E così, secondo la teoria, l’universo si è espanso in modo esponenziale a partire da un punto, una singolarità spaziotemporale, un evento istantaneo, un fatto originario ben distinto o una sostanza quantistica in evoluzione, a tal punto che il termine “esplosione” risulta inadeguato, anche se la teoria è nota come il Big Bang. Ciò che dovremmo tenere a mente, nella nostra mente, è che l’universo non deflagrò in uno spazio disponibile preesistente, ma che fu lo spazio a deflagrare, trascinando ogni cosa con sé in un grande schiudersi espansivo, la nascita – in un lampo silenzioso della durata di uno o due secondi – dell’intero universo dilagante di gas e materia e luce-oscurità, una trasformazione cosmica del nulla nel volume e nella cronologia dello spaziotempo. Tutto chiaro?
E da allora la storia universale ha visto una sorta di evoluzione della materia stellare, della polvere primordiale, le nebulose, ardenti, splendenti, pulsanti, mentre ogni cosa ha continuato a staccarsi da ogni altra cosa per gli ultimi quindici miliardi di anni o giù di lì.
Ma cosa significa che l’originaria singolarità, o la singolare originalità, che nella sua submicroscopica sostanza comprendeva tutto lo spazio e tutto il tempo, che doveva voluminosamente e monumentalmente erompere all’improvviso in concetti che non possiamo comprendere né apprendere, cosa significa dire che… l’universo non nacque deflagrando nello spazio, ma che fu lo spazio, esso stesso una proprietà dell’universo, a deflagrare con tutto quello che c’era dentro? Cosa significa dire che è lo spazio che si è espanso, allargato, che è sbocciato? In che cosa è sbocciato? L’universo, espandendo ancor oggi le sue galassie di soli cocenti, stelle moribonde, metallici monumenti di pietra, nubi di polvere cosmica, deve riempire… qualcosa. Se si sta espandendo deve avere un perimetro, che oggi supera ampiamente la nostra capacità di misurarlo. Come stanno le cose in quel momento ai confini dell’universo? Cosa c’è oltre quell’impetuoso, invadente parametrico confine prima dell’invasione? Cos’è che viene superato, riempito, animato, acceso? O non c’è confine, non c’è limite, ma una serie infinita di universi che si espandono l’uno dentro l’altro, tutti nello stesso tempo? Sicché ciò che si espande si espande futilmente in se stesso, materia scura vorticante all’infinito di un’ampiezza insensata e spaventosa, senza proprietà, senza volume, senza energie primordiali trasformatrici della luce o della forza o dei quanti pulsanti, e tutte queste sono semplici invenzioni della nostra coscienza, e la nostra coscienza, essa stessa priva di volume e di qualità fisiche, un progetto – in definitiva – tanto irragionevole, freddo e inumano quanto l’universo della nostra illusione.
Mi piacerebbe trovare un astronomo con cui fare una bella chiacchierata. Penso a come la gente si abbrutiva per sopravvivere ai campi. Allo stesso modo gli astronomi si annullano davanti all’universo fulgido di stelle? Vedendo, cioè, l’universo come un lavoro? (Non per giustificare gli altri di noi, che rilevano queste tracce dolorose dell’universale vastità e poi fanno la solita vita come se non fosse nient’altro che una mostra organizzata dal museo di storia naturale.) L’astronomo medio alle prese col suo lavoro quotidiano comprende forse che al di là dei fenomeni celesti sottoposti alla sua attenzione, dei calcoli della radiometria, per non dire dell’inevitabile timore reverenziale ispirato dalla sua vita professionale, si trova una verità di un orrore così monumentale – questo estremo contesto della nostra lotta, questa conclusione dei nostri storici intelletti così mostruosa da contemplare – che nemmeno il rivolgersi a Dio può alleviare il tormento di una così profonda, disastrosa, disperata infinitudine? È quanto mi chiedo. Infatti, se ha qualcosa a che fare con questa storia, con questa realtà primordiale, con questi legittimi concetti, Dio è talmente spaventoso da non poter essere raggiunto da nessuna supplica umana che chieda sollievo, conforto o la redenzione che deriverebbe dall’essere messi a parte del Suo segreto.
* * *
— Ieri sera a cena, nome in codice Moira. Dopo averla vista per un anno o due e averle rivolto la parola solo brevemente, sempre con le stesse reazioni interiori, sono giunto a riconoscere un accrescimento del livello della mia attenzione, o forse un’oppressione passeggera, o una sorta di eccitazione, stranamente non sessuale, che in genere dà luogo, in un istante, a un senso di smarrimento, alla fugace impressione che la mia vita sia stata buttata via, o più probabilmente che, per la sua natura ostinata, non abbia voluto realizzarsi come dovrebbe… Mentre cenavamo insieme ho capito perché, finalmente, valeva la pena di frequentare questa gente.
Non si trucca, non s’ingioiella e compare abitualmente nel più semplice e meno adatto degli abiti da sera, con i capelli raccolti o acconciati con una noncuranza quasi eccessiva, come se si fosse pettinata in fretta e furia, all’ultimo momento, per la cena importante alla quale è stata trascinata dal marito.
La sua aria tranquilla: ecco ciò che notai la prima volta che la vidi. Come se stesse pensando a qualcos’altro, come se non facesse parte del nostro ambiente raffinato. Poiché non voleva farsi notare e mancava, evidentemente, di una professione sua, tra le donne da favola che la circondavano poteva apparire assolutamente comune. Eppure era sempre oggetto della loro ammirazione, un’ammirazione tutt’altro che facile da nascondere.
Una figura esile e dalla vita lunga. Zigomi alti e occhi marroni, scuri. La bocca è generosa, il viso di un pallore uniforme color tela greggia che, in assenza d’inquinanti variazioni, sembra dispensato dall’illuminazione. Questa uniformità slava, soprattutto nella fronte, sotto l’onda obliqua dei capelli raccolti, può spiegare almeno in parte la calma sovrana che ho sempre sentito emanare da lei.
Chinò la testa, sorrise, guardandomi francamente e limpidamente negli occhi, e prese posto a tavola con quella sua tranquillità, quell’aria posata che trovo così attraente.
Le cose andarono bene. Mi permetta d’intrattenerla… Pronunciai le mie battute con naturalezza. Lei le apprezzò, nel suo modo tranquillo. Al terzo bicchiere di Bordeaux pensai, al riparo delle conversazioni circostanti, che dovevo correre il rischio. La mia confessione le strappò una risata allegra e non impegnativa. Ma le si arrossarono le gote, e lei smise di ridere e guardò per un attimo il marito, seduto al tavolo più vicino. Raccolse la forchetta e, a occhi bassi, riprese a mangiare. Tipicamente, la camicetta le si era aperta all’ultimo bottone, allacciato male. Era chiaro che sotto non indossava altro. Eppure mi fu impossibile immaginare che potesse avere un’avventura, e mi rabbuiai, e un po’ – persino – mi vergognai di me. Mi chiesi amaramente se elevava la natura morale di tutti gli uomini che la circondavano.
Ma poi, quando stavano per servire il dessert, gli uomini ricevettero l’ordine di consultare il retro dei cartellini con i loro nomi e di cambiare tavolo. Io mi trovai seduto accanto a una giornalista televisiva che esprimeva idee politiche ben precise – quella sera a cena, mai però sullo schermo – e mi passò la voglia di ascoltare, e cominciavo a sentirmi intontito dall’alcol e infelice quando, voltandomi indietro, scoprii… Moira… che mi guardava con una solenne intensità che rasentava la collera.
Mi raggiungerà nei pressi del museo per andare prima a mangiare un boccone insieme e poi a vedere i Monet.
* * *
— E mentre ogni cosa si stacca da ogni altra cosa per quindici miliardi di anni o giù di lì, si stabiliscono affinità, siderei legami, e le stelle cominciano a ruotare lentamente l’una intorno all’altra raggruppandosi in galassie, e queste con movimenti solenni e monumentali si adunano ancor più lentamente in ammassi, i quali ammassi a loro volta si distribuiscono in modo lineare, una grande catena o collana di superammassi per miliardi e miliardi di anni luce. E in tutta questa maestosa e ampia ondata di cosmosità si verifica un piccolo e oscuro incidente, un casuale raggrupparsi di atomi di azoto e di carbonio che, fondendosi, raggiungono l’esistenza molecolare di una singola cellula, un granello di organica decomposizione e, sacrebleu, ecco la prima entità dell’universo dotata di una propria volontà.
* * *
Messaggio dal Padre:
Ciao, ecco le risposte alle tue domande, nell’ordine: il Libro delle Preghiere;1 cotta; collarino da pastore anglicano con la camicia rossa; quando ci si rivolge a lui direttamente: Padre, indirettamente: il Reverendo Taldeitali (un vescovo sarebbe il Reverendissimo); il mio uomo era Tillich, anche se qualcuno voleva appiopparmi Jim Pike. E la croce rubata era di ottone, alta due metri e mezzo. Tu mi rendi nervoso, Everett.
Dio ti benedica,
Pem
* * *
— Il furto
Oggi nel pomeriggio a Battery Park. Giornata calda, gente in giro. Brezzolina autunnale che mi fa pensare a una donna che mi soffia nell’orecchio.
Dappertutto piccioni in picchiata, con la polvere della città nelle ali.
Dietro di me il profilo finanziario della parte bassa di Manhattan trasformato dalla luce del sole in una cattedrale isolana, un complesso di edifici dedicati al culto.
E m’imbatto in questo venditore ambulante di orologi, un tipo con perline e treccioline alla rasta e un gran sorriso. Alto e diritto nel suo camicione da corista. La sacrale presenza non minimizzata dalle Nike bianche nuove che ha ai piedi.
