?»
«In un paese come Lungariva ci si conosce tutti, e poi era il marito di Adelaide...»
«Perché è venuta da lei ieri sera?» sparò a bruciapelo Berté.
Ma al Nardi la domanda sembrò normale e rispose senza esitazioni. «Per parlare della ristrutturazione di un’ala del San Giorgio. Ieri sera in sede di consiglio d’istituto si erano discussi i preventivi» il Nardi si alzò e andò a uno scrittoio che stava davanti a una porta finestra. Prese alcuni fogli e ritornò porgendoglieli: «Eccoli».
Berté gli diede una scorsa poi li passò alla Belli che li studiò con più attenzione.
«Quando è arrivata e quanto si è trattenuta da lei?»
«È arrivata verso le nove, nove e mezzo, dopo il consiglio è venuta subito qui e se n’è andata poco prima delle undici. Era arrivata da Genova in treno, Adelaide detestava guidare e non usava quasi mai l’auto. Volevo accompagnarla a casa, lo faccio sempre... cioè lo facevo quando capitava che venisse qui la sera, ma ieri non ha voluto, voleva fare due passi, mi ha detto, perché era stata seduta al chiuso tutto il giorno. Se invece avessi insistito... ora...» la voce del Nardi ebbe un cedimento, ma si riprese subito.
«Le è sembrata più agitata o preoccupata del solito?»
Il Nardi esitò un attimo prima di rispondere.
«No, non mi sembra. Dovevamo discutere del preventivo e di altre grane interne. Il mondo della scuola oggigiorno è un disastro, le famiglie sono diventate incontentabili: una supplente non gradita o una scaramuccia tra ragazzi sfocia in citazioni in tribunale e in risse tra genitori... cose di questo tipo, insomma. Adelaide ci soffriva perché spesso non sapeva come comportarsi. Era troppo istintiva, non era diplomatica.»
«È a conoscenza dei suoi scontri con l’allievo Matteo Rossi?»
«Quel Rossi! Tanto fumo e niente arrosto.»
«È vero che l’aveva spintonata?»
«Una discussione degenerata. Matteo è un ragazzo problematico. Abbiamo suggerito alla madre l’intervento di uno psicologo, ma anche la signora non è un tipo semplice.»
Berté annuì. Doveva incontrare la famiglia Rossi.
«Lei, a quanto pare, è l’ultimo ad aver visto viva la signora Groppini.»
«A parte l’assassino, dottore...» ci tenne a precisare il Nardi.
Furbo e presente, anche se addolorato, constatò Berté.
«Certo, a parte l’assassino. Vista la vostra amicizia, sa dirmi se aveva dei problemi in famiglia, o dei nemici, intendo al di fuori della scuola?»
«No... non saprei. Saranno stati dei malviventi, ultimamente qui girano certe facce!»
Berté si alzò di scatto seguito dalla Belli che, colta di sorpresa, fece cadere i fogli dei preventivi che teneva sulle ginocchia.
«Bene, per ora è tutto» Berté porse la destra al Nardi che la strinse alzandosi sorpreso a sua volta.
«Noria! Accompagna il commissario.»
Il Nardi cercò di seguirli, ma Berté e la Belli erano già usciti.
Noria li raggiunse per aprire il portone.
«Scusi, Noria» Berté le si parò davanti con la sua mole: «lei è a posto con il permesso di soggiorno?»
La donna lo guardò spaventata.
«Sì, certo. Vuole vedere i documenti?»
«Sicura?»
«Todo regular!» Noria era sempre più impaurita.
«Le piace lavorare qui in Italia?»
«Io ho bisogno di lavorare... ho due figli piccoli in Perù.»
«E allora mi dica la verità su ieri sera. Ha sentito il dottor Nardi discutere con la signora Groppini?»
«Sì... gridavano» ammise subito la peruviana.
«Veniva spesso qui la signora?»
Noria abbassò lo sguardo esitante.
«Avanti, su, dica la verità!»
«Dopo la morte della señora Tania... sì.»
«Quante volte la settimana?»
«Due... tre... anche di più.»
«Grazie, Noria. Stia tranquilla, se ha il permesso in regola non ha nulla da temere, ma bisogna sempre dire la verità. Adesso vada a richiamare il signor Nardi mentre noi torniamo in salotto. La strada la conosciamo.»
Berté le girò le spalle e, seguito dalla Belli, rientrò nel salottino. L’agente lo guardava con evidente ammirazione, senza però avere il coraggio di parlare.
Il Nardi rientrò in fretta con un’espressione seccata che non cercava di nascondere.
«Ha dimenticato qualcosa, commissario?»
«No, è lei ad aver dimenticato qualcosa!» il tono di Berté non era cordiale e nemmeno il suo sguardo «Ha dimenticato di dirmi la verità sui suoi rapporti con la signora Groppini.»
Il Nardi sorpreso taceva.
«Perché ieri sera avete litigato?» continuò Berté. «Perché non mi ha detto che veniva da lei due, tre volte la settimana? E non per parlare di problemi scolastici! Perché stamattina non è venuto subito da me per dirmi che la signora era stata qui ieri sera?»
Anche l’espressione del Nardi mutò. Quell’accenno di crudeltà che Berté aveva scorto ora trapelava senza veli. Anche il tono della sua voce era tagliente e carico di rabbia.
«Volevo venirci in commissariato, ma mi sono ceduti i nervi! E poi le domestiche sono pettegole, cosa diavolo le ha detto Noria?»
«Basta, Nardi!» La voce di Berté si alzò di un tono. Persino la Belli sussultò. «Se c’è una cosa che mi manda in bestia è lo stupido tentativo di nascondere la verità! Avanti, parli! Non perdiamo tempo!»
Il Nardi si afflosciò come un palloncino forato. Si buttò sulla poltroncina e scoppiò di nuovo a piangere.
«Io l’amavo, dottore... sono disperato senza di lei! Mi deve credere! L’amavo dai tempi del liceo, eravamo stati insieme per alcuni mesi, poi è arrivato Alberto e lei mi ha lasciato. Alberto era il più bello del liceo, le ragazze impazzivano per lui. Adelaide l’ha voluto a tutti i costi, anche se non era il tipo giusto per lei, l’ha capito in ritardo! Io ero disperato e me ne sono andato in giro per il mondo. Ho conosciuto mia moglie in Bulgaria e l’ho sposata. È stato un matrimonio tranquillo, non abbiamo avuto figli e questo è un mio grande dolore. Quando però ho rivisto Adelaide, quello che avevo provato per lei è tornato a galla più forte di prima... Lei non amava più suo marito, cercava soddisfazione solo nel lavoro e io ho pensato che offrendole quel posto mi avrebbe amato anche lei... all’inizio è stato così...»
Lo sguardo del Nardi si perse nel vuoto.
