* * *

— Cioè, Sarah funziona, alleva i figli, manda avanti la casa. Si è dimessa da Emanuel e adesso lavora solo per ciò che resta della loro piccola comunità. Ma è in uno stato peggiore del lutto più stretto. Ti dirò una cosa – può portarcene un altro, per piacere? – ti dirò una cosa, questa donna… Non che sia angelicamente, sovrumanamente perfetta… ma c’è in lei una tale gravità spirituale, una così immensa, intrinseca… come definirla, dignità… Non è della solita pietà che sto parlando, e certamente non della santità, parola che detesto, piuttosto è come se fosse naturalmente dotata di una modesta grazia urbana… come se fosse una newyorkese che vive qui, ma anche… nel paese dell’estrema partecipazione di cui parla Tillich. Ti sembro del tutto incoerente?

No, credo di capire.

Avevi ragione tu, sono attratto da lei. Avevi visto chiaro. Non ricordo di averlo detto in modo esplicito. Cristo, me ne sono innamorato, desidero stare con lei. Mi convertirei, se fosse necessario. Ma non muovo un dito. Ho l’impressione che questo, ai suoi occhi, mi renderebbe insignificante, che, in un modo che lei perdonerebbe immediatamente, rivelerei una mancanza di comprensione della sua seria, sorridente, irrevocabile… vedovanza.

E, che tu mi creda o no, sono in lutto per lui. Reagire con coraggio all’incredibile assalto a Dio da parte della modernità, da parte del secolo e da parte degli stessi religiosi… La ricerca di un Dio credibile, Cristo, come lo capisco. Un tipetto magrolino ma resistente, Joshua, non aveva un’oncia di grasso, la struttura fisica del podista, ed era proprio intelligente, ma così genuinamente modesto, aveva un suo modo di aggrottare la fronte – non so, autocritico? – era un’anima seria, gentile, pulita, era meticoloso nel suo modo di pensare, con una serietà e una precisione intellettuale molto naturali, ed era questo che lei amava, questo che trovava in lui come compagno e come padre dei suoi figli. Cioè, ero rimasto folgorato da tutt’e due. Non è raro? Dove li trovi, al giorno d’oggi, dei religiosi che vorresti frequentare?

* * *

— A questo punto, un gruppo di case all’estremità meridionale del ghetto era stato convertito in un nuovo ospedaletto di trenta o quaranta brandine, perché gli stessi tedeschi che avevano bruciato il vecchio ospedale avevano deciso che la gente affetta da malattie infettive doveva, dopotutto, continuare a essere isolata, identificata e sistemata in un modo più preciso e forse meno dispendioso. Naturalmente il dottor Koenig era deciso a non ricoverare mai più in ospedale un paziente con il tifo o qualunque altra malattia infettiva. Correndo grossi rischi personali, curava quel paziente a domicilio e sulla sua cartella clinica scriveva una diagnosi falsa. Ti ho parlato del suo coraggio, e questo ne era un aspetto. Ma non era tutto. Con la complicità dell’unico altro medico ebreo e della signorina Margolin, ogni tanto Koenig ordinava il ricovero in ospedale di qualcuno che non era ammalato ma che stava rischiando in qualche modo di essere scoperto e giustiziato. Poi c’era la storia dei parti illegali. Per tutte queste ragioni, l’ospedale era un’area estremamente vulnerabile e il consiglio vegliava continuamente sulla sua sicurezza.

Così, dunque, un bel mattino arrivai all’ospedaletto con uno dei plichi del signor Barbanel sotto la camicia, e la signorina Margolin era nell’ufficio accettazione con un uomo che sembrava infastidirla. Si voltò a guardarmi e scosse il capo con un movimento quasi impercettibile per farmi capire che non era il momento di occuparci degli affari nostri. Io mi fermai accanto alla porta, addossandomi alla parete.

«Tu non sei malato» stava dicendo la signorina Margolin a quell’uomo. «Non hai niente.»

«Come puoi esserne tanto sicura?» L’uomo si voltò a guardarmi con un grande sorriso sulla faccia, ma i suoi occhi mi squadrarono dalla bustina alla punta dei piedi. «Come fa un’infermiera a sapere che non sono malato senza visitarmi?»

Era brutto, con un viso cavallino e i denti rotti e macchiati. Parlava uno yiddish imperfetto, strano. Era vestito da contadino e portava pesanti stivali incrostati di fango. E un berretto sulla testa che non si era tolto, anche se era al coperto e davanti a una donna.

«Tu devi visitarmi, se dico che sono malato» ribatté alla signorina Margolin.

«È la tua testa che ha bisogno di una visita» disse la signorina Margolin. «Torna al tuo lavoro, e se vieni ancora qui in questo modo ti faccio rapporto.»

Aprì l’uscio alle sue spalle e, guardandolo freddamente, si ritirò. La porta si chiuse e io sentii il rumore del catenaccio che scivolava negli anelli.

«Tu conosci la mia malattia!» gridò lui. «Un uomo che è malato d’amore per te!»

Si girò verso di me. Ora sorrideva. «Cosa guardi, tu?» disse. Sfacciatamente passò dietro il banco e si mise a leggere le carte che c’erano sopra, gli avvisi attaccati alla parete e tutto il resto, cose che non lo riguardavano. Io non mi mossi. Sentivo il pacchetto contro la pelle. Avevo paura di lui, ma ero anche arrabbiato e desideroso di proteggere Greta Margolin. Avrei dovuto uscire da quella stanza, ma speravo che se qualcuno, magari anche un ragazzo, fosse rimasto là a guardarlo, lui si sarebbe sentito costretto ad andarsene. Dopo qualche minuto, con una specie di fischio sommesso e noncurante, mi passò davanti e uscì, abbassandomi – per buona misura – la bustina sugli occhi.

In tutti i racconti e in tutti i film le spie sono scaltre e astute, e bisogna arrivare alla fine della storia per scovarle. Nel ghetto non avevano nulla di scaltro. Puzzavano di spia, anche se non erano tedeschi.

Forse quella stessa sera, o il giorno dopo, il signor Barbanel mi fece sedere tra le quattro mura del suo ufficio e mi spiegò che il materiale d’archivio che aveva raccolto con tanta fatica e che Greta Margolin aveva nascosto per lui non era più al sicuro nel ghetto. «Bisogna cambiargli posto» disse. «D’ora in poi le cose dovranno essere fatte diversamente. Capisci quant’è importante tutto questo?» Annuii. Lo sapevo. E compresi immediatamente, senza fare domande, perché mi confidava quelle cose: dopotutto, non ero la stella delle sue staffette?

Il mio spirito lento e letargico fu scosso dall’emozione, dal pericolo di ciò che avrei dovuto fare adesso. Era una frenesia, questo pericolo, un’esaltazione, qualcosa di assolutamente malsano, era una droga, un’anfetamina, per un ragazzo che sapeva che, se fosse stato sorpreso, avrebbe potuto essere torturato e ucciso.

Eppure, in realtà, come potresti immaginare se tu avessi conosciuto Barbanel, le mie missioni erano relativamente sicure. Il grosso dell’archivio, che riempiva un piccolo baule, era stato trasferito di là dal ponte e in città, come o con quale sotterfugio o bustarella non mi fu detto. A me restava da portare fuori l’ultimo materiale avvolto nella tela cerata e appiccicato al mio petto e alla mia schiena con preziosi pezzi di nastro adesivo. Feci sette viaggi, forse otto, in altrettante settimane, dalla tarda estate all’autunno. Man mano che l’aria rinfrescava mi sentivo più rinfrancato, perché non avevo solo una camicia per coprire la mia merce di contrabbando, ma anche, sopra, un maglione e una giacca.

Ora, questo potrà farti sorridere, ma tuo padre da ragazzo aveva una folta capigliatura. Dovrai credermi sulla parola. Me la tagliarono cortissima e, oltre a questo, me la tinsero di un colore che non era proprio biondo ma sicuramente più chiaro. Fu una delle precauzioni che presero per rendermi il meno appariscente possibile – o il meno ebraico – in città. Mi fornirono indumenti della mia misura, e non troppo piccoli, com’era sempre nel mio caso. Ovviamente non portavo né stella né bustina. E mi diedero un paio di scarpe abbastanza decenti. Scarpe che portai appese al collo per i lacci mentre uscivo dal ghetto attraverso un viadotto abbandonato, così antico che i tedeschi non lo conoscevano. L’imbocco di quella conduttura, tra parentesi, era nella cisterna di un mulino di pietra. Non mi sentivo proprio tranquillo mentre, piegato in due, correvo lungo quel tubo come uno dei topi che lo infestavano, cercando invano di trattenere il fiato a causa del cattivo odore di quelle viscere di ferro, della terra e degli escrementi di animali. Ma non c’era molta strada da fare, in realtà. Il viadotto sboccava davanti a un mucchio di sassi e macerie sulla riva del fiume, forse ottocento metri a monte della barriera di filo spinato che circondava il ghetto. Lì l’acqua era bassa e costellata di massi, e il fiume formava un’ansa, per cui era possibile guadarlo senza essere visti, al riparo degli alberi e della vegetazione che ne copriva le sponde.

Lo sto facendo sembrare più arduo di quanto fu. Una semplice camminata lungo un viottolo mi portò fino a un quartiere residenziale poco popolato alla periferia della città. Arrivato a un angolo di strada, mi fermai e attesi il tram. Tutto qui. Avevo i soldi e uno zaino pieno di libri di scuola, conoscevo il lituano e avevo una carta d’identità falsa con un altro nome. Non una volta, in uno di quei viaggi, rischiai di essere scoperto. Non fui mai degnato di qualcosa di più di un’occhiata da un poliziotto o da un soldato tedesco, anche se le donne che avevano l’età che avrebbe avuto mia madre, quando mi addentravo nel cuore della città, a volte mi guardavano incuriosite, o persino con un’ombra di sospetto. Io rispondevo con un grande sorriso e mi toglievo persino il berretto augurando loro una buona giornata.

Questo, dunque, era Yehoshua X, Agente Segreto e Ragazzo del Mistero, in azione. I miei viaggi erano studiati in modo tale da farmi raggiungere il cuore della città nel tardo pomeriggio, quando nelle strade c’era molto traffico. Ma una terribile rivelazione mi attendeva ogni volta che arrivavo. Vero, c’era la guerra e quella era una città occupata, con i camion per il trasporto delle truppe che correvano per le strade e le bandiere naziste che sventolavano davanti al municipio, e non proprio una profusione di merci e di roba da mangiare nei negozi e nelle botteghe, e non proprio una popolazione ben nutrita o felice che badava ai fatti suoi… Ciononostante, vedere la distesa delle case intorno a me, essere assalito dalla vista e dai suoni della città in cui ero nato e dov’ero andato a scuola, delle file di condomini di pietra con i loro cortili, delle linee elettriche, dei binari dei tram, dei cartelli da cui si desumeva la grande ampiezza dei dintorni della città, essere ricondotto all’idea di una civiltà moderna normale e storicamente fondata, per ignobile e antisemita che fosse diventata… e paragonare tutto ciò, inevitabilmente, al piccolo, patetico e miserevole campo di lavoro forzato in cui vivevamo noi, con i nostri tuguri contadini, recintati come bestie, e isolati, deportati e assuefatti al terrore di non sapere, ogni giorno, se ci avrebbero permesso di vivere fino al giorno dopo… era una pena per tutti, figuriamoci poi per un bambino, sentirsi dare con tanta chiarezza questi terribili avvertimenti. Voglio dire che, se non fossi stato incaricato di fare quei viaggi con i documenti di Barbanel, non avrei sentito così acutamente la terribile perdita che ci aveva colpito e non avrei compreso così bene la catastrofe che ci aveva travolto e che durava ancora…

La mia meta era una piccola chiesa cattolica in un quartiere operaio poco lontano dalla stazione ferroviaria, una chiesa di pietra con un cimiterino sul davanti. Purtroppo non riesco a ricordarne il nome. Probabilmente non era così grande, nulla d’imponente come il duomo che sorgeva nella piazza principale, ma a me sembrava abbastanza formidabile, e devo dire che il momento in cui ne varcavo le porte di quercia era sempre il più difficile del mio viaggio. Era buio là dentro, con file e file di candele baluginanti, quei ceri votivi che mi ricordavano lo yahrzeit10 o le candele commemorative che, quando le avevamo, accendevamo nel ghetto per i nostri morti. Non capivo perché ci fossero cancellate, simili alle sbarre di una prigione, che separavano l’altare dalla gente che pregava nei banchi, qualche volta un soldato tedesco o due, ma più spesso donne, soprattutto vecchie con un fazzoletto piegato a triangolo in testa. Le donne e le candele mi sembravano molto ebraiche, anche se questa poteva essere solo un’idea sconcertante, con quel Cristo di gesso dipinto, grande e molto realistico, attaccato al crocifisso nell’abside dietro l’altare con il sangue che gli colava dalla fronte, dalle mani e dai piedi.

La procedura che mi avevano insegnato richiedeva che io m’inginocchiassi e mi facessi il segno della croce e poi mi rifugiassi in uno dei confessionali nelle navate laterali. Lì dovevo aspettare qualche minuto finché, visto il campo libero, un prete – padre Petrauskas, si chiamava – apriva la porta e m’introduceva nella canonica.

Era un uomo gentile, questo prete, che mi salutava con un inchino e sorrideva con sincera cordialità. Gli mancava qualche dente. Aveva la testa rasata, e il suo viso era così solcato da grinze, pieghe e ombre tratteggiate che sembrava di pergamena. Gli occhi erano socchiusi e infossati. La tonaca nera era stretta e molto lucida. Dopo che mi ero sfilato la camicia, lui toglieva il nastro adesivo, sempre badando a strapparmelo con cautela dalla pelle, e ritirava il pacchetto di materiale, e quando mi ero riabbottonato mi dava qualcosa da mangiare, un pezzo di pane con la marmellata o una scodella di minestra, e a tavola si sedeva davanti a me e mi guardava mentre mangiavo. Non voglio fare torto alla chiesa cattolica, ma col passare degli anni ho pensato, di tanto in tanto, che questo prete potesse essere un ebreo convertitosi al cattolicesimo. Non so il motivo di questa sensazione, non ho le prove che fosse così. In qualche modo era conosciuto da Barbanel come un amico fidato e aveva corso questo rischio per quella che, date le esigenze del momento, sarebbe potuta sembrare una causa quasi astratta, la causa della memoria storica, la causa impotente della memoria come unica riparazione.

Me ne andavo, di solito quando cominciava a far buio, e percorrevo a ritroso la stessa strada e riprendevo il tram fino alla periferia della città, scendendo una fermata prima o dopo il mio angolo, dove imboccavo il sentiero fino al guado. Lì mi toglievo ancora una volta le scarpe da ragazzo lituano e, strisciando lungo il viadotto, rientravo nel ghetto. Arrivavo esultante e andavo a cercare il signor Barbanel per annunciargli il mio successo, poi mi rimettevo i miei indumenti, come un attore dopo la rappresentazione e mi calcavo bene in testa la bustina da staffetta.

* * *

— Puoi andare a osservare gli uccelli nella breve estate dell’Artide canadese sorvolando a bassa quota con un DC- 3 i branchi spaventati di caribù da Yellowknife a Bathurst. Là ti accampi nella tundra inespugnabile ed esci in fuoribordo con gli Inuit, la popolazione che vive lassù. D’estate la bassa Artide è un mare, e gli Inuit ti portano con le loro barche scoperte su un’isola dove sanno che vive un’aquila, o un gruppo di falaropi, o un bianco girifalco che sta allevando una covata di pulcini. Nell’Artide i numeri sono bassi, tutto ciò che è vivo si fa notare. La faccia sinceramente compiaciuta della nostra guida alla barra del timone che puntava il dito verso il cielo mentre passava una strolaga dal becco giallo mi ha fatto pensare alla soddisfazione di un collegiale. Alcune di queste isolette davanti alle quali ti fermi sembrano fatte di gusci d’uovo, penne e guano. Esiste un altro regno, di una vita che non ha nulla a che fare con noi. Gli Inuit che non si sono inurbati, quelli che restano indietro e continuano a vivere all’antica – con qualche cambiamento, si capisce: d’inverno per le loro cacce al lupo usano i gatti delle nevi – gli Inuit cacciano e pescano, e tengono la rotta nelle loro acque prendendo la posizione da un monte lontano che sembra una faccia rivolta al cielo. La faccia è indiana, la cima del monte è il naso, perciò questi Inuit sono noti come il Popolo del Naso.

Ho passato mezza giornata in attesa sotto il nido del girifalco e finalmente l’ho vista, la madre, sorvolare pesantemente la valle con una preda straordinariamente grossa tra gli artigli, un geomio, che con un grande frullo d’ali è stato deposto nel nido costruito su una cengia. Il cielo era azzurro ghiaccio. La femmina era un uccello dal petto largo, non alta come un’aquila. I piccoli implumi strillavano, i miei compagni facevano scattare gli otturatori delle macchine fotografiche e io mi sentivo riempire di gioia alla vista di quel bellissimo rapace, conosciuto anche da Yeats, che mi obbligava a pormi una domanda: esiste un modo di vivere diverso dall’andare in barca sui mari dell’Artide guardando gli uccelli?

* * *

— Mentre la terra ruota sul suo asse, l’acqua che dilava il pianeta si solleva in continui maremoti alla periferia, gonfiandosi come la cornea di un presbite. Al tempo stesso la rotazione terrestre fa vorticare le acque marine nelle direzioni opposte, verso ovest nell’emisfero settentrionale, verso est in quello meridionale, tanto che, se l’acqua potesse intrecciarsi, la terra finirebbe per essere avvolta da una lunga treccia verdeazzurra. Se per qualche motivo la rotazione del pianeta diminuisse quel tanto che basta, le acque della terra volerebbero via e si cristallizzerebbero in un anello di ghiaccio azzurro che alla fine si dilaterebbe e prenderebbe la via dello spazio, un’enorme cometa con tutto il suo plancton, i granchi, i pesci, i molluschi, le balene, i sifonofori e i relitti delle navi naufragate congelati di colpo per l’eternità. Il nucleo superstite del pianeta, magma di roccia e minerali fusi, brillerebbe per un attimo come brace, o come la sezione della mandibola dentata di una creatura sfolgorante, prima di precipitare sulla luna, creando una grande massa rovente e fumante di minerali disintegrati che verrebbero metodicamente risucchiati dal sole come il krill dalla bocca di un’anguilla degli abissi. Ringraziate dunque Iddio per il fatto che questo sistema di spinte e controspinte cosmiche, per quanto eccentrico possa apparire, sembra funzionare. E proprio come esistono le Alpi e l’Himalaya e le Ande e le Montagne Rocciose, così esistono catene montuose sottomarine ancora più estese. E proprio come noi abbiamo i nostri canyon battuti dal sole e scavati dal corso dei fiumi, così il fondo del mare ha le sue insondabili trincee. E come noi abbiamo le nostre pianure e i nostri deserti, così il fondo marino si stende per chilometri e chilometri di pianura abissale. E proprio come noi abbiamo le nostre capre piantate immobili col muso al vento sui picchi disuguali delle nostre montagne più alte, così il fondo dell’oceano senz’aria e senza luce, con le sue tonnellate di pressione per centimetro quadrato, ha i suoi vermi tubicoli e le sue rane pescatrici, le sue granceole, le sue attinie e i suoi gigli di mare che ondeggiano melmosi nella tenebra muta, la bocca aperta e i tentacoli tesi per acciuffare i fiocchi di materia inanimata che cadono come neve dall’oceano verde e azzurro sovrastante. Creature senza nome composte di viticci che finiscono con una ventosa, peduncoli con la bocca, o vermi a reazione muniti di pungiglioni velenosi e meccanismi per l’eiezione dell’inchiostro, accolgono come un dono di Dio la perenne pioggia di morte che le tiene in vita mentre, torcendosi e schizzando, se ne vanno per i fatti loro. Fa tutto parte del Piano Universale. Ci si insegna che la vita non richiede né aria né luce né calore. Ci si insegna che, nelle condizioni fornite da Dio, quali che siano, una qualche creatura s’inventerà i mezzi per viverci. Non esiste, per gli esseri viventi, una rigida morfologia. Non esistono condizioni necessarie per la vita. Migliaia di piante e animali sconosciuti vivono nei crepacci più profondi di quell’acqua fredda e nera, e non se la passano male. La loro biomassa eccede di gran lunga la nostra vita animale e vegetale che respira e si crogiola al sole. Nel fondo del mare più abissale esistono fumanti sfiatatoi di gas di acido solfidrico nei quali, contenti come pasque, prosperano i batteri. E questi sono il cibo di molluschi verrucosi, di gommose e viscose meduse, e di anguille spinose che hanno la sbalorditiva capacità di diventare fluorescenti quando vengono attaccate o devono illuminare la loro preda. Dio ha una ragione per tutto questo. C’è un pesce, il pesce-accetta, che si aggira nel buio dell’abisso con gli occhi protuberanti sopra la testa cornuta e la capacità di illuminarsi elettricamente l’ano per accecare i predatori che tentano furtivamente di attaccarlo da tergo. L’ano elettrico, tuttavia, non è un carattere innato. Viene da una colonia di batteri luminescenti che trovano simbiotica ospitalità nel buco del culo del pesce. E anche in questo c’è uno Scopo che non abbiamo ancora accertato. Ma se credi al giudizio divino di Dio e non scarti la reincarnazione, allora si può ragionevolmente ipotizzare che un certo batterio, che vive sul fondo dell’oceano nell’ano di un pesce-accetta particolarmente venerando, sia l’anima riciclata e affatto cosciente di Adolf Hitler che manda il suo miserabile chiarore nel fango cloacale in cui periodicamente s’immerge per nutrirsi.

* * *

— Cinematografari dappertutto, a New York, e ora sono qui che girano una scena nel mio quartiere. Doveva succedere. Un brusio presuntuoso riempie l’aria. Le transenne della polizia bloccano il traffico. Cavi, ponteggi, la macchina da presa montata su una gru, riflettori. Divi nascosti nelle roulotte. Gente in attesa dell’ardua decisione filmica di usare la mia strada.

Ora ricordo. Tornando dalla mia corsa mattutina, mi ero imbattuto in due uomini che fotografavano meticolosamente l’isolato. Questo accadeva qualche mese fa. Mi era parso che fossero europei. Gli europei amano le strade strette di Soho. Il selciato ottocentesco. Transito difficile per le truppe a cavallo.

Uno scattava, l’altro caricava le macchine e portava le borse. A un tratto mi sentii il padrone di quel posto. Avrebbero fotografato l’antico garage dal quale non esce mai un’auto? Avrebbero notato la mia passeggiatrice cinese? Avrebbero amato i due alberi esausti? Avrebbero colto la polvere della città che si deposita nell’animo di tutti quelli che vivono qui, anche nel più limpido mattino di primavera con gli arcobaleni disegnati dagli spruzzi che si alzano dalle autobotti della nettezza urbana?

Il giorno era appena spuntato, e la bassa angolazione del sole metteva in risalto i volumi da solidi geometrici delle facciate industriali color ghisa, i loro androni incassati e le finestre dai profondi davanzali.

I fotografi tornarono nel tardo pomeriggio. Allora la strada ha un’aria diversa. Il sole si attacca alla speciale materia sollevata dal traffico della giornata, che così sembra andare alla deriva, fluttuante cascata di polvere luminosa che viene giù per l’angusto corridoio tra le due file di edifici contrapposti e passa tra le sbarre delle scale antincendio, oscurando le finestre delle mansarde, splendendo sui lastroni del selciato e dando l’impressione di defluire, di scolare con la sera nel buio dell’antico garage e nelle chiaviche agli angoli della strada.