«Non occorre caricarli, puoi tenerli sotto la doccia, impermeabili, con i diamanti e tutto, sempre l’ora giusta.»
Un’imbarcazione emerge come un fantasma dal riverbero della baia levigata dalla nafta: il traghetto di Ellis Island. Barche, non sarò mai stanco di guardarle. Vira, con i tre ponti gremiti fino ai parapetti. Sbatte contro l’imbarcadero per uno sprezzante ormeggio newyorkese. Uuf. Le palafitte gemono, e il loro scricchiolio ricorda una serie di colpi di arma da fuoco.
L’uomo sulla promenade crede che ce l’abbiano con lui e si mette a correre.
Scendono i turisti, facendo rimbombare la passerella. Macchine fotografiche, videocamere e bambini stupefatti appesi alle loro spalle.
Dio, c’è qualcosa di terribilmente esausto nel porto di New York, come se l’odore del mare fosse nafta, come se le barche fossero autobus, come se tutto il cielo fosse un garage tappezzato di calendari di donne nude con i mesi che devono ancora venire già sfogliati e coperti di unte ditate nere.
Ma sono tornato dall’ambulante vestito da corista e gli ho detto che il suo look mi piaceva. Gli avrei dato un dollaro, gli ho detto, se mi avesse lasciato vedere l’etichetta. Il sorriso scompare: «Che, sei matto?».
Solleva il vassoio di orologi per metterlo fuori della mia portata. «Vattene, non voglio aver niente a che fare con te.» Guardando a destra e a manca, mentre lo dice.
Ero in borghese: jeans e una giacca di pelle sopra la camicia a scacchi e la T-shirt. Nulla di cruciforme che m’identificasse.
E più tardi, durante la passeggiata, in Astor Place, dove sciorinano le mercanzie sul marciapiede: tre dei camici viola da corista ordinatamente piegati e accatastati sopra una tenda di plastica per doccia. Ne ho preso uno, ho rivoltato il collo ed ecco l’etichetta, Churchpew Crafts, e il segno della lavanderia del signor Chung.
L’ambulante, un giovane mestizo dall’aria solenne con quella calotta di capelli neri che è propria della sua gente, voleva tre dollari l’uno. Mi è sembrato un prezzo ragionevole.
Vengono dal Senegal, o dai Caraibi, o da Lima, San Salvador, Oaxaca, trovano un pezzo di marciapiede e si mettono all’opera. Sono i poveri della terra che lambiscono le nostre sponde, come il mare riscaldato il cui livello si sta alzando in tutto il globo.
Ricordo che, andando al Machu Picchu, mi fermai a Cuzco ad ascoltare le bande che suonavano per strada. Quando scoprii che la macchina fotografica era sparita, mi dissero che avrei potuto ricomprarla la mattina dopo nella strada del mercato dietro la cattedrale. Misericordia, ero incazzato nero. Ma i ricettatori erano donne di Cuzco che sorridevano timidamente nei loro poncho di lana rossa e ocra. Avevano in testa delle bombette nere e portavano i bambini legati sulla schiena… e con gli yankee che frugavano tra le bancarelle quasi stessero cercando i loro morti perduti, come potevo, Gesù, non accettare la giustizia della situazione?
Come feci in Astor Place, all’ombra della grande università popolare di Cooper Union, nel massiccio palazzo mansardato di arenaria rossiccia, con gli uccelli che spiccavano il volo dalla piazza.
Un isolato a est, in St Marks, un negozio di roba usata aveva i candelieri dell’altare che erano stati rubati insieme ai camici. Venticinque dollari la coppia. Già che c’ero, comprai una mezza dozzina di romanzi polizieschi di seconda mano in edizione tascabile. Per imparare il mestiere.
Signore, è una bugia. Li leggo, i maledetti, quando sono depresso. Il detective del tascabile mi parla. I suoi trucchi e la sua pistola mi consolano. E il suo mondo è circoscritto e affidabile nei suoi castighi, che è più di quanto io possa dire del Tuo.
Lo so che sei con me su questo schermo. Se Thomas Pemberton, dottore in teologia, sta perdendo la vita, la sta perdendo qui, sotto l’occhio vigile del suo Dio. Non è solo al mio fianco che presumo di trovarTi, o nell’amido anglicano del collare, o tra le mura della canonica, o nel fresco della pietra che incornicia la porta della cappella, ma nel cursore che lampeggia…
* * *
— Facemmo i nostri piani stando davanti a uno dei grandi quadri di ninfee verdi e blu. Dipende tutto da quando lei si può assentare. Ha due figli piccoli. C’è una bambinaia, ma ogni cosa è rigidamente programmata. Non ci eravamo neanche toccati, e continuammo a non farlo mentre uscivamo dal Met e scendevamo la gradinata e io le chiamavo un taxi. L’occhiata che mi rivolse mentre saliva era quasi afflitta, un momento di nuda verità che per me fu un colpo al cuore. Era ciò che volevo e avevo cercato di avere ma, una volta ottenuto, si trasformò istantaneamente in una dipendenza, come se io mi fossi votato a qualcuno in un matrimonio segreto di cui non erano state definite le condizioni e le responsabilità. Mentre il taxi si allontanava provai l’impulso di rincorrerlo e dirle che era tutto un errore, che mi aveva frainteso. Più tardi riuscii solo a pensare a com’era bella, a com’era profonda l’intesa tra noi, non ricordavo di avere mai provato un’attrazione così forte, così pura, e più che di essere sull’orlo di un’avventura immaginai di poter trovare finalmente la salvezza in una vita autentica con questa donna. Lei vive in uno stato genuino di quasi incredibile integrità, è una creatura dotata di una grazia spontanea sulla quale nessuna delle rozze ideologie del momento ha mai fatto presa.
* * *
— Gironzolando per la città e scegliendo gli ambienti come l’art director di un film. Colloco la chiesa di St Timothy nell’East Village, in una traversa della Seconda Avenue, dietro l’angolo della sala e del ristorante ucraino. Qui, una volta, ci dovevano essere tanti Wasp da riempire almeno una chiesa. Prima che Manhattan si spostasse verso nord per occupare i più assolati spazi aperti sopra la Quattordicesima Strada… la chiesa di St Timothy, episcopale, tipica arenaria ecclesiastica newyorkese, sorella minore della più vasta chiesa dell’Ascensione nella parte bassa della Fifth Avenue. Così, per accontentare il buon Padre, ora ho cambiato nome e località. (C’è veramente, nella Sesta Est, il vecchio rudere di una chiesa, ma del colore sbagliato, bigio granito cattolico, con un campanile che somiglia più a una cupola e i vetri colorati del rosone tutti rotti e il guano di piccione che ha formato come delle righe di pioggia sulla pietra. Tre giovanotti sulla gradinata, uno in mezzo che mi scruta mentre passo, gli altri due che sorvegliano gli angoli dell’isolato.)
Qui, nel quartiere di St Tim, tanta e tanta gente che tira avanti come può. All’angolo, una ragazzetta in T-shirt, senza reggiseno, con un paio di calzoni sfrangiati tagliati all’altezza del ginocchio, corre al ritmo del suo walkman. Un ex hippie dai capelli grigi che ha superato la mezza età, un beone, ostenta la sua coda di cavallo. Una ispanica bassa e tarchiata, esempio di steatopigia. Un vecchio curvo con le pantofole, un berretto degli Yankee, un paio di calzoni sudici tenuti su da un pezzo di corda. Un giovanotto nero che attraversa infischiandosi del traffico, con l’occhio torvo e imperioso che dice tutto.
I palazzi dell’East Village hanno ancora, in generale, i sei piani (compreso il pianterreno) che avevano nell’Ottocento. Questa città dovrebbe decostruirsi e rifarsi ogni cinque minuti. Forse il centro di Manhattan, ma, a parte il ponte di Verrazzano, le infrastrutture non sono più cambiate dai tardi anni Trenta. L’ultima delle linee principali della metropolitana è stata costruita negli anni Venti. Tutti i ponti, tunnel e la maggior parte dei viali e delle strade, con o senza migliorie, risalgono alla Seconda guerra mondiale. E ovunque si volga lo sguardo l’Ottocento è sempre lì: il Village, East e West, il Lower East Side, il ponte di Brooklyn, Central Park, le case a schiera di Harlem, le facciate color ghisa di Soho…
La pianta della città era stata disegnata negli anni tra il 1840 e il 1850; perciò – malgrado tutto – siamo ancora condizionati dalle decisioni dei defunti. Camminiamo nelle strade dove hanno camminato e camminato e camminato generazioni e generazioni.
Ma, Gesù, lasci la città per un paio di giorni e ti aspetta un megachoc. Sirene dei pompieri. Ululati delle auto della polizia. Il rituale crepitio dei martelli pneumatici nei viali. I podisti in calzoncini corti, i pattinatori, i fattorini. Le porte sibilanti degli autobus. Tamponamenti a catena per i divi che vanno ad assistere alle prime dei loro film. Tutti i ristoranti prenotati. Bebè sfornati in massa dai reparti maternità. Criminalità nella polizia. Ogni giorno uno sbirro spara a un ragazzo nero, blocca il colpevole di un reato, e una volante fa irruzione nell’appartamento sbagliato, spacca tutto, ammanetta donne e bambini. Insabbiamenti al Dipartimento, il sindaco si scusa.