«Ma non volevamo creare scandalo e sconvolgere le nostre famiglie» riprese con la voce rotta «e così ci vedevamo con la scusa della scuola. Ho vissuto per anni accanto a mia moglie, ma struggendomi per Adelaide, vivendo la sua vita e non la mia. Persino le sue figlie, mi creda, le sento un po’ mie... anche se le ho viste solo poche volte. Come posso spiegarle? Ora mi sento così solo...»
Berté chiamò Noria e fece portare dell’acqua al Nardi che singhiozzava sfogando il dolore represso.
«Quando è mancata Tania» riprese il Nardi dopo aver bevuto un sorso d’acqua «ho creduto che fosse possibile ricominciare e ho chiesto a Adelaide di venire a vivere con me. Con Alberto era finita, ma per lei le apparenze erano fondamentali e ha rifiutato» il Nardi si asciugò gli occhi e si soffiò il naso. «Aveva sempre paura del giudizio della gente. Le interessava di più della nostra felicità! Lei negava, ovvio, diceva di amarmi, ma non si lasciava convincere.»
«È per questo che avete litigato ieri sera?»
«Sì, ieri sera e altre sere ancora. Ogni volta che ci vedevamo erano discussioni a non finire.»
«Ma ieri sera...» lo riportò in tema Berté.
«L’ho scongiurata di ripensarci, ma lei è stata categorica. Se Adelaide aveva un difetto era quello di far imbestialire la gente, non era mai possibilista, non dava modo di sperare, era sempre drastica.»
«E lei si è imbestialito.»
«Sì, lo ammetto... e non l’ho accompagnata, quando ha deciso di andarsene dicendo che era finita. Mi sento colpevole, commissario! Per orgoglio l’ho lasciata andare via da sola! Non me lo perdonerò mai!»
Berté rimase qualche istante a riflettere, fissando lo sguardo sul disperato Nardi. Poi si alzò.
«Adesso la lascio. Ma appena starà meglio dovrà venire in commissariato per il verbale. Buona sera, signor Nardi.»
Avvicinandosi alla macchina, Berté si accorse che la Belli aveva un leggero tremito alle mani.
«Un po’ scossa, Belli, cosa c’è?»
Lo sguardo che gli rivolse l’agente era un misto di ammirazione e sconforto.
«No, no, dottore, grazie, è tutto a posto. La riporto in ufficio?»
«Scendo a piedi fino al famoso cassonetto. Lei mi aspetti là con la macchina. Voglio rifare la strada che ha fatto la Groppini ieri sera.»
La Belli risalì in auto mentre Berté prendeva la via che iniziava dalla villa.
Percorrere quella strada di giorno non era come farlo di notte, in una notte di fine novembre, da quelle parti dove non passava mai nessuno. La Groppini era stata imprudente a non farsi accompagnare. Forse era furibonda in seguito alla lite col Nardi e aveva agito d’impulso.
Doveva aver percorso quel pezzo di strada in fretta, magari ripensando alle richieste del suo amante, forse decidendo di lasciarlo per sempre, oppure piangendo e maledicendosi perché non trovava la forza di sconvolgere la sua vita facendo una scelta coraggiosa, la prima, chissà, della sua vita. Pensieri di una preside perbenista.
Per quale motivo, e soprattutto da chi, era stata uccisa la preside perbenista?
Guardandosi intorno, Berté arrivò senza notare nulla di particolare fino alla curva a gomito che la Belli aveva affrontato con sicurezza poco prima. Non tutti erano abili al volante come lei, infatti il muro che costeggiava la curva era segnato da alcune strisce di vernice lasciate da auto di guidatori poco esperti.
Berté riprese a scendere finché scorse l’agente che lo aspettava seduta in macchina in prossimità del cassonetto, delimitato dai nastri rossi e bianchi stesi dalla scientifica.
Berté si fermò immaginando come potevano essersi svolti i fatti. La preside era stata aggredita da dietro, quindi non aveva avuto il tempo per difendersi, ma forse prima aveva parlato, anzi discusso, litigato con il suo assassino. Per quale motivo? La soluzione del caso stava lì, in quella discussione. A meno che l’assassino avesse premeditato l’aggressione e, dopo aver seguito la Groppini e aver visto che si avviava da sola lungo quella strada, l’avesse colpita senza nemmeno parlarle.
Berté diede ancora uno sguardo intorno, poi raggiunse la Belli in auto.
«Trovato qualcosa, dottore?» chiese l’agente mettendo in moto.
«Nulla d’interessante. Troppo tardi, comunque. Pur essendo una strada poco frequentata, è ormai difficile recuperare indizi. Vediamo se scopre qualcosa la scientifica.»
«Dottore...» la giovane agente era impacciata.
«Mi dica, Belli.»
«Le devo fare una confidenza.»
Speriamo bene.
«Quando lei è arrivato da Milano noi...»
«Lo so, vi stavo sulle palle e mi chiamavate ‘il terrone’.»
«Be’, diciamo che lei ha fatto di tutto per non piacerci, ha grugnito per due o tre mesi!»
Berté scoppiò a ridere. E pensare che aveva giudicato la Belli una poco spiritosa!
«E anche professionalmente noi...»
«Pensavate che fossi un cretino.»
«Non proprio, ma uno che dalla Questura di Milano finisce a Lungariva, sa com’è...»
«Certo, certo, e invece?»
«E invece, prima di tutto quest’estate ha risolto in pochi giorni il caso di quella donna uccisa sulla spiaggia, e oggi mi ha dato una lezione su come far parlare le persone. Col Nardi è stato grande.» La Belli sterzò con la solita abilità immettendosi in una strada a senso unico.
Queste sono soddisfazioni.
«Ma non è solo quello» continuò l’agente, «oggi mi sono sentita provinciale. Sa, io capisco le ragioni della Groppini: non aveva tutti i torti a voler preservare la sua famiglia dallo scandalo.»
«Quale scandalo, Belli? Non è più scandaloso vivere nell’ipocrisia?»
«Ha ragione, commissario, ma per chi vive in un paese certe cose sono ancora importanti. E poi un matrimonio non si può buttare via come una cartaccia. Il Nardi avrebbe dovuto dare tempo alla Groppini di abituarsi all’idea. Vede, certi uomini sono proprio viziati, vogliono tutto e subito dalle donne.»
Berté incassò il colpo.
Lui stesso si sentiva ipocrita e non sapeva come uscirne.
Manca la volontà.
Si immaginò sulla poltrona del Nardi con gli stessi abiti del Nardi che piangeva disperato come il Nardi perché la Marzia non voleva lasciare il capitano per trasferirsi con lui a Milano nell’appartamento di via Meloria.
Una calmata è d’obbligo.