Ecco dunque che cos’erano. Una pattuglia cinematografica in avanscoperta. E ora, toh, il bivacco di un’armata. Il furgone del fornitore di cestini. Generatori. Cavi. Tutto l’occorrente per le truppe in movimento. Autosufficienti in un paese in cui non vivono, ma che si limitano a occupare di tanto in tanto.

Tutt’a un tratto la strada è nitida e piena di luce. Mi rendo conto che la stanno illuminando. Persone dall’aria comune se ne vanno per i fatti loro. Un taxi si ferma, un uomo salta fuori e prende per la spalla una donna che, a piedi, sta passando davanti all’ingresso di un palazzo, e la costringe a voltarsi e a guardarlo in faccia. È un gesto fortemente aggressivo, anche se moderato per gli standard cinematografici. I due parlano tra loro e, dal terzo piano, io vedo la resistenza della donna che è stata bloccata: noto questa resistenza nella posa. Stanno recitando, ma poi i due si allontanano, con aria indifferente, in direzioni diverse, come se nulla di quanto si sono detti avesse avuto la minima importanza, e allora mi rendo conto che la scena era finita prima che io me ne accorgessi, e poi le luci si spengono e il taxi arretra fino al punto da dov’era partito.

Ora la strada è invasa da un gruppo di uomini muniti di walkie-talkie. Una squadra di operai la sta cospargendo di rifiuti. Tutt’intorno, per chilometri e chilometri, la città non filmata è immemore della propria insignificanza.

Torna il silenzio, si riaccendono le luci. Un taxi si arresta facendo stridere le gomme, la portiera si spalanca, un uomo salta fuori e afferra una donna per la spalla.

Il cinema sta esaurendo le città, le campagne, i mari e i monti. Un giorno ogni centimetro quadrato della terra sarà stato filmato. Il pianeta si sarà appiattito e trasformato in un’enorme “pizza”. Il cielo notturno ci farà da schermo. Il repertorio cinematografico passerà su quello schermo fluttuando e ondeggiando, torcendosi e vorticando nell’universo galattico. La vita non sarà più simultanea ma sequenziale, una storia dietro l’altra, storia dopo storia, come se tutto il Dna di ogni essere vivente fosse teso, in un filo, un byte per volta, all’infinito.

— versione cinematografica: un tale torna dalla sua corsa mattutina e vede una troupe che sta cominciando a girare nella sua strada. La scena che stanno riprendendo, una donna che esce dal suo palazzo, un taxi che si ferma, un uomo che salta fuori e l’affronta, prendendola per la spalla, la donna che si ritrae, la sua aria di sfida, la rabbia di lui… tutto questo gli sembra molto familiare, somiglia a una scena della propria vita.

Si gira e si rigira quella scena per tutta la mattina. Lui guarda dalla finestra. A poco a poco gli appare chiaro che la scena girata è… fedele. Non c’è altro modo di esprimersi. Lui aveva fatto così, trovato la moglie che usciva proprio mentre lui tornava a casa. L’attore che fa la sua parte è più alto, ha una capigliatura più folta, ma nel complesso ha la stessa corporatura e la stessa faccia lunga, con la mascella sporgente. L’attrice è una copia perfetta: bionda, carina, snella e con i fianchi stretti.

Non riesce a immaginare cosa stia succedendo, chi stia girando il film, da quale soggetto possano averlo tratto. L’aveva scritto lei? Ma come? Lei occupava interamente la propria vita, la riempiva di tutta la sua irrequieta e animalesca integrità. E di un sottilissimo disprezzo per il più ragionevole interesse personale. Quando mai aveva scritto qualcosa su di lui, sui loro rapporti, sulla loro relazione finita male? Perché avrebbe dovuto curarsene?

La mansarda, con i suoi finestroni senza tendine, era stata arredata senza fatica, dal gusto infallibile di lei. Ancor oggi, la sua noncurante perfezione lo rende riluttante a spostare qualcosa. La spiccia inevitabilità dell’arredamento gli dà l’illusione della sua presenza, di un proseguimento della loro vita insieme. Lei aveva trovato quel posto, ci era vissuta da sola, poi lui vi aveva traslocato. Era sua, ed era ancora sua, la casa, la strada, il quartiere, anche se lei se n’era andata.

Si domanda perché lui sia rimasto, perché corra questo rischio.

Da basso la troupe finisce il suo lavoro, smobilita, e alla fine del pomeriggio la strada è deserta. Forse lui è troppo teso, pensa, e dà troppa importanza alle coincidenze di quella scena, ma, non riuscendo a togliersela dalla testa, passa i due o tre giorni successivi a verificare l’ipotesi che sia proprio la sua vita, o la loro vita insieme, a essere filmata. Sbigottito, riesce a rintracciare la troupe in città pensando di conoscere gli esterni tra i quali deve scegliere, e indovina così dove si trova. La rintraccia alla scuola di giornalismo della Columbia University, dove lei si è diplomata, e la rivede al ristorante italiano della Nona Avenue dove l’arredamento è stato rifatto com’era prima che cambiasse la proprietà. Hanno scelto persino il tavolo giusto, quello d’angolo sotto l’applique con il paralume strinato.

Il suo tentativo di avvicinare i cineasti viene sventato facilmente dagli assistenti alla regia con i walkie-talkie e dalle guardie del servizio di sicurezza. Non che lui sia ansioso di farsi conoscere. Qualche volta vede l’attrice, di sfuggita, e gli sembra, a ogni scena successiva, che stia diventando sempre più simile a sua moglie. Non sa che cosa fare. Ci sono giorni in cui girano in esterni all’aeroporto Kennedy, al Lincoln Center, a Battery Park. Alla fine smette d’inseguirli e si ritira nella mansarda ad aspettare. E proprio come sapeva che avrebbero fatto, una mattina di buon’ora quelli bussano alla sua porta ed entrano, cavi, macchine da presa, luci, riflettori. Lui non tenta in alcun modo di fermarli. Si piazzano le sedie per il regista, per la segretaria di edizione, per gli attori. Tutti sembrano scambiarlo per il protagonista. Lo truccano, e lui prende posto mentre la macchina gira. Qualcuno bussa alla porta. Lui apre e trova due detective, che si qualificano e chiedono di fargli qualche domanda. Gli dispiace farli entrare?

«Voi penserete che questa è una pazzia, o forse che il pazzo sono io» dice più tardi, sul set della camera di sicurezza dove aspetta, con gli attori che interpretano due piccoli criminali, che i loro avvocati li facciano uscire. Si rende conto di stare parlando come se vi fosse costretto da una forza irresistibile, ma non può fermarsi. «Forse sono pazzo, ma vi giuro che nei film le cose vanno in un modo che nemmeno le persone che li fanno saprebbero spiegare. Cioè, è successo qualcosa di strano, di così strano da convincermi che coloro che li fanno non sono altro che strumenti dei film stessi, intermediari, factotum, e l’intero processo, dal momento in cui si sceglie l’idea, per prima cosa, e ci si procurano i finanziamenti e si trova una star, cioè l’intera operazione, mentre sembra dipendere dalla partecipazione di registi, produttori, distributori e così via, e con tutte le frizioni e le lotte che ci sono tra loro, le lotte per il potere, l’interferenza dei capi degli studi e le profonde dichiarazioni dei critici, in pratica tutta la florida cultura cinematografica… è solo un’illusione, come dovrebbe essere il film, una realtà inventata, mentre sono i film stessi a esercitare il potere, preordinando e autogenerandosi, come una specie dotata di un proprio Dna. Gli esseri umani che li realizzano sono sussidiari, come gli insetti dei giardini che esistono per impollinare i fiori o quegli uccelli che vivono sulla groppa dei rinoceronti africani per liberarli dai parassiti.

«Oggi si fanno più film che mai, dovete ammettere almeno questo, c’è una specie di boom demografico, al cinema, alla televisione, via cavo, su nastro, su disco, sono dappertutto, non puoi sfuggire, sono creature, i film, incredibilmente astute, creature complesse che vogliono persuaderci di essere manifestazioni della nostra cultura, con identità individuali ma compartecipi dei generi, proprio come noi siamo degli individui ma all’interno di strutture etniche. Mi darete del pazzo, ma è possibile, voglio dire soltanto che dovreste considerare questa possibilità, che il cinema sia una malefica forma di vita venuta sulla terra suppergiù cento anni fa e che a poco a poco sia giunta a dominare non soltanto i nostri sentimenti ma i nostri pensieri, la nostra intelligenza. Il cinema si nutre di noi, dopo averci prima costretti a inventarlo e a provvederlo della materialità della sua esistenza, che è la pellicola o, ultimamente, il nastro. Forse vi sarebbe più chiaro ciò che sto dicendo se pensaste al cinema come a qualcosa che ha lo stesso desiderio di prosciugarci di un verme solitario annidato nelle nostre viscere, un verme solitario di dimensioni planetarie insediato nelle viscere della terra, che consuma fino a esaurirle le città, le campagne, i mari e i monti.

«Ma non pretendo che siate d’accordo, so quello che pensate, e nemmeno se vi ricordo quegli pseudoscientifici film dell’orrore in cui una persona, magari uno scienziato, vede spuntare all’orizzonte una grande minaccia per l’umanità della quale non riesce a convincere il mondo fino a quando è quasi troppo tardi – un insetto gigantesco o un flagello o una specie extraterrestre venuta dallo spazio, il King Kong dei disastri, cioè – nemmeno conoscendo quella convenzione e avendone già viste innumerevoli versioni voi siete disposti a riconoscermi la percezione dello scienziato – l’orribile sapere concesso esclusivamente all’eroe solitario, e forse alla sua fedele compagna, figlia anche lei di un illustre scienziato, che morirà nel corso del film – perché siete convinti che io abbia visto troppi film!

«Ma io vi offro come prova la mia vita, che ha attirato in qualche modo l’attenzione delle creature cinematografiche, come loro evidentemente hanno attirato la vostra, e guardatemi, ora, seduto qui insieme a voi su questo set, e già pensate che io sia un semplice attore che sta leggendo le sue battute, questa è la parte che dovreste interpretare voi, ma che io lo sia o no, posso testimoniare che mi sento perdere dimensione, perdere sostanza morale, complessità, mi sto appiattendo, trasformando in un’ombra, ed è una sensazione tremenda dalla quale sei indotto a sospettare che anche i tuoi sentimenti più intimi e appassionati non siano che parole sulla pagina scritta per te.

«E non posso neanche più dire se questa è la prima volta che sto parlando di queste cose o la seconda o la centounesima. Potete dirlo voi? Sono la persona vera o l’immagine cinematografica? E voi? Semplicemente, non lo so. E anche quando avrò finito questo monologo e il regista dirà: “Stop”, continuerò a non saperlo, perché anche lui può non essere altro che un’immagine, un’ombra, una fila di uni e di zeri scaricati da un computer.»

“Stop!” grida una voce dal buio. E lui sente i “Bravo!” e gli sporadici applausi degli spettatori che possono essere o anche non essere una colonna sonora preregistrata.

* * *

— Il Midrash Jazz Quartet suona i classici

GOOD NIGHT SWEETHEART

Good night sweetheart,

Till we meet tomorrow,

(applausi)

Good night sweetheart,

Sleep will banish sorrow,

Tears and parting may make us forlorn,

But with the dawn a new day is born.

So I’ll say…

Good night sweetheart,

Tho I’m not beside you

Good night sweetheart,

Still my love will guide you,

Dreams enfold you, in each one I’ll hold you,

Good night sweetheart, good night.11

Buonanotte amore, buonanotte signorinella,

con tutte le bugie che mi racconti, stento a credere

che andrai a letto da sola,

buonanotte, dunque, anche a chi è al tuo fianco,

speriamo che non ti distolga

dal sogno che voglio tu faccia di me,

ci vedremo domattina, immagino, quando roseo

spunterà il nuovo giorno,

e ciascuno di noi mentirà, irrigidito nella sua posa.

Io non ti confesserò cos’abbiamo fatto insieme questa notte

nei miei sogni avvinazzati

se tu non mi dirai che cosa non hai fatto

con quel tuo filo di voce e gli occhi raggianti

e il cuore traboccante di felicità.

Buonanotte, dunque, signorina,

buonanotte, dolcissima pena,

cuore mio che batte, buonanotte.

(applausi)

Ehi, tu sei l’unica, lo sai, conosco il mondo ma questa

è una novità, respingermi di notte per la luce del giorno,

e poi stuzzicarmi con schermaglie d’ogni genere

in un posto che non è per i fumi dell’LSD ma una cucina

piastrellata di bianco con i toast e il succo d’arancia…

Sei una donna spiritosa, amore, e mi piacciono i tuoi giochi,

mi piace abbracciarti con i capelli ancora bagnati

e l’accappatoio di spugna semiaperto e le gocce d’acqua

della doccia sui seni, mi piace la tua pretesa

che siamo puliti e riposati – e sobri, si capisce –

quando facciamo l’amore,

e che lo si faccia soltanto tra le mura

di questa casa.

Buonanotte, dunque, cara e bella faccia buffa,

ti sveglierò dai sogni quando il giorno spunterà

e faremo quattro chiacchiere piacevoli e affettuose

prima di rassegnarci al dovere quotidiano

di fare un po’ di soldi, ognuno secondo le sue capacità,

per pagare l’affitto mensile di questa casa,

darle una mano di vernice fresca

e allestire la stanza del bambino…

Oh, Baby,

sai che devo avere un altro tesorino

come te

cui dare la buonanotte,

non lo sapevi, tesoro?

Buonanotte!

(risate, applausi)

Sono in ginocchio davanti a Dio, il mio tesoro è Lui,

ma sta dandomi la buonanotte,

mi lascia, il mio tesoro,

mi dice di dormire,

mi manda a pascolare su brughiere desolate,

“sconsolato” non è la parola giusta

per il terrore della mia pena,

e non freno le lacrime che mi bruciano gli occhi.

Anima tormentata, Dio come sono triste,

devo essere sempre così triste?

Il sole è la pioggia, vicino è lontano, alto è basso,

il giorno è la notte,

va tutto storto, va tutto storto.

Chi è questo Dio melato, cos’ha in mente?

Lui sa che il sonno non scaccia il dolore,

ma ci lavora su, continuamente,

nel cervello assopito,

cercando immagini per la sua pena.

E che succederà quando verrà domani

senza nulla di diverso nella luce

del giorno dopo?

Mi guiderà il Tuo amore, sarò circondato dai Tuoi sogni?

Dopo, Signore, che Te ne sei andato e che come guida

mi hai lasciato soltanto le Tue vuote promesse?

(un silenzio perplesso)

È fatta. Se n’è andata.

Non hai più nessuno.

I sogni ingannano

E il sonno ti consola,

Ma all’alba accanto a te

Non troverai nessuno.

È fatta. Se n’è andata,

Sei rimasto solo

Col tuo dolore.

È fatta. Se n’è andata.

(mugugni)

— Buonanotte, dolcissima pena, cuore mio che batte, buonanotte.

— Buonanotte, cara e bella faccia buffa.

— Mi guiderà il Tuo amore, sarò circondato dai Tuoi sogni?

— È fatta. Se n’è andata. Sei rimasto solo.

Good night sweetheart,

Till we meet tomorrow,

Good night sweetheart,

Sleep will banish sorrow…

(il pubblico se ne va)

* * *

— Pem ha preso a raccogliersi i capelli in una coda di cavallo. Il venerdì sera lo accompagno nell’Ottantanovesima Strada dove, effettivamente, Sarah Blumenthal funge da officiante della sinagoga dell’Ebraismo Evoluzionista. Di solito non sono presenti più di dieci o dodici persone, meno della metà di quelle che ci andavano quando a officiare era il rabbino Joshua Gruen.

In seguito agli studi e alle discussioni tra i membri della comunità i servizi del sabato sono stati ridotti all’osso, all’indiscutibile essenziale, che finora consiste nella Shemah, la dichiarazione dell’unicità di Dio, il principio del monoteismo astratto… in un Kaddish, la rituale preghiera per i morti, perché questo è di conforto ai parenti dei defunti e ne rinfresca i ricordi e ne rinfocola la gratitudine… di un riconoscimento dell’idea dello Shabbat nella scelta del giorno in cui tenere i servizi e come momento di riflessione in uno stato di libertà… e, per il resto, nell’impegno a studiare la Torah per derivarne gli imperativi che completerebbero la riorganizzazione della liturgia e fornirebbero, in definitiva, la base teorica della fede evoluta.

Pem adora queste serate, e anch’io mi meraviglio di trovarle così affascinanti. Tra i membri della comunità ci sono un docente di religione comparata della Columbia University, un giudice della Corte Suprema dello stato, una ragazza che studia all’Actors’ Studio, una coppia di coniugi, medici ambedue, un terz’anno della Barnard e – questa è la cosa più toccante – un uomo anziano dai capelli bianchi che viene portato su per le scale di arenaria dal figlio e, sempre dal figlio, viene prelevato alla fine della serata.

Data la sua cultura biblica, Pem trova molte cose che conosce da quando era studente di teologia. Io sono nella diversa posizione di chi apprende per la prima volta. A poco a poco, grazie all’analisi del gruppo, i primi cinque libri della Bibbia, la Torah, sono diventati i testi completi delle diverse fonti storiche, J, E, P e D. Una sera il candidato al dottorato di Harvard ha parlato dell’opera del suo illustre maestro J. L. Kugel, che ha studiato nei minimi dettagli la distinzione tra i testi originali e il commento interpretativo formulato nei trecento anni prima e nei cent’anni dopo l’inizio dell’Era Volgare che ha creato la Bibbia come noi oggi la leggiamo illudendoci di leggere le Scritture originarie. Fin dal primo momento i testi biblici furono considerati enigmatici: e come poteva essere altrimenti, essendo stati scritti in una lingua priva di vocali e di punteggiatura? E poiché sarebbero dovuti essere di origine divina, e perciò di soprannaturale perfezione, gli studiosi, i sacerdoti e i sapienti dell’antichità si sentirono in dovere di spiegare le contraddizioni, i sentimenti poco divini, i passi poco simpatici e gli atti men che nobili dei nobili personaggi delle storie, e qualunque altra cosa apparisse incompatibile con la virtù… interpretandoli metaforicamente, simbolicamente o allegoricamente, o cambiandone il senso con l’aggiunta della punteggiatura, o applicando opportunisticamente enfasi sintattiche, o immaginando diversamente tutto ciò che a loro avviso abbisognava di un miglioramento se davvero doveva essere teologicamente corretto. Quella sera fui lieto di riconoscere la venerabile ascendenza dell’ermeneutica. Oltre a questo, come scrittore, sono semplicemente affascinato dalla forza di un tale guazzabuglio di cronache, versi, canzoni, parentele, leggi dell’universo, peccati e giorni del giudizio… questo gran lavoro di forbici e di colla che nella sua forma originaria è così terso, incoerente, nemico del buonsenso e cripticamente noncurante delle normali esigenze del racconto da essere attribuito a un autore divino.

Mamma mia. Cos’ho fatto di male in tutti questi anni?

Ma il professore di religione comparata della Columbia ha questa teoria: lui dice che gli interpreti sapevano quello che facevano quando non cercarono di cancellare le incoerenze e di mettere le cose a posto. Sacerdoti e redattori vi lasciarono il materiale degli Spinmeister precedenti. Non ti avvicini mai a Dio, puoi solo sperare in un affinarsi della tua coscienza. Proprio le contraddizioni, le storie che coabitano con i propri rifacimenti, manifestano la stessa lotta descritta nei racconti: per cogliere e accettare la terrificante completezza e la creativa totalità dell’Innominabile.

Dopo queste sedute, di solito, Pem e io ceniamo in un ristorante di Broadway, l’Amarillo. Meno spesso, Sarah B. si unisce a noi. Non è questione di regole rabbiniche (il kashrut12 è una cosa secondaria): è che Sarah si preoccupa all’idea di lasciare Angelina sola con i ragazzi, così come si preoccuperebbe all’idea di lasciare i ragazzi soli con Angelina. Come se, poveretta, perso il marito, si chiedesse cos’altro potrà perdere.

Ma quando Sarah accetta di unirsi a noi io mi sento come uno chaperon. Perché dovrei provare una simile sensazione, se non fosse che sta sviluppandosi qualcosa di simile a un corteggiamento? A lume di candela e davanti ai bicchieri di vino rosso, si guardano con un livello di attenzione di cui non sono neppure consapevoli. E quando io ho qualcosa da dire, lo spasmodico interesse con cui, all’unisono, guardano me è chiaramente uno sforzo di volontà. Ma se mostro di volerli lasciare soli, non ne vogliono sapere. Ne hanno paura, entrambi, Pem perché non vuol finire per essere considerato un importuno e lei per il marito, Joshua, la cui presenza è ancora viva nella sua mente. Il lutto dovrebbe durare, formalmente, un anno, ma questa è un’altra cosa secondaria, per l’EE, in base alla teoria che, qualunque cosa occorra per ricordare e commemorare i defunti, deve venire in modo naturale dal cuore. L’idea è che queste cose devono avere, comunque, una sorta d’inevitabilità psicologica. Ma forse in questo Sarah si sbaglia, in quanto una simile consuetudine può valere più per i vivi che per i morti. Una cesura. Dalla quale si possa ripartire. Sono passati già due anni da quando Sarah ha perduto il marito.

Ma, per quanto lento, io noto un reciproco avvicinamento. E poiché sia lei che Pem vivono una vita dominata da un’esplicita serietà morale – è la costruzione più astratta che posso formulare – la loro convergenza dovrà essere più che personale. La seduta di studio di venerdì scorso nella sinagoga dell’EE verteva sui versetti 19-24 dell’Esodo, la consegna del Decalogo a Mosè. Quella sera Sarah ha diretto la discussione con grande vivacità, la sua voce era forte, l’esame di questo importantissimo episodio sembrava tirarla su di morale, e lei non affrontava i vari passi con la sua solita aria tra lo scettico e il rispettoso ma con straordinaria sicurezza, una sicurezza eroticamente conturbante. Alzava la testa, si passava le dita tra i capelli, e un bel sorriso le trasformava il volto come la luce del sole che spunta, le brillavano gli occhi, perché Sarah ha uno di quei sorrisi di totale vulnerabilità che tanto ambiguamente possono rappresentare il momento che precede l’assalto delle lacrime. La cito a memoria: “Qui ciò che avverto, ciò che mi colpisce nel profondo, è la comprensione che avevano questi scrittori dell’immensa moralità della vita umana. Lo vedete? Proponevano per l’esistenza umana una configurazione etica. Chi l’aveva fatto, prima, nello stesso modo? Questi Comandamenti furono ideati dalla scritturistica genialità umana… Potremmo dunque sostenere, dopotutto, la tesi della presenza di Dio nella Bibbia scritta dagli uomini. Essendo il Signore, benedetto sia il Suo nome, come dicono i miei colleghi ortodossi [sorride] … essendo ciò che ci sprona a lottare per la comprensione storica e teologica. Le menti bibliche che crearono i Dieci Comandamenti che hanno strutturato la civiltà… diedero la possibilità di una vita eticamente concepita, la consapevolezza che noi viviamo in stati di rilevanza morale che, se non ancora, un giorno dovranno portarci più vicino a un’unità di comprensione col Creatore. Che dono, che dono grande e profondo… e com’è degno del nostro rispetto!”.

A tu per tu con Pem alla nostra cena successiva, dissi che secondo me loro due cominciavano a dare l’impressione di essere fatti l’uno per l’altra. «Davvero?» disse lui. «Davvero? Dimmi cosa vedi, come fai a dirlo?» Il viso gli si fece più colorito del solito. Nessun’altra mia frase avrebbe potuto renderlo più felice. Poi, dopo un altro bicchiere di vino o due, qualcosa lo gettò nella tristezza. «Non mi vorrà mai» disse. «I ragazzi non mi hanno in simpatia.»

«Come lo sai?»