New York New York, capitale della letteratura e delle arti, fiera delle vanità, metropolitana gallerie condomini. Napoleonici immobiliaristi, straccivendoli su scala mondiale. Boriosi cronisti sportivi. Uomini di stato ritiratisi in Sutton Place a riscrivere la storia delle loro lacrimevoli imprese… New York, la capitale della gente che ha guadagnato immense somme di denaro senza lavorare. Capitale della gente che lavora per tutta la vita e finisce con i capelli grigi e senza un soldo in tasca, New York è la capitale dei distretti amministrativi di vasti quartieri di squallide e anonime case popolari dove ogni giorno nasce un genio.
È la capitale della musica. È la capitale degli alberi spossati.
I miserabili emigranti di tutto il mondo, solo che riescano ad arrivare fin qui, credono di aver trovato una sistemazione. Gestire un’edicola, aprire una bodega, guidare un taxi, fare il venditore ambulante. Portiere, vigilante, occuparsi di scommesse clandestine, trafficare, qualunque cosa. Hai voglia a dirgli che questo non è un posto per la povera gente. La linea di frattura razziale che taglia il centro della città ci fa sanguinare il cuore. Siamo enclavisti etnici e sociali condizionati dal colore della pelle, multiculturalmente sospettosi e verbalmente aggressivi, come se la città come idea fosse qualcosa di troppo duro da sopportare anche da parte della gente che ci abita.
Ma posso fermarmi a ogni angolo dell’intersezione tra due strade di grande traffico, e davanti a me ci sono migliaia di vite che vanno in tutte le direzioni, città alta città bassa est e ovest, a piedi, in bicicletta, su roller blades, in autobus, in passeggino, in macchina, in camion, col rombo della sotterranea sotto i piedi… e come posso ignorare che per un attimo faccio parte anch’io del fenomeno più spettacolare del mondo innaturale? Esiste un criterio d’identificazione della specie che non ammetteremo mai. Una primaziale superanima. A dispetto di tutta la cautela o dell’indifferenza con cui attraversiamo i nostri spazi pubblici, è sulle masse intorno a noi che contiamo per delinearci. La città può iniziare da una piazza di mercato, una stazione commerciale, una confluenza d’acque, ma intimamente dipende dal bisogno dell’uomo di camminare in mezzo a sconosciuti.
E così ciascuno dei passanti su quest’angolo di strada, ogni persona trasandata, troppo grande, troppo piccola, strana, grassa, o ossuta o zoppicante o brontolona o dall’aria forestiera, o che si pavoneggia sotto i verdi capelli da punk, ogni persona minacciosa, fuori di testa, arrabbiata, inconsolabile che vedo… è un abitante di New York, vale a dire un nativo di questa diaspora come me, e fa parte del nostro grande e scoppiettante esperimento in una società universalista che propone un mondo senza nazioni dove chiunque può essere qualunque cosa e la carta d’identità è planetaria.
Non che questo la esenti, signora, dal badare alla borsetta.
* * *
— Innumerevoli miliardi di anni si sprecano nell’ozio mentre questo organismo unicellulare, questo granello di materia in decomposizione, questo submicroscopico squarcio di nonvita, si evolve in modo selettivo attraverso territori di fango e di corazzata brutalità, oltre regni sperimentali di cavalli alti cinquanta centimetri e lucertole volanti, fino ai trionfali domini dei bipedi pelosi e capaci di perfezionarsi, quelli con l’indice e il pollice opponibili, che usciranno a grandi balzi dalla preistoria per sublimarsi in un adolescente un po’ imbranato del Liceo scientifico del Bronx.
Dei ragazzi brillanti che conobbi allo scientifico, la cui mente era fatta per risolvere problemi matematici e saltare allegramente tra i concetti più astrusi della fisica, un gran numero erano degli idioti. Da allora ne ho rivisti alcuni adulti, e restano degli idioti. È possibile che il tipo di mente scientifica sia infantile per natura, capace di esprimere tutta la vita gli stupori e gli entusiasmi di un bambino, ma privo di autentico discernimento, scevro di malinconia, troppo facilmente deliziato dalla propria intelligenza. Naturalmente ci sono alcune eccezioni, il fisico Steven Weinberg per esempio, che ho letto e che possiede la gravità morale che si vorrebbe da uno scienziato. Ma mi chiedo perché, sempre per fare un esempio, cosmologi e astronomi siano, in generale, tanto portati a dare nomi leziosi al loro universo. Non soltanto che questo iniziò col Big Bang, cioè il Grande Scoppio. Qualora non riuscisse a vincere la propria gravità, l’universo si piegherà su se stesso, e quello sarà il Big Crunch, la Grande Stretta. Se venisse poi a mancare la densità, continuerà a espandersi, e quello sarà il Big Chill, il Grande Freddo. L’inspiegabile materia scura dell’universo che deve esistere necessariamente a causa del comportamento dei perimetri galattici si compone o di neutrini o di massicce particelle debolmente interattive note come WIMP.2 E gli aloni di materia scura intorno alle galassie sono massive compact halo objects, cioè MACHO.
Vogliono sfottersi, questi intelligentoni? È un tipo di humor da addetti ai lavori del quale fanno sfoggio per modestia, così come gli inglesi, nella conversazione spicciola, praticano l’autodenigrazione? O è il coraggio di chi si trova sotto il fuoco, la studiata noncuranza del fante in trincea sotto una pioggia di bombe metafisiche?
Io credo che manchino semplicemente di sacro timore. Credo che il sacerdote folle e analfabeta di una religione preistorica che strappava il cuore dal petto di una vittima sacrificale ancora viva e lo teneva, pulsante, tra le mani insanguinate… forse avrebbe avuto più discernimento.
* * *
— Il furto
martedì sera
Su a Lenox Hill a vedere il mio malato terminale. Ambulanze che entrano a marcia indietro nell’androne del pronto soccorso con sirene e lampeggiatori accecanti. Una volta tutt’attorno agli ospedali c’erano cartelli con la scritta SILENZIO. Macchine di medici parcheggiate in doppia fila, pazienti legati alle lettighe parcheggiati in doppia fila sul marciapiede, la giovane e intelligente manodopera dell’Upper East Side che esce in massa dalla metropolitana.
Luci che si accendono nei condomini. Se almeno io stessi salendo verso un elegante monolocale… una ragazza flessuosa appena tornata dal suo interessante lavoro che aspetta il mio squillo… stappando il vino, canterellando tra sé, senza la biancheria intima.
In un atrio fluorescente, una folla stoica che sa tutto degli orari delle visite con borse e fagotti e bambini che si agitano in grembo ai genitori. E quel mestiere che è il flagello della nostra epoca, il vigilante, nelle sue varie indolenti versioni.
La stanza del mio malato terminale decorata da un avviso: VIETATO L’ACCESSO. Spingo il battente ed entro, tutto sorrisi.
Mi ha portato un farmaco, Padre? Mi farà star bene? Allora vada fuori dalle balle. Fuori dalle balle, cazzo, non so che farmene delle sue stronzate.
Due occhi enormi, ecco tutto ciò che resta di lui. Un braccio che ormai è solo un osso punta il telecomando come una pistola, e là nell’apparecchio sospeso in aria la ragazza sorridente fa girare la grande ruota.
Conclusa la mia benefica visita pastorale, mi avvio lungo il corridoio, dove alcuni neri ben vestiti aspettano davanti a una camera privata. Portano dei regali. Sento un odore di roba non ospedaliera… gli effluvi di una torta di frutta ancora calda, brodi, un arrosto che non ha smesso di cuocere. Mi alzo sulla punta dei piedi. Chi è? Tra i fiori, come in un quadro di Gauguin, una bella mulatta dalla carnagione chiara seduta sul letto. Il portamento regale, la testa fasciata da un turbante. Non odo le parole, ma la voce profonda e melodiosa con la quale sta pregando sa quello che dice. Gli uomini a capo chino e col cappello in mano. Le donne con fazzoletti bianchi. Uscendo, m’informo dalla caposala. Camera singola due volte al giorno, dice. Tutta Sion viene fin quassù. L’unico lato positivo, da quando è arrivata la Sorella, è che non devo più andare a far la spesa. Ieri ho portato a casa delle costine di maiale al forno. Non immagina com’erano buone.
— Un’altra che ha dei problemi con le mie stronzate è la vedova Samantha. Nel suo nuovo appartamento su due piani affacciato sull’insegna della Pepsi-Cola di là dal fiume, ha letto la Pagels sul cristianesimo delle origini.
Era tutta politica, no?, mi chiede.
Sì, le dico.
Allora, chiunque abbia vinto, è per questo che abbiamo ciò che abbiamo adesso?
Be’, col via libera alla Riforma sì, credo di sì.
La donna torna ad adagiarsi. Dunque è tutto falso, è un’invenzione.
Sì, dico, abbracciandola. E per un mucchio di tempo ha funzionato, lei lo sa.
Una volta, ai balli di Brearley, cercavo di farla ridere. Non ci riuscivo allora, non ci riesco adesso. Intelligente e malinconica, Sammy. Il defunto marito, un accessorio.
Ma forse l’unica della vecchia compagnia a non pensare che stavo sprecando la mia vita.
Capelli castani folti e ondulati con la riga in mezzo. Corruschi occhi neri un po’ troppo distanti tra loro. Figura fuori moda, sfibrata, gloria a Dio nel più alto dei cieli.
Dall’angolo della bocca la lingua spunta tra le labbra tumide e lecca via una lacrima.
E poi, Cristo, la sorprendente condoglianza del suo bacio umido e salato.
– per la predica
Partire da quella scena all’ospedale, da quelle persone rette e virtuose che pregavano al capezzale del pastore. L’umiltà di quella gente, la fede che s’irradiava intorno a loro come una luce, mi hanno dato una voglia irresistibile… di condividere la loro fiducia.