«E allora, Belli» esclamò per scappare da quell’incubo «anch’io come ‘certi uomini’ voglio subito qualcosa da lei» la fissò con finta aria minacciosa «voglio che mi dica il suo nome di battesimo e mi dia il permesso di darle del tu, come lo do ai suoi colleghi maschi.»
La Belli sorrise come avesse ricevuto un regalone.
«Mi chiamo Francesca, dottore, e mi fa piacere che lei mi dia del tu. Mi fa sentire alla pari con i colleghi, ma non pretenda che io le dia del tu! Non ci riuscirei!»
«Bene, Francesca, vada per il lei a questo vecchio piedipiatti. Ehi... aspetta, fermati all’hotel Metropole.»
La Belli frenò ed entrò nel parcheggio antistante l’ingresso dell’hotel.
«Dai tabulati telefonici risulta che il Savio fa lunghe telefonate con una ragazza che lavora qui. Vediamo che tipo è» disse Berté scendendo dall’auto.
L’hotel Metropole era circondato da un giardino dall’erba ancora verdissima e tagliata alla perfezione. Sebbene fosse fine novembre le aiuole erano fiorite e dai balconi delle camere scendevano gerani rossi a cascata. Regali del clima di mare.
Berté cercò di scovare qualche farfalla, ma vide solo alcune mosche che volavano pigre tra i cespugli di pitosforo. Anche le mosche sono nere, pensò, ma non erano seducenti come la sua Farfalla!
Immancabili palme alte e flessuose svettavano ben piantate nel terreno.
L’ingresso dell’hotel era illuminato, anche se deserto. Pavimenti di marmo, poltrone in damasco, sullo sfondo un bar dove un annoiato barista lucidava un bancone già lucido per ingannare il tempo. Una delicata musica di sottofondo per creare un’atmosfera di classe.
Nell’atrio non c’erano clienti. La stagione non era delle più propizie per una vacanza al mare. E infatti l’albergo era in procinto di chiudere per un mese ‘Per restauri’ come annunciava un elegante cartello appeso fuori. Un mese di ferie per chi aveva lavorato durante tutta l’estate.
Alla reception due donne in divisa blu, una sulla cinquantina, bruttina, con gli occhiali e l’altra bionda, decisamente bella.
All’ingresso di Berté, accompagnato dalla Belli in divisa, le due si irrigidirono.
«Buonasera. Sono il vicequestore Berté. Dovrei parlare con la signorina Dominique Clermont.»
«Sono io» disse la bionda con accento francese, sbiancando in viso: «cos’è successo?»
«Non si preoccupi, signorina, devo solo farle qualche domanda. Meglio se parliamo in privato, però.»
Dal retro dell’ufficio, richiamato dalle voci, emerse un uomo maturo in giacca e cravatta.
«Sono il direttore. C’è qualche problema?»
Il tono era rispettoso per la divisa della Belli, lo sguardo interrogativo per la coda selvaggia che spiccava sulle spalle di Berté.
«Nessun problema. Sono il vicequestore aggiunto Berté» il tesserino venne prontamente esibito sotto gli occhi del direttore.
«Buona sera, dottore» l’uomo gli porse una mano sudaticcia che Berté strinse frettolosamente dicendo: «Vorrei fare due chiacchiere con la signorina Clermont».
Il direttore guardò stupito sia la Clermont sia lui. «Sì, certo, ma... a che proposito?»
«Questo lo dirò alla signorina. È una faccenda personale, niente a che vedere con il lavoro che svolge qui.»
Il direttore sembrò sollevato, anche se incuriosito.
«Ah, capisco. Prego, commissario, vuole che l’accompagni in una saletta privata?»
Berté annuì e lo seguì, tallonato dalla Belli e dalla Clermont.
«Ho sentito della signora Groppini, sono senza parole!» esclamò il direttore aprendo la porta di un salottino. «Che delinquenti ci sono in giro!»
«La conosceva?»
«Sì, ma superficialmente. Qualche volta è venuta qui a cena col marito. Persone molto per bene.» Dal suo tono s’intuiva che avrebbe voluto ottenere qualche informazione, Berté però si guardò intorno senza commentare.
«Allora... io vado» disse il direttore lanciando un’occhiata inquieta alla ragazza «se ha bisogno di qualcosa sono in ufficio.»
«Grazie.»
Berté gli voltò le spalle, e il direttore fece un impercettibile inchino chiudendosi dietro la porta.
«Si sieda, signorina Clermont» le disse Berté indicandole una poltroncina trapuntata e sedendo a sua volta su una sedia dalle gambe sottilissime, augurandosi di non sfondarla con il suo peso. L’agente Belli estrasse il taccuino per gli appunti e restò in piedi, davanti alla porta.
«Lei non è di Lungariva, vero, signorina?» iniziò Berté.
«Sono nata in un paese vicino a Parigi» affermò la biondina accavallando le gambe. Belle gambe.
«Che ci fa qui a Lungariva?» le domandò Berté distogliendo a fatica lo sguardo dagli arti armoniosi della francese.
«Mia madre era originaria di Genova, per questo parlo l’italiano. Circa due anni fa la mamma è morta e io a Parigi non avevo lavoro, così una mia zia mi ha trovato questo posto... ma perché mi vuole parlare?»
Berté ignorò la sua preoccupazione.
«Si trova bene qui?»
«Sì, mi trovo bene, anche se è più bello d’estate perché c’è tanta gente e il tempo passa in fretta. Ora è un po’ noioso.»
«E allora inganna il tempo rispondendo alle telefonate, magari quelle dell’ingegner Savio.»
«Ah, lo sapevo, è per questo!» esclamò quasi sollevata la ragazza. «Io con Alberto, cioè con l’ingegner Savio, non ho nessuna relazione, se è questo che pensa. Mi telefona ogni tanto, così, per fare due chiacchiere.»
«Per fare due chiacchiere?» Berté inarcò le sopracciglia.
«È un cliente del mio fidanzato che vende articoli di pesca vicino al porto. L’ingegnere è un maniaco della pesca, spende molto da Maurizio. Ci siamo conosciuti lì, in negozio.»
«Il suo fidanzato sa che il Savio le telefona spesso per fare due chiacchiere?»
«Certo!»
«E che cosa vi dite?»
«Parliamo di tante cose, è un uomo piacevole. La prima volta mi ha chiesto se andavo a bere un cappuccino con lui perché aveva bisogno di parlare con qualcuno che non fosse di qui.»
«E perché avrà scelto lei per le sue confidenze?»
«Non c’è niente di male, commissario.»
«Se è come dice lei, non c’è niente di male.»
Il viso stupendo della Marzia gli comparve davanti.
Già, niente di male.
«Io ho gentilmente rifiutato l’invito» continuò Dominique, mentre il fantasma della Marzia si dissolveva «e l’ho raccontato a Maurizio. Lui ha detto che Alberto voleva fare un po’ il galletto, ma era innocuo. Mi ha chiesto di non trattarlo male perché è un buon cliente.»