«Porto regali, balocchi, gioco con loro, mi accoccolo sul pavimento. Mi vedono per quello che sono: non il padre.»

«Non sapevo che le cose fossero arrivate a questo punto.»

«Che significa “arrivate a questo punto”? Sarah doveva portare Angelina all’Ufficio Immigrazione per qualcosa. Così sono rimasto con loro. Che significa “arrivate a questo punto”? Sei mai stato ignorato dai bambini? Inginocchiarsi per terra come un idiota mentre quelli guardano la televisione come se tu non esistessi? Credevo di avere subìto tutte le umiliazioni possibili. Credevo che tenere una predica a tre persone fosse il punto più basso al quale ero arrivato.»

* * *

— Tu mi hai interrogato a questo proposito e hai continuato a farmi domande per tutti gli anni dell’adolescenza, e io non ho mai voluto parlarne, primo perché eri troppo giovane, e ho sempre desiderato che tu avessi una tua vita, e che non fosse una vita tormentata da qualche ossessione, per sciocco che potesse essere stato questo desiderio paterno… e, secondo, negli ultimi anni per una ragione completamente diversa, che è questa: volevo recuperare il diario, l’archivio del signor Barbanel, volevo rintracciarlo e farlo parlare al posto mio.

Ma i progetti hanno la peggio sulla vita. E io sono qui che dico ciò che posso, dopotutto… Venne un momento in cui nulla era cambiato, nulla di particolare, ma il nostro morale, inspiegabilmente, era crollato, e sul ghetto aleggiava il presentimento di un completo disastro. Eravamo stati invasi da una sorta di stanchezza, dall’indebolimento della nostra convinzione, la convinzione che ce l’avremmo fatta. La nostra fede – la fiducia che avevamo di resistere, di prevalere – sembrava in qualche modo meno salda. L’incertezza dovuta all’impassibile tradimento dei tedeschi era più acuta, perché ora loro stavano perdendo la guerra. Lo so che sembra paradossale. Ma il fronte orientale stava cedendo, ritirandosi nella nostra direzione, e i tedeschi non potevano più commettere impunemente i loro delitti. Le squadre di lavoro erano state assegnate al forte. Non avremmo dovuto sapere cosa stava succedendo, invece capimmo che si stavano riaprendo le fosse e che i resti venivano bruciati. A volte, quando il vento spirava da ovest, mi sembrava di intuire dall’odore che cosa stesse succedendo. E ovviamente i lavoratori assegnati al forte non furono mai più rivisti.

La libertà nella cui attesa eravamo vissuti, per la quale eravamo sopravvissuti, sembrava ora, essa stessa, una prospettiva pericolosa. Se i morti erano la prova delle loro attività criminali, i vivi non lo erano?

Poi, una notte, ricevemmo la visita clandestina di una delegazione di partigiani ebrei. La riunione si svolse in una baracca dove si tenevano latte di vernice, secchi di sabbia, attrezzi da falegname e così via. Era a meno di un isolato dal perimetro. In qualche modo avevo saputo dell’incontro, e Barbanel ritenne che sarebbe stato più sicuro se fossi stato presente: la solennità dell’occasione mi avrebbe cucito le labbra. Restammo là seduti ad aspettare e finalmente, nel silenzio del primo mattino, dopo che io mi ero appisolato diverse volte, arrivò il segnale, i colpi sommessi, dapprima uno, e poi altri. Si spostò una scrivania, e da una botola entrarono nella stanza, portando con sé il freddo e il buio da cui erano venute, tre persone, due uomini e una donna. Fu come un parto, qualche settimana prima avevo visto nascere un bambino e fu così, prima la testa, poi le spalle. Infine, però, anche il fucile.

Con un cenno rifiutarono ogni aiuto, tirandosi su a turno fino a sedersi sul pavimento, quindi si raddrizzarono e si girarono verso di noi. Facce e mani erano nere di terra. I fucili erano come quelli delle sentinelle sul ponte, e quella fu per me una vista emozionante, perché sapevo che ogni fucile aveva dovuto essere strappato a un tedesco. Nello stesso tempo, ero impaurito. Quella era gente che non aveva bisogno dell’aiuto di nessuno, che non pregava nessuno. Ogni gesto era sprezzante. I loro occhi erano freddi, impazienti, anche quelli della donna.

Erano dei ragazzi, i partigiani. Se davvero capii questo alla mia età, forse vidi un legame tra noi nel fatto che la donna era uno scricciolo, esile, smilza e con due occhi che sembravano avere sopportato ogni dolore. Quando si accorse della mia presenza le lessi in faccia la pietà di una sorella maggiore, un tradimento passeggero della sua espressione indurita, forse l’involontaria confessione della pena che provava per un bambino, un bambino in quel posto, diretto da uomini anziani. Perché era, dopotutto, un fatto generazionale, i due uomini che l’accompagnavano non potevano avere più di venti o ventun anni, adulti ai miei occhi, uomini alti e robusti e con la barba nera, ma irregolare e a chiazze com’è la barba dei giovani, e una folta capigliatura nera, e quello, il capo, con gli occhialini tondi che gli davano, assurdamente, l’aria di uno yeshivah bocher,13 e l’altro con due spalle robuste e una larga faccia slava, uno di quei tipi maneschi dai quali mi sarei tenuto ben lontano quando, tanto tempo prima, andavo a scuola.

Senza sapere con precisione in che cosa si discostassero dall’idea che mi ero fatto di loro, non erano come me li aspettavo, non erano come i miei genitori, il loro spirito era diverso, e, mentre guardavo e ascoltavo, compresi ciò che ovviamente avevo sempre saputo, che mia madre e mio padre non erano mai stati in mezzo a loro.

Nessuno conosceva quei tre tranne il dottor Koenig, la cui professione, prima della guerra, lo aveva condotto in ogni angolo della regione. Forse aveva aiutato almeno uno a nascere, il giovane che era il loro portavoce, Benno, sulle cui lenti brillarono le candele quando voltò la testa e permise al medico di dargli il benvenuto con un abbraccio. «Che muscoli!» mormorò il dottor Koenig, nel primo e ultimo scambio di cortesie di quella notte.

Gli altri due si erano piazzati davanti alle finestre, da dove guardarono fuori tra i sacchi tesi che fungevano da tende prima di girarsi verso il centro della stanza. Quello chiamato Benno si sedette dietro un tavolo e, tenendo mollemente il fucile sulle ginocchia, si rivolse a noi in uno yiddish sommesso e fluente, un suono che per me era come quello di un ruscello che scorre tra i sassi. L’armata rossa era a meno di duecento chilometri. Quando il fronte si sposterà a ovest, disse, il vostro ghetto sarà smantellato, e voi con esso. Scaverete la fossa nella quale giacerete. È solo questione di tempo.

Forse è vero. Ma stanno già cercando di distruggere le prove dei loro delitti, disse il dottor Koenig. Temono di essere incriminati penalmente dopo la guerra.

Vi illudete. Se non vi massacrano qui, vi trasferiranno in qualche altro posto e vi massacreranno là.

I partigiani proponevano di portare via la gente: tutti quelli che volevano venire. Potevano farne uscire trenta o quaranta per notte, disse Benno. Tre unità partigiane, una ebraica, due russe, occupavano zone militarmente sicure dietro le linee tedesche. Il suo gruppo era formato da centocinquanta ebrei, uomini e donne, e da altre duecento persone affidate alle loro cure.

Il terzo membro del consiglio presente era il rabbino Pomeranz, un uomo di mezza età magrissimo e fragile che portava un feltro vecchio e malandato e la cui barba era diventata bianca. Occupava una sedia contro il muro e aveva sulle ginocchia un siddur14 chiuso, ma teneva il segno col dito. E osservava silenziosamente la liturgia del giorno mentre attendeva alle cose a portata di mano, chinando il capo e muovendo le labbra mentre recitava tra sé le preghiere che sapeva a memoria, ma con gli occhi sul partigiano che parlava.

Il rabbino disse: Forse i partigiani non conoscono la linea di condotta tedesca relativamente alle evasioni; chiunque sia stato sorpreso mentre tentava la fuga è stato giustiziato.

Be’, Rabbi, disse Benno, guardi me, noi siamo qui che parliamo con voi, no? Non crede che sappiamo quello che facciamo?

I partigiani di Benno erano accampati nei boschi. Per mangiare requisivano bestiame e prodotti agricoli delle fattorie. Quando nei villaggi c’erano guarnigioni tedesche, li attaccavano e li distruggevano, poi pagavano i commercianti per lo zucchero, la farina e gli altri generi di prima necessità con i soldi delle casse tedesche. Potevano muoversi liberamente nelle campagne grazie alla reputazione, che si erano guadagnati vendicandosi delle persone che li denunciavano ai tedeschi, tornando per giustiziarle e incendiando le loro case e le loro stalle, sicché ora questo non accadeva più. Le loro squadre d’azione compivano atti di sabotaggio, facendo saltare in aria binari ferroviari e tagliando linee telefoniche. Poi tendevano imboscate ai militari che andavano a riparare i danni.

Tutto giusto e sacrosanto, disse il rabbino, e possa Dio concedere che il vostro lavoro non s’interrompa. Ma stava arrivando l’inverno. Avrebbero resistito, persone più anziane di loro, a quella vita all’aperto di stenti e tribolazioni?

Se non ce la fanno, disse Benno, almeno moriranno liberi.

Il dottor Koenig disse di essere preoccupato da ciò che sarebbe accaduto a quanti avessero scelto di restare: quando si fossero trovati a corto di lavoratori i tedeschi, per rappresaglia, avrebbero preso degli ostaggi e li avrebbero giustiziati.

Benno rispose che l’avrebbero fatto comunque, man mano che la resistenza ebraica si fosse avvicinata alla città e la sua guarnigione avesse cominciato a sentirne il fiato sul collo.

Non è una decisione facile da prendere, disse Koenig. Molte di queste persone vengono dalla città. Non saprebbero che fare là con voi. Qui ricevono le loro poche calorie e sopravvivono un giorno di più.

Voi pensate che vi stiamo solo dando problemi, no?, disse Benno. Siete vissuti come schiavi per tanto tempo che non sapete fare altro.

Barbanel, che finora non aveva detto una parola, balzò in piedi e prese il giovanotto per il bavero. È spregevole, disse. Mostra un po’ di rispetto. Noi ci siamo battuti come voi. Tu non sai niente di noi.

Benno si liberò della sua mano e fece un segnale agli altri. Il messaggio era stato consegnato. Si prepararono alla partenza.

Indipendentemente da quello che pensate, disse la ragazza a Barbanel, voi avete l’obbligo morale di informare la gente che noi li faremo uscire dal ghetto. Non potete scegliere per loro. Anche questo ragazzo. Ora abbiamo con noi ragazzi che sanno usare le armi da fuoco. La gente deve scegliere da sé. Ma se in questa circostanza voi imponete la vostra autorità, siete come i nazisti.

Oh, Sarah mia, ricordo queste parole come se fossero state dette ieri. Quelli aprirono la botola. Il tarchiato che non aveva detto niente e la donna scesero e sparirono. Prima di seguirli, Benno prese in disparte il dottor Koenig e gli spiegò, immagino, come poter stabilire ulteriori contatti. E prima di calarsi nel pozzo si rivolse al rabbino Pomeranz: Poiché le sue preghiere sono così efficaci e hanno già fatto tanto bene, lei, suppongo, sceglierà di rimanere e di pregare il suo Signore Iddio di salvare il suo popolo.

Quando il ragazzo se ne fu andato e la scrivania venne rimessa a posto, il rabbino si alzò in piedi e, mentre si accingeva a uscire, si calcò fermamente sulla testa il feltro malandato. Non è per questo che io prego il Signore, benedetto sia il Suo nome, disse, senza rivolgersi a nessuno in particolare. Io prego per farLo esistere.

Naturalmente, una volta riunitosi al completo, il consiglio decise che non aveva altra scelta: bisognava informare la gente che ora esisteva la possibilità di fuggire dal ghetto. Ma la notizia poteva essere diffusa esclusivamente nel modo più sicuro, non soltanto per via dell’evidente pericolo rappresentato dai tedeschi, ma anche a causa delle spie che i tedeschi avevano messo tra noi, finti ebrei o semplici traditori, com’erano diventati alcuni membri della polizia del ghetto. Perciò la procedura fu accurata, uno per uno, cominciando da quelli che i membri del consiglio conoscevano personalmente. Tipico. Forse, se non fosse stata così accurata, si sarebbero potute liberare più persone. Ma io avevo questo nuovo incarico, io, la star delle staffette con la stella e la bustina in testa che cercava i prescelti negli orari in cui erano disponibili per convocarli, in segreto, negli uffici del consiglio. E a tempo debito la ferrovia sotterranea, se così posso chiamarla, fu inaugurata. I partigiani si erano infiltrati in città senza fatica. Come aveva detto quel tipo, Benno, sapevano ciò che facevano. Fu un sistema molto efficiente. Non so bene come funzionasse, quale fosse la vera via di scampo. Forse cambiava da una notte all’altra. Credo che, così, uscirono dal ghetto almeno duecentocinquanta persone prima che finisse tutto.

Il consiglio aveva dato la precedenza a chi sembrava più idoneo a sopportare le fatiche della vita all’aria aperta. E quando la gente se ne andava, carte d’identità e permessi di lavoro venivano distribuiti a persone della stessa età e dello stesso sesso che non li avevano. In questo modo si sperava d’impedire ai tedeschi di accorgersi che il nostro numero stava diminuendo.

Una sera Barbanel parlò a tutti noi ragazzi nel nostro dormitorio. Né io né alcun altro possiamo suggerirvi cosa fare, disse. Stare qui o andare via? Non sappiamo cosa sia meglio e cosa peggio. Tutto ciò che posso dirvi è: decidete da soli. Benché siate ancora dei bambini, le circostanze hanno fatto di voi degli adulti. In definitiva, la responsabilità della vostra vita è nelle vostre mani.

Andò a finire che dei sei ragazzi solo due scelsero di unirsi ai partigiani nei boschi. Direi che fecero la scelta giusta. Quanto a me, mi rendevo conto che in tutte le mie visite clandestine in città non mi era mai successo di non tornare nel ghetto. Forse avrei potuto nascondermi in qualche posto, forse, con l’aiuto di quel prete, avrei trovato una famiglia che mi accogliesse e mi risparmiasse la sorte di un ragazzo ebreo. Quest’idea non mi era mai venuta. Notavo inoltre che il dottor Koenig non poteva andarsene, per ovvie ragioni. Questo valeva, naturalmente, anche per Barbanel. Il consiglio doveva rimanere al suo posto e continuare ad amministrare il ghetto. E proprio come loro non potevano pensare alla partenza, così non poteva Greta Margolin. Lei non avrebbe mai lasciato Barbanel, per non parlare dei bambini piccoli. Quelli che erano piccoli davvero, mica poteva sguinzagliarli nei selvaggi territori dei partigiani. E io, desideroso com’ero d’imparare a sparare col fucile, a uccidere i tedeschi, a essere come gli eroici partigiani… non volevo negarmi la persistente sensazione del dolce carattere della mia povera madre, tanto simile a quello – da quanto potevo ricordare – della signorina Margolin, o le fuggevoli impressioni del mio povero padre che, decisi, aveva qualcosa del ruvido ed esuberante coraggio di Josef Barbanel.

E così quella fu la mia decisione. Da allora ogni giorno la vita sembrò sempre più tenue, con i tedeschi visibilmente agitati, impauriti e sempre più pericolosi man mano che il fronte avanzava verso di noi. Una notte nella mia cuccetta sentii quello che mi parve un tuono lontano. Guardai fuori dalla finestra e vidi fiochi lampi ingrigire per un attimo il cielo stellato. La mattina dopo Barbanel mi disse che quella che avevo udito era artiglieria, forse a novanta o cento chilometri di distanza.

A questo punto le squadre di lavoro furono sciolte e la gente non venne più inquadrata e fatta marciare attraverso il ponte e verso la città. Il fumo smise di levarsi dalle ciminiere degli stabilimenti militari. Sentinelle furono piazzate lungo tutto il perimetro del ghetto. E le evasioni organizzate dai partigiani non furono più possibili.

Naturalmente in queste condizioni dovettero cessare anche le mie uscite attraverso il vecchio viadotto. Stavo preparandomi, in effetti, a calarmi nella tubazione, un pomeriggio, allorché, fermo con Barbanel presso la cisterna scoperta nella casa di pietra, udii lontane voci tedesche salire dalle viscere del viadotto. «Be’, è finita» disse Barbanel, e rimise a posto il coperchio della cisterna.

Sapevamo tutti che stava per succedere qualcosa di spaventoso. E abbastanza presto venne il giorno. Tutt’a un tratto camion carichi di truppe attraversarono il ponte. Corsi a dare l’allarme al consiglio, mettendocela tutta. Fu la mia ultima missione di staffetta. E non servì a nulla. La notizia, in quel loro terribile linguaggio burocratico, venne data dagli altoparlanti a tutto volume. Ci concedevano quindici minuti per prendere la nostra roba. I soldati si sparsero di corsa nelle strade e fecero irruzione nelle case, picchiando chi non si muoveva abbastanza in fretta. Gli edifici vennero dati alle fiamme. Tutto questo per ordine del comandante Schmitz. Furono più le cose che riuscii a sentire di quelle che riuscii a vedere. La gente urlava, piangeva, e ogni tanto echeggiavano spari. Ci spinsero nella piazza. La signorina Margolin teneva in braccio due bambini piccoli, avvolti in uno scialle con la testa coperta. La gente assediava il dottor Koenig, chiedendogli di fare qualcosa. Il poveretto teneva la testa alta, con gli argentei capelli scompigliati dal vento, e stava là, impotente come il resto di noi. Barbanel non riuscivo a scorgerlo, poi lo vidi camminare tra la folla con un braccio sulle spalle di un uomo anziano.

Tutti insieme ci fecero sfilare attraverso il ponte, attraverso la città, fino alla stazione ferroviaria. I lituani ci guardavano dai marciapiedi. Alcuni di essi ridevano, altri ci prendevano in giro. Altri ancora badavano ai fatti loro quasi fosse un giorno come tutti gli altri. Nella confusione e tra le urla, o per la strada, schivando il calcio dei fucili dei soldati, o alla stazione mentre salivo sul carro merci, persi la mia bustina da staffetta con l’ala militare rivoltata. Ma non me ne accorsi finché non ebbero chiuso le porte e tirato rumorosamente i catenacci, quando noi rimanemmo là al buio. Ero furioso perché non potevo alzare le braccia per vedere se avevo ancora in testa la bustina, anche se sapevo che non c’era più. Avevo visto delle persone che conoscevo salire sullo stesso vagone, ma non sapevo dove fossero il signor Barbanel, se sul vagone avesse preso posto anche lui, e Greta Margolin e il dottor Koenig e gli altri ragazzi. Il vagone ebbe un sussulto e iniziò a muoversi. La gente piangeva, gridava nel buio: dove sei?, cercando di capire cosa stesse succedendo, quale fosse il significato di quell’oltraggio. Ma il significato io lo conoscevo. Ero chiuso dentro un carro merci di un lungo convoglio di vagoni come il mio, tutti pieni di morti viventi ondeggianti e pigiati come sardine. E non ero più la star delle staffette con la stella.

* * *

— Pem arriva in Park Avenue e ci trova un altro portiere. Un giovanotto ispanico che con aria grave va al citofono…

Era casa mia, una volta. Dieci stanze a uno dei piani alti, dove, chissà perché, non entrava mai un raggio di sole.

Ciao, cocca.

Non ho molto tempo, Pem. Cosa vuoi?

La mia roba.

Sia lodato il cielo.

Non tutta. La giacca sportiva, qualche cravatta e qualche camicia. Una borsa.

Vorrei che tu la portassi via tutta, la tua roba.

Allora, il monsieur con cui stai forgiando il tuo destino? È in arrivo, dunque?

Non sono affari tuoi.

Sinceramente, Trish, è un homme molto fortunato.

E naturalmente avrai bisogno di soldi.

Se è questo che ti preme, mia cara…

Dalla scatola sulla credenza lei prende una di quelle lunghe sigarette da signora. Veramente è un po’ ingrassata, Trish. Le si sono allargati un po’ i fianchi, ma è sempre una donna elegante. Con l’altra mano stringe il gomito del braccio che regge la sigaretta. Un filo di fumo bluastro passa davanti ai fiori di Vlaminck.

Mio padre dice che non hai risposto alla sua lettera.

Tornando indietro verso le camere da letto: lo farò, Trish. Sì, davvero.

Intimità: ecco cosa dev’essere stata; certamente, se non me la ricordo.

* * *

— Cosa intendiamo quando diciamo che… anche se si trovasse una soluzione per tutte le questioni scientifiche possibili, il nostro problema continuerà a non essere preso in esame? Dimodoché, se il signor Einstein in persona dovesse giungere felicemente alla fine di tutti i suoi esperimenti, se tutta la sua brillante teoria fisica arrivasse a una trionfale conclusione e lui non fosse destinato, come il Mosè della scienza, a morire prima di raggiungere la Terra Promessa… noi saremmo ancora al punto di partenza?

Allora, bitte, qual è il nostro problema? Non la natura dell’universo, dunque, ma… cosa? La mente che considera se stessa? L’io che propone che il mondo è tutto ciò che esiste, ma che si trova escluso da questa proposizione? L’io che teoricamente può accertare tutto del mondo tranne chi e che cosa è lui in se stesso, come soggetto del proprio pensare? Dove lo si può trovare? Dove si colloca? A suo favore, non si può dire altro che è una semplice congettura della facoltà del linguaggio, un concetto sintattico. È l’osservazione grammaticale di quello stato di cose che esso chiama mondo. Se smette di costruire proposizioni, se cessa di redigere la mappa dei rapporti effettivi del mondo col linguaggio, in che modo si può sapere che esiste? Eppure, al tempo stesso, non esistono altri mondi al di fuori del discernimento dell’io, eh? Tutti noi, noi che nella nostra moltitudine non siamo altro che spettrali congetture del linguaggio, nient’altro che questo, nondimeno noi conteniamo tutta l’esperienza del mondo. Cerco un’immagine appropriata: gli specchi di un gigantesco Palazzo di Cristallo dal quale non c’è uscita? Parole sovrapposte echeggianti eternamente dentro una cisterna senza fondo? Ma queste immagini sono insufficienti, perché sono spaziali. La coscienza non si trova nello spazio, non esiste nello spazio e, quando pensa se stessa, la sua profondità non è misurabile con nessuno dei numeri che essa è in grado di concepire. Eppure, tutto ciò che esiste, esiste grazie a noi nelle formulazioni del nostro io che contiene il mondo.

Questo, dunque, è il problema, la solipsistica coscienza senza la quale il mondo non esiste ma che è piena, essa stessa, del mondo fino all’orlo ed è perciò incapace di uscire dal mondo per vedersi dentro di esso. Con questo paradosso io propongo una fusione del mondo reale che esiste al di fuori della percezione che ho di esso e del mondo che non può esistere se non grazie alla percezione che di esso ha la mia mente. E poiché io concedo anche a voi il dominio di questo regno solipsistico delle cose come stanno, noi abbiamo allora il tridimensionale paradosso di quello che si potrebbe chiamare solipsismo democratico, ciascuno di noi dominatore assoluto ed esclusivo del mondo che per esistere dipende dalla nostra mente… e nessuno di noi capace di esistere in modo discernibile se non come suddito della coscienza altrui.

Dichiaratamente, questa è un’idea strana e in apparenza contraddittoria, venendo dal Wittgenstein che voleva spogliare la filosofia di tutte le sue insensate assurdità metafisiche.

Ma io so che voi americani siete ossessionati da Dio. E con i miei giochi di parole cerco di dirvi una cosa molto semplice: forse la descrizione più poetica della nostra tormentata coscienza umana che è del mondo, ma non nel mondo, si trova nell’espressione peccato originale.