Ma poi mi sono chiesto: la fede dev’essere cieca? Perché deve venire dal bisogno che la gente ha di credere?
Siamo tutti così pietosi nel nostro desiderio di alleviarci la coscienza che abbracceremmo non soltanto il cristianesimo ma, se è per questo, qualunque altra rivendicazione dell’autorità divina. Guardatevi intorno. L’autorità divina ci riduce tutti, qualunque sia il posto che occupiamo sulla terra, quali che siano le nostre tradizioni, a una sottomissione da pezzenti.
Dove trovare, dunque, la verità? L’ecumenismo è politicamente corretto, ma le cose come stanno veramente? Se la fede è valida in tutte le sue forme, la scelta che facciamo quando optiamo per Gesù è solo estetica? E se tu dici: no, certo che no, noi allora dobbiamo chiedere: chi sono gli eletti che camminano beatamente lungo la vera via della salvezza… e chi sono gli altri, quelli andati fuori strada? Possiamo capirlo? Lo sappiamo? Crediamo di saperlo: certo che crediamo di saperlo. Ma come facciamo a distinguere la nostra verità dalla falsità altrui, noi della vera fede, se non grazie alla storia che ci è tanto cara? La nostra storia di Dio. Ma, amici miei, io vi domando: è una storia, Dio? Possiamo noi, ciascuno di noi, esaminando la nostra fede – il suo centro genuino, intendo, non le sue consolazioni, non le sue abitudini, non i suoi rituali sacramenti – possiamo ancora credere, nel cuore della nostra fede, che Dio è la nostra storia di Lui? Presumere di chiudere Dio in questa nostra storia cristiana, di tenerveLo dentro, di circoscriverLo, Lui, l’autore di tutto ciò che possiamo concepire e di tutto ciò che non possiamo concepire… nella nostra storia di Lui? Di Lei? DI CHI? Di cosa, in nome di Cristo, crediamo di parlare?
— mercoledì a colazione
Ebbene, Padre, sento che si è sgravato di un altro capolavoro.
Come riceve le sue informazioni, Charley? Il mio piccolo diacono, forse, o il mio Kapellmeister?
Sia serio.
No, davvero, a meno che lei non abbia messo dei microfoni a St Timothy. Perché Dio sa che laggiù non ci siamo che noi miserelli. Datemi una parrocchia nella città alta, perché no?, dove la sotterranea non fa tremare il soffitto. Datemi una di quelle vetrine di Dio nei posti in cui stanno i fedeli ricchi e famosi, e vi farò vedere io cosa vuol dire capolavoro.
Ora senta, Pem, dice lui. Questo è indecoroso. Lei sta facendo e dicendo cose che sono… preoccupanti.
Aggrotta la fronte davanti al pesce alla griglia come se si chiedesse cosa diavolo ci fa lì. Trascurando spudoratamente il ben scelto Pinot grigio mentre sorseggia acqua gelata.
Mi dica di cosa dovrei parlare, Charley, se non della prova alla quale è sottoposta la nostra fede. I miei cinque parrocchiani sono persone serie, hanno la pelle dura.
Lui depone coltello e forchetta e raccoglie le idee: Lei è sempre stato il nostro uomo, Pem, e in passato io ho nutrito una segreta ammirazione per la libertà che lei si è ritagliato entro la disciplina della chiesa. Un’ammirazione da tutti condivisa. E in un certo senso lei ha pagato per questo, lo sappiamo tutt’e due. In termini di talento e di cervello, per come ha bruciato le tappe a Yale, probabilmente lei avrebbe dovuto essere il mio vescovo. Ma in un altro senso è più difficile fare ciò che faccio io, essere l’autorità che quelli come lei mettono sempre alla prova.
Quelli come me?
Ci pensi, per favore. Nella voce s’è insinuato un certo tono, una sorta di orgoglio intellettuale, c’è qualcosa che non va.
I suoi disarmanti occhi celesti fissano i miei. Il ciuffo da ragazzo, ormai brizzolato, gli cade sulla fronte. Poi il suo celebre sorriso gli illumina il volto e svanisce di colpo: è stata solo la smorfia distratta di un cervello amministrativo.
Ciò che so di queste cose, Pem, io lo so bene. L’autodistruzione non è un gesto, e neppure un gesto di un certo tipo. Può partire dal niente e sembrare insignificante, ma quando prende l’abbrivio è tutto l’uomo che si disintegra, in ogni direzione, a trecentosessanta gradi.
E così sia, Charley. Lei non crede che ci sia il tempo per un espresso, doppio?
Oh, e l’altra battuta: non riusciamo assolutamente a capire cosa succede dentro di lei, Padre. Ma io sono abbastanza sicuro che lei non approfitta della forza a sua disposizione.
Può darsi benissimo, Monsignore, avrei dovuto dire. Ma almeno io non faccio sedute spiritiche.
* * *
— Nel pomeriggio, due colpi sommessi alla porta. In principio è stato imbarazzante, guardava i miei libri, le stampe appese al muro, la mia casa. Ha bevuto solo acqua di rubinetto. Affascinato dal suo silenzio, non avevo molto da dire. Lei è andata in camera da letto e ha chiuso l’uscio. Tutto taceva. Alla fine sono entrato. Era a letto, con le coperte fino al mento. Era ombrosa, recalcitrante, quando cercavo di baciarla voltava la testa da un’altra parte. Ha dovuto farsi costringere. Ha dovuto essere spinta a fare ciò che era venuta a fare.
Dopo è stato come giacere nel tepore verde e blu dello stagno di Monet, sentendo le ninfee bagnate che mi si attaccavano alla pelle.
* * *
— Il furto
venerdì
Bene, e quel vecchio e saggio marpione di Tillich, Paulus Tillichus, come la costruiva, lui, la predica? Sceglieva un testo e lo spremeva come un limone. Annusava le parole, le palpava: Stringi stringi, cos’è un demone? Voi dite che volete essere salvati? Che significa? Quando pregate per la vita eterna, cosa credete di chiedere? Paulus, il filologo di Dio, quel Merriam-Webster dei dottori in teologia, quel… pastore tedesco. L’emozione che ci faceva provare quando ci spingeva fin sull’orlo del laicismo, agitando le braccia. Naturalmente ci salvava ogni volta, ci tirava fuori dall’abisso, e noi stavamo bene, dopotutto eravamo tornati con Gesù. Fino alla nuova predica, alla prossima lezione. Perché se Dio deve vivere, vivere devono le parole della nostra fede. Le parole devono rinascere.
Oh, come ci accalcavamo intorno a lui! Le adesioni aumentarono vertiginosamente.
Ma questo era allora, e oggi è oggi.
Siamo rientrati nella cristianità, Paulus. Rinascono le persone, non le parole. Puoi vederlo alla televisione.
sabato mattina
Seguendo il proprio intuito, il detective in teologia raggiunse il distretto della Bowery che fornisce i ristoranti, sotto la Houston, dove c’è un intenso commercio di roba usata: scaldavivande, celle frigorifere, graticole, lavelli, pentole, wok e servizi di posate. Dietro la Taipei Trading Company, comprato da troppo poco tempo per avere il cartellino, c’era l’antico frigorifero a gas con l’impronta della suola della mia scarpa ancora sullo sportello, lì dove lo prendevo a calci quando non voleva rimanere chiuso. E in una delle scatole del reparto piatti usati, il servizio da tè del nostro office, bianco con un bordino verde, dono dell’ausiliaria delle care estinte.
Gesù, praticamente ho fatto il prezzo io. Con la spedizione gratis. Un furto.
sera
Arrivo in Tompkins Square e trovo il mio amico spacciatore sulla sua panchina.
Questo deve cessare, gli dico.
Mamma mia, come sei arrabbiato!
Tu non lo saresti?
Non come il Padre che conosco io.
Credevo che fra noi ci fosse un patto. Credevo che ci fosse un reciproco rispetto.
C’è. Siediti.
Passeri che beccano sulle panchine nelle prime ombre della notte.
Ti avevo detto che sarebbe stata una perdita di tempo, ma ho chiesto in giro come avevo promesso. Qui nessuno ha fregato niente nella chiesa di St Tim.
Da queste parti no?
È così.
Come fai a esserne sicuro?
Questo è territorio regolamentato.
Regolamentato! Divertente.
Adesso chi è che non mostra rispetto? È della mia parrocchia che stiamo parlando. La Chiesa della Dolce Visione. Loro contano su di me, mi sono spiegato? Sanno che sono indulgente. Nessuno mi dice bugie. Saranno stati degli estranei o gente così, ecco quello che ho da dirti.
Diavolo! Immagino tu abbia ragione.
Nessun problema. Apre la borsa facendo scattare la serratura: ecco, la mia personalissima miscela. È gratis. Rilassati.
Grazie.
Come prova del mio affetto.
lunedì notte
Ho aspettato nella galleria del coro. Se ci fosse stato qualche movimento, mi sarebbe bastato premere il bottone e la mia Superbeam Bearscare3 a sei volt avrebbe colpito l’altare a trecentomila chilometri il secondo: la stessa velocità di crociera del dito di Dio.
La luce ambrata dei lampioni anticrimine dell’isolato trasforma la mia chiesa in un’ideale scena del delitto. Sotto le sue volte si respira una specie di aerea sostanza caliginosa. Le figure di vetro colorato ingialliscono in una livida obsolescenza. Per quanti anni questa chiesa è stata la mia casa? Ma per comprendere la verità della sua stolida indifferenza io non dovevo far altro che star seduto in fondo per qualche ora. Come cigola un banco di quercia. Come una sirena della polizia di passaggio con la sua doppleriana bitonalità è una specie di crisi archiviata tra le sue mura di pietra.