Fidanzato moderno e interessato, si trovò a dedurre Berté.
«Che giudizio si è fatta dell’ingegnere?»
«Gliel’ho detto: un uomo piacevole e distinto. Un po’ solo, però. Sa che impressione ho avuto? Che volesse uscire con me per ripicca alla moglie... e dimostrare a se stesso di poter avere una storia al di fuori del matrimonio. Maurizio ha detto qualcosa tipo ‘vuole sparare gli ultimi colpi’: si dice così, no?»
Berté sorrise. L’accento francese sulla bocca deliziosa di quella ragazza deliziosa era eccitante.
«Quindi le faceva una corte innocente?»
«Sì, una corte all’antica, solo al telefono.»
«Lei conosceva la signora Groppini?»
«L’ho vista qualche volta con Alberto, qui a cena o in paese, ma non le ho mai parlato. Era una signora elegantissima. Poveretta! Chi può averla uccisa?»
Berté ignorò la domanda.
«L’ingegnere le ha mai parlato di sua moglie?»
«Be’, sì certo, qualche accenno; a volte faceva delle battutine, sulla passione che poi si spegne...»
«Le ha parlato di problemi tra loro?»
«No. Solo una volta...» la ragazza s’interruppe mordendosi un labbro.
«Avanti, signorina» la invitò Berté.
«La settimana scorsa, mi ha telefonato sul cellulare mentre ero a cena con Maurizio. Non l’avevo mai sentito così! Era furioso perché sua moglie era uscita ancora. Ultimamente lei usciva spesso la sera e lo lasciava da solo in casa. Lui era un tipo sempre controllato, ma secondo me quella sera aveva bevuto. Non sembrava lui, diceva che sapeva dove trovarla e che voleva castigarla. Io gli ho passato Maurizio che lo ha calmato, gli ha detto di pensare alle sue figlie, di non fare pazzie e lui alla fine lo ha ringraziato.»
«Le ha detto dove andava la moglie?»
«No, questo non ce l’ha mai detto, ma sembrava geloso, come se la signora avesse un altro uomo, almeno questo è quello che sembrava a me e a Maurizio.»
«Ha qualche idea di chi potesse essere quest’uomo?»
La ragazza ebbe una breve esitazione.
«No, non saprei, ma guardi che potrebbe essere solo una mia idea.»
«L’ha sentito ancora dopo quella telefonata?»
«Sì, ha ripreso a chiamarmi e a farmi qualche complimento, ma mi creda, non è volgare, solo credo che non sappia con chi sfogarsi.»
«Va bene, signorina Clermont. Se le venisse in mente qualche altro particolare...» Berté le porse il suo biglietto da visita.
La francese lo prese tra le mani facendogli un sorriso che Berté ricambiò cercando, nei suoi limiti, di risultarle interessante.
Commissario terrone alla conquista di Parigi.
La ragazza era davvero incantevole, come non capire il Savio!
Quando uscirono dal salottino quasi si scontrarono con il direttore che doveva essere rimasto nei dintorni. Berté tagliò corto e con un saluto formale si congedò.
Una volta in macchina, si lasciò sfuggire un sospiro.
«Che ne pensi, Francesca?»
«Che il Savio si è preso una cotta per la francese.»
«Tutto qui? Ti facevo più fantasiosa!»
La Belli senza distogliere lo sguardo dalla strada fece un’espressione stupita.
«Non farti fuorviare dalle apparenze, Francesca. Ti dico io com’è andata: la Clermont e il suo ganzo puntano il Savio. La ragazza lo scalda, gli fa intuire paradisi di sesso e di gioventù ritrovata, gli insinua che però l’ostacolo è la moglie che lo fa becco e lo sprona a liberarsene per poi risucchiargli tutti i soldi. Il Savio infoiato ci casca e zac! Fredda la vecchia moglie granosa.»
La Belli frenò davanti al commissariato e lo guardò a occhi spalancati.
Berté trattenne una risata. Burla innocente, per sopravvivere.
«Stavo solo ipotizzando!»
L’agente riprese la sua espressione normale.
«Non ho prove che sia andata così» proseguì Berté, «ma non voglio scartare nessuna ipotesi, perciò controlla gli alibi della Clermont e anche del suo fidanzato. Non dimentichiamoci che la Groppini era ricca e quindi anche il movente ‘denaro’ non va trascurato.»
«Se era ricca perché faceva la preside?»
«Si lavora anche per passione.»
La ragazza annuì con un sorriso sconsolato.
«Da quando è arrivato lei, quasi mi vergogno della gente di Lungariva» disse l’agente posteggiando l’Alfa 159 sotto le palme anoressiche.
«Non c’è gente di Lungariva e gente di altri posti... solo donne e uomini, che spesso sbagliano. Andiamo in ufficio, dai.»
La sua scrivania era un cumulo di carte. Fogli sparsi, cartellette, buste ancora chiuse. Doveva decidersi a dare una sistemata, ma adesso non era il momento. Aveva troppe cose a cui pensare e poco tempo per pensarle.
Per non parlare del suo racconto che stava prendendo forma. Gli erano venute alcune idee notevoli sul finale... un finale molto diverso dai soliti. Se le immaginava le reazioni di un eventuale, ma ancora inesistente, lettore: figuriamoci se è possibile che finisca così!
E allora? Gli avrebbe risposto. Finisce come voglio io!
Nelle sue storie doveva sempre essere presente quel pizzico di follia, quella vena assurda e inesplicabile... quel tocco d’imprevedibilità che ti fa riflettere sul come la vita riesce a gabbarci tutti.
Poetica di un aspirante scrittore pieno di sé.
Coscienza crudele!
Berté sentì il bisogno di un caffè, e uscì dal suo ufficio dirigendosi verso la macchinetta del cognato di Parodi.
Macchinetta all’inizio tanto disprezzata che adesso era quasi un’amica. Si preparò un ristretto all’arabica e se lo portò in ufficio. Lo stava sorseggiando quando entrarono Parodi e Sabatini.
«Eccoci, dottore.»
«Com’è andata a Genova?»
«Qualcosa c’è, commissario» disse Parodi sedendosi davanti a lui e slacciandosi la giacca.
«Sentiamo... Volete un caffè?»
«Dottore, è quasi ora di andare a cena!»
«E allora? Io me lo sono appena bevuto!»
«Lei non fa testo... è un drogato!»
Berté rise e si allungò sulla sedia passandosi una mano sugli occhi. L’emicrania che si era annunciata al mattino, tenuta a bada durante la giornata, ora voleva prendersi la rivincita. Da esperto qual era, Berté profetizzò che il fastidio sarebbe aumentato e tuttavia si impose stoicamente di non intervenire con altre pastiglie arancioni.