Come dicevo nel mio Tractatus Logico-Philosophicus… parlando dell’idea dell’immortalità dell’anima umana…

6.4312. Si ha la soluzione di un enigma per il fatto che io sopravvivo eternamente? Questa vita eterna non è altrettanto enigmatica quanto la nostra vita attuale? La soluzione dell’enigma della vita nello spazio e nel tempo si trova fuori dello spazio e del tempo…

6.44. Mistico non è tanto come è il mondo, ma che è…

6.52. Noi sentiamo che, anche se si trovasse una soluzione per tutte le questioni scientifiche possibili, il nostro problema continuerà a non essere preso in esame. Certo, allora non ci sono più domande, e proprio questa è la risposta.

Tra parentesi, vi prego di ricordare, per favore, che questa era l’opera di un uomo giovanissimo, scritta per la maggior parte al fronte nelle file dell’esercito austriaco durante la Prima guerra mondiale, dove io avevo chiesto di combattere sperando di morire. I fogli sui quali scrivevo erano imbrattati di fango e la matita mi tremava nel pugno. La luce dei razzi Very e le esplosioni mi permettevano di vedere ciò che scrivevo. Sotto il fuoco provai lo stesso terrore di un animale, ma tremando definii il coraggio – e vi prestai fede – come la convinzione che la vera anima che crea il mondo e dal mondo è creata… è, in definitiva, inviolabile dalle contingenze.

* * *

— Biografia dell’autore

Everett fa la sua comparsa – è un maschietto –

nel reparto maternità dell’ospedale, non più grande

di un’abitazione vecchio stile,

all’angolo tra Mt. Eden Avenue e Morris Avenue,

distretto amministrativo del Bronx, città di New York,

l’anno 19..

Ero un podalico, il primo di tanti problemi

che diedi a mia madre, Ruth, donna risoluta,

pianista di talento,

che a un’età molto più acerba si era innamorata

di un sognatore,

la sua prima esperienza della difficile genia degli uomini,

un impetuoso allievo guardiamarina dell’Accademia Navale

Webb sullo Harlem River,

mio padre, Ben, che durante la Prima guerra mondiale

avrebbe saltato la staccionata

e fatto irruzione nello spaccio militare dove mia madre

serviva caffè e ciambelle

ai fantaccini, e rischiato la morte nella divisa bianca

sbagliata

per ottenere che nessuno la molestasse.

Questo sì che era amore, ma un amore folle,

e seguiva un modello stabilito in precedenza, quando

andavano a scuola insieme.

Lui la vedeva uscire di sera con qualche ragazzo

per andare a prendere un gelato mentre il cielo era ancora

di un blu acceso sopra gli alberi bui di Crotona Park

e si avvicinava, lui che non l’aveva

invitata a uscire,

e minacciava bellicosamente il ragazzo, mento contro mento,

se non avesse trattato con rispetto mia madre Ruth,

rovinandole così la passeggiata, gettando una nube sulla serata

con quell’impertinente atteggiamento da padrone

là nel Bronx, nella prima metà del secolo,

quando le strade erano larghe e nuove

e gli alberi giovani nei parchi

e i condomini di mattoni rossi e ornamenti di granito

con i loro cortiletti

erano puliti e rappresentavano il riscatto

delle famiglie degli immigrati che erano riusciti a fuggire

dalle miserabili case popolari del Lower East Side.

E la corte che le faceva Ben, mio padre, non veniva

ancora interpretata come l’imperativo bio-comportamentale

a distribuire il suo patrimonio genetico,

anche se ovviamente Ruth lo sposò e proprio questo egli fece,

a mio fratello Ronald, che apparve nel 19…,

e a me otto anni e mezzo dopo,

uno degli anni della Grande Crisi, quando nessuno

poteva permettersi tanti bambini,

e meno di tutti Ben e Ruth,

e, penso adesso, a un altro bimbo nell’intervallo tra noi due,

un figlio nato morto tra la metà e la fine degli anni Venti,

forse un altro fratello,

o una sorella, che mi avrebbe sorvegliato nel parco

col senso di responsabilità solennemente inculcato da mia madre

e mi avrebbe sollevato fino all’acqua della fontanella

quando avessi avuto sete.

La bambina, avrebbe detto Ruth per anni in seguito

anche quando ero diventato grande,

che aveva sempre desiderato, la figlia

per la sua solitudine in quella casa di maschi.

Accenno a questi fatti personali

solo per indicare il tempo e il luogo,

la modesta autorità

che ho per parlare di questo secolo,

da osservatore oscuramente situato

lontano da tutti i grandi terrori storici, anche se

c’è sempre tempo, no?

Ma confesso che è difficile immaginare mio padre

come un ragazzo scatenato, intrepido, testardo,

essendo l’infanzia una cosa che apparteneva a me,

o a mio fratello, proprietà nostra, non sua,

e ricordandolo per contrasto

come un uomo serio e corpulento seduto in poltrona vicino

alla radio

ad ascoltare le notizie della Seconda guerra mondiale

mentre al tempo stesso leggeva della guerra

sul giornale della sera che teneva

spiegato davanti a sé come una tenda da campo.

Mio padre è morto da quarant’anni mentre scrivo

e confesso, avvilito, che più tempo è passato

più misterioso è diventato nel mio ricordo.

Cancellandosi la personalità, o facendosi più complessa,

ci resta un fatto confermato ma invisibile,

un animo senza carattere fallibile,

ma ricordato come un uomo fallibile

che fece certe cose giuste e certe sbagliate,

ma che ora esiste come un’anima pura,

che subì la vita e alla fine ne fu fatto fuori.

Anche se serbo e mi sono care le immagini che ho di lui

contro questa triste verità dell’anima senza carattere,

questa è per me una magra consolazione

per l’incapacità di una vita brillante

di serbare in eterno la sua ricca specificità.

Giocava a tennis in pantaloni bianchi, ho una fotografia

scattata con una di quelle Leica a soffietto di allora

in cui una scatola nera a fisarmonica scorre su due binari,

un bel diritto al culmine della rotazione,

il corpo proteso,

una camicia bianca con le maniche lunghe, capelli neri, baffi neri,

una figura di là dalla rete,

perché inquadrato è tutto il terreno di gioco,

un campo pubblico di terra rossa, con una schiena anonima

in primo piano che taglia in quel momento l’angolo

dell’obiettivo

inseguendo la palla eternamente, eternamente ignota,

i condomini del Bronx sullo sfondo,

tutto 1925 o giù di lì, virato in seppia.

Giocava anche lei, mia madre,

entravano in campo e palleggiando fecero venire gli anni Trenta

mentre io stavo fuori dalla rete metallica del recinto

e li tormentavo perché facessero giocare anche me.

Lei è sepolta vicino a lui

nel cimitero Beth-El del New Jersey,

ma essendogli sopravvissuta di trentasette anni

è nella mia mente una personalità duratura.

Durante l’ultima malattia festeggiò il compleanno

da ospite del centro di rianimazione, appena staccata

dal respiratore.

Congratulazioni, mamma, dissi. Oggi hai novantacinque

anni.

Un sopracciglio si alzò, l’occhio si aprì, il più blando dei sorrisi

fu richiamato dalla vita che svaniva:

novantaquattro, disse.

Fu la nostra ultima conversazione.

E oggi sento la sua morte, qualche anno dopo,

come un insolito silenzio,

il silenzio di una donna che ci dovrebbe dire

cosa pensa dei nostri gusti, del nostro modo di fare

le cose,

mentre annuncia che non dice il suo parere

se non glielo chiedono.

L’ultimo ritrovato della tecnica che non capiva e di cui non si

fidava

fu la segreteria telefonica: «Chiama tua madre»,

ecco tutto ciò che si permetteva di rispondere

alla mia richiesta registrata di un nome un numero

un messaggio

parlando con chiarezza, ragionevolmente, non a un essere umano

ma a una macchina, e dicendole le parole di una macchina.

Chiama tua madre, ecco ciò che vorrei sentire oggi

se avessimo installato un telefono nella sua tomba.

Nel 1917, completato l’addestramento, mio padre

ricevette il brevetto di guardiamarina

e poco dopo salpò come ufficiale segnalatore

su un trasporto truppe diretto in Europa

sempre con la divisa del colore sbagliato

tra distese di zaini e fantaccini con le mollettiere.

Ma poi, misteriosamente, o forse non tanto

misteriosamente,

essendogli stato conferito il grado da un’accademia

che non era Annapolis,

fu assegnato al servizio a terra in trincea

come osservatore navale delle comunicazioni belliche terrestri.

È vero, le comunicazioni erano la sua specialità

come sono state la specialità di tutti gli uomini della mia famiglia

almeno da quando mio nonno arrivò in America nel 1887

e si mise a fare il tipografo.

Naturalmente sapeva che le segnalazioni luminose e quelle

con bandiere

potevano contare sul mare aperto,

mentre telegrafia e telefonia, sulle quali contava l’esercito,

erano praticamente inutili in trincea

quando il fuoco di sbarramento che precedeva ogni attacco

tedesco

spazzava via con un paio di salve

i cavi e i fili

tesi con tanta fatica fino ai comandi di battaglione,

e quando alle linee telegrafiche appese ai pali piantati

lungo le vie di rifornimento e i raccordi ferroviari,

e oltre le cataste di materiale militare e gli ospedali da campo,

dal reggimento alla divisione,

bastava un solo palo d’abete scortecciato e spennellato di creosoto

scagliato in aria come se divelto

dal proiettile da mezza tonnellata di un mortaio pesante,

e come se fosse una lancia tirata da Achille

con festoni di fili spezzati come la coda d’una cometa,

per lasciare un generale all’oscuro della verità

della sua battaglia

come il povero fante solitario accovacciato

dentro la propria uniforme,

e il rombo continuo e prolungato di un lontano

bombardamento

la risposta alle sue domande nell’impenetrabile codice

della guerra.

Mio padre osservatore lo comprese al volo,

non ci voleva un Einstein mi disse con una

risata,

la guerra era la proprietà emergente del pensiero umano,

come la stolidità è la proprietà emergente delle molecole

della quercia.

Non tradendo le speranze più profonde che la marina

riponeva in lui

cambiò abbigliamento, indossando la giubba cachi e l’elmetto

del tenente segnalatore caduto che era stato

il suo anfitrione

e mentre l’aria fischiava e rimbombava di colpi,

e tutt’intorno a lui la terra saliva e scendeva

come il più tempestoso dei mari,

prese il comando dei soldati superstiti

della compagnia collegamenti

che continuavano a svolgere dai loro giganteschi rocchetti

di legno

nuove linee di comunicazione mentre quelle vecchie,

colpite, andavano in pezzi,

o dalle mani levate lanciavano in aria

i piccioni viaggiatori

che magicamente tornavano indietro come volteggianti fagottini

di penne insanguinate,

e li trasformò in una compagnia di staffette,

inviando squadre di due uomini

al comando con le notizie sul fronte

e al fronte con gli ordini del comando,

perché le staffette erano l’unica cosa che funzionava,

anche se le notizie che portavano

potevano arrivare un’ora o più dopo l’azione.

Ora, per moltissimo tempo il generale americano Pershing

non aveva toccato le truppe fresche ai suoi ordini,

ma nel 1917, mentre le cose volgevano al peggio per gli Alleati,

le cui perdite complessive, tra inglesi e francesi,

ammontavano già

a più di quattro milioni di uomini,

in maggioranza soldati di leva morti giovani, obbedienti

e stupiti,

elementi della Seconda Armata americana presso la quale

mio padre era stato distaccato come osservatore navale

furono schierati agli ordini dei francesi

lungo le linee meridionali del vasto campo di battaglia

che si stendeva dalla costa del Belgio sul mare del Nord

verso sudest, in una grande falce di devastazione,

fino al confine svizzero di Bernevesin.

Così immagino mio padre in stato di guerra,

uno stato né francese né tedesco né americano,

ma fatto apposta per sfidare ogni buonsenso.

I razzi Very tingevano il cielo notturno di un radioso color senape,

le granate esplodevano in lampi sfrigolanti, come saette,

e nell’acre foschia bianca dell’assolato mattino

seguente,

quando ci si rese conto che la fanteria tedesca avanzava,

finalmente,

preceduta dagli scoppi degli obici dei mortai

e dell’artiglieria da campo

che per i giovani in trincea erano i passi

della Morte che si avvicinava,

scoprì d’essere l’ultima staffetta superstite

della compagnia collegamenti che era venuto a osservare,

ma che aveva appassionatamente adottato,

l’uomo al suo fianco avendo spalancato le braccia

ed essendo caduto in ginocchio per un’ultima preghiera

nella loro corsa allo scoperto per tornare alle trincee.

Ora, io non ne ho le prove, ma negli anni in cui, a casa,

fui suo figlio,

mentre Ronald, il maggiore, era via per la sua guerra,

mio padre ci portava volentieri alle partite domenicali

della squadra di football newyorkese dei Giants.

Giocavano al vecchio Polo Grounds di Coogan’s Bluff.

Noi sedevamo al sole, io mangiavo un sacchetto di noccioline,

lui fumava il sigaro.

E taceva, ma con l’aria di chi la sa lunga, tra i rumorosi

commenti degli intenditori intorno a noi.

Io amavo il verde campo erboso con le righe bianche

e il tonfo del calcio dato al pallone che rimbombava

nello stadio

per un lungo istante dopo che il pallone era partito. Tifavo

per i Giants, sempre, ma a lui piacevano gli incontri

equilibrati

e le azioni che mettevano nel sacco l’avversario, chiunque

fosse a farle.

Amava i corridori della squadra, per esempio,

nel dopoguerra, “Crazy Legs” Hirsh dei

Los Angeles Rams,

che faceva scattare in piedi la folla con le sue finte, i suoi

scarti e i suoi cambi di velocità,

e che, con i suoi salti sopra chi cercava di placcarlo, il suo passo

da cavallo lipizzano, i bruschi arresti che ti fermavano il cuore,

tutti indicativi di una vis comica,

riusciva a far durare una fuga, per breve che fosse,

più di quanto ognuno avesse il diritto di aspettarsi.

E non ne ho le prove, ma credo che mio padre

ricordasse le proprie corse sotto il fuoco

come un’inspiegabile sopravvivenza

e cercasse di placare i suoi terribili ricordi

con l’estetica astrazione del football,

gioco militare con fronti contrapposti e regole

e nessuna conseguenza grave o duratura.

In ogni modo, lui aveva portato l’ordine di ritirarsi,

ma scoprì di essere stato battuto sul tempo.

La truppa ripiegava lungo la strada da cui lui era giunto.

Nelle trincee i morti si ammucchiavano

come per consolarsi a vicenda nel dolore

per il danno che avevano subìto

o stavano in piedi, la baionetta inastata, vigorosi e all’erta,

bilanciati sulle gambe e in attesa dell’attacco,

essendosi spappolati i loro organi interni

per lo spostamento d’aria dovuto allo scoppio di una granata.

Lui passò trasversalmente tra i zigzag

delle trincee

cercando qualcuno da cui potersi mettere a rapporto,

ma trovando solo topi saltellanti nella merda e nel fango

tra le scorte di gallette e le membra strappate,

topi che come piccole granate si disperdevano in tutte

le direzioni

quando lui si avvicinava.

S’imbatté in un giovane soldato che giaceva

con la canna del fucile in bocca

e la testa adagiata su un amalgama

di materia cerebrale e di fango.

Mio padre si fermò e si accosciò e,

per la prima volta da quando era in Francia,

si sentì abbastanza vicino a qualcuno per piangerlo.

Questo ragazzo non aveva resistito

alle ore e ore di cannoneggiamento

che mio padre aveva udito a malapena

mentre si occupava delle urgenti necessità della battaglia.

Ma ora lo assalì, quasi fosse l’erede

di quell’uomo,

il terribile frastuono, meccanico ma dalla voce umana,

arrogante e fragorosa esplosione di un furore

colossale, crudele, brutale e vendicativo

che poteva essere – pensò – la conversazione primordiale,

quando un tank si stagliò sopra di lui, impennandosi

con i cingoli infangati,

e con un gran rombo minaccioso e sferragliante

scavalcò la trincea lasciando cadere una pioggia d’olio

sopra la sua testa nel buio.

Ora, amici, lo so che questa è Storia Antica,

antica come le maestre della scuola elementare

che serbiamo nella memoria con la stessa

condiscendenza.

Lo so. Lo so che le ossa della Prima guerra mondiale

sono impresse nelle placche tettoniche del continente

sotto il peso delle ossa sepolte al di sopra.

Che le spiagge d’Europa sono coperte d’ossa polverizzate,

che nei campi i suoi contadini estraggono con l’aratro

collane di vertebre incatenate,

che di notte i suoi fiumi risplendono

dei radicali liberi della calcificazione venuti a galla

e che gli archeologi delle sue classiche città

trovano file di teschi sotto le strade.

Ma sentite un momento. C’è voluta l’intera storia del mondo

per mescervi questa birra nel bicchiere,

per portare alla triste dama in jeans in fondo al banco

le sue Marlboro,

per dare allo specchio dietro quelle bottiglie la sua

particolare opacità

e, non per caso, per immergerci in questa bluastra luce

al neon d’illusoria libertà.

Quanti anni aveva mio padre, ventiquattro, venticinque?

Eccolo là, marinaio innamorato del mare,

sprofondato nel fango della terra,

giovane che difendeva un paese non suo,

staffetta impantanata,

tutto ciò che aveva fatto di se stesso rinnegato in qualche

modo

nella spontanea donazione della propria giovinezza

e con un esercito di unni che scavalcavano

la sua forma prostrata.

Non che fosse politicamente ingenuo:

da suo padre, nonno Isaac, il tipografo,

aveva imparato

i dolci valori della religione civile, il socialismo.

Sapeva che i ragazzi tedeschi che l’avrebbero ucciso se si fosse

mosso

erano, in ciò che avevano da vincere o da perdere,

più vicini a lui

che ai generali e alle case reali

che gli impartivano gli ordini.

Sapeva che la società era strutturata verticalmente,

non lateralmente,

e che per un momento, prima che la guerra

divampasse in Europa,

non soltanto gli artisti e gli intellettuali nei caffè

di Parigi e di Vienna e di Berlino

che scrivevano sui tovaglioli i loro estetici manifesti

e tenevano tra il pollice e l’indice

le loro fumanti Gauloise e Navy Cut,

ma la gente che per una miseria lavorava nelle fabbriche

e scavava nelle miniere di carbone

e gli insegnanti, i commessi e i controllori

dei tram

si erano proposti di non essere né francesi né tedeschi né italiani,

ma membri dell’universale classe lavoratrice

che abbracciava tutti i confini

ed era universalmente schiava del capitalismo

e dei suoi monarchici accessori

e delle sue ideologie nazionaliste, che erano

pure e semplici stronzate.

Ah, il ventotto di giugno faceva un freddo cane

quando un serbo, Princip, liquidò

l’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo,

ma più disastrosamente il partito socialista austriaco,

i cui membri traditi cominciarono subito ad arruolarsi

insieme a tutti gli altri.

Però allora i pensieri di mio padre – azzarderò –

erano i seguenti:

sua madre, suo padre, la fidanzata Ruth,

la sorella Sophie, la sorella Mollie e,

per non renderlo meno umano di com’era,

la ragazza francese nella città costiera di Villedieu

venuta ad attingere acqua al pozzo

nella piazza dove lui sedeva con i commilitoni

sotto il tendone del Café Terrasse de la Gare

bevendo vino bianco e mangiando pane e formaggio.

Ma cosa si pensa esattamente quando si pensa

a qualcuno?

Non si pensa in fotografie, non si pensa

in flashback, come pretende il cinema

(che altro potrebbe fare?),

puoi vedere un gesto che svanisce prima di comparire

lasciando solo l’impressione della sua fedeltà,

e se odi una voce è un campione, di cui ti rendi conto a malapena,

più somigliante al suono di una natura morale.

Il pensiero di qualcuno è la presenza

non visualizzata e quasi

impercettibile nella tua mente

– forse neppure nella tua mente –

di tutti i tuoi affetti messi insieme,

un ordine di sensazioni tutto tuo,

simile a una canzone senza parole che canti dentro di te

o a una fervida preghiera mai recitata ad alta voce

che plaude all’ineffabile specificità del carattere.

Il pensiero di sua madre, Ben lo sentiva come

l’irrefrenabile adorazione che aveva per lei,

la sua mammina, che amava stuzzicare

e intorno alla quale ballava in cucina

finché ciò che aveva fatto di sbagliato, qualunque cosa fosse,

non era spazzato via dalle sue risa.

Suo padre, esile e diritto e silenzioso, con una testa

di bei capelli bianchi

e gli zigomi delle steppe siberiane

era la sua formazione intellettuale,

le premesse che lui non riconosceva come premesse

e da cui nascevano le domande che poteva formulare.

La fidanzata Ruth era il suo amore per la vita,

la forma della sua dolorosa solitudine,

la bellezza dell’America

che si drizzava nella sua mente come la Statua della Libertà,

salda, fedele, come lui nata a Manhattan,

configurata come la promessa del nuovo mondo,

e sostitutiva di quello storico disastro

che era l’Europa

di cui avevano disperato i suoi genitori emigrando

e dove lui giaceva schiacciato contro la parete della trincea

con un’armata di unni che saltavano la sua forma prostrata.

Questi sarebbero dovuti essere stati gli ultimi momenti

del rapporto

della nostra famiglia con l’Europa,

quando, superato mio padre dall’avanguardia,

truppe nemiche d’appoggio

batterono le trincee cercando militari alleati ancora vivi

da ammazzare

e viveri, scarponi e munizioni da ricuperare,

e lui, sentendoli parlare dietro l’angolo

del zigzagante camminamento,

richiamò alla mente uno degli ultimi ricordi

del vecchio mondo yiddish

che aveva udito durante l’infanzia in Stanton Street –

un dialetto tedesco che placava, addolciva e rendeva melodiosa

quella lingua che sembrava una salva di shrapnel espettorati –

e formando un imbuto con le mani urlò – riprussianizzato,

sperava –

ai soldati che si avvicinavano

di piantarla di fare i lavativi

e di uscire prima che lui li mandasse davanti alla corte marziale,

o parole dello stesso tenore,

cosa che fecero, con suo grande stupore. E poi si schiacciò

contro l’altra parete della trincea quando, qualche minuto dopo,

gli unni la saltarono durante la ritirata,

essendo stato sferrato un contrattacco

che entro mezzanotte avrebbe lasciato tutto com’era prima,

tranne ovviamente le migliaia

di nuovi cadaveri,

fatto che mio padre capì quando, spronato

dai Limoni e dai Mangiarane,15

si arrampicò sul terrapieno e corse avanti, puntando la baionetta

verso l’ingombro inferno sulfureo

della Terra di Nessuno,

aprendo la bocca in un urlo folle e animalesco,

mentre la mente lo tranquillizzava dicendo che la vera anima

è, in definitiva, inviolabile dalle contingenze.

* * *

— Forse i primi canti furono ninnenanne. Forse a cantare furono per prime le madri. Forse impararono a calmare i loro agitati bebè scimmieschi imitando i suoni dell’acqua corrente, i gorgoglii, gli sciabordii, i vortici, le rapide, le inondazioni, i chioccolii, gli spruzzi, gli zampilli, i fiotti, i mulinelli e i risucchi. Forse sapevano che i loro figli erano nati dall’acqua. E il ritmo era il sereno dondolio della liquida amaca tesa tra gli alberi pelvici. E la melodia era il suono che il liquido faceva quando il bambino si stirava le membra.