E poi, Signore, lo confesso, mi sono appisolato. Padre Brown non l’avrebbe mai fatto. Ma ci fu quel fracasso, come se qualcuno avesse fatto cadere un’intera pila di piatti. Ancora l’office: avevo immaginato che mirassero all’altare. Trascinai di corsa la mia mole giù per le scale, impugnando la Superbeam come una clava. Urlavo, credo. Qualcosa sul genere di “Con l’aiuto di Dio per Tommy, l’Inghilterra e St Tim!” Quanto avevo dormito? Mi fermai sulla soglia, trovai l’interruttore; e quando fai così, per un momento, l’unico senso che funziona è l’odorato: in quell’office deserto, hashish. Puzzo di sudore maschile. Ma anche l’effluvio pungente e sanguinario dei feromoni femminili. E qualcos’altro, qualcos’altro. Come un rossetto, forse, o un leccalecca.
Gli armadietti dei piatti: qualche vetro si era rotto, tazze e piattini in cocci sul pavimento, una tazza che dondolava ancora.
La porta sul vicolo era aperta. L’impressione di qualcosa d’ingombrante che si muove là fuori. Un cavernoso schianto metallico mi fa vibrare, salendo dai calcagni. Qualcuno impreca. Sono io che armeggio con quella maledetta pila. Punto il raggio verso l’esterno e vedo nettamente un’ombra che si rialza, qualcosa con angoli retti nell’istante subito svanito in cui ha girato l’angolo.
Torno in chiesa di corsa e la rischiaro col mio lumicino. Dietro l’altare, dove avrebbe dovuto trovarsi la grande croce d’ottone, c’era solo l’ombra del Tuo crocifisso, Signore, sulla tinta non sbiadita scelta dal cattivo gusto del mio predecessore.
Cosa disse il vero detective? Mi creda, Padre. Lavoro in questo distretto da dieci anni. Possono introdursi in una sinagoga per rubare la… come si chiama?, la Torah. Perché è scritta a mano? Perché non è un oggetto prodotto in serie? Frutterà, come minimo, cinquemila svanziche. Mentre il valore contabile della sua croce dev’essere zero. Nada. Senza offesa, siamo parenti, io sono cattolico, vado a messa, ma fuori di qui niente, non è altro che un rottame di ferro. Cristo, che massa di pervertiti!
martedì
Parlare col “Times” è stato un errore. Un giovanotto tanto simpatico. Non avevo capito niente finché non hanno preso la croce, gli ho detto. Credevo che fossero solo dei tossici in cerca di qualche dollaro. Forse loro stessi non avevano capito. Se sono arrabbiato? No. Ai furti ho fatto l’abitudine. Quando la diocesi mi ha scippato il programma di aiuti alimentari ai senzatetto per fonderlo con un altro in un’altra zona della città, ho perso gran parte dei miei parrocchiani. Quella sì che è stata una rapina in grande stile. Così adesso questa gente, chiunque sia, ci ha soffiato la croce. In principio mi ha dato un po’ fastidio. Ma ora comincio a vederla diversamente. Chiunque abbia rubato la croce, be’, capisco che doveva farlo. E non sarebbe un bene? Che Cristo vada là dove c’è più bisogno di lui?
mercoledì
Squilla il telefono, così forte da traballare dalla forcella. Il vescovo, in preda a un freddo furore. Ma anche promesse di aiuti, assegni che arrivano. Compreso qualcuno della vecchia compagnia, ora in combutta con la mia cara moglie, che trovava bizzarro il mio modo di esprimersi, come ascoltare Mozart su strumenti d’epoca. Ora Tommy ci suonerà qualche devozione sulla sua viola da gamba. Sono novecento e rotti. Non dovrò aspettarmi un’altra truffa? Te lo dico io, Signore, questa gente non capisce. Cosa dovrei fare, mettere una barriera di filo spinato? Barricare la mia chiesa come il Reichstag?
Telecamere e telecronisti dappertutto. Che bussano alla porta. SOS, SOS! Solleverò il telaio dietro questa scrivania, mi lascerò cadere agilmente sulla distesa di macerie, passerò sotto la finestra di Ecstatic Reps, dove la signora coi piedoni sta marciando sul suo nastro trasportatore, e me la svigno. Grazie mille.
* * *
— Si aggiunga che… l’invisibile, inafferrabile neutrino, frutto – finora – solo di deduzioni, ha una massa rilevabile. Come lo si verifica? Esiste questa setta dei fisici dei neutrini che costruiscono in tutto il mondo, nell’interno delle montagne, sotto il mar Egeo, sul fondo del lago Baikal in Siberia, in gallerie sotto le Alpi, sotto la calotta di ghiaccio dell’Antartide, immensi serbatoi atti a contenere acqua pesante… per poter osservare gli sveltissimi neutrini capaci di scivolare con tanta facilità, senza fatica, attraverso il diametro della terra, come pipistrelli che di notte ti sfiorano il lembo posteriore dietro l’orecchio scompigliandoti un ciuffo di capelli col vento delle ali, e rilevare con potenti sensori luminosi il basso voltaggio emesso dai neutrini che si tuffano nelle gigantesche vasche buie di purissima acqua pesante… Qualcuno dice che fu Enrico Fermi il primo a sostenere la necessaria esistenza del neutrino. Può avergli dato il nome, ma – all’insaputa di tutti tranne me – il neutrino fu scoperto al Liceo scientifico del Bronx, in sala studio, un pomeriggio del 1948, quando quello stupido ciccione, Seligman, mi chiese il compito di algebra da copiare e in cambio mi accordò il privilegio di sapere che aveva dimostrato l’esistenza di una particella subatomica priva di ogni proprietà fisica. Era così eccitato che, cosa piuttosto sgradevole, mi spruzzò di saliva e di parole. D’altra parte, per il compito ricevemmo tutt’e due un voto pari a cento.
Ebbene, se il neutrino, dopotutto, ha una massa ed è presente in modo rilevante in tutto l’universo, perché… questo non dovrebbe definire la materia scura? E non fa forse pensare che lo spazio non sia vuoto, non sia solo la misura di distanza tra gli oggetti, ma una sostanza qualificata in sé e per sé… e così al di là della nostra capacità di rilevarla – come il fischio con cui si chiama un cane, come uno spettro – che, malgrado tutte le ricerche scientifiche di noi secchioni, stiamo solo cominciando a capire che siamo appena all’inizio? Cioè, se l’universo ha questa massa, cesserà inevitabilmente di gonfiarsi? Ci sarà questo momento di pace, un universo in un punto stazionario, tutto perfettamente immobile e poi, con un piccolo gemito e uno scricchiolio, passerà tranquillamente alla fase di contrazione e lentamente, e poi più rapidamente, si risucchierà dentro di sé? E poi cosa? Lasciamo perdere il Big Crunch. Cosa si sarà lasciato dietro, cos’avrà sgombrato? Nulla? Com’è possibile che non resti nulla? Era quello che Leibniz voleva sapere: com’è possibile, diceva, che non ci sia nulla? E se i neutrini, dirigendo gravitazionalmente l’universo con la loro innumerevole, incalcolabile e scura materialità… fossero le anime dei defunti? È mai stata presa in considerazione, questa ipotesi, dai cervelloni del Liceo scientifico del Bronx?
Cristo, forse sto diventando matto.
* * *
— Il Midrash4 Jazz Quartet suona i classici
ME AND MY SHADOW
Me and my shadow,
Strolling down the avenue.
Me and my shadow,
Not a soul to tell our troubles to…
And when it’s twelve o’clock
We climb the stair,
We never knock
For nobody’s there,
Just me and my shadow
All alone and feeling blue.5
La canzone parla di se stessi,
seguiti come un’ombra dalla solitudine,
il cantante può essere l’ombra di se stesso,
forse potrebbe cantare: “Io e l’io che è un’ombra
di me stesso
siamo qui in questo viale senza nome,
non vediamo nessun altro intorno a noi,
dipenderà dal fatto che sono sotto il melo
e hanno lasciato tutta la città alla mia ombra
e a me”.
Dice che la Caduta dell’Uomo è un tormento:
“Non sento altri passi che i miei
e il viale si prolunga, rettilineo,
tra i palazzoni
per chilometri e chilometri, e i semafori diventano verdi
e i semafori diventano rossi,
come se contasse, come se ci fossero
taxi e camion e macchine e autobus
paraurti contro paraurti, infernali baraonde
di clacson strepitanti, poliziotti
che soffiano nei fischietti,
un fiume di gente, anime turbinanti,
il viale che scorre fino all’orizzonte
con milioni di persone nessuna delle quali sono io.
Ma non è quello che vedo. Sono solo soletto,
getto la mia ombra su un marciapiede assolato
affrettando il passo nella strada della mia schiavitù
incatenato alla mia ombra, osso a osso”.
Poi il cantante ode la pendola battere dodici colpi:
è mezzogiorno o la dodicesima ora della notte?
È la fine del tempo, la fine del tempo
della Sua pazienza?
La via del cantante al paradiso è una porta
aperta nello spazio.
Lui pensa: se dietro questa porta
non c’è il paradiso…
Se per questo povero mortale non c’è altro,
perché mi hanno portato qui,
che senso ha questa vita?
(applausi esitanti)
Ma pensate un attimo a cosa significa un’ombra,
il sole è nel suo cielo,
ecco quello che vuol dire,
forse questo non è il mondo che vorresti
ma è il mondo di Dio, c’è il bene, c’è il peccato,
dobbiamo imparare la differenza
sempre da capo,
la tua ombra è la luce del Signore
che non passa attraverso di te,
sei denso, sei opaco,
questo dovrebbe dirti qualcosa,
per amor di Dio!