Salvare lo stomaco.
«È un bell’istituto, sa, il San Giorgio. Un edificio solido, belle aule, si vede che è tenuto bene» disse Sabatini portando una sedia vicino a quella di Parodi e sedendosi a sua volta.
«Quindi la Groppini era una brava amministratrice e il Nardi investiva nel decoro della scuola.»
«Questo sì. Abbiamo interrogato insegnanti, segretari e bidelli.»
«Andiamo con ordine.»
«Inizia tu» disse Parodi a Sabatini, «la bomba la spariamo alla fine.»
Berté si agitò sulla sedia.
«Facciamo come a teatro? Teniamo le sorprese per l’ultimo atto? Avanti, non perdiamo tempo!»
Sabatini si schiarì la voce e, consultando gli appunti, iniziò.
«La scuola ha quattro sezioni complete, dalla prima alla quinta, quindi venti classi per un totale di cinquecento allievi. Il personale non docente, tre bidelli, due maschi e una femmina, non hanno fatto che elogiare la Groppini, li aveva assunti lei anni fa. Non hanno notato nulla di strano e non mi hanno detto niente d’interessante. La scuola si serve anche di un’impresa di pulizie, la solita da dieci anni, ho telefonato ma è tutto a posto, i pagamenti sono regolari. In segreteria ci sono tre persone, due donne e un uomo, oggi una delle segretarie era assente per malattia. Anche loro attaccatissimi alla Groppini e disperati. Ho parlato con gli insegnanti presenti: trenta. Niente di rilevante. Tutti scioccati, alcuni più di altri. Quelli con cui ho parlato hanno un alibi per la sera del delitto, ma devo fare ancora una decina di controlli. Mi mancano sei insegnanti che oggi non erano in servizio e la segretaria. Li contatto più tardi.»
«Fin qui niente, quindi; allora la spariamo la bombazza?» disse Berté ironico guardando Parodi.
«Ho parlato con la vicepreside, la professoressa Paola Saltini» attaccò il sovrintendente: «una donna simpatica, collaborativa. Ha presente Gilberto Govi?»
«E chi è?» disse colto di sorpresa Berté.
«Eh, si vede che lei è giovane e soprattutto non è di Genova! Era il più famoso attore di teatro genovese: la vicepreside è uguale a lui. Una specie di civetta che spalanca gli occhi quando parla e ha un accento marcatissimo» Parodi ne fece l’imitazione mentre Sabatini ridacchiava.
«Non sarà questa la bomba?» disse Berté cercando di essere professionale, anche se l’imitazione di Parodi l’aveva divertito.
«No, commissario, il fatto è che tre giorni fa la Groppini ha licenziato in tronco l’insegnante di Filosofia dei corsi C e D.»
«Motivo?»
«Qui sta il mistero: la vicepreside non conosce il motivo, la Groppini non glielo ha detto. Il professor...» Parodi controllò sul suo obsoleto quadernino dalla copertina nera «eccolo qui, Antonio Revelant era stato assunto in gran fretta poco prima che iniziasse la scuola perché l’insegnante precedente aveva ottenuto la cattedra alla pubblica e se n’era andato. Non sembra che ci fossero problemi tra lui e gli allievi né aveva avuto contrasti con la Groppini. Fatto sta che di punto in bianco, venerdì scorso, la Groppini l’ha licenziato senza dare spiegazioni nemmeno alla vicepreside. La Saltini mi ha detto che questa improvvisa decisione l’aveva lasciata molto sorpresa, anche perché la preside l’aveva pregata di dire agli altri insegnanti che il Revelant si era licenziato da solo. Sembra che fosse molto irritata, ma non si è confidata con la Saltini.»
«Avete cercato questo Revelant?»
Sabatini gli porse una foto.
«Abbiamo confrontato questa foto d’archivio che ci siamo fatti mandare dal San Giorgio con la scheda del Ministero dell’Istruzione» recitò Sabatini. «È lui. Non ha carichi pendenti, ha quarantadue anni e mi ricorda Vittorio Sgarbi.»
Saga delle somiglianze.
Berté trattenne un sorriso guardando la foto.
«È di Padova» intervenne Parodi «ma dopo la laurea ha insegnato un po’ ovunque, Bologna, Milano, Torino... si è sposato e ha divorziato dopo due anni. Adesso risulta celibe.»
«Fatemi una telefonata alla ex moglie e anche alle scuole in cui ha insegnato prima, eh? Magari la Groppini ha chiamato i presidi per avere informazioni e quelli le hanno segnalato qualcosa che non andava.»
«Da quello che ho capito, la Groppini all’inizio dell’anno scolastico era con l’acqua alla gola e l’ha preso senza troppi controlli.»
«E dov’è ora questo ‘Sgarbi’?» chiese Berté che per la prima volta da quando era iniziata quella storia sentì un brivido di interesse.
«Sparito nel nulla!» intervenne Sabatini. «Non ha telefono fisso e il cellulare risulta spento.»
«E a casa sua?»
«Non c’è. Stava in un appartamento a Brignole, ma ci abitava da poco, da quando era iniziata la scuola, quindi da due mesi e mezzo. Abbiamo chiamato la proprietaria della casa, una certa Michela Zuni, una sua amica, che dice di avergli prestato la casa. Il professore le ha telefonato sabato 24 e le ha detto che se ne andava per una decina di giorni, ma senza dirle dove. Le ha detto che si era licenziato perché il San Giorgio non gli piaceva e che andava a farsi un viaggio. L’avrebbe richiamata al suo ritorno. La Zuni dice che lui faceva spesso così, non gli piaceva stare sempre nello stesso posto. La casa non ha portineria, allora abbiamo chiesto ai vicini se l’avevano visto di recente. Le due sorelle anziane che abitano sullo stesso pianerottolo pensano che sia partito perché da giorni non sentono né la musica, che lui sentiva sempre a volume altissimo, né rumori. Anzi un rumore l’hanno sentito: sia sabato sia domenica hanno sentito il citofono suonare insistentemente. Si sono affacciate al balconcino e dall’alto hanno visto che a citofonare era una ragazza, una che avevano visto altre volte venire a casa del Revelant. Credevano fosse la fidanzata.»
«Quello è scappato, altro che partito!» esclamò Sabatini. «La Groppini l’ha colto sul fatto con una studentessa e lui per non beccarsi una denuncia per ‘atti sessuali con minorenne’ ha preferito cambiare aria.»
«La Groppini però non l’ha denunciato» disse Parodi.
Berté poteva immaginare il perché. Una denuncia prima o poi viene fuori e lei, che l’aveva assunto, avrebbe fatto una figuraccia. Meglio nascondere e rimuovere. Tipico del perbenismo.