C’è la gioia infinita che proviamo per le nuove creature… e c’è la rabbia antidiluviana che esse evocano con la loro cieca, urlante, cacante e pisciante impotenza. Perciò i canti a loro dedicati sono bifronti, distensivi nella soave voce materna, ma ferocemente surrealistici nelle parole. Dormi, piccino, dondolando in cima all’albero, quando soffia il vento la culla oscillerà, quando il ramo si spezza la culla cadrà, e giù verrà il piccino, culla e tutto… Immaginate di cadere attraverso un albero, con le gambe immobilizzate e le braccia strettamente legate ai fianchi. Immaginate di cadere sulla terra con la testolina che sbatte contro i rami grandi e piccoli, e le fronde che vi frustano le orecchie come se foste uno xilofono. Immaginate di nascere. Le ninnenanne ci esortano a dormire e nello stesso tempo ci rappresentano il terrore del risveglio. In questo modo impariamo, per il nostro bene, l’immanenza in tutti i sentimenti del loro contrario. Anche la Bibbia parla di questo come della Caduta.

— Creature di cui Noè avrebbe dovuto avere una coppia: scarabei stercorari. Assolutamente indispensabili. Vediamo… Quaranta giorni e quaranta notti di pioggia, più centocinquanta di acque gonfie… Tutto sommato, circa sei mesi e dieci giorni a bordo in coabitazione con cammelli, cavalli, leoni, sciacalli, asini selvatici, capre, pecore, porcospini, cinghiali, meerkat, linci del deserto, lupi, facoceri, topi delle piramidi… uhm. Ti saresti reso conto che era meglio non buttare quella roba fuori bordo, quando le acque si fossero ritirate avresti avuto bisogno di letame. Pure, è un mucchio di lavoro per una semplice coppia di scarabei stercorari, e per la loro progenie. Meglio fare quattro.

— E, Gesù Cristo, il deserto! Il sole cocente, il terreno acquitrinoso e risucchiante che c’è dopo un’inondazione, grandi e viscide distese placentali di melma fumante, pantani, conche ribollenti che si prosciugano a poco a poco, laghi sempre più fitti di creature che nuotano, che soffocano, che si dimenano selvaggiamente prima d’immobilizzarsi in una morte fossilizzata, banchi di pesci morti che coprono la terra, il suolo che si secca, s’indurisce, si spacca, il piede che trova un appoggio sempre più solido, e tutto questo post-diluvio che, cotto dal sole, si trasforma in un deserto disumano costellato di macigni, inciso da uadi e con moltitudini di creature batteriche che inventano se stesse nel fermento di squame di pesce marcio: questa è la culla di tutti noi, la fonte spirituale, non sulle bianche distese dell’Artide ghiacciata s’impose il genio della religione, ma qui, su queste pianure di quarzo ridotto in microcristalli che il vento sotto il sole solleva in turbini di sassolini e tempeste di sabbia fino a offuscare il cielo, tutte cose che genereranno una cultura di pastorizia nomade, mantelli, copricapi e volti velati. Quaranta giorni per Gesù nel deserto… cos’è questa ossessione per il numero quaranta? Anche Mosè ed Elia c’erano stati per quaranta giorni e tutti gli Habiru16 che, armi e bagagli, errarono qua e là per quarant’anni, con la sabbia rovente del Sahara in bocca, il sole del Negev, la roccia rossa, le rupi di arenaria trasformate in dischi e altari di pietra, pinnacoli e colonne scanalate, e i patetici pozzetti scavati tra le rocce, e tutti i compagni di Dio che venivano a bere e a mangiare qualche dattero… la nostra patria spirituale, ogni roccia un forno per cuocervi il pane, un territorio più vasto dell’Europa, specchio geologico delle profondità buie e morte del mare salmastro, con la sua scorta di adattabili creature, naturalmente… il suo gambero d’acqua salata le cui uova potevano dormire nell’argilla per anni e anni tra una pioggia e l’altra, i suoi acari della sabbia e i suoi rospi, i suoi scarabei e le sue vespe, gli scorpioni e le locuste, serpi dall’occhio di perla e rospi cornuti e clamidosauri, i topi del deserto, i pesci della sabbia, scinchi e talpe e volpi del deserto. E ognuno di questi stupidi adattati sa benissimo che deve evitare il sole di mezzodì, seppellirsi nella sabbia, fare il nido tra le radici dei cactus e che, per andare a caccia di cibo, catturare la preda o stritolarla tra le mandibole o ucciderla col pungiglione, deve aspettare la sera o la mattina presto per far sì che la rugiada gli rotoli sulla groppa da crostaceo e gli finisca nella bocca schiumante, una bella compagnia per Cristo nel deserto, con magari una civetta che di notte manda il suo grido dal più alto architrave della caverna nella montagna stringendo un bruno echimio tremante fra gli artigli.

* * *

— Schiacciato contro la porta chiusa, inalavo gli storici odori di fieno e di pelli di animali di cui il legno era impregnato tenendo le labbra accostate a una fessura dalla quale entrava l’aria del mondo esterno, consueto e indifferente.

L’aria era scaldata dalla luce e raffreddata dal buio, e così si potevano contare i giorni e le notti. Riconoscevo il primo chiarore dell’alba dalla sensazione che cambiava sulla mia lingua. Ogni tanto riuscivo anche a udire qualcosa, come i muggiti di una vacca all’imbrunire, remoti e quasi indistinti tra i lamenti e le preghiere della gente intorno a me.

Poiché era solo nostra, la catastrofe non influiva sul normale trantran del trasporto ferroviario. Periodicamente il treno veniva smistato su un binario morto e lasciato là per ore e ore, sordo a tutte le nostre insistenze e alle nostre grida disperate, o andava ancora avanti lentamente, ma poi arretrando si fermava nel silenzio impassibile della notte, solo per rimettersi in moto all’improvviso, cigolando e sobbalzando sugli scambi fino alla linea principale, dove tornava al suo passo pesante come quello di uno degli animali ottusi e caparbi delle pianure mitteleuropee.

Il nostro era solo un carro merci di un lungo convoglio di carri merci pieni di gente in piedi che ondeggiava, vivi, moribondi e morti stecchiti. Ogni carro era il normale, tradizionale vagone merci, sette metri virgola uno di lunghezza, tre metri e tre quarti di larghezza, col tetto di legno a due spioventi per far scolare l’acqua, e montato su uno chassis d’acciaio con quattro ruote flangiate delle acciaierie Krupp a scartamento europeo, e con le bielle di collegamento in testa e in coda. Spettacolo che non aveva nulla di straordinario, oggetti pesantissimi e assurdamente brutti, con le fiancate di legno color ruggine o verde oliva, lunghi convogli che aspettavano, segnati dalle intemperie, in ogni scalo ferroviario del continente, o attraversavano sferragliando le campagne, i villaggi alle tre del mattino sotto una luna fredda, vibrando, rimbombando negli spifferi che venivano dalle ampie vallate, i mezzi di trasporto più comuni per gli scambi commerciali delle nazioni, che per i cani affamati dei villaggi, con le costole ben visibili sotto la pelle, rappresentavano un incitamento ad affiancarli, a correre e guaire e saltare e digrignare i denti per la puzza che pungeva loro le narici.

Dopo il primo o il secondo giorno cominciai a rosicchiare il legno intorno alla fessura dalla quale respiravo l’aria esterna o, come pensavo io, l’aria della grande pianura che c’era al di là, e che giungeva fino all’orizzonte, la distesa infinita dei destini che non appartenevano a quel treno. Non avevo alcuno scopo, mi sembrava soltanto ragionevole succhiare quel legno duro per ore e ore senza fermarmi mai, tranne ovviamente quando chiudevo gli occhi e mi assopivo. Quando fui tanto fortunato da avere in bocca una scheggia vera e propria, che si era staccata, la masticai come se fosse cibo. Da bere ebbi, una notte, la pioggia sferzata dal vento: tanti aghi freddi sulla punta della lingua. Rosicchiando, mi sorpresi ad ascoltare lo schiocco delle ruote, ad applicarvi qualche ritmo, a inventare mentalmente canzoni che quei ritmi potessero accompagnare, ma, chissà come, quelle canzoni erano cantate dalla voce di mia madre, o di mio padre, e le voci veramente, più che voci, sembravano immagini evanescenti dei miei genitori, e le immagini erano, più che immagini, fuggevoli ricordi della loro esistenza, percezioni momentanee della loro natura morale, cosa che mi spinse a chiamarli ad alta voce, come se fosse possibile riportarli alla condizione di veri e integri genitori. Per tutta risposta, tornai a sentirmi risonare all’orecchio gli schiocchi meccanici e incessanti delle ruote del treno. Pensavo che, se a furia di rosicchiare fossi riuscito a praticare un’apertura abbastanza grande da farci scivolare il mio corpo, sarebbero state felici di accogliermi, quelle ruote flangiate che volevano solo farmi rotolare fra loro e dare un taglio netto e secco alla mia vita.

Poi però qualcuno proprio alle mie spalle, una bambina che il primo giorno aveva pianto tanto da inzupparmi di lacrime la camicia, ma che da allora non aveva fatto altro che lamentarsi con una voce acuta quasi quanto quella di un gatto, e che, tra quegli ondeggianti corpi irrigiditi, aveva finito per stringermi alla vita con le braccia, premendomi la guancia tra le scapole, questa bambina, senza il minimo preavviso, morì, e le sue gambe, mentre il treno affrontava una curva, cedettero sotto il corpo, e le sue braccia mi scivolarono sui fianchi e poi intorno alle ginocchia, dimodoché fui costretto dal suo peso ad abbassarmi di qualche centimetro, fino a scoprire di avere gli occhi all’altezza della fessura attraverso la quale avevo respirato l’aria esterna.

Una macchia confusa, cespugli, un bosco così vicino alla massicciata della ferrovia che le foglie frustavano le fiancate del vagone, un bosco rigoglioso così folto da creare ombre nere come la notte. Poi, improvvisamente, la vista ampia e assolata di un campo verde con una casa e una stalla in lontananza. «Una fattoria!» gridai. «Ora una strada. Un cavallo e un carro.» E così, per quelli che avevano voglia di ascoltare, feci la radiocronaca di ciò che si vedeva sulla terra. Betulle. Un ruscello. Donne e bambini che raccoglievano patate. Un fiume. Un capostazione che si accendeva la pipa.

Tra le persone nel mio carro che avevo visto salire prima di me ce n’erano alcune che conoscevo. Quando, dall’odore di fuliggine e dalla comparsa di uno scalo ferroviario, compresi che il viaggio stava per finire, mi sembrò importante ricordare chi fossero: il signore e la signora Liebner e il loro figlio Joseph, che a scuola era un anno avanti a me, le due vecchie zitelle gemelle Chana e Deborah Diamond, il fornaio signor Licht, un certo dottor Hornfeld, arrivato da poco, che era andato a lavorare col dottor Koenig nell’ospedaletto, il mio amico Nicoli che mi faceva leggere i suoi romanzi di avventure alla cowboy in tedesco e la bambina bionda, Sarah Levin, con la sua bella madre Miriam, la maestra di musica, che aveva detto a mia madre che Sarah aveva un debole per me. Ora non le potevo vedere. Potevano essere lì con me, ma appartenevano al passato. Anche se fossi riuscito a voltarmi e a guardare alle mie spalle, cos’avrei riconosciuto, di loro, in quel momento di degradazione, quando erano stati privati del nome, come me, quando la loro esistenza stava per essere distrutta, quando tutto ciò che erano stati era in procinto di affrontare un processo di trasfigurazione industriale, quando tutti insieme non eravamo altro che una sospensione di tormenti separati dei vivi moribondi e dei morti stecchiti di quel carro bestiame?

* * *

— Decidemmo di pranzare insieme al Luxembourg, nella Settantesima Strada Ovest. Per fortuna quel giorno in particolare il ristorante non era affollato – tende a essere alquanto rumoroso con i suoi divanetti art déco, con le pareti piastrellate e coperte di specchiere – ma c’era la solita simpatica clientela, tutti giovani, che però s’imponevano all’attenzione come persone che forse non conoscevi ma che, tuttavia, ti sembrava di conoscere, come se, insomma, avresti dovuto sapere chi erano. Il fatto è che lì Sarah sembrava proprio nel suo ambiente, con l’elegante tailleur grigio, la camicetta nera, il collo nudo, i capelli corti pettinati all’indietro a mostrare le orecchie, che sono piccolissime; e che era vibrante e consapevole di dove si trovava, quando si protendeva verso di me durante i nostri scambi di battute, tenendo il coltello e la forchetta sopra il piatto mentre parlava, con le gote arrossate dallo Chardonnay.

«Non immagini che lusso è questo per me, mangiare fuori.»

«Una liberazione.»

«Ormai i ragazzi restano a scuola tutto il giorno. Ma anche così, di solito me la sbrigo con un sandwich a tavolino, o con una colazione di lavoro tra le carte.»

Ha una voce melodiosa da contralto, una bella risata. Era la prima volta che la vedevo senza Pem. Le avevo dato da leggere il materiale sul ghetto e doveva dirmi che cosa ne pensava. C’è in lei una morbidezza che contrasta con l’aerobica di moda, ma è molto attraente, è lei, Sarah, niente scuse, un’idea di pienezza sotto il mento, una sottile ruga o due intorno al collo, un petto materno. E quando la sua faccia era distesa, o lei diventava pensierosa, Sarah era, Dio mi aiuti, tremendamente sexy. Doveva essere questo, almeno in parte, ciò che Pem sentiva per lei, che è una donna impassibile davanti al profano, ma pronta e disponibile in un’unione sacra. Di sicuro non mostra alcuna diffidenza. È diretta, sincera, anche se stranamente gli occhialini cerchiati d’oro la fanno sembrare ancora più giovane di quanto sia – direi che si avvicina ai quarant’anni – e, forse troppo influenzata dalla descrizione di Pem del suo dolore, mi scopro ripetutamente sorpreso dal suo fascino e dal blu stupefacente dei suoi occhi e dal sorriso contagioso che erompe e, per un istante, si propone ambiguamente come preludio alle lacrime. Ora trovo che è, dopotutto, proprio la Sarah Blumenthal della parte sul Furto.

Volevo chiederle che cosa ci faceva una donna come lei in un posto come il rabbinato.

«Sì?» Rimane in attesa.

«Non importa» dissi.

«No, cosa volevi dire?»

«Una domanda stupida.»

«Dài, Everett.» Sorrise. «Me lo chiedono tutti i giorni, di solito gli uomini più anziani.»

«Cosa?» dissi, cercando di colmare lo svantaggio. «Se ti piace Frank Sinatra?»

Ridendo. «Sinatra? Da dove salta fuori? Non era questa…»

«Certo che lo era. E conosco la risposta. Tu ascoltavi il rock. Quelli della tua generazione hanno cercato di seppellirlo, Sinatra.»

«No, Sinatra andava bene, solo… come dire, era irrilevante.»

«Chi ascoltavi, tu?»

«I Dead. Creedence. Dylan, naturalmente. Ma qualche anno fa Joshua portò a casa alcuni dei primi dischi di Tommy Dorsey, e li ho ascoltati, era il momento giusto… Sai, non mi dispiace affatto rispondere alla tua domanda.»

«Era una domanda maschilista. D’altra parte, anche con Pem… all’inizio non mi pareva un uomo di chiesa.»

«In che modo ci caratterizzeresti, come categoria?»

«Be’, come persone piuttosto sicure di sé, competenti in un certo campo, che si trovano in una posizione dalla quale possono dare agli altri ammaestramenti sulla vita. E con le quali è spesso difficile parlare, diversamente da come mi sembra di poter fare con voi due.»

«I rabbini non sono né preti né ministri del culto. Noi possiamo celebrare il servizio liturgico, seppellire i morti e, tra gli ortodossi, applicare la legge. Ma in sostanza il rabbino è solo uno che ha letto le Sacre Scritture.»

«Come te.»

«È una cosa che non finisce mai…»

«Ma tu non sei cresciuta nella religione.»

«No, la mia famiglia non era osservante. Cioè, magari per Pasqua si andava al seder17 di qualcun altro. Questo, più o meno, era il massimo che mio padre potesse tollerare. Ogni tanto a mia madre veniva la nostalgia, ma non era così stupida da tirarlo fuori.»

«Allora com’è andata?»

Sarah si schiarì la voce. «Be’, morì. Mia madre morì. All’improvviso. Io ero al liceo. Abitavamo a Chicago – mio padre aveva trovato un posto di docente di letteratura comparata alla Northwestern – e nei mesi successivi alla morte di mia madre m’iscrissi a un istituto cittadino che insegnava yiddish e letteratura. Lei era nata in America, ma quando ero piccola la sentivo parlare yiddish con sua madre… Questo fu l’inizio, credo, il desiderio di parlare yiddish come mia madre, il desiderio di dire le parole che lei diceva parlando con la sua.»

«Hai fratelli o sorelle?»

Scosse il capo. «Imparata la lingua, mi diedi alla politica e contribuii a organizzare le collette per far uscire gli ebrei russi dall’Unione Sovietica. Poi, al terz’anno di Harvard, cambiai la materia in cui volevo specializzarmi e scelsi studi giudaici. Infine la decisione di andare allo Hebrew Union College di Cincinnati. Una cosa tirò l’altra, procedevo per sviluppi successivi, senza piani precisi. Solo voltandomi indietro posso vedere che tutto l’insieme era inevitabile. Una continua, ostinata… affermazione.»

«Anche nei confronti di tuo padre.»

«Senza dubbio. Ma fu dopo aver conosciuto Joshua e quando cominciammo a parlare che mi resi conto che l’etnicità, incorporando la tradizione in te stesso, non basta. Che uno può aver fatto le sue letture e… non essere neanche all’inizio.»

Tacque, pensierosa, e per non continuare a fissarla io abbassai gli occhi sul cibo che avevo nel piatto. Solo dopo che il silenzio si era fatto molto lungo pensai che stava raccogliendo le idee per parlare delle mie pagine.

Dissi: «Hai…?».

«Sì. Sono rimasta molto colpita.»

«Davvero? Ero così…»

«No, è terribilmente commovente. Certo» disse, «chi ha dimestichezza con la letteratura riconoscerà che quello di cui parli è il ghetto di Kovno, come lo descrive Abraham Tory nel suo diario.»

«Sì, il suo diario mi è stato molto utile.»

«Ma il ghetto di Kovno era più grande di come lo rappresenti tu.»

«Sì, l’ho ridotto a un villaggio o poco più. Ma mi serviva quella topografia. Il ponte attraverso la città. Il forte.»

«E mio padre non era di Kovno, naturalmente. Era di un paese più vicino alla Polonia. La resistenza ebraica in Polonia fu più sviluppata che in Lituania. Quelli di cui parli potrebbero essere ebrei polacchi, visto il loro atteggiamento, quel Benno e così via.»

«Sì.»

«E bada… devi stare attento a non semplificare troppo le cose. Certo, nel ghetto di Kovno si faceva addestramento militare clandestino, per esempio. Facevano cose sediziose di ogni genere.»

«Sì» dissi, e sentii il primo tuffo al cuore.

«E c’era un mercato nero di vodka. I forti bevitori tra gli ebrei erano un pericolo per l’intera comunità. E non accenni mai al sapone. Mio padre mi diceva che erano ossessionati dal sapone: non ne avevano, rischiavano la vita per introdurne di contrabbando, non era meno importante del cibo.»

Notò il mio sbigottimento. «Però mi sono veramente commossa» disse. «Forse è impreciso, ma è verissimo. Non so come, ma hai dato a mio padre la voce giusta.» Depose la forchetta, intrecciò le dita e guardò la tovaglia. «Non fu nominato staffetta, come il tuo piccolo Yehoshua. Avvenne più casualmente di così, perché si era reso utile anche prima di restare orfano. Era piccolo e poteva correre qua e là senza farsi notare. E finirono per contare su di lui. Poi, quando gli diedero la bustina ufficiale da staffetta… Questo fu verso la fine. Ed è vero che gli salvò la vita. In più di un modo.»

«Oggigiorno come se la passa?»

«È in una bella casa, ben gestita, dove cercano di tenerlo occupato.»

«A Chicago?»

«Sì. Non parla più. Naturalmente, la demenza senile non è mai un bello spettacolo. Ma quando penso a quel prodigioso intelletto accanto al quale sono cresciuta… E lui l’ha vista arrivare prima di ogni altro. Ha notato i sintomi in se stesso e si è dimesso dall’università.»

«Mi spiace.»

«No, senti, in un certo senso è una benedizione. Sarebbe stato troppo terribile, per lui, sapere della morte di Joshua.» A occhi bassi, bevve un sorso di vino. «Non chiese mai a Josh di farlo, di andare laggiù, di rintracciare il diario. Ma non sarebbe cambiato nulla. Personalmente non poté tornarci più, era una cosa che non si sentiva di fare. Amava mio marito. Ed era fiero di noi, della nostra vocazione, come può esserlo solo un genitore i cui figli aderiscono a una fede… che a suo avviso non può essere praticata seriamente.»

«Questo è molto ebraico.»

«Non è vero?» Sorrise.

«Pem aveva un’enorme simpatia per tuo marito. Posso capire perché si siano intesi subito.»

«Sì.» Aprì la borsetta sul divanetto di fianco a lei e cominciò a frugarvi dentro. «Due personalità completamente diverse, ma anche Pem non corrisponde al modello… della sua tradizione, cioè. Con tutto quello che dice, in qualche modo, ti fa intendere che le sue aspettative del mondo, o di Dio, non sono state soddisfatte.»

Ne tolse una lettera. «Nello stesso tempo sembra chiedere a questo o a quel tribunale di non emettere ancora la sentenza. Gottdrunkener Mensch è l’espressione che ti viene in mente. Tu come la tradurresti?»

«Strafatto di Dio.»

«Mi piace. Può essere stressante, la compagnia del Padre.»

«A chi lo dici…»

Scoppiammo in una risata. «In realtà è andato a fare una cosa assolutamente non richiesta, se non presuntuosa. Ma è un caro, vecchio amico» disse, e spiegò la lettera di Pem e me la lesse.

Le ricerche del diario del ghetto lo avevano portato a Mosca.

* * *

— Quando la chiesa di St Tim fu sconsacrata, Pem rimase senza incarico mentre in vescovado si chiedevano che cosa fare di lui. La sua prima reazione consistette nell’assegnarsi spontaneamente a un ricovero di Roosevelt Island, dove si sporcò molto le mani assistendo i bisognosi moribondi come se volesse fare penitenza, ma senza capire bene di che cosa avrebbe dovuto pentirsi. Forse del fatto che a morire non era lui. Ma lì la morte aveva una specie di normalità, era ordinaria amministrazione, una cosa che infondeva fiducia, a certi pazienti mancava qualche settimana, ad altri qualche giorno, ad altri ancora solo qualche ora, e tutto procedeva alla maniera di altri eventi decisivi della vita quali i battesimi o le cerimonie per la consegna dei diplomi. Pem notò che le infermiere e i portantini venivano a lavorare con la stessa allegria di tutti gli altri, come se la disponibilità dei moribondi a sottoporsi alle loro cure fosse la prova di un’economia in buona salute.

Aveva scelto l’ospizio sull’altra sponda dell’East River come il binario morto più intonato alla sua vita professionale. Mentalmente stava già lavorando a una significativa transizione, in quale direzione ancora non sapeva, ma si sentiva cambiare; e, se gli restava un po’ di fede, era convinto che la comparsa della croce di St Tim sul tetto della sinagoga dell’Ebraismo Evoluzionista fosse l’annuncio di qualcosa di prodigioso. Questa non era una proposizione che Pem fosse pronto a discutere con altri: si era pentito di avermene parlato perché, da un lato, apparteneva a un modo di pensare tipico delle antiche comunicazioni profetiche che lui non poteva più approvare e, dall’altro, perché sentiva, con la forza sbalorditiva della superstizione, che discuterne, parlarne, significava offuscarne la luce. Non considerava il segno necessariamente soprannaturale, ma tanto sibillino da togliere ogni scopo ai motivi degli esseri umani che l’avevano dato.