Alle dodici, quando il mio tempo scadrà?
So che salirò la scala che porta
in paradiso!
Li sentirò dire: non occorre bussare,
la porta è aperta!
Sentirò la Sua luce celestiale splendere su di me
e quando mi volterò la mia ombra sarà sparita!
Rispedita giù a prendere un’altra anima!
O giorno felice, quando la campana
si metterà a suonare
per tutte le povere anime della terra…
Non saranno tristi, ve lo dico io,
Quando scopriranno che passo passo
hanno raggiunto
la Sua Gloria!
(applausi entusiastici)
Il cantante sta dicendo: «Di tutte le pene che ho patito
l’ultima e la peggiore è la pena di non avere
mai nessuno cui confidare le mie pene».
In realtà sta dicendo: «Sarei libero da ogni pena
se, oltre a me, avessi qualcuno che mi ascolta».
Questo è un canto funebre per un perduto amore
che ricorda il tempo della felicità passata
quando lui era metà di una coppia bella e affascinante
che faceva quattro passi nel giorno dedicato al riposo,
mentre oggi ha per compagna solo la sua pallida ombra.
E non è come se questa non fosse una scena festosa
tutta a colori, vivace e movimentata,
con altre coppie belle e affascinanti
che il sabato passeggiano sotto le bandiere
nel tepore del sole mattutino
tanto che potrebbe essere il corteo pasquale
della popolazione cittadina…
Niente affatto. Gli altri abitanti di questa città
escono di casa col vestito migliore
mentre per lui, che canta una nenia
del perduto amore dell’anima sua,
solo, indipendente, lui è atonale,
lui è una dissonanza.
E quando raggiunge la meta
di tutte le creature seguite da un’ombra,
il più muto e misterioso
dei palazzi,
prima che possa bussare la porta si spalanca
e lui entra nel buio
dell’ombra gettata da Dio.
E il cantante deve ammettere
mentre varca la soglia:
«Nella Sua ombra io nulla sono, non ho più
neanche la mia ombra».
(sporadici battimani)
Fammi ombra
fatti ombra
cosa l’ombra
mai farà…
Nata all’alba,
quatta quatta,
si rintana
a mezzodì,
Poi la sera
con la luna
cessa il pianto
e sparirà.
— E se non ci fosse il paradiso, ma solo una porta?
— Non ho più neanche la mia ombra…
— Non conosciamo la gloria verso la quale stiamo andando…
— Sparita, l’ombra è sparita.
Me and my shadow,
Strolling down the avenue.
Me and my shadow,
Not a soul to tell our troubles to…
(grandi applausi)
* * *
— Che l’universo, compresa la coscienza che ne abbiamo, abbia cominciato a esistere per un colpo di fortuna, che questo scuro universo di grandezza incalcolabile si sia autogenerato accidentalmente… è ancora più assurdo dell’idea di un Creatore.
Einstein era un fisico che non si trovava a disagio con il concetto di un Creatore. Aveva l’abitudine di chiamare Dio “Il Vecchio”. Era questo il nome che gli dava, Il Vecchio. Non era uno scrittore elegante, Albert, ma sceglieva le parole per la loro precisione. In un modo o nell’altro Dio è molto vecchio… perché negli anni Cinquanta gli archeologi scoprirono nell’Italia occidentale, sulla costa tirrenica dell’agro pontino, la grotta sacra di un ossario dei neanderthaliani. Trovarono il cranio di un maschio sepolto all’interno di un cerchio di sassi. Il cranio era stato segato all’altezza della mandibola e della fronte e usato come coppa. Ecco quant’è vecchio Dio. Dunque Einstein ha ragione. E Il Vecchio… perché Dio è per definizione unico, non solo non duplicabile e omnicomprensivo, ma anche asessuato. Perciò l’espressione è davvero molto esatta: Il Vecchio. Non tanto nel senso di una rivelazione, naturalmente. Albert pensava al suo lavoro nella fisica come a un inseguimento di Dio, come se Dio vivesse nella gravità, o facesse la spola tra la forza nucleare debole e la forza nucleare forte, oppure ogni tanto lo si potesse scorgere mentre si spostava indolentemente a trecentomila chilometri al secondo… non proprio il Dio premuroso che la gente prega o supplica, ma, diamine, è un inizio, è qualcosa, se non tutto ciò che abbiamo se vogliamo essere coerenti con noi stessi.
* * *
— Il furto
mercoledì
Trish aveva gente a cena quando sono arrivato lì. Il cameriere del servizio catering che mi ha fatto entrare mi ha preso per un ritardatario. Ora che ci penso, guardavo dritto davanti a me mentre passavo davanti alla sala da pranzo, un millisecondo, giusto? Eppure ho visto tutto: quale argenteria, il centrotavola floreale… È la sera della paillard di vitello. Château Latour nelle caraffe Steuben. Oh, che spreco. Due degli speranzosi presenti, il diplomatico francese alle Nazioni Unite e l’enfant prodige dei fondi comuni d’investimento. Probabilità a favore del francese. Gli altri, tutte comparse. Straordinario il baccano che dieci persone possono fare intorno a un tavolo. E nello stesso millisecondo di luce di candela, l’occhiata di Trish da sopra l’orlo del bicchiere di vino portato alle labbra, quegli zigomi, i ridenti occhi blu, l’acconciatura pietrificata. Quella frazione di un istante del mio passaggio davanti alla porta era tutto ciò di cui aveva bisogno, dal capo del tavolo più lontano, per vedere di me ciò che doveva vedere, per capire, per sapere perché ero sgattaiolato a casa. Ma non è terribile che, dopo che tra noi tutto è finito, le sinapsi continuino a lanciare coordinatamente i loro impulsi? Cos’hai da dire di questo, Signore? Con tutti i problemi che ci dai, non abbiamo neanche trovato il tempo di parlare delle Tue piccole perversioni. Quando un istante – volevo dire – è ancora la sacca capace e vibrante di tutta la nostra intelligenza? Ed è sempre colpa della stessa stupida biologia se, per quanto io mi senta attratto da un’altra donna, i miei polpastrelli notano subito che non è Trish?
Ma la sala da pranzo era il meno. È una bella camminata lungo il corridoio fino alla stanza degli ospiti, quando le bambine sono a casa per il weekend.
Andiamo a batteria, Signore, ho dimenticato il trasformatore. E sono sfinito. Perdonami.
* * *
Nell’e-mail:
“caro padre se vuoi sapere dov’è la tua croce vai al 2531 della 168esima strada ovest int. 2A dove padre oombalah della santeria legge il futuro con le conchilie e sgoza le galine.”
“Caro Reverendo, siamo due missionari della Chiesa di Gesù Cristo dei Santi dell’Ultimo Giorno (mormoni) assegnati al Lower East Side di New York…”
“Caro Padre, faccio parte di un gruppo di suoi vicini nel limitrofo New Jersey che hanno giurato solennemente di difendere questa Repubblica e il nome di Nostro Signore Gesù Cristo dagli intrusi pagani e forestieri ogniqualvolta possano presentarsi, anche se a nome del governo federale. E quando dico ‘difendere’ intendo ‘difendere’, con abilità e intelligenza organizzativa; e l’unica cosa che capisca questa gente è il Fucile, che come americani bianchi e liberi abbiamo il pirrilegio d’imbracciare…”
* * *
— Oggi pomeriggio, mentre giacevamo supini fianco a fianco, Moira mi ha parlato di sé. È cresciuta in una famiglia operaia della Pennsylvania. È andata per due anni alla Penn State prima di abbandonare gli studi e partire per New York. Pensava che sarebbe stato bello lavorare nell’editoria, ma intanto faceva una sostituzione temporanea negli uffici della direzione di una società quando il caso ha voluto che il suo futuro marito, il direttore generale, la notasse. Il resto della storia lo conoscevo già. Lui l’ha assegnata al gruppo delle sue segretarie, l’ha portata fuori qualche volta, le ha fatto la dichiarazione e ha deciso di porre fine al proprio ventennale matrimonio. Tra i dirigenti d’azienda si constata, invariabilmente, che la vita è un business. C’è una crudeltà operativa che è vista come un diritto. In un’altra epoca, quella delle ghette e dei cappelli a cilindro, sarebbe potuto andare a teatro a scegliersi una ragazza del corpo di ballo. Oggi non siamo più così iperbolici, abbiamo cultura, vere opere d’arte pendono dai muri degli uffici, e insaporiamo le nostre cene con un pizzico di cineasti e di romanzieri. Sappiamo chi era Wittgenstein.
Da parte sua, Moira ha troncato quel piccolo legame che aveva ancora con la propria famiglia non invitandola al matrimonio.
E questa è la genealogia della sua tranquilla sicurezza, e dell’aria incantevole che assume quando si mostra tutt’altro che impressionata dall’idea di essere tra loro, quell’aria che gli uomini e le donne del nostro ambiente, me compreso, hanno trovato tanto stuzzicante.
Mi sento ingannato, non da lei ma dalle apparenze: come sanno essere reali nella mia America! Non nutro alcun rancore per suo marito, lo conosco appena. È una figura importante nel mondo degli affari, citata spesso negli articoli dei giornali che parlano di economia. Lei dice che è un bambino che ha bisogno della sua incessante ammirazione e dei suoi elogi. Si preoccupa costantemente della propria posizione nel mondo degli affari, e lei deve ascoltare le sue storie tormentate di cose che in realtà non capisce e sopportare le sue brusche oscillazioni personali dalla vanità e dall’orgoglio a una lamentosa mancanza di autostima. È afflitto da paure senza nome, ha sudorazioni notturne e spesso esprime il timore che tutto ciò che ha fatto per se stesso, tutto ciò che possiede, un giorno gli sarà portato via. Me compresa, ha detto a mo’ di conclusione.