«Pensava di mettere tutto a tacere senza scandali» affermò Berté. «Dobbiamo assolutamente trovare questo professore. Avrà dei parenti, no? Chiamate la madre, il padre, i fratelli... dite alla Belli di fare ricerche anche online, magari ha un profilo su Facebook. E io sentirò il PM Rivalta per richiedere il controllo del traffico telefonico e reperire le celle. Se non ha buttato il telefonino in mare potremmo beccarlo così.»
«Ok, dottore, però non può averla ammazzata lui: se n’è andato due giorni prima dell’omicidio.»
«Sabatini!» lo riprese Berté. «Ragiona, santiddio! Mica sappiamo se è rimasto nei dintorni e poi l’altra sera... zac! Una botta in testa alla preside per vendicarsi di averlo cacciato ed evitare di essere denunciato.»
Il giovane Sabatini abbassò la testa confuso.
«Oppure potrebbe aver pagato qualcuno per fare il lavoro al posto suo» rincarò Parodi.
«Non si scarta mai nessuna possibilità, capito, Sabatini? Adesso per prima cosa troviamo questo Sgarbi fuggiasco» Berté si alzò seguito dai due agenti. «Controllate in aeroporto, i movimenti in banca, tutto quello che ci può portare a lui e soprattutto alla ragazza che andava a casa sua a citofonare.»
I due poliziotti si alzarono per uscire.
«Parodi, fermati un attimo» lo bloccò Berté mentre Sabatini usciva.
«Allora, vieni a cena con me?»
«Certo, dottore. Come faccio a lasciarla da solo?»
«Ti faccio pena, eh, Parodi?»
Il vecchio poliziotto sorrise, e Berté capì che in fondo era così. Le sue occhiaie, il suo sguardo appannato dai caffè e dagli analgesici, la rabbia dentro che non riusciva a sfogare... e adesso pure quel sentimento impossibile.
Persino Parodi l’ha capito.
Si chiese se doveva avvertire la pensione Aurora della sua assenza a cena, poi pensò che non era in collegio.
«Prima, però, mi deve concedere di passare da casa, dottore» lo pregò Parodi.
«Bene. Ti aspetto tra mezz’ora all’Aurora. Prendiamo la mia macchina, andiamo in incognito.»
Berté prese la strada che portava alla pensione passando per il porto. Costeggiando il molo si fermò a osservare i gozzi che oscillavano nel mare buio. Barche della tradizione ligure, dal legno lucidissimo verniciato di blu, bordeaux, verde bottiglia, uniche per il loro fascino antico.
Il porto silenzioso avvolto in quell’atmosfera gli ricordò i libri di un autore svedese che aveva scoperto da poco, Bjorn Larsson, uno scrittore velista. Il suo ultimo romanzo, un giallo sui generis, parlava di velista un poliziotto che amava scrivere poesie. Ci si era riconosciuto: non era il solo, quindi! Il libraio Necchi l’aveva consigliato bene, anche se ignorava la sua passione per la scrittura.
Osservò incuriosito un marinaio che fumava sul ponte di una barca. Sembrava uscito da un romanzo di Larsson, col suo basco di lana a coste, la giacca di tela cerata gialla e il volto cotto dal sole. Chissà se sarebbe ripartito presto, e per quale rotta...
L’immancabile domanda «E io che ci faccio qui» si presentò puntuale nella sua mente.
Il caso della Groppini riusciva a distrarlo dalle nostalgie, ma non a fargli accettare di vivere in quel posto, dove si sentiva ancora un estraneo.
Provò il bisogno di ascoltare della musica. Sistemò le cuffie dell’iPod e regolò il volume. Scelse gli Stadio, uno dei suoi gruppi preferiti. La voce di Gaetano Curreri gli graffiava l’anima, ma era semplice, italiana, autentica come i gozzi.
Accelerò il passo verso la pensione Aurora, con la voglia di vedere la Marzia, il suo sorriso, i suoi gatti impiccioni.
E la speranza di non vedere suo marito.
Alla pensione tutto sembrava tranquillo. Non c’era nessuno al bureau, ma lui aveva sempre la chiave con sé, visti i suoi orari impossibili. Salì le scale piano cercando di carpire qualche voce, qualche indizio della presenza della Marzia, ma non sentì niente. Nemmeno il miagolio dei due gatti. Un silenzio irreale lo accompagnò lungo il corridoio moquettato.
Forse lei e il marito stavano già cenando o magari erano usciti a cena.
Si fece una doccia e si osservò allo specchio. Era ancora tonico, ma qualche chilo l’aveva messo su. Pancia soprattutto.
Maledetta focaccia!
Doveva riprendere a correre. Un tempo si teneva in forma così, altrimenti la Patty gli limava i nervi con la storia che bisogna curare il proprio corpo, che non doveva lasciarsi andare bla, bla e bla. Sapeva essere convincente quando voleva!
Adesso la Patty era lontana, ma...
Nella sua mente si fece largo un quadretto molto rilassante. Lui e la Marzia dopo una bella cena e una bottiglia di vino, seduti su un comodo divano a leggere romanzi ascoltando musica. Niente diete, niente palestre, niente feste, niente pantaloni stretti... Una donna ‘in carne’ ha questo vantaggio: non ti fa sentire in colpa davanti allo specchio.
La Marzia però aveva sposato il comandante. Magro, aitante, in formissima.
L’immagine sognata si sgretolò all’istante.
Berté finì di asciugarsi e attaccò il fon. Ci volevano almeno dieci minuti per asciugare la coda. L’occhio gli cadde sul computer aperto. Quel caso era impegnativo e non aveva nemmeno tempo per pensare al suo racconto, anzi no, pensare ci pensava, quello che non riusciva a fare era scrivere.
Berté si passò una mano fra i capelli. Erano asciutti. Spense il fon e iniziò a rivestirsi.
Infilò una camicia pulita, una qualunque. Un paio di jeans e un maglione verde scuro, con il marchio del giocatore di polo. Un regalo della Patty, ovvio.
Prendendo dal tavolino il cellulare, notò che sotto il solito vaso di fiori c’era un foglietto.
In questo mondo
Persino le farfalle
Sono indaffarate
Quella Marzia!
Afferrò la giacca e uscì dalla camera.
L’atrio della pensione Aurora era ancora deserto e silenzioso. Spariti anche i gatti.
Stava aprendo il portone per raggiungere Parodi che lo attendeva puntuale come sempre, quando la vide. Aveva le mani occupate da numerosi sacchetti della spesa, i capelli sciolti, come piaceva a lui, neri, lucidi e lisci. Il colore della pelle sempre sano, senza trucco. Un viso da copertina. Ecco, lui che trovava sempre le somiglianze... con la Marzia era spiazzato. Non aveva mai visto un viso come il suo.