Facile da tradire se espresso a parole, e situato ai margini dell’irrazionalità, il segno che aveva ricevuto era una sfida al suo comportamento. Pem doveva tenere segreti i propri piani, anche a proposito di Sarah Blumenthal. Il suo segno era ambiguo, lui l’aveva riconosciuto per quello che era, ma non per quello che gli diceva di fare. Quando fosse venuto il momento di confidarsi con lei, Pem l’avrebbe saputo con certezza, lo sentiva, ma intanto doveva essere paziente, attento e vibrante di vita, la persona sulla quale nulla va perduto. Poteva sperare che si stesse preparando una rivelazione, che si trattasse di un processo lento, e in tal caso essa si sarebbe manifestata anche tra i gemiti dei moribondi. Fin dal primo momento, prima ancora che la croce venisse rubata, gli avvenimenti nella chiesa di St Tim lo avevano trasformato in una specie d’investigatore, e Pem aveva deciso che questo doveva seriamente diventare la sua vita, un’umile, vera e tenace opera d’investigazione e di scoperta.

Dopo aver ascoltato dalla voce di Sarah il testo della lettera di Pem, mi domando se la rivelazione, più che una luce per l’occhio, non sia invece un modo di riordinare obbligatoriamente quella parte dell’io che è così intima e profonda da sembrare anonima.

* * *

— Ormai mi sono fatto un’idea abbastanza precisa degli itinerari delle passeggiate di Pem, oggi parto da Union Square Park, vedo i teschi e le tibie degli avvisi della derattizzazione in corso piantati tra l’erba… e lungo il lato ovest, sui gradini, c’è il vero e proprio parco, il mercato della frutta e della verdura, con le sue file di vasi di fiori, piante da interni, prodotti agricoli del New Jersey… distese brillanti e colorate di pere e mele, spinaci, cavoli, carote baciate dal sole… tutto ciò che c’è di organico a Manhattan attira la gente… gli scambi vivaci e diretti tra compratore e venditore che rimandano alla prima azione della civiltà… e a ovest lungo la Quattordicesima, il paradiso dei vestiti a buon mercato appesi a rastrelliere sul marciapiede, nelle vetrine grandi cartelli scritti con i pastelli colorati, tavoli con guanti e cappelli per l’inverno incipiente, le borse e le valigie che pendono dai soffitti dei negozi… e il traffico che passa lentamente, autobus grossi e buffi, gli odori della pizza, l’incenso sul marciapiede che si può respirare gratis… lungo la Settima, oltre le auto in doppia fila dei paramedici di St Vincent, con lontane sirene in movimento che annunciano la verità dell’eterna emergenza… e, piegando obliquamente a est lungo Greenwich Avenue, ristoranti indiani e messicani, locali consacrati al rito del caffè… un uomo dai lunghi capelli brizzolati con un cagnolino al guinzaglio, tre ragazzi neri dai jeans voluminosi che scivolano verso le ginocchia, un’esile ragazza bionda che s’inginocchia per badare al bebè in carrozzina, un camionista bloccato dal traffico che la guarda, dondolando il braccio fuori dal finestrino della cabina… di là dalla strada uno di quei giardini condominiali paranoicamente cintati dietro il quale si drizza la torre romanica rosso fragola della Jefferson Market Courthouse, che rimanda al secolo scorso, quando, dato il grosso problema d’identità del nuovo mondo, i marciapiedi di New York si fregiarono di ogni stile architettonico concepibile, romanico, gotico, moresco, Belle Epoque e casa popolare… e attraverso l’arteria della Sesta Avenue lungo la misera, squallida Ottava Strada, un tempo gloria dell’intelletto bohémien, con la migliore libreria di New York, oggi il paradiso delle scarpe e dell’abbigliamento finto antico, con le radio a tutto volume delle vetture a cinque porte del New Jersey che accostano al marciapiede… a sud lungo il calmo tratto inferiore della Fifth fino a Washington Square, con i suoi artisti di strada che competono tra loro, un dinoccolato attore nero al centro dell’arena si è portato l’impianto stereofonico, e ai margini esecuzioni di second’ordine di vari cloni di Dylan che strimpellano e cantano con voce adenoidea, ognuno attorniato dal suo gruppo di fedeli… e così dentro e fuori dalla luce e dal buio della città, ogni quartiere la propria verità, con un altro genere di vita da offrirti… e finalmente su per la Seconda, il tipico vialone dell’East Side, oltre la sala e il ristorante ucraini, svolto a destra in questa strada senza sole dell’East Village per vedere quale fine abbia fatto la chiesa episcopale di St Timothy. Un devoto campanile di arenaria che quando venne costruito era probabilmente l’edificio più alto del quartiere. Chiuso in una nicchia dietro il suo minuscolo cimitero e ormai incastrato tra le case popolari, con la strada, ai due capi, colorata dai cartelli degli affittuari: lavanderia, bodega, bar, si accettano assegni… le poche pietre tombali tra l’erba a chiazze si sono inclinate con gli anni come spalle ingobbite dal dolore… e il tutto, tombe comprese, ospita ora una compagnia di prosa.

Lettere gotiche sopra le porte, Teatro di St Tim. Rappresentano Il gabbiano di Čechov.

«Be’, dopotutto» ricordo che diceva Pem, «il teatro non è nato dalla religione? Escono gli dei, entrano i greci qualunque. Non per sminuire i politeisti dei culti misterici, che qualcosa sapevano fare, come per esempio mettere in piedi un bello spettacolo, con tanta musica come accompagnamento delle bevute e delle scopate. Ma, tutto sommato, forse con Sofocle noi abbiamo fatto di meglio.»

* * *

— B., il regista, a New York per convincermi a scrivere un soggetto cinematografico per lui. Siamo andati a cena, e questa è la storia che voleva farmi scrivere: era, disse, una storia presa dalla “vita”, anzi dalla sua vita, che è la ragione per cui si sentiva in possesso di tanta autorità. Un paio di anni prima aveva scelto un’attrice per un film in cui la protagonista doveva essere mutilata in malo modo da uno psicopatico che si aggirava nel quartiere arrampicandosi sulle scale di sicurezza e aprendo le finestre per aggredire belle ragazze indipendenti. Donne venute nella grande città per trovare lavoro e farsi una vita: ragazze malinconiche e attraenti che si lasciavano alle spalle una provincia di dolori, avendo magari perduto un fidanzato militare in qualche guerra o una coppia di genitori in una piccola fattoria… ma in un modo o nell’altro giunte ora in città, il film essendo un omaggio al cinema noir degli anni Quaranta. B. voleva quel bianco e nero anni Quaranta dalle ombre cupe che ti faceva subito capire che il mondo era buio e inospitale.

E quest’attrice, una ragazza flessuosa, dalle gambe lunghe, quasi bella, un po’ vaga in modo sexy, con una bella testa di capelli, fece un buon provino e costava poco, era appena uscita da una delle tante scuole per attori di New York, e quello era il suo primo film, e B. le diede la parte della donna che la scampa per narrare la propria storia, stringendo una romantica relazione con il detective incaricato del caso che la va a trovare in ospedale, e così via. B. scelse quest’attrice per un istinto che non c’entrava con la praticità, gli pareva giusta per la parte in un modo che non si curò di analizzare. In ogni caso, lui non è analitico. E, be’, girano la scena, lo psicopatico si arrampica su per la scala antincendio ed entra dalla finestra della stanza della sua pensione, perché questo è un film del passato, capite, quando le pensioni esistevano ancora e le ragazze povere, ma pulite e perbene, vi affittavano una stanza… e l’uomo è lì che incombe sopra il suo letto e lei urla terrorizzata e lui non la violenta perché in questi film il sesso non è questo, il sesso è l’orrore, e lui si piega su di lei e comincia a sfigurarle il viso con i suoi dentoni affilati e… un paio di riprese ed è fatta, è andata a meraviglia e non hanno un budget degno di questo nome, B. gira il film in otto settimane. Quando viene distribuito i critici la notano, anche se non vanno pazzi per l’opera di B., ha fatto cose rispettabili, ma lo accusano di buttare via il suo tempo.

L’attrice punta tutto sulle buone recensioni che ha avuto in questo brutto film, potrebbe andare a New York a fare qualcosa Off Broadway, ma il suo agente le consiglia di tener duro, c’è lavoro anche lì, film, televisione… Perciò rimane, esce con questo o quello, ogni tanto il suo nome compare in qualche rubrica mondana, ma si lascia sfuggire una cosa dopo l’altra, non succede gran che, l’agente non riesce a procurarle scritture… e una notte rincasa un po’ brilla, ha un appartamento a West Hollywood, e dentro c’è un maniaco che l’aspetta, uno vero. La inchioda al pavimento e con un morso le stacca il naso.

«Cioè, non si tratta di un film» mi dice B., «è quello che succede nella realtà! Lei urla, qualcuno la sente, acciuffano il maniaco, glielo strappano di dosso, ma la povera ragazza non ritroverà mai più il proprio equilibrio mentale, oggi vive con una protesi al posto del naso in un manicomio statale!» Per un po’ è stata in una clinica privata, ma poi lo studio ha deciso che aveva fatto tutto il possibile, l’avvocato ha detto che, in definitiva, non è colpa loro se un demente la vede mutilare in un film e decide che questo è il suo karma. Ma B. aggiunge, e questo è importante, che non è mai stato accertato che il maniaco avesse visto il film! «Sapendo quello che so io adesso» dice, «garantisco che non l’ha visto! Cioè, tu credi che questi squilibrati siano capaci di star fermi per due ore a guardare un film? Io alla ragazza mando fiori ogni settimana, mi preoccupo per lei, temo che la storia non sia ancora finita. Da quanto mi risulta, il pazzo si trova nel medesimo istituto, reparto psicopatici, separato da lei solo dalla parete divisoria del dormitorio. Mi sa tanto che sta temporeggiando in attesa di poterla aggredire un’altra volta.»

Così, mi chiede B., quale istinto gli aveva suggerito di scegliere la ragazza per quella parte? Una particolare vulnerabilità che lei mostrava, un genoma del destino che l’attendeva, o che altro? Cosa vide B. in lei senza nemmeno pensarci? Ecco ciò che lo tormenta. All’inizio della sua carriera aveva scelto un attore per la parte di un uomo che doveva essere stroncato da un attacco cardiaco e l’attore era morto proprio così, e un’altra volta, per un western, un film sulle guerre indiane, un attore che lui aveva scelto per la parte di un ufficiale di cavalleria che doveva essere infilzato da una lancia pellerossa era andato a impalarsi sull’inferriata davanti a casa dopo essere caduto, ubriaco, dalla sua finestra al secondo piano.

«Devo avere una specie di preveggenza» mi dice B. con la tipica tendenza di Hollywood alla naturale autoincensazione. «Devo avere previsto il fato di quella povera ragazza.» Scuote la testa, guarda la tovaglia. «Ma in che modo? Qual è, qui, il mio segnapunti morale? Cosa so e quando lo so?»

«Dunque, vediamo se ho capito bene» dico. «Tu vuoi fare un film su un uomo che fa un film con un’attrice la cui sorte nel film si ripete nella vita reale, a parte il fatto che la sua vita reale è un film che stai facendo con un’altra attrice sul modo in cui i tuoi film predicono la vita reale: è questa l’idea?»

«È decisamente occulto, no? Un autentico mistero dell’occulto. Come se me lo proiettassero proprio qui, nell’anima. Non so dirti come sia strano tutto questo. È il film più importante della mia carriera.»

«Be’, qualcosa potrebbe essere, d’accordo, ma…»

«Sono venuto da te apposta. Con la tua inclinazione filosofica, come potevo pensare a qualcun altro?»

«Scusa, ma non ci voglio entrare.»

«Perché?»

«E mettere in pericolo un altro naso?»

«Oh. Oh…» Rimuginando. «Capisco quello che intendi. Non temere. Troverò una inadatta alla parte: sceglierò una che non sia in carattere.»

«È solo quello che crederai di fare» ribatto.

* * *

— Di ritorno al mio villaggio sulla sponda dello Stretto, con la luce del settembre inoltrato che arriva di sbieco, una luce benefica e dorata, placida, non turbata dal vento, ma simile a qualcosa di giunto a maturazione, con chiari segni dell’anno di cui ormai si è colto il frutto, del vizzo inverno in arrivo. Una stagione triste, con le oche canadesi che pensano d’involarsi verso il sud, inquadrandosi nelle loro solenni formazioni ma girando in cerchio con aria indecisa, mentre un falso profeta in mezzo a loro le riporta giù con le sue grida sino a farle atterrare nelle insenature. Quando vengono nutrite da persone armate di buone intenzioni si fermano oltre la scadenza e muoiono congelate.

Sopra il lido oceanico innumerevoli rondini oscurano il cielo, roteando qua e là come tempeste di polvere, ma è vero che si cibano in volo, che filtrano l’aria delle legioni d’insetti, al pari dei rondoni? Sono piccole come passerotti, con il petto bianco e il piumaggio blu, e hanno la coda biforcuta ben tesa e le ali aguzze e puntate. La dimensione della loro vita è lo spazio, è nello spazio che vivono, simili a galassie ornitologiche, ma non, come i rondoni, per mesi, anni di seguito senza toccare terra. Hanno un debole per i fili del telefono, non resistono al richiamo del lineare posatoio comune, come adesso, con un primo cauto atterraggio, alcune propongono al resto dello stormo una tappa nella loro migrazione, finché sgomberano il cielo sopra il lungo tratto di strada sabbiosa appena dietro le dune e si posano spalla a spalla sul fluente cavo telefonico, da un palo a un altro palo e a un altro ancora, col petto contro il vento dell’oceano, le penne del capo arruffate, queste piccole bastarde sì che sanno vivere, ora sono lì schierate per un concerto celeste che soltanto loro possono sentire.

* * *

— Mi rendevo conto, mentre tenevo a modo mio la lezione di filosofia, ritto davanti agli studenti che aspettavano, più o meno distratti, di annotare quello che dicevo… mi rendevo conto che, quanto più grande fosse stata la loro soggezione, tanto più avrebbero riso di me alle mie spalle. Il professor Ludwig Wienerschnitzel. Che discute con se stesso, scivola nel tedesco, ode ciò che ha appena detto ad alta voce come se fosse uscito di bocca a un altro, e poi manifesta con veemenza il proprio disaccordo. Che salta fuori con una brillante, sorprendente asserzione dopo l’altra, e tutte le cancella con un cenno della mano, con una smorfia di disgusto. Mostrando lo sforzo fisico della vera riflessione. Ore e ore di questo… spettacolo. Che crolla infine esausto su una sedia, i capelli impastati di sudore. Ma sempre, lo dico ora e qui come una confessione, sempre con l’unico scopo di semplificare le cose, come semplice è il mondo nel suo “qui e ora”, spogliando il più possibile ogni cosa fino al suo semplice e nudo dato. Il mondo come… tutto ciò che è così, tutto ciò che sta proprio in questi termini. Feci dunque quel duro lavoro, e si dimostrò di una difficoltà infernale. Tanto difficile da spingermi a pensare seriamente al suicidio. Ma una volta portato a termine, ogni problema è risolto, no? Ora sarebbe dovuto essere facile per tutti, invece… Non mi capivano! Numeravo le mie riflessioni e le mettevo in ordine di sviluppo, come uno studente annota i punti essenziali delle sue letture. Per comprendere più facilmente. Feci tutto quanto si poteva fare. Ma più semplificavo la pratica della filosofia, più difficile diventava per tutti gli altri. Non soltanto la gente, non soltanto gli studenti, ma i miei colleghi, i miei colleghi filosofi! Gli stessi uomini che erano stati i miei maestri.

Dio sa che non cercavo gratitudine. Solo qualcuno che su questa terra mi dicesse: “Ludwig, non sei solo”. Ma l’unica cosa che sentivo, da tutti, era: Per favore spiegami questo, dillo in modo che io possa comprenderlo. Capite? Non si rendevano conto che spiegarlo significava negarlo. Ero giunto a quell’estremo di evidenza che è l’inspiegabilità. Lo scopo di tutto il mio lavoro consiste nel trovare solo ciò che si può dire. E non è molto! Scrissi loro: “Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere”. Dissi loro: se volete capire ciò che ho scritto, leggete ciò che non ho scritto e forse allora capirete. Ma questo non fece altro che sconcertarli ulteriormente.

Mio Dio. Dicevo a questo o a quel giovane inglese con cui passeggiavo o andavo al cinema dopo una sfibrante lezione: Se vuoi vivere nel vero spirito della filosofia, non fare il filosofo. Be’, e lei, professore? Io ho lasciato altre volte la filosofia, rispondo, e tornerò a lasciarla prima che mi uccida, per me è stato un errore tornare indietro, ribatto. Se come formazione sei un filosofo, abbandona la filosofia e datti a un lavoro manuale. Diventa carpentiere, infermiere, muratore. Qualcosa di semplice e reale nel mondo reale, qualcosa che corrisponda al mondo così com’è. Se sei innamorato, dicevo a questo o a quel giovane inglese, e lasciatemi aggiungere, su due piedi, che non sono mai esistiti giovani incantevoli come lo diventano gli inglesi, il colore della pelle, la reticenza, la capacità di sottomettersi, santo cielo, quanto erano allettanti, quale continuo, quasi straziante allettamento… Ma se mi amate, dicevo loro, a quei due o tre che erano sinceramente, attratti da me, dobbiamo separarci, perché l’amore può esistere solo nella separazione, solo nel ripudio della carne l’amore si afferma per quello che è, altrimenti non lo si può considerare assoluto. E se non è assoluto non è amore. Questa è la verità che io professo quando ho la forza di farlo. Tutta la civiltà nel suo sviluppo è destinata a macchiarci l’anima. Tutti i valori della società devono essere rinnegati, se vuoi vivere da uomo. La ricchezza è uno stato micidiale. Se sei ricco, come lo ero io – ero immensamente ricco – riduciti in miseria, come ho fatto io. Se ami, tieni in gran conto il tuo amore abbandonando il tuo innamorato, come ho fatto io. Se sei un filosofo accademico, vattene a vivere umilmente, come ho fatto io. E se la tua ossessione sono il linguaggio e il pensiero, va’ al cinema come faccio io e lasciati inondare dalle immagini, dalle luci e dalle ombre, dai luoghi e dai volti soavi, lasciati illuminare dai pittogrammi che sono il contrario del linguaggio, che non devono creare equivalenze del mondo in proposizioni grammaticali, come fa il linguaggio, che non devono tracciare la carta geografica del mondo con le frasi ma sono già lì, semplicemente e senza sforzo, in esso e di esso.

Io adoro il cinema. Il cinema, vedete, si fa con i veri materiali del mondo. Il cinema stacca dal mondo le apparenze del mondo come tu staccheresti con la punta del coltello l’iridescente colorazione verdazzurra dell’arcobaleno dalla trota arcobaleno… lasciando la sostanza del mondo immutata ma resa in esatta omologa equivalenza di se stessa. Col cinema, tu ti siedi in una sala buia e impari che il mondo è proprio così. E che, quando il film è arrivato alla fine e si accendono le luci in sala, di ciò che non è stato mostrato non si può parlare, impari che oltre il film c’è un silenzio adeguato all’ineffabilità di ciò che non si può esprimere. E a questo punto te ne vai. Dal buio della sala nel buio.

Ma dov’ero?

* * *

— Il Midrash Jazz Quartet suona i classici

DANCING IN THE DARK

(applausi)

Till the tune ends,

We’re dancing in the dark,

And it soon ends;

We’re waltzing in a wonder

of why we’re here.

Time hurries by, we’re here and gone.

Looking for the light

Of a new love

To brighten up the night,

I have you, love,

And we can face the music together

Dancing in the dark.18

Insomma, né camino né candela, non un lumen,

decisamente è al buio che balliamo,

mentre meditiamo sul significato della nostra vita qui…

Permettetemi di fare l’altrettanto imponderabile domanda:

dov’è “qui”?…

Certo siamo fortunati ad avere qualcosa sotto i piedi

su cui fare i nostri balli.

È già qualcosa.

D’altra parte, chi sono i “noi” dei quali sto parlando?

Io ti tengo stretta e tu balli piuttosto bene,

ma non posso vederti e tu non hai detto una parola.

Ci sei proprio?

Se sì, tu sai bene quanto me

che la vita è breve e il tempo passa,

ma noi non ci adattiamo.

Cerchiamo entrambi l’illuminazione, dico bene?

Come un amore a prima vista?

E quando arriva questo amore luminoso,

facendoci uscire

dal buio di dove e di chi siamo,

sapremo cosa stiamo facendo,

vedremo tutto chiaro

compresa la persona con cui stiamo ballando,

sì, tesoro, la persona con cui balliamo in piena luce,

ma ovviamente non sarà né l’uno né l’altra di noi.

Finché questo accadrà, se mai accadrà,

io ti tengo stretta e tu mi tieni stretto,

cosa che, immagino, è una consolazione.

Tutto sommato, questa situazione non molto promettente

consiglia

di lasciarci, a braccetto, affrontare la musica

anche se, come possa affrontarsi la musica quando, al buio,

essa è tutt’intorno a te,

solo Dio lo sa…

(applausi)

Non posso lasciare tutto questo senza risposta…

Il mio collega, qui, è così chiuso in se stesso

che non stupisce che si trovi al buio,

non stupisce che non veda niente.

Mentre illumina le circonvoluzioni del suo cervello

con tutto il voltaggio di un neutrino,

sta ballando con la sua ombra,

ballando nel buio della sua mente.

Io qui non vedo nessuna donna,

come potrebbe una donna ballare a questo ritmo?

Io so a quale ritmo può ballare una donna,

so cosa si prova a tenere tra le braccia una donna che balla,

vibrante nello sforzo, flessibile, forte,

anche se è stretta di spalle,

esile in vita e agile di gambe.

Annuso il dolce odore di pulito dei suoi capelli,

e lei mi posa la tempia sulla guancia.

Sento il battito del suo polso,

sento la sua fiducia mentre segue la mia guida

e piega il fondo della schiena sotto la mia mano.

Ondeggiamo, piroettiamo e facciamo gli stessi passi,

la nostra intimità ronza come un’altra voce della musica,

ci attraversa come una magica armonia.

E questa è tutta la conversazione che voglio da lei,

ballando con lei al buio.

È un buio benedetto quello in cui balliamo,

che per il tempo di un ballo ci dà

la nostra centralità sulla terra, la grandezza

del nostro amore,

per il tempo che dura la nostra canzone.

(applausi)

Mentre io la vedo come la scena di un nightclub.

Tavoli illuminati da piccoli abat-jour

circondano la pista da ballo,

un bianco e fioco luccichio su ogni tovaglia,

un sottile bagliore sull’orlo dei calici di vino…

Questo è un nightclub dove io non ho mai

avuto la fortuna di suonare,

a terrazze, con le pareti curve e un mucchio di spazio

tra i tavoli,

un locale notturno, in realtà, dove il buio è visibile

e gli accompagnatori seduti sul palco

sono diretti da un maestro con la bacchetta

che non suona e sorride voltando loro le spalle

e guarda con aria benevola i due ballerini.

Sorridono tutti sul palco,

sono pagati,

questo è un nightclub di Hollywood, capite,

tutto finto, un teatro di posa per un nightclub cinematografico,

e i due ballerini sono i divi del film

e questa è la scena in cui scoprono

di amarsi.

Ballano guardandosi negli occhi

mentre io e il resto dell’orchestra continuiamo a suonare

per loro

con lunghi sorrisi stupidi sulla faccia

perché l’ingaggio è buono.

E le comparse sedute ai tavoli del nightclub,

in cravatta nera e abito da sera,

sono pagate anche loro.