Si è girata sul fianco. Sorrideva. Me compresa, ha ripetuto in un sussurro, e poi mi ha messo la lingua nell’orecchio.
* * *
— Quando una canzone diventa un classico, può riprodursi da una delle sue parti componenti. Se reciti le parole sentirai la melodia. Canticchia la melodia e nella mente ti si formeranno le parole. Questo è il segno di uno straordinario potere autoreferenziale: l’equivalente fisico sarebbe la rigenerazione di un arto o la clonazione di un essere vivente da una cellula. I classici di ogni fase della nostra vita ci restano stampati nel cervello come un indice analitico, per essere richiamati in tutto o in parte, o per essere ricordati spontaneamente. Nessun’altra cosa può evocare con altrettanta forza e altrettanta immediatezza gli aspetti, le sensazioni, gli odori del nostro passato. Nel segreto della nostra mente usiamo i classici come indizi dei nostri atti e dei nostri rapporti. Possono essere un economico strumento terapeutico di autoanalisi. Se, ad esempio, sei perdutamente innamorato e pensi a lei e non vedi l’ora d’incontrarla, prendi nota dell’aria che stai canticchiando. È “Just One of Those Things”? La relazione finirà presto.
* * *
— Il furto
ieri, lunedì,
voice mail da un rabbino, un certo Joshua Gruen della sinagoga dell’Ebraismo Evoluzionista nella Novantottesima Strada Ovest: è nel suo interesse, Padre, che ci vediamo il più presto possibile. Chiaramente non è uno dei pazzoidi. Quando lo richiamo è cordiale, ma non vuole rispondere a nessuna domanda per telefono. Okay, dunque, non è così che fanno i detective? I detective, Signore, indagano. Dalla voce aveva tutta l’aria di una persona seria, che parlava da religioso a religioso, ci vado in borghese o in divisa? Opto per l’abito talare.
La sinagoga è un edificio di arenaria rossiccia tra West End e Riverside Drive, un’erta rampa di scalini di granito che si arrestano davanti alla porta. Ne deduco che l’Ebraismo Evoluzionista deve comprendere l’aerobica. Ne ho la conferma quando vengo ricevuto. Joshua (il mio nuovo amico) è uno snello giovanotto di un metro e settantacinque in jeans, maglietta e scarpe da jogging. Mi dà una robusta stretta di mano. Trentadue, forse trentaquattro anni, mento volitivo, fronte alta e bombata. Niente yarmulke sui capelli neri e ricci.
Un salotto-soggiorno convertito con un’Arca a un’estremità, un podio per leggervi la Torah, scaffali con libri di preghiera, qualche fila di sedie, ed eccola lì, quella è la sinagoga.
Primo piano, mi presenta alla moglie, che interrompe la comunicazione telefonica pregando l’interlocutore di aspettare, si alza dalla scrivania per stringermi la mano, rabbino anche lei, Sarah Blumenthal, in camicetta e pantaloni, sorriso accattivante, zigomi alti, niente trucco, non ne ha bisogno, capelli chiari con un taglio molto moderno, occhialini da nonna, Dio, il mio cuore. È uno dei vice rabbini di Temple Emanuel. E se Trish si mettesse in abito talare e celebrasse con me l’eucaristia? Okay, ridete, ma a pensarci bene non c’è niente da ridere, non c’è proprio niente da ridere.
Secondo piano, faccio la conoscenza dei figli, due maschi di due e quattro anni, nel loro ambiente naturale di pareti fatte di scatole verniciate nei colori fondamentali piene di animali imbottiti. Si aggrappano ai fianchi della loro bruna bambinaia guatemalteca, presentata anche lei come un membro della famiglia…
Sulla parete di fondo del pianerottolo al secondo piano c’è una scaletta di ferro. Joshua Gruen ascende, apre una botola, esce dall’altra parte. Dopo un attimo la sua testa si staglia sullo sfondo del cielo blu. Mi fa cenno di salire, povero Pem, senza fiato, così stressato e attonito… così deciso a non mostrare la fatica che non riuscivo a pensare ad altro.
Finalmente mi raddrizzai sul tetto piano, col profilo dei vecchi condomini di West End Avenue e Riverside Drive ai due estremi di questo isolato di tetti in arenaria punteggiati di camini, e cercai di tirare il fiato e sorridere allo stesso tempo. Il sole autunnale dietro gli edifici residenziali, sul viso la brezza del fiume del tardo pomeriggio. Sentivo l’allegria e la lieve vertigine che ti prendono quando stai su un tetto… e solo quando venni richiamato all’ordine dall’espressione sconcertata e francamente interrogativa del rabbino, un’espressione che mi chiedeva perché credevo che mi avesse portato lassù, cominciai a chiedermi perché mi avesse portato lassù. Le mani in tasca, lui accennò col mento alle case della Novantottesima Strada e là, distesa sul nero tetto catramato, con il braccio orizzontale esattamente parallelo alla facciata dell’edificio e il montante appoggiato al frontone di granito, i due metri e mezzo d’ottone cavo della croce della chiesa episcopale di St Timothy giacevano anneriti e lucenti al sole autunnale.
Credo di aver capito che l’avrei trovata nel momento stesso in cui avevo udito la voce del rabbino. Mi chinai per osservarla meglio. I vecchi bozzi e le vecchie ammaccature. E qualche segno nuovo. Non era tutta d’un pezzo, cosa che ignoravo: i bracci erano fissati al montante con una specie d’incastro. La sollevai. Non era così pesante, ma era chiaramente una croce troppo grande da portare attraverso le stazioni della metropolitana.
Come aveva fatto il rabbino Joshua Gruen a sapere che era lì?
Una telefonata anonima. Una voce maschile. Pronto, Rabbi? Il suo tetto brucia.
Il tetto bruciava?
Se i bambini fossero stati in casa li avrei portati fuori e avrei chiamato i pompieri. Così, invece, ho preso l’estintore della cucina e sono salito. Non era la cosa più intelligente. Naturalmente il tetto non bruciava. Ma, per quanto modesta, questa è una sinagoga. Un luogo di preghiera e di studio. E, come vede, i piani superiori sono occupati da una famiglia ebrea. Si era dunque sbagliato, il telefonista?
Si morde le labbra, distogliendo gli occhi castani dalla croce. Per lui è un simbolo esecrabile. Che sta imprimendo il suo marchio rovente sulla sinagoga. Che la sta bruciando, un piano dopo l’altro, come lo stampo di una chiesa cristiana. Vorrei dirgli che io sono nel Comitato per la Teologia Ecumenica della Fratellanza Transreligiosa. Membro del Consiglio Nazionale dei Cristiani e degli Ebrei.
È deplorevole. Sono davvero spiacente.
Non è colpa sua.
Lo so, dico. Ma questa città sta diventando sempre più strana.
I rabbini mi offrirono una tazza di caffè. Ci sedemmo in cucina. Mi sentivo molto vicino a loro, entrambe le case di Dio profanate, tutta la tradizione giudaico-cristiana caduta in mano ai vandali.
Questa gang mi sta saccheggiando da mesi. E per quello che hanno ottenuto con tanta fatica, ecco, un colpo in una lavanderia a secco gli avrebbe fruttato di più. Senta, Rabbi…
…Joshua.
Joshua. Lei legge romanzi gialli?
Si raschiò la gola, arrossì. Solo in ogni momento libero, disse Sarah Blumenthal con un sorriso.
Be’, uniamo le nostre forze. Abbiamo due misteri da risolvere, qui.
Perché due?
Questa gang. Non posso credere che il loro intento fosse, in definitiva, quello di commettere un atto antisemita. Non hanno intenti, individui simili. Non sono di questo mondo. E dal Lower East Side tutta questa strada fino all’Upper West Side? No, è chiedere troppo alla loro intelligenza.
Allora è qualcun altro?
Dev’essere così. Qualcuno gli ha tolto la croce dalle mani… se non l’ha trovata per caso in un cassonetto della spazzatura. E questa seconda persona, o più persone, l’intento ce l’avevano. Ma come hanno fatto a salire sul tetto? E nessuno li ha visti, nessuno li ha sentiti?
Angelina, che credo lei abbia visto con i bambini, lei aveva sentito dei rumori dal tetto, una mattina. Noi eravamo già usciti. È stato il giorno in cui sono andata a trovare mio padre, disse Sarah, guardando Joshua per una conferma. Ma il rumore non era durato a lungo e Angelina non ci aveva più pensato: forse era un operaio venuto a fare qualche riparazione. Noi riteniamo che siano passati da una delle case dell’isolato. I tetti confinano.
Ha fatto il giro dell’isolato? Ha suonato i campanelli?
Joshua scosse il capo.
E la polizia?
Si scambiarono un’occhiata. Per favore, disse Joshua. La comunità è nuova, nient’altro che un gruppo di studio, solo un inizio. Un germoglio. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è questo tipo di pubblicità. Inoltre, disse, è ciò che vogliono loro, chiunque l’abbia fatto.
Noi non accettiamo di essere identificati come vittime, disse Sarah Blumenthal guardandomi negli occhi.
E ora sai cosa ti dico, Signore, mentre sono di nuovo qui seduto nel mio studio, nella nuda e cadente galleria del coro? Che stasera soffro molto, privo come sono di una compagna come Sarah Blumenthal. Questa non è lussuria, e tu sai che se lo fosse io lo ammetterei. No, ma penso alla facilità con cui ho legato con lei, a come mi ha fatto sentire a mio agio, alla cordialità con cui mi ha accolto in queste difficili circostanze. C’è una freschezza, un’onestà in queste persone, nell’una e nell’altra, erano così sicure, così padrone di sé, una splendida giovane coppia con una vita serenamente consacrata… oh, che incrollabile fortezza familiare rappresentano, e, Signore, è un rabbino fortunato, Joshua Gruen, ad avere quella bella devota al suo fianco.