Sopra una camicia di Oxford azzurra portava un lungo cardigan blu, mossa strategica per coprire i fianchi troppo generosi fasciati da un paio di jeans.
«Buona sera, Luigi! Non ti ho visto tutto il giorno...» lo sguardo che Marzia gli rivolse era miele puro. A Berté partirono subito i circuiti.
Voglia. Voglia di baciarla, toccarla, fare porcherie.
Il solito maiale!
Santiddio, ma che aveva quella donna da scombussolarlo così?
«Brutte notizie» disse d’un fiato per nascondere il turbamento: «un omicidio. Per questo sono... indaffarato».
«Sì, lo sapevo» disse la Marzia appoggiando a terra i sacchetti.
«Conoscevi la Groppini?»
«No, non personalmente, solo di vista. Una tipa un po’ sostenuta, sai? Sia lei sia la sua famiglia.»
«Me ne sono accorto.»
«Gente che non dà confidenza... d’altra parte stavano più a Genova che qui.»
L’ingresso di due ospiti interruppe la loro conversazione.
«Ci vediamo a cena?» chiese la Marzia mentre apriva il registro delle prenotazioni.
«No, stasera esco.»
«Ah...» sembrava delusa.
«Pensavo che tu... che non fossi sola, cioè che tuo marito...» si ingarbugliò Berté vergognandosi davanti ai due clienti che però avevano l’aria di essere stranieri e di non capire l’italiano.
«Questa sera è fuori a cena anche lui.»
«Ah...» adesso il deluso era lui.
Ma la Marzia ormai non lo guardava più, presa dal suo lavoro.
A Berté non rimase che darsi del cretino mentre raggiungeva Parodi e lo conduceva verso la sua Lancia Delta posteggiata in una stradina vicina.
Per raggiungere il ristorante La mela verde c’era una sola strada, poco agevole e stretta da far temere a ogni curva un frontale con chi procedeva nell’altro senso. Non aveva protezioni laterali, ma per fortuna era lunga solo pochi chilometri.
La mela verde aveva l’aspetto di un agriturismo. Vista mozzafiato sul golfo, pochi tavoli, arredamento rustico, ma curato. D’estate, quando si poteva mangiare sulla terrazza, la vista doveva essere uno spettacolo, con la luna piena che si specchiava nel mare, in compagnia di...
«Stasera Parodi, non voglio rotture» annunciò Berté ad alta voce per scacciare certe immagini pericolose «spengo il telefonino così per un paio d’ore nessuno mi trova.»
«Tengo acceso il mio, dottore?»
Berté per un attimo ebbe voglia di dirgli ‘spegni pure il tuo’, ma si trattenne.
«Be’, tu hai famiglia... meglio lasciarlo acceso.»
La sala era semideserta. Non era la stagione adatta per un ristorante come quello. Infatti un cartello ben in vista sulla porta annunciava che la settimana seguente il locale avrebbe chiuso i battenti fino a Natale.
«Cosa ci beviamo, Parodi?» domandò Berté. «Non siamo in servizio e quindi possiamo gozzovigliare, eh, che ne dici?»
«Scelga lei, dottore» rise Parodi: «per me va bene sia rosso sia bianco, ma qui fanno cucina dell’entroterra, quindi pesce mi sa che non ne servono.»
«Allora meglio un rosso.» Berté prese la lista dei vini e la consultò rapidamente. «Un ‘Rossese’ mi sembra adatto» scandì, restituendo la lista al cameriere che si allontanò.
«Dimmi, Parodi, lo sai che sono qui da più di cinque mesi?»
«Lo so, dottore.»
«Dottore, vicequestore, commissario... mi chiamo Gigi quando esco a cena con un amico!»
Parodi arrossì come un gambero.
«E tu come cavolo ti chiami di nome, Parodi? Nemmeno lo so!»
«Ohi ohi... dott... anzi, Gigi, io... mi chiamo Pasquale.»
Berté scoppiò a ridere.
«Un nome da terrone! Io ho almeno tre cugini e due zii che si chiamano Pasquale.»
Anche Parodi, suo malgrado, sorrise.
«Sono nato il giorno di Pasqua e allora... mi hanno chiamato così. Però mia moglie mi chiama Cicci.»
«È meglio Pasquale di ‘Cicci’! Ma te lo devo confessare, mio padre mi chiamava Aggiggi! Siamo Cicci e Aggiggi, che coppia!»
Intanto una gentile signora si avvicinava con il vassoio degli antipasti: salumi, bruschette, funghi, zucchine marinate, verdure ripiene dal profumo invitante. E un cestino di focaccine e grissini friabili.
Berté e Parodi si dedicarono con impegno al cibo, mentre il cameriere stappava il Rossese.
«Cosa vi porto dopo, signori?» la signora, generosa di fianchi quanto di proposte, iniziò a sciorinare un elenco di piatti che Berté considerò tutti allettanti.
«Signora, lei è una rovina per chi deve stare a dieta! Ma stia tranquilla noi non siamo fra quelli, vero, Pasquale?»
Parodi annuì ridacchiando.
«Allora ci porti un assaggio di tre primi e poi... ci facciamo un piatto di coniglio con olive taggiasche, eh?»
Parodi annuì di nuovo, mentre la signora si allontanava scrivendo l’ordine.
«Ho scelto il coniglio perché entrando ho sentito un profumo che mi ha ricordato quello che faceva mia nonna» disse Berté masticando l’ultimo pezzetto di focaccia rimasto nel cestino.
«Naso fino, dott... cioè Gigi, faccio ancora fatica..., e guardi che la chiamo così solo stasera: da domani lei è dottore, commissario, vicequestore...!»
«Mi arrendo, Pasquale. E tu da domani torni Parodi. Ma ecco i primi.»
Ravioli con la borragine, trofie al pesto, tagliolini ai funghi.
Per un po’ la conversazione s’interruppe. A vassoi vuoti Berté si lasciò sfuggire un sospiro soddisfatto.
«Buoni, eh, anche se devo essere sincero: il pesto del ‘Gabbiano’ mi piace di più.»
«Eh, quello è il pesto migliore della Riviera! Nemmeno mia madre, che era una cuoca con i fiocchi, lo faceva così buono.»
«Infatti, Pasquale, io ho bisogno di te che conosci il territorio come le tue tasche, che conosci la gente e la mentalità di qui. Vorrei che ci scambiassimo sempre le nostre impressioni... lo so che ti stavo sulle palle quando sono arrivato, ma ormai dovresti esserti abituato a me, no?»
Il sovrintendente abbassò la testa, senza commentare.
«Noi dobbiamo avere fiducia l’uno nell’altro.» Berté si versò un bicchiere di Rossese e ne bevve un sorso. «Vedi, Pasquale, io mi sono imposto una missione, fin da ragazzo, da quando ho deciso che avrei fatto questo mestiere: trovare quei... lasciamelo dire, quei pezzi di merda che rubano e ammazzano la gente.»