Siamo tutte comparse nella vita di questi assi della danza

che ballano nel buio accuratamente rischiarato

dal fioco occhio di bue su ogni tovaglia

e dal sottile bagliore sull’orlo

dei bicchieri di vino.

Ora, ecco perché siamo qui:

il caso vuole che fuori dal nightclub i tempi siano

veramente brutti,

il paese è alla bancarotta, nessuno lavora,

nelle strade gelate gli uomini fanno la fila per il pane,

tempeste di polvere limano la vernice dei vecchi macinini

abbandonati nel deserto,

i vermi rosicchiano gli zigomi dei bambini

affamati sui monti,

non c’è un fratello che abbia dieci centesimi da darti,19

certo non nella via davanti al club

dove gli sbirri tamburellano col manganello sul palmo

della mano

e tengono a bada i mendicanti

dietro le transenne della polizia.

I mendicanti stanno aspettando che i due divi finiscano

di ballare al buio

e ritirino dal guardaroba la pelliccia e il cappotto

di lambswool

ed escano in strada per prendere un taxi

e buttar loro qualche monetina.

Ma non accadrà. I due assi della danza

continueranno a ballare,

lui con il suo frac nero e i capelli impomatati,

lei con l’abito da sera adorno di lustrini

che le mette bene in risalto le chiappe strette.

Questi ballerini dello schermo

che continuano a volteggiare

fingendo che la canzone stia per finire

sono i veri incaricati di riscuotere gli spiccioli.

Aprendoci le mani, scoprendo il nostro piccolo tesoro

di pezzi da dieci cent,

intascano le preziose monetine

dei mendicanti in strada, delle comparse in scena,

noi comparse e mendicanti venuti a sederci qui al buio

da un lato e dall’altro della pista da ballo

in modo che i ballerini possano illuminare tutte le nostre notti

sino alla fine della nostra vita,

quando non ci saremo più.

(sporadici applausi)

La nostra vita al buio, breve

come una canzone,

un paio di refrain

e l’ora è venuta.

Il vostro valzer, innamorati,

è finito.

Ha vinto il buio.

La musica continua.

Finito il ballo,

la musica continua.

(applausi)

— Insomma, né camino né candela, non un lumen,

— È un buio illuminato, quello in cui balliamo,

— Dal sottile bagliore sull’orlo dei bicchieri di vino.

— Il ballo è la nostra vita. Ci danno il buio

per ballarvi la nostra vita…

Dancing in the dark

Till the tune ends,

We’re dancing in the dark

And it soon ends…

(acclamazioni)

* * *

— Il vescovo di Pem non è come lo immaginavo. Un ometto, piccino piccino, dall’aria fragile, con i capelli prematuramente bianchi. Non una cattiva pasta d’uomo, abbastanza generoso del suo tempo, franco, ecclesiasticamente ostinato. Ci ha tenuto subito a dirmi che diffidava degli scrittori, specialmente dei giornalisti. Gli ho risposto che ne diffidavo anch’io. Gli ho assicurato che, pur essendo innegabilmente uno scrittore, non mi ero mai abbassato a fare il giornalista. «Mi sento sollevato dalle sue parole. I giornalisti cercano lo scontro, dalle guerre ai divorzi, puntano sulle lotte intestine, più sanguinose sono meglio è. E dove c’è empatia, la rappresentano come il suo contrario… Padre Pemberton, per bellicoso che possa sentirsi, è oggetto solo del nostro profondo turbamento e della nostra collegiale considerazione. Lei dovrebbe saperlo. Non è una prova da poco quella che sta affrontando, e le sue sofferenze vengono dolorosamente ricordate nelle mie preghiere. D’altronde, devo dire che in gran parte sono frutto di autolesionismo. Io gli voglio bene come a un caro amico, siamo stati a Yale nello stesso periodo, ma – e questo gliel’ho detto in faccia – lui non è mai riuscito a liberarsi definitivamente del retaggio degli anni Sessanta. Il suo assolutismo appartiene chiaramente alla generazione che raggiunse allora la maggiore età. Io ho qualche anno in più e sono riuscito a non contrarre questo… vizio della militanza. Pem invece salì sulle barricate, e vi è rimasto. I problemi sono cambiati, ma l’inflessibilità, la natura – o tutto o niente – di ciò che vuole, di ciò che pretende… quella non è cambiata.»

Il vescovo sorrise. «In Padre Pem c’è qualcosa di decisamente evangelico, non trova? Una delle piccole ironie del Signore.»

Una donna era entrata con un servizio da tè e l’aveva deposto sul tavolo del vescovo. Passò qualche istante mentre lui armeggiava con la teiera.

«Dov’è ora Pem, a proposito, per caso lei sa perché non risponde alle telefonate?»

«È partito per l’Europa.»

«Ah, sono lieto di saperlo. Un cambio di scena.»

«Effettivamente, credo stia cercando di rintracciare l’archivio di un ghetto ebraico occultato durante la guerra.»

«Capisco. Vuole farmi compagnia? Qui c’è il limone, oppure latte e zucchero.»

«Grazie, va bene così.»

«Anche se, pensandoci meglio» disse, «non mi sorprende che Pem abbia trovato da fare una cosa come questa, data la sua ossessione per l’Olocausto. È molto critico verso la teologia cristiana del dopoguerra. Liquidatorio, anzi. Mentre la nostra lotta è sincera e ben visibile, per chiunque abbia voglia di vederla. Alcuni di noi si dolgono del suo atteggiamento: da questa sua pretesa di accaparrarsi una posizione morale che è comune a tutti.» Aggrottò la fronte. «Non è mai abbastanza bollente. Mi spiace.»

«No, va bene. Davvero.»

«Tom Pemberton può parlare dell’Olocausto, ma quello che ha nell’anima è il Vietnam. Lei sa chi era suo padre, naturalmente.»

«Un uomo di chiesa anche lui…»

«Può ben dirlo. Il reverendissimo John Pemberton, vescovo suffraganeo della Virginia. Chiesa altissima, non alta, un severo difensore della fede. Un prete che non voleva comparire sulla scena nazionale. Ma che, in pieno spirito di abnegazione, firmò le accuse di eresia contro un altro vescovo di allora, James Pike, della California. Ed è così che lo ricordano, naturalmente. Troverà Pike nel primo paragrafo del suo necrologio.»

«Pem ha parlato del vescovo Pike.»

«Lo credo bene… Sa, il vescovado apprezza il valore delle terapie secolari. Ho consigliato a Pem di avvalersi di uno psicologo. Potrebbe aver avuto qualche padre di troppo.»

«Non capisco.»

«Pike ha esercitato un’influenza devastante. Dal pulpito seminava dubbi sull’Immacolata Concezione, sulla Trinità… Era come se la sciagurata controcultura fosse filtrata attraverso i muri della chiesa. Ma lasciò il suo marchio su alcuni seminaristi. Non è impossibile che Pem li abbia interiorizzati – il padre naturale, John, della chiesa storica, e l’indipendente padre adottivo, Jim Pike – e messi l’uno contro l’altro. Ecco un articolo per lei, ecco il conflitto, se è questo che sta cercando. O le pare che io stia facendo della psicologia spicciola?»

«Solo un po’.»

«Le assicuro che non è così. Dato l’affronto dottrinario che abbiamo fatto alla sua ragione, verrebbe da pensare che a quest’ora Pem avesse lasciato la chiesa. D’altra parte, data la sua natura dissidente, in primo luogo perché c’è entrato? E se non è questo… se la lotta non è questa, dobbiamo cominciare a parlare del male.»

Il vescovo si alzò e guardò fuori dalla finestra panoramica. «Non voglio dire questo, non voglio ammettere di nutrire sospetti sull’ingenuità di Pem. Perché dev’essere più sveglio di così, e perciò sarebbe un’ingenuità assolutamente calcolata. Come faceva a non sapere che ragione e fede, più che essere incompatibili, sono complementari? La ragione, non meno della fede, santifica la vita etica. Vogliono entrambe liberare l’uomo da se stesso. La stessa mente che concepisce il teorema matematico ama l’ordine di un mondo sottoposto al governo di Dio. Ragione e immaginazione sono strade parallele per arrivare a Dio. Non devono intersecarsi. Si può fare appello alla prospettiva per immaginarle come unite nell’esperienza dell’uomo… ma solo in lontananza, all’infinito.

«Intanto, ciò che è abominevole è l’orgoglio, questo è il peccato più disastroso, è qui che ha origine il male, nella glorificazione della potenza umana che dimentica come Gesù il Cristo scese tra noi e in forma d’uomo fu straziato sulla croce.»

— Okay, vediamo cos’ho messo insieme: per cominciare, uno studente di un liceo privato giocanella squadra di hockey di St Paul – un ragazzone con le spalle larghe – poi si fa quattro anni al Trinity, nel Connecticut. Gli anni Sessanta che vanno a tutta birra, teach-in, sit-in, marce, il rituale falò delle cartoline precetto, e Pem passa un’estate nel Mississippi a iscrivere i neri nelle liste elettorali, si fa rompere la testa e, pienamente accreditato, si unisce agli hippie intorno al Pentagono. E che succede allora? Che opta per il seminario. Il vescovo si domanda perché. Ma come figlio di un gagliardo uomo di chiesa, allevato in una successione di canoniche tra Seattle e l’Upper East Side, con che altro Pem poteva avere dei problemi se non con la sua casa?

Scriverò di lui che, per quanto vaga ed ereditaria possa essere stata, il giovanotto aveva una fede. Sarà stato confuso, ma in tutta quella torbida follia del Vietnam e nelle lotte del movimento per i diritti civili Pem cominciò a capire che la Chiesa era un’istituzione al servizio della verità e del buonsenso. C’erano tanti sacerdoti, non solo il vescovo Pike – sacerdoti antimilitaristi, teologi della liberazione, assertori della disobbedienza civile – che si facevano manganellare e sbattere in galera. Martin Luther King, i Berrigan… Chi dava loro tanta forza? Cosa li spingeva? Il bunker era la fede. E fare il diavolo a quattro era materia di fede. Ecco dunque un programma ragionevole per un figlio degli anni Sessanta. Avrebbe preso i Vangeli per quello che erano, un manuale della rivoluzione.

Ogni grado di fede religiosa da zero a trecentosessanta, con l’ago che oscilla impazzito: questa è la verità del mio amico Padre Pem.

— Vero anche che, dopo un anno di militanza nel Peace Corps, sul quale avrò altro da dire, torna a Yale per completare gli studi e incontra la ragazza che sposerà, Trish van den Meer. Aria intelligente, tranquilla, uscita dagli esclusivi licei svizzeri. Una specializzazione in scienze politiche. Al posto del puntino, sulle “i” mette un circoletto. Uno di quei ricchi ed elitari prodotti delle scuole private che Pem aveva sempre evitato; tanto che finiscono per innamorarsi.

A Trish piace la sua aspra voce baritonale, la faccia larga con un ciuffo di capelli sempre sulla fronte, la bocca sensuale. Lui non arriva a un metro e ottanta ma sembra più imponente, la grandezza di una presenza forte, uno studente di teologia con un buon nome e pochi soldi in tasca, e dotato di una straordinaria virilità. Questo fatto del non curarsi dell’avvenenza del proprio aspetto, come un cane grosso e ispido. I pesanti occhiali dalla montatura nera che tendono a scivolargli verso la punta del naso e che lui deve rimettere a posto di continuo, occhiali che per lei, in qualche modo, sono indicativi di un certo disordine nella vita. Avrà bisogno di qualcuno che si prenda cura di lui. E questo fatto della vulnerabilità: di come una semplice idea possa impossessarsi di lui e scuoterlo fino al midollo, di come ci tenga a dividere con lei i suoi pensieri, anche se, secondo Trish, la utilizza più che altro come ascoltatrice mentre lui fa lavorare il cervello. È affascinata all’idea che un uomo possa fare una vita così dura.

E Trish, quali attrattive ha per lui? È freddamente sexy, una bionda snella e atletica, gioca bene a tennis, parla correntemente francese e italiano, al terzo anno diventa una Phi Beta e suo padre è un pezzo grosso nell’amministrazione Johnson, che Tom Pemberton detesta.

* * *

— Caro Pemby,

mi è venuto da sorridere mentre prendevo la penna e pensavo alla probabile espressione del tuo viso quando tu avessi trovato nella posta una lettera del tuo faux papà. Così, vedi, mi hai già dato un momento di allegria. Ormai sono diventati rari, anche se posso sempre sperare di averne qualcuno durante una giornata di vela, quando il vento collabora e mi permette di fare lunghi bordi di bolina stretta durante i quali non devo far altro che stare al timone e gustarmi gli spruzzi in faccia. Sono tornato alla vecchia Hereschoff di legno, te la ricordi? Con randa e controranda? Non so perché. È un po’ larga, non troppo veloce, ma abbastanza bella e si dà poche arie, come una brava prima moglie. Per un attimo posso cullarmi nell’illusione di essere in pace. Sento il fruscio e il sommesso sciabordio di quando si va in barca, il sibilo degli elementi, come se vento, luce e acqua fossero tre divinità immerse in una tranquilla conversazione, proprio come se, scusa, i vecchi politeisti pagani avessero capito tutto al volo. Di rado mi allontano più di un miglio o due, e veleggio lungo la costa, non so perché, anche se avrei una gran voglia di fare diversamente. O forse è questo strano obbrobrio oceanico, se vuoi saperlo, il fatto che quanto più al largo mi spingo tanto più mi sembra di trovare immondizie galleggianti, chiazze di nafta e altri innominabili rifiuti. E io sono piuttosto schizzinoso.

Non sono venuto subito al punto, eh? Non è da me. Ma una cosa te la garantisco. Non scrivo nell’intento di farti tornare con tua moglie. Prima di tutto non credo che sia possibile, conoscendovi come vi conosco io, e in secondo luogo vi vedo in un’attraente luce nuova ora che non siamo più faux figlio e faux papà. Anzitutto, francamente, non riesco a immaginare cosa possiate aver trovato l’uno nell’altra: la peculiar institution che era il vostro matrimonio è una cosa che un giorno meriterà di essere studiata a fondo, anche se non da me. Io ho altre priorità. Priorità. Sì, ti sorprenderebbe constatare come anche persone stagionate come me ci sia ancora dentro, dentro fino al collo.

Quale “attraente luce nuova”?, chiederai, fermandoti subito su ciò che t’interessa di più. Be’, in primo luogo, che pur con tutte le difficoltà della tua vita, per una delle quali sei finito addirittura sui giornali, tu vivi nell’innocenza. Queste sono cose di una così soave normalità… una famiglia disgregata, un crocifisso perduto, persone che fanno la coda per una mestolata di purè, o qualunque altra cosa sia quella che riempie i tuoi giorni indaffarati. Ti concederò che si tratta di una sorta d’innocenza tormentata, e non intendo incoraggiare la tua ben covata Angst, ma quanto a problemi farei subito cambio con te. È talmente invidiabile essere al servizio di Dio. Non che io non l’abbia sempre saputo, ma ora lo vedo in questa luce nuova. Dato che sei costretto a dirci ciò che sappiamo già e non vogliamo sentire, consegnandoti a un ruolo nella vita inefficace e noioso, sono giunto a vederti come il surrogato involontario e ideale di ogni brava persona tra il pubblico che si sia mai alzata per esigere da me delle scuse, o che mi abbia scritto una lettera macchiata di lacrime sul fratello, sul figlio o sul marito della cui morte io ero responsabile, o che abbia intasato la mia e-mail con una valanga d’ignobili invettive di ogni genere, o che mi abbia fischiato a un pranzo in onore di un autore e del suo libro, o che si sia alzata e mi abbia voltato le spalle mentre ricevevo una laurea honoris causa. Tu sei il loro profeta, Padre Pemberton. Di tutta la generazione di hippie vili, deboli, egoisti, paurosi e impenitenti che si godono la bella vita garantita dall’egemonia americana senza volersene addossare i fardelli.

Il mio ragionamento è questo: se imparerò a comunicare con te, forse potrò davvero arrivare agli altri. In un modo molto simile a come l’antropologo sul campo, o nella giungla, impara coscienziosamente la lingua e i costumi degli indigeni per conquistarsene la fiducia. Che ne dici? Penso, naturalmente, al mio paese. Vuoi pensare anche tu, finalmente, al tuo paese? In tal caso, ecco il nostro primo problema.

Un capellone senza gambe su una sedia a rotelle si è messo a sorvegliare la mia casa qui ad Alexandria. Arriva ogni mattina su uno di quei furgoni adibiti al trasporto degli invalidi e si fa scaricare davanti al cancello, dove resta semplicemente seduto a contemplare l’edificio. A mezzogiorno lo caricano per andare a pranzo, immagino, ma nel primo pomeriggio è di ritorno, e non se ne va prima di notte. L’ho osservato col binocolo da una finestra del piano di sopra: la persona che lo deposita e lo porta via è una ragazza, una figlia o la moglie, e ovviamente gli è molto devota. Lui sembra essere in ottima salute, robusto, largo di spalle, il petto, bicipiti e tricipiti, bene in mostra sotto un’attillata T-shirt con le maniche rimboccate fino alle spalle. Un macho di estrazione operaia, o forse dovrei dire una maschietta? Probabilmente ha anche una buona pensione d’invalidità, ed è per questo che forse ringrazia con la bandierina americana issata sul telaio della sedia a rotelle. Dopo un paio di settimane di questa storia ho chiamato la polizia. Ma se gli dicono di circolare lui circola, e va a fare un giro lungo le tortuose strade alberate del quartiere con gli stessi diritti di una persona con le gambe. Quando i poliziotti se ne vanno, torna ovviamente alla sua postazione. Ho pensato di offrirgli una limonata, ma potrebbe interpretare il mio gesto come una specie di sfottitura, no? Ho pensato d’invitarlo a entrare, per rischioso che possa essere, ricorrendo a questo stratagemma per salvarmi prima che la stampa se ne accorga, come indubbiamente accadrà, e venga anch’essa a schierarsi davanti al mio cancello. Ho pensato di partire, posso sempre andare all’estero, ma immagino che sarebbe vista come una fuga. Qualunque cosa io faccia, è lui a comandare il gioco, Padre. Tu come te la caveresti? Quale consiglio dai a me, un uomo non privo di medaglie e sicuramente più povero di lui dopo avere prestato di anno in anno i suoi servigi postbellici per una modesta mercede nell’interesse del paese? Devo mettermi io di picchetto davanti a lui? Devo ordinare anch’io una sedia a rotelle e gettarmi lancia in resta lungo il vialetto?

Sperando di avere tue notizie, e con la stima più affettuosa,

come sempre,

il tuo faux papà

* * *

— Biografia dell’autore

Ricorderete come mio padre, Ben,

giovane ufficiale di marina fuori del suo elemento,

scampò una notte orribile della Grande Guerra

gridando ordini in yiddish,

lingua creata in barba

alla storia europea,

ai soldati tedeschi che si riversavano nelle trincee.

Fu un espediente coraggioso, ironico, tipicamente americano,

no? E gli salvò la vita.

Alla fine della guerra tornò a casa

con le truppe di Pershing,

lasciò la marina e sposò Ruth, la fidanzata,

a Rockaway Beach, Long Island, New York,

ed entrò nell’industria discografica

come distributore di altoparlanti.

L’altoparlante del grammofono a manovella di allora

era un cilindro aperto e poco profondo

del diametro di un dollaro d’argento

infilato in fondo al braccio

e che reggeva con una vite la puntina d’acciaio

che tremolava nei solchi del disco a settantotto giri

trasmettendo gli impulsi alla vibrante

membrana di carta oleata dentro la cassa

da cui uscivano le voci metalliche di Rudy Vallee

e Russ Columbo

al cui suono ballavano gli americani.

Nel 1922 nacque mio fratello Ronald

e nel 1926 fu sollevato fino a un davanzale

dell’ufficio di mio padre nel Flatiron Building

affinché potesse vedere la parata di Lindbergh

che sfilava per Broadway.

Mentre gli applausi della folla sottostante

echeggiavano sotto la pioggia di nastri di telescriventi

mio fratello, che aveva quattro anni, si dondolava

e si sarebbe tuffato a pesce nel maels e qualcosatrom

se la mano ferma di mio padre sorridente

non l’avesse trattenuto e tirato dentro

dove mia madre, Ruth, che non prendeva la vita alla leggera,

impallidì e quasi venne meno.

Nel 1930 e qualcosa nacqui io

e la famiglia raggiunse l’organico definitivo,

madre, padre e due figli maschi

domiciliati in un appartamento del Bronx

durante la Grande Crisi.

Non me ne occuperò se non per dire

che nel 1941 mio padre, Ben, che fino ad allora era riuscito

a mantenerci con un negozio di radio e dischi

aperto con un socio,

alla fine fallì e fece il rappresentante

alle dipendenze di altre persone.

Nel 1943 il giovane guardiamarina della Prima guerra mondiale

era mio padre che, corpulento e preoccupato,

sedeva in poltrona vicino alla radio

ascoltando le notizie della Seconda guerra mondiale

mentre al tempo stesso leggeva della guerra

sul giornale della sera che teneva spiegato come una tenda

perché il figlio maggiore, mio fratello Ronald,

era in Inghilterra, chissà dove,

in aeronautica come radiotelegrafista,

avendo la mia famiglia un’inclinazione alle comunicazioni

e mio fratello, dall’età di quattro anni,

un’inclinazione a tuffarsi nel vuoto.

Così, per dirla schietta, la famiglia

era tornata in Europa per dare di nuovo una mano.

Mio fratello girò i cieli d’Europa

al tavolo della radio di un B-17,

la cosiddetta Fortezza Volante

perché arrancava col suo pesante carico di bombe,

due mitraglieri nelle torrette di testa e di coda

e un terzo mitragliere in posizione dorsale

sopra e dietro il pilota.

Con tutto quell’armamento, col metro di oggi,

non era un aereo molto grande,

ma abbastanza grande nel mirino della mitraglia

dell’antiaerea o dei Messerschmitt

che gli giravano intorno per attaccarlo.

Più tardi i B-17 furono fatti volare di notte,

non essendovi tenebra più cupa di quella

dell’Europa in guerra.

Erano illuminati nella parte inferiore

dagli incendi provocati dalle loro bombe

tremila metri sotto di loro, e attiravano il fuoco dei traccianti

come una calamita attira i chiodi,

e anche se c’era il terrore di precipitare

nell’oscurità

gli equipaggi pensavano di avere maggiori probabilità

volando al buio che alla luce del giorno,

convinzione scossa solo in parte

dalle forti perdite che subivano.

Nei momenti particolarmente brutti, tra gli scoppi

della contraerea,

l’aereo sembrava tremare di paura,

o i motori mandavano un affannoso suono nuovo,

mentre il fumo invadeva la cabina.

Mio fratello amava moltissimo gli impianti che gli avevano

affidato,

i quadranti numerati, le lancette degli indicatori

e, attraverso le giunture dell’involucro di metallo nero,

il fidato bagliore

delle valvole della radio.

Sganciate le bombe, sembrava che l’aereo facesse un balzo

in alto

e il chiacchiericcio all’interfono

di questi ragazzi che tornavano a casa, il maggiore dei quali

aveva forse venticinque anni,

era tronfio, ai limiti della spacconeria, finché all’alba

scorgevano il campo d’atterraggio e tacevano,

essendo tornati indietro vivi per un altro giorno.

Dopo una dozzina di missioni a mio fratello fu concessa

una licenza,

un permesso per un weekend, in realtà, che passò –

su invito del comando di squadriglia,

il che significa che era più o meno un ordine –

in un piccolo castello inglese nei Cotswold.

Il padrone di casa era un generale,

Lord Vattelapesca,

che vi abitava con la figlia vedova

e un gruppetto di persone anziane che si muovevano molto

lentamente.