Gli occhi di Parodi esprimevano la stessa convinzione.
«So che da solo non salverò il mondo» continuò Berté «faccio quello che posso e quello che posso è non mollare finché non ho risolto il caso. Non mi va di farmi fregare.»
«Sono d’accordo, la penso anch’io così... se no la divisa che senso ha?»
«Non lo facciamo certo per i soldi, vero, Pasquale?»
«Ah, no di sicuro! Le volte che mia moglie mi dice ma chi te lo fa fare di vivere così senza orari, rischiando ogni giorno di farti ammazzare, per uno stipendio... non che mi lamenti, comm... cioè Gigi, ma non lo si fa certo per quello!»
Berté pensò alle crisi isteriche della Patty quando lui era in missione e non tornava a casa per giorni senza avvertire. Una vitaccia, quella di chi sta con un poliziotto.
«Si nasce poliziotti e si resta tali... ma ecco il nostro coniglio» esclamò Berté mentre il cameriere appoggiava il vassoio con la carne fumante.
Il coniglio alla ligure con olive taggiasche risultò quello che Berté si aspettava: al livello di quello della nonna.
«Gigi, sto scoppiando» disse Parodi massaggiandosi lo stomaco.
«Ah, ma non mi puoi saltare il dolce! Che ci porta, signora?»
Si accordarono per due rispettabili fette di torta di mele. Mancava il caffè.
Infatti ecco avanzare una bionda cameriera dagli occhi azzurrissimi e dall’accento stentato:
«Vogliono... caffè?» scandì con un sorriso invitante.
Slava senz’ombra di dubbio, dedusse Berté.
«Ah, quello non deve mancare!» rispose. «Due belli forti...»
«Commissario, cioè Gigi, per me un decaffeinato, altrimenti stanotte la passo in bianco» precisò quasi scusandosi Parodi.
«Bene. Allora uno forte e un dek, signorina...» le chiese ammiccando Berté.
«Irina.»
«Ucraina?»
«No, vengo da Bratislava» rispose con una voce gutturale che contrastava con l’aspetto etereo.
Slava quindi. Segugio di prim’ordine.
Marpione di prim’ordine!
«Ecco, Irina, prima del caffè ci porti qualcosa di... forte.»
«Non troppo forte, Gigi, altrimenti se ci ferma la stradale...»
«Allora due limoncelli.»
La cameriera annuì dirigendosi verso il bar e ritornando subito con i bicchierini dal collo lungo colmi di un liquore denso e giallo.
«La Rivalta dice che dovremo coordinarci con quelli di Genova» disse Berté osservando la cameriera che si allontanava ancheggiando, «la preside è stata uccisa a Lungariva, ma non possiamo escludere che tutto parta dalla scuola.»
«Noi ci proviamo sempre a collaborare con loro» Parodi bevve un piccolo sorso di limoncello, «ma, sa com’è... non è facile come dirlo o come dovrebbe essere: ci trattano come fossimo di serie B, noi di paese.»
Già, pensò Berté mentre beveva d’un fiato il liquore, un piccolo commissariato, in una piccola cittadina sul mare, adesso con l’aggravante di essere comandato da lui.
Vicequestore semiterrone in trasferimento disciplinare.
Irina portò i caffè e sempre ancheggiando se ne andò.
«Il questore mi sta sul collo perché la Groppini era sua amica, e comunque ha ragione» disse Berté sorseggiando il caffè che non era niente male, «non si può tirarla troppo per le lunghe in questi casi, altrimenti finisce che non trovi più il bandolo della matassa, e qui si vive di turismo, Parodi. Assassini in giro non ce ne devono essere.»
Berté pagò il conto rifiutando il fifty fifty proposto da Parodi e salutò con enfasi il personale de La mela verde.
Irina soprattutto.
Saliti in macchina ripresero la strada verso Lungariva. La cena era stata piacevole, ma non se l’era goduta come avrebbe voluto. Forse l’incontro con la Marzia e il fatto che quella sera avrebbe potuto stare con lei gliel’aveva rovinata.
Ma non voleva fare l’avvoltoio, o meglio il cuculo, che frega il nido ai legittimi proprietari. No, non voleva interpretare quella squallida parte.
Durante il ritorno parlarono del più e del meno.
«Allora, Parodi» disse infine Berté frenando sotto la casa del sovrintendente, «è stata proprio una bella serata, ti ringrazio.»
«Grazie a lei, commissario, e buona notte!»
Berté è tornato commissario e Pasquale è tornato Parodi.
Il sovrintendente lo salutò e s’infilò nel portone di casa sua.
Un bravo cristo di poliziotto italiano! pensò Berté con una punta di commozione dovuta forse al limoncello.
Costeggiando il lungomare pensò a com’era cambiata la sua vita. In meglio? Non sapeva rispondere. Certo il paesaggio e l’aria di Lungariva erano migliori della periferia di Milano, per non parlare del rumore, delle polveri sottili, della nevrastenia del traffico e...
Basta!
La pensione Aurora come al solito era silenziosa. In quel periodo gli ospiti erano veramente pochi. La Marzia gli aveva detto che teneva aperto tutto l’anno, anche quando doveva fare lavori d’imbiancatura o restauro, perché tanto dove poteva andare? Ma come – avrebbe voluto dirle – tuo marito gira il mondo, tu potresti raggiungerlo... ma se n’era ben guardato.
Il bureau era deserto e non si sentiva nessun rumore provenire dalle stanze della Marzia. Non era mai stato in quell’ala dello stabile dove abitava. Lei non lo aveva mai invitato e Berté gliene era grato, sapeva che non era per scortesia.
Salito in camera si buttò sul letto.
La solitudine iniziava a pesargli. Il rapporto con la Patty era problematico, ma era comunque un rapporto.
Significava anche non infilarsi in un letto solitario.
Il sesso gli mancava. Oggi aveva fatto almeno un centinaio di pensieracci su varie donne. Si era soffermato persino a guardare le gambe dell’agente Belli, le sempre abbronzate figlie (stronze) della Groppini e il didietro di una cameriera slovacca. Il sesso stava diventando un problema. In fondo era un uomo normale con pulsioni normali... doveva prendere qualche provvedimento.
Meglio non pensarci. Prese dal tavolino il libro che Guido Necchi lo aveva costretto a comperare, sapendo che amava gli autori sudamericani: Mario Vargas Llosa, Elogio della Matrigna.
Dopo poche pagine capì che non era adatto a placare i suoi bollenti spiriti.
Anzi, ci aggiungeva del pepe.
Forse la vita di qualche asceta sarebbe più adatta...
Berté mandò un accidente alla coscienza e spense la luce.