Offrendo mio fratello le proprie credenziali,

prime tra esse il servizio di suo padre

nella Prima guerra mondiale,

il generale, un uomo fragile dagli occhi celesti

della generazione della Grande Guerra,

lo ripagò della stessa moneta facendo fare all’ospite

un giro della galleria con i ritratti degli antenati

durante il quale giovialmente sminuì ciò di cui andava

tanto fiero,

la generazione di ufficiali baffuti, barbuti e pluridecorati

dalla quale discendeva.

Il generale, sulla cravatta, aveva una macchia di tuorlo

d’uovo secco,

e la rasatura mattutina gli aveva lasciato qualche stoppia

sul mento.

Che classe, pensava mio fratello, e stava

per mettere una pietra sopra quel weekend

quando fece il suo ingresso la figlia del generale,

una donna alta dalla carnagione chiara

e dall’aria di chi ama la vita all’aria aperta,

la giovane vedova di un comandante inglese di tank

ucciso in battaglia contro le forze di Rommel

nel Nordafrica.

Quando mi parlò di lei, mio fratello la chiamò

Miss Manderleigh:

i suoi occhi distanziati erano grandi, rosse le labbra piene.

Portava i capelli scuri acconciati alla paggio,

una gonna, una modesta camicetta e scarpe col tacco basso.

La mano con cui strinse la sua era morbida e calda,

e il suo “salve” sorridente e disinvolto

dimostrò senza bisogno di tante parole

che comprendeva la sua situazione.

Lui aveva avuto un po’ di tempo per passeggiare da solo qua e là.

Non capiva come quella gente

potesse vivere in quel merlato maniero

di gialla pietra Cotswold,

apparentemente ignara del fatto che sarebbe

andato in rovina dentro e fuori.

Sorgeva lontano dai campi, non radicato

alla terra,

ma come depostovi sopra, senz’alberi,

ma con morti cespugli entro urne

e un indolente animale di pietra o due

per esprimere la propria distinzione.

Sul retro, duemila metri quadrati di terra cintata

erano stati trasformati in un orto di guerra,

e oltre il muro c’era la lunga e dolce salita di un colle

che Miss Manderleigh additò mentre portava fuori

un paniere da picnic e una pesante radio portatile

come una padrona di casa decisa

a far divertire il suo ospite.

Lui non aveva ancora idea, non ci aveva nemmeno pensato,

tranne forse come una fantasia, anche se

erano loro due soli, mi disse mio fratello,

ad arrancare su per la lunga strada di montagna

che sembrava la navata di una chiesa

tra le siepi d’arbusti che s’inchinavano

come deferenti cortigiani

nel vento levatosi all’improvviso.

Poveri noi, disse Miss Manderleigh,

il cielo una bizzarra volta verde, mentre cadevano le prime gocce,

e poi quell’acquazzone li investì,

un temporale assai poco inglese,

e quando raggiunsero il riparo di una stalla

erano bagnati fino alle ossa.

Gli uccelli erano stati buttati giù dai nidi.

Due o tre di essi giravano in cerchio con le ali spezzate

nell’erba alta frustata dal vento.

Dentro, al buio, la radio che mio fratello

portava come una valigia

si era accesa, chissà come, e improvvisamente

stavano ascoltando sulle onde corte un discorso di Hitler

il cui suono era paragonabile a quello di una cassetta piena

di chiodi, dadi e bulloni rovesciata sul pavimento,

la crisi della guerra mondiale negando brutalmente

ogni pastorale eccezione

e forse accelerando l’istinto che spingeva

i due giovani a far l’amore finché era ancora possibile farlo.

Lei spense la radio, lui accese una lanterna

e si scaldò alla vista di Miss Manderleigh,

del suo zuppo vestito da picnic color pastello,

di quello che portava, sopra e sotto, e che aderiva

come un involucro trasparente

alla sua figura appena messa in mostra.

Divertita dal proprio imbarazzo, “Guarda che roba” sembrava

dire lei

con le labbra che stringendosi le incidevano fossette

nelle guance

in segno di comica autodenigrazione, le sopracciglia

aggrottate,

la luce della lanterna che le brillava negli occhi,

questa sorprendente ragazzona

con le spalle rosa carne,

la schiena tondeggiante mentre incrociava le braccia

sul petto, lo sguardo incuriosito al piede sollevato

nella mano di lui,

come se a fare lo spogliarello

fosse un’altra persona.

Non che mio fratello entrasse nei particolari

– nella sfera sessuale tende alla reticenza –

ma io abbellisco il suo racconto

con coperte da cavallo sotto cui rintanarsi,

una bottiglia di vino dal paniere,

il tappo che salta, il vino in due bicchieri,

i sandwich coi cetrioli e le uova alla paprika dimenticate,

gli spifferi del vento tra le assi,

una coppia di cavalli da tiro nei box

lieti, pareva, di avere compagnia,

il cui fremere e sbuffare nella mente di mio fratello

diventò una sorta di bestiale approvazione.

Quella sera a cena il generale in alta uniforme

si sedette a capotavola,

tra Miss Manderleigh e mio fratello.

Mangiarono i frutti dell’orto

e la selvaggina di penna presa nei campi.

In questo paese in guerra sapevi da dove veniva

ogni cosa.

Quando il generale fu pronto a concludere la serata

borbottò i suoi auguri di ogni bene a mio fratello

e gli strinse la mano.

Il suo uomo lo aiutò a salire la scala a chiocciola.

Ronald e Miss Manderleigh bevvero brandy and soda

e giocarono a cribbage accanto al fuoco

e quando lei si fu accertata che tutto taceva

lo condusse in camera sua.

Lui mi disse che era ubriaco fradicio, ma ricordava bene

il letto, le quattro colonne scolpite come gli alfieri

degli scacchi.

Amo credere che abbiano ondeggiato parallelamente,

romboidando a oriente, romboidando a occidente,

finché la pallida aurora strisciò sotto l’orlo

delle tende dell’oscuramento.

Amo credere che quel pragmatico weekend

di bella vita inglese

fosse a quest’ora un’allucinazione recepita dalla sua mente.

L’immagine di come si fossero sbattuti di qua e di là fino

alle campane del mattutino

della cattedrale a un Cotswold di distanza,

con i monaci sbadiglianti nelle loro celle

mentre si flagellavano

e le sillabe del loro latinorum spiccavano il volo come rondini

disturbate nel buio mattino europeo.

E non molto più tardi fu “Arrivederci, sergente”,

era sempre un “sergente” in quel tipo di patriottiche

avventure con gli aviatori alleati segnati dal destino,

e nella luce grigia tutto era bagnato,

la pietra di cava macchiata

del turrito maniero,

la vecchia Bentley nera lucidissima e coperta di rugiada

la ghiaia nera sotto i suoi piedi.

Lui guardò verso la stalla oltre la collina, piazzata stranamente

in modo tale da uccidere gli uccelli trascinati dal vento.

Le castigate siepi d’arbusti ora immobili, il mattino freddo

e tranquillo.

Restò là non sapendo cosa dire, non si erano

scambiati gli indirizzi.

Da lei non sentiva provenire alcuna persistente intimità.

Apparteneva a quella razza inglese che faceva

ciò che si doveva fare.

Erano ridotti al lumicino, erano in bolletta, ma facevano

sempre ciò che si doveva fare.

Da soldato americano lui era nuovo a queste cose,

c’erano tanti argomenti di cui non volevano parlare,

tutto quello che facevano era una forma di lutto.

Miss Manderleigh sfinita, e con un gran bisogno di dormire,

il sorriso una lotta terribile sulle labbra gonfie

e i capelli pettinati troppo in fretta quel mattino

per l’illusorio addio di un’amicizia

dolce e duratura.

E lui non avrebbe mai dimenticato la malinconica anima

asessuata

che lo guardava attraverso i suoi occhi,

cancellandogli dalla memoria il loro colore, mentre lui

diceva addio.

Addio, Miss Manderleigh, addio.

Ventiquattr’ore dopo tutti gli equipaggi dell’aerobrigata

di mio fratello

furono allertati, e all’alba del mattino seguente

le Fortezze Volanti, ciascuna portando duemilatrecento chili

di bombe,

decollarono pesantemente e sparirono nelle nebbie sopra

il Suffolk.

Un gruppo dopo l’altro girarono in cerchio nel cielo

sopra l’East Anglia

finché non si furono riuniti tutti i centoquaranta B-17

e la loro scorta di caccia P-47.

Le bombe di quella particolare missione

erano destinate alle fabbriche di cuscinetti a sfere

di Schweinfurt, nell’interno della Germania,

o forse a Regensburg, dove i tedeschi costruivano

i loro aerei da caccia,

o era Regensfurt o forse Schweinburg,

dovrò ricordarmi di controllare con mio fratello,

che sulle sue esperienze belliche è reticente

come sulle sue avventure galanti,

modesto eroe familiare, oggi un settantenne, o giù di lì,

che gioca a tennis tutti i giorni,

fiero dei tre figli maschi adulti con i quali

ama andare a pesca,

e devoto alla moglie che ha sposato da una quarantina d’anni

e a un martini prima di cena

e ai riti delle Feste Solenni.

In ogni caso la missione sarebbe sfociata in un disastro.

Anche se le Fortezze erano munite

di serbatoi di carburante a largo raggio,

i P-47 avevano carburante solo per sorvolare

l’Olanda fino al confine tedesco e tornare indietro.

Ma fu sulla Germania che apparvero gli unni,

coi musi gialli delle squadriglie di Messerschmitt 109

che da tergo si gettavano in picchiata sugli stolidi

bombardieri che volavano in linea retta

mantenendo le formazioni

mentre venivano presi d’infilata dai cannoncini alari dei caccia,

perforati, rigati dai colpi, incendiati,

e le mitragliere a due canne calibro 50 delle torrette

rispondevano inferocite agli attacchi

dei 109 che dopo la picchiata sparivano in un lampo.

L’interfono era pieno di urla, ordini

e dei lamenti di qualcuno.

L’armamentario di quadranti, luci e valvole luminose

della postazione di Ronald

tutt’a un tratto parve afflosciarsi su se stesso

come un castello di sabbia,

le luci si spensero, l’interfono tacque,

lui scoprì di avere una scheggia rovente

che gli stava bruciando il guanto,

la parete della fusoliera davanti a lui sembrava un occhio

azzurro, il colore degli occhi di sua madre,

improvvisamente il fumo riempì la Fortezza sussultante

e quasi altrettanto improvvisamente si dissipò.

Lui si districò e corse avanti

perché l’aereo si era inclinato

da quella parte.

Trovò il secondo pilota afflosciato sulla cloche, e il pilota

che gesticolava.

Ronald tirò il morto giù dalla poltrona

– aveva la testa quasi staccata dal corpo –

lo depose con garbo sul pavimento della cabina

e prese il suo posto.

Si tolse il giubbotto usando

la lana interna

per pulire dal sangue la maschera a ossigeno

del secondo pilota

e se la mise.

Pulì i finestrini dagli schizzi di sangue.

Una fila calibrata di luci segnava la strada

dei colpi tedeschi che avevano bucato la fusoliera.

Riportato il B-17 in assetto di volo,

gli fu ordinato di prendere i comandi

mentre il pilota, che aveva il viso imbrattato di sangue,

cercava di levarselo dagli occhi.

Così, ecco Ronald nella nuova postazione,

davanti il cielo era pieno di formazioni

sbandate di Fortezze

mentre ora coppie di Focke-Wulf prendevano il posto dei 109

sbucando dal sole,

picchiando sui B-17,

passando tra i loro gruppi

con le mitragliatrici che sputavano piombo

e riprendendo insolentemente quota per un’altra corsa.

Non sembrava importante che questo o quell’unno

esplodesse o precipitasse con un pennacchio di fumo,

mostravano una gioia suicida.

I bombardieri scoppiavano in una palla di fuoco

o volteggiavano come foglie staccatesi da un ramo

o giravano su se stessi sulla punta delle ali

o puntavano verso terra come frecce.

Scie di condensazione e proiettili traccianti scrivevano nel cielo

zigzaganti indecifrabili messaggi

punteggiati dai neri scoppi della contraerea,

corpi volavano, paracadutisti travolti dal flusso dell’elica,

pezzi d’ala, cappottature di motori, portelli,

un piede nudo, una testa col casco di cuoio,

pannelli di strumenti, un’elica che girava pigramente,

tutti rottami di macchine e di uomini,

merda celeste attraverso la quale bisognava ora passare.

Quanto tempo durò non avrebbe saputo dire,

sembrava che non ci fossero altre vite possibili

finché i Focke-Wulf furono finalmente distanziati

e i resti delle squadriglie,

forse sessanta aerei,

arrivarono in vista del bersaglio.

C’era solo da attraversare un accanito fuoco di sbarramento

e gli equipaggi erano pronti a mettersi al lavoro.

I vani bombe si aprirono, le Fortezze virarono,

iniziò il volo di avvicinamento,

e si prepararono allo sgancio.

Sotto di loro la città parve gonfiarsi tutta in una volta,

c’era un suono nuovo sotto il ronzio del motore,

il tuono delle bombe a scoppio ritardato,

accompagnato dalle oscillazioni dell’aereo.

Mentre l’aereo prendeva improvvisamente quota, Ronald udì

il puntatore gridare: «Bombe via!»

e attribuì un antropomorfico senso di trionfo

all’aereo

che aveva consegnato ai tedeschi il proprio drastico messaggio.

Cazzo, adesso togliamoci di qui, disse il pilota,

rendendosi conto solo allora che la cloche non rispondeva.

Qualunque cosa facesse, non succedeva nulla.

Il piano di volo richiedeva che evitassero la Luftwaffe

che li aveva tormentati all’arrivo

proseguendo verso sud, sopra le Alpi italiane,

fino ai campi d’aviazione del Nordafrica.

Ma il volo di avvicinamento li aveva fatti deviare a ovest,

verso la Germania,

e il pilota non riusciva a manovrare, l’aereo non virava, non cabrava,

non sapeva far altro che andare avanti.

Gli sembrò, mentre ronzando tiravano diritto,

che i cavi fossero spelati,

appesi a un filo,

e che da un momento all’altro tutto potesse staccarsi

e restargli in mano.

Oh, merda, non farmi questo, lo sentì dire Ronald.

A poco a poco scesero di quota

riducendo temporaneamente la velocità effettiva

e mettendo in bandiera le eliche di due motori

finché volarono con una certa sicurezza

di non essere scoperti

centocinquanta metri appena

sopra campi perfidamente belli cintati da siepi.

Piccole mandrie di vacche prendevano un pigro galoppo

mentre passavano,

e un vecchio li indicava col dito, una donna stendeva il bucato,

il facchino di una stazione agitava il pugno,

un lungo treno merci su un binario morto,

e le sentinelle che alzavano i fucili,

Ronald pensava che ormai tutta la Germania

sapesse di questo bestione americano ferito

che arrancava sopra la campagna.

Eppure continuarono così, tre o quattro membri dell’equipaggio

ancora vivi nell’aria gelida e nell’odore acre dell’aereo

bruciato,

soli, senza contatto radio,

e col vento che fischiava attraverso i mille fori

nella fusoliera

e i compagni uccisi afflosciati nelle torrette

sfondate…

Amici, fratelli e sorelle,

come possiamo fare perché le nostre storie

non abbiano il passo vacillante dei vecchi reduci

in parata?

L’esperienza dell’esperienza è intrasmissibile,

quel che è fatto è fatto, e i figli se ne infischiano,

e alla fine la storia insegna loro

a non essere nel posto sbagliato al momento sbagliato,

come una trentina di milioni di persone

durante la Seconda guerra mondiale,

ciascuna delle quali fu un nodo d’indicibile tormento

per almeno un insopportabile istante,

tutte le amorevoli strutture della coscienza

satanicamente compresse

mentre il mondo arrivava alla fine.

Mi chiedo: quante volte può il mondo arrivare alla fine

prima che il mondo arrivi alla fine?

Seduto tra i rottami della cabina di pilotaggio,

i verdi campi sottostanti ingrigiti dal sangue secco

sparso sul vetro del finestrino,

forse mio fratello Ronald ebbe l’idea,

fuori della congiuntura nella quale si trovava,

di un’Europa storicamente così imbevuta di fantasia,

fantasia di re, fantasia di sacerdoti,

da essere arruolabile all’istante

al servizio delle storie di massacri

uscite dalla bocca dei suoi più mostruosi

impresari del Novecento,

i linguacciuti psicopatici che sapevano sempre

a chi dare la colpa.

O forse ruminò sulla differenza

tra guerra e pace

in materia di organizzazione, le morti della pace

essendo relativamente accidentali, abborracciate, locali,

o attenuate da strumenti come la miseria,

in confronto all’infallibile, concertata e massiccia

mobilitazione della morte in guerra.

Più probabilmente, mentre gelava, là seduto, in camicia,

e poi, non più comodamente di così,

col giubbotto di volo dalla cui imbottitura di lana

pendevano le piccole stalattiti

del sangue rappreso del pilota ucciso,

pensava ai genitori, a Ruth e a Ben,

senza riuscire assolutamente a vederli,

ma sentendoli come convincenti presenze morali

che gli davano forza con la loro

mera esistenza di genitori.

E pensava al fratello minore, Everett,

che tanto seriamente seguiva le sue istruzioni

sul lancio e sulla presa di una palla da baseball,

e sentiva che l’innocenza ben difesa di Everett

gli dava forza anch’essa.

Consultò l’orologio: negli Stati Uniti

era giorno pieno.

Giurò che un giorno sarebbe tornato

alla loro modesta vita di lavoro, scuola e casa,

e che non avrebbe mai dimenticato di ringraziare Iddio

per la benedizione di quella famiglia unita.

Intanto il cielo s’era fatto buio,

e il tempo peggiorava.

Lentamente il pilota si portò alla quota necessaria

senza sapere a che punto delle sue sollecitazioni

l’aereo avrebbe smesso di volare.

Gli inglesi chiamavano “macchine” i loro aeroplani,

locuzione, secondo mio fratello, troppo strana

per una Fortezza Volante,

ma a ogni vibrazione delle ali,

a ogni asmatico tossicchiare dei motori,

era sempre più convinto dell’esattezza della definizione.

Ora, io non so quando o dove esattamente accadde

che a Ronald fu ordinato di lanciarsi.

Il cielo ormai era nero, la tempesta aveva colpito,

forse un fulmine mandò in corto gli strumenti di bordo.

Volavano alla cieca, la bussola era impazzita.

La fortissima turbolenza li sbatacchiava qua e là

e lui disse – credo – che il motore esterno di dritta

bruciava.

Alla luce delle fiamme notò che l’ala

cominciava a staccarsi.

Mentre il pilota urlava agli scampati di lanciarsi

e l’aereo imbardava, rimbalzava, cedeva,

e Ronald barcollando andava a poppa a cercare il suo paracadute,

un portello si aprì, con la pioggia che li sferzava in viso

alcuni uomini rotolarono fuori davanti a lui,

e voltandosi a guardare il pilota

che si alzava dalla poltrona

per lasciare l’aereo al suo tuffo

Ronald saltò in quel buio tonante e scatenato.

Barista, un’altra birra per questi fratelli e sorelle

rimasti a bocca asciutta, e anche per me.

Per immunizzarsi alle storie di massacri narrate ad alta voce

bisogna narrare altre storie, non è vero?

Una storia sulla pagina è come un circuito stampato

attraverso il quale scorrono le nostre vite,

una storia narrata sviluppa la nostra capacità

di vivere in corpi che non sono i nostri.

Vorresti dar voce all’intero pianeta

e che la totalità delle storie private narrate dagli uomini

componesse un inno al progresso intellettuale,

se fosse possibile.

In ogni caso, ecco questo giovane aviatore,

ventidue anni d’età,

che cade sulla terra nell’imbracatura di un paracadute,

sentendosi strappare le braccia e quasi slogare le spalle

mentre rimbalza sulla cresta e precipita nel cavo delle onde

di quel mare in tempesta d’aria nera.

Scendendo tra le nuvole sperimenta momentanee

mute pienezze d’illuminazione

prima di perdere coscienza nell’obbrobrioso frastuono.

Non può udire lo schianto dell’aereo.

In questo grande mare tonante di tenebra

accesa da saette,

più cupa di ogni tenebra che abbia conosciuto,

e con un continente d’ossa rotte che gli viene incontro,

nulla ricorda di Miss Manderleigh,

né le parole, né i gridi, né l’intima

realtà fisica,

né la forma la taglia la statura il sorriso o il tocco,

ma soltanto l’anima asessuata che lo guarda

dai suoi occhi velati dall’amore

cancellandogli dalla memoria il colore, mentre lui

grida al cielo:

Addio, Miss Manderleigh, addio!

Credeva davvero che fosse la fine.

Ma il paracadutista che non tocca né terra né acqua

evoca un regno di mitiche profezie

come quando, inverosimilmente, il bosco di Dunsinane

prende a stormire anche se non c’è vento,

a svellersi, mettere piedi e traslocare

per vedere di che stoffa è fatto quel povero stupido bastardo

di Macbeth.

Dapprima mio fratello credette d’essere atterrato

su una distesa di conchiglie marine,

causa lo stridente crepitio che aveva sotto le suole,

ma mentre veniva trascinato dal vento per un tratto,

rotolando e impigliandosi nelle funi,

finché non ebbe raccolto il paracadute,

si sentì colpire da quelli che sembravano

bastoni o manici di rastrelli.

Pensò che fosse un comitato di contadini

venuti con quell’accoglienza a mostrare il loro patriottismo.

Solo quando si fermò, con una caviglia slogata,

sotto una pianta immobile,

la xilofonica colonna sonora dell’azione

gli risonò all’orecchio

e nel silenzio che seguì si rese conto

di stringere un’ulna in una mano

e una tibia nell’altra.

Era caduto in un campo della guerra precedente,

riaperto da un proiettile vagante della successiva.

Era un cimitero improvvisato d’ossa antiche

e di teschi

ancora con l’elmetto, quello francese elegante e alla moda

e il fallico tedesco,

gli scheletrici guerrieri della generazione di suo padre Ben

seppelliti in fretta e furia mentre la Grande Guerra

passava oltre.

Aveva ragione di sperare di essere in Francia,

ma dapprima, troppo intontito per muoversi,

e poi troppo sofferente,

giacque là, tutta la notte, in quell’ossario.

Imparò che le ossa di una certa età

sono cave, leggere, e si staccano da terra con la brezza

come flauti di paglia o di bambù.

Suonano, mormorano, tamburellano dolcemente

tra loro,

schioccano come binari ferroviari, tremano e s’increspano

come carte da gioco mescolate,

tintinnano come campanelle mosse dal vento,

mandano il grido sommesso della civetta.

Pensò a una burla di spettri farfuglianti

stanchi di protestare, senza più risentimenti.

Ma al mattino lo trovò un vero contadino francese.

Fu nascosto in una fattoria,

curato, steccato, rimesso in salute.

Nel frattempo montò qualche radio

per la Resistenza locale

guadagnandosi l’affetto di un’intera famiglia,

questo intrepido ragazzo americano del Bronx

con un ciuffo di capelli che gli cadeva sulla fronte

e una passione per il latte fresco non pastorizzato

ancora caldo nel secchio.

Lo abbracciarono, lo salutarono, e lui viaggiò

nascosto in carri di fieno, barrocci e camion

da un rifugio all’altro per settimane finché un peschereccio

gli fece attraversare clandestinamente la Manica.

Del suo equipaggio era l’unico superstite.

Ma abbastanza presto fu di nuovo in aria,

in guerra tra i petardi scoppiettanti delle notti europee,

incapace a volte di sapere se la macchina in cui era

volava orizzontalmente o picchiava verso il suolo,

se l’urlo che sentiva era del motore

o suo.

Ed è così che lo voglio lasciare:

nella guerra dopo la guerra… prima della guerra,

prima che lo smobilitassero e tornasse a casa.