Era stata Sarah, a quanto sembra, a operare il collegamento. Lui era là seduto che cercava di capire in che modo affrontare la situazione e lei era tornata da una conferenza in qualche posto e quando lui le aveva detto cosa c’era sul tetto lei si era chiesta se non fosse la croce scomparsa di cui aveva letto sul giornale.
Io non avevo letto il pezzo ed ero scettico.
Hai pensato che era veramente troppo strano, un articolo di cronaca che ti casca in bocca, disse Sarah.
È vero. Cronaca è ciò che succede altrove. E rendersi conto di saperne più di quanto ne sapeva il giornalista? Ma abbiamo trovato l’articolo.
Non mi lascia buttare via niente, dice Sarah.
Per fortuna, in questo caso, dice il marito alla moglie.
È come vivere nella Biblioteca del Congresso.
E così, grazie a Sarah, ora abbiamo il legittimo proprietario.
Lei mi lancia un’occhiata e diventa rossa. Si toglie gli occhiali da professoressa e si stringe la radice del naso tra le dita. Vedo i suoi occhi un momento prima che gli occhiali tornino al loro posto. Miope, come una bimba di cui mi ero innamorato alle elementari.
Vi sono molto grato, dico ai miei nuovi amici. Oltre a tutto il resto, quella che avete fatto è una mitzvah.6 Posso usare il telefono? Voglio chiamare un furgone. La possiamo smontare, imballare e far uscire dalla porta principale, e nessuno saprà niente.
Sono pronto a dividere la spesa.
Grazie, non sarà necessario. Non occorre che glielo dica, ma ultimamente la mia vita è stata un inferno. Questo caffè è buonissimo, ma per caso non avete qualcosa da bere, eh?
Sarah si avvicina a un armadietto a muro. Scotch, va bene?
Joshua, sospirando, si appoggia alla spalliera. Ne berrei volentieri un goccio anch’io.
La situazione in questo momento: la croce smontata e accatastata come materiale da costruzione dietro l’altare. Non sarà rimontata e appesa in tempo per le funzioni domenicali. Bene, posso cavarne una predica. Là c’è l’ombra, l’ombra della croce sull’abside. Offriremo le nostre preghiere a Dio in nome del Suo indelebile Figlio, Gesù Cristo. Non c’è male, Pem, riesci ancora a tirar fuori queste cose da un cappello quando vuoi.
Mi ero quasi convinto che fosse proprio una qualche setta di nuovo genere. Pensavo: be’, li terrò d’occhio dall’altro marciapiede, li osserverò mentre smantellano St Tim mattone dopo mattone. Li aiuterò, magari. La ricostruiranno come chiesa popolare chissà dove. Espressione della loro semplice fede. Magari ci farò una capatina, ogni tanto ascolterò la predica. Imparerò qualcosa…
Poi l’altra idea, dichiaratamente paranoica: sarebbe finita a Soho, in un’installazione di quadri o di sculture. Aspettiamo qualche mese, un anno, e guarderò nella vetrina di una galleria e la vedrò là, debitamente abbellita, opera che esprime l’universo dell’autore. Gente in piedi che beve vino bianco. Questa, dunque, era la versione laica. Credevo di avere riempito tutte le basi. Sono scosso. Come devo interpretare questa strana cultura notturna di furtivi maniaci… questi stupidi ladri di oggetti senza valore che se ne vanno ridacchiando per le strade, portando cosa?, qualunque cosa sia, attraverso gli insipidi recinti del nichilismo urbano… con in testa il confuso riconoscimento di qualcosa che un tempo aveva un significato che, ridendo, non riescono a ricordare. Gesù, questo non può neanche dirsi un sacrilegio. Un cane che ruba un osso è più cosciente di quello che fa.
* * *
— Moira che si trasforma in una storia, una donna che scavalca le linee divisorie tra le classi. Lui è un po’ uno snob, no? Non sono sicuro che mi piaccia, se è capace di passare i pomeriggi al Met. Rimase scandalizzato quando lei gli ficcò la lingua nell’orecchio. Non soltanto la volgarità, ma come se fosse stato il gesto di una persona diversa da quella che lui aveva immaginato che fosse.
L’unico modo per adattarsi a questo consiste nel dare una bell’accelerata alla loro natura morale, nel metterci dentro un motore, ma allora non hai altro che un film.
Film: un tale allaccia una relazione con questa donna, la moglie elegantissima, il trofeo, di un dirigente d’azienda; sono tutt’e tre nel turbine dai vaghi confini della società newyorkese comprendente l’editoria, le arti, la pubblicità, il giornalismo, Wall Street.
Con un po’ d’incoraggiamento lei si dimostra un’amante appassionata senza rimorsi o recriminazioni. Lui non riesce a escogitare nulla che lei non sia pronta a sperimentare. Lui è creativo. Lei soddisfa ogni sua perversione e non gli tiene il broncio e non c’è mai niente che riesca a farle perdere la calma.
Adattandosi generosamente alle condizioni fissate da lui, s’impone di non chiedergli nulla più di quanto lui sia disposto a dare. Lui assume un controllo incontestato: quando si vedranno, come si comporteranno, quali atti lui immaginerà per lei nel torrido stato di abiezione in cui si trova. Lei è contenta di vederlo, di appagarlo e di appagarsi, e se ne torna a casa fino alla prossima volta.
Ma la resa totale della sua volontà, e la conseguente stabilità della relazione, cominciano ad annoiarlo. Lui estende il suo controllo alla vita coniugale di lei: quando dovrebbe astenersi dal fare sesso con il marito, quando non dovrebbe astenersi, quali vestiti deve mettersi, quale profumo, le cene che deve ordinare alla cuoca, i ristoranti dove deve chiedere di andare, la meta delle loro gite, fino alle lenzuola tra le quali lui dorme, al sapone nel portasapone. Gli ridà vigore controllare a distanza, tramite lei, le private circostanze della vita di suo marito.
Ora capisco che è un autentico stronzo. Perché dovrei avere qualcosa a che fare con lui? Un giorno, grazie alla sua accorta regia, il marito si trova con la moglie a Maui; e mentre lui, il marito, prende il sole su una spiaggia privata, l’amante è là nella sua suite a sfilare il costume da bagno alla moglie, a togliere i granelli di sabbia che trova nella piega inguinale della sua coscia e a presentarli sulla punta del dito alla parte più tenera della sua persona. La donna rimane senza fiato, non può più fare a meno del pericolo che lui è diventato per lei, della minaccia al suo benessere, al suo amor proprio, alla sua vita.
Un personaggio malvagio come questo dev’essere una star. Cioè, se fosse un bietolone grasso e calvo che succhia l’aria tra i denti, il pubblico ne sarebbe nauseato e offeso. Rivorrebbe il suo denaro. Perciò è snello, asciutto, e si prende molta cura di sé come fanno le persone profondamente infedeli. Corre e fa ginnastica quasi religiosamente, per non perdere la forma che gli spetta. Beve poco, non eccede in nulla tranne che nel tessere le sue trame. Non si sforza di riuscire simpatico agli altri, non indulge alla conversazione spicciola che serve a dimostrare l’innocuità della propria natura. Non alza mai la voce. Quando è divertente è sprezzante, quando si arrabbia è pacato e minaccioso. L’egoismo è distribuito così uniformemente su ogni aspetto della sua vita che non riesce visibile agli altri se non come una patina di snobismo, una misura di arroganza che, in una luce migliore, sarebbe una ferocia ben visibile. È questo che attira le donne. È questo che ha attirato lei.
Ora mi rendo conto che il suo noncurante garbo altoborghese di persona che conosce i piaceri della vita in materia di vino, cavalli, barche a vela e così via deriva dalla sua professione precedente, che era quella di agente della Cia specializzato nella programmazione di azioni clandestine con un passato di lavoro all’estero. Come potrebbe essere altrimenti? Mostra infatti la condiscendenza nei confronti della gente comune, che le notizie le legge sul giornale, di chi ha vissuto dall’interno le avventure geopolitiche della guerra fredda.
È un borghese come lei, nato – forse – nella parte alta dello stato di New York, anche se è sbagliato attribuirgli una collocazione precisa in quanto tutta la sua vita è stata una lotta per differenziarsi dalla specifica identità connessa a una regione o a una famiglia. Più precisamente, la sua indole morale nichilista, o forse solo la necessità di non far durare il film più di due ore, ha cancellato ogni bilanciamento caratteriale prodotto da una qualificazione etnica o religiosa.
A questo punto ha munito l’amante di una microspia per poter udire le conversazioni private del marito con lei, per poter cogliere le debolezze, le inflessioni della voce che tradiscono paura o rimorso, amore o bramosia. Il marito ha un che di molle sotto il mento, un atteggiamento un po’ infantile nei momenti più intimi, uno smodato desiderio degli elogi e dell’ammirazione di sua moglie. Stando al suo fianco lei si è sentita in carcere. Il dramma della sua vita professionale è per lei come una minaccia. Lei capisce che l’orgogliosa attenzione che suo marito le mostra in pubblico è una sorta di autocompiacimento, allo stesso modo in cui il marito non vuole andare in nessun posto e accettare nessun invito che col suo patrocinio non lo onori o non aumenti il suo prestigio.
Perché abbia accettato le proposte dell’amante dal cuore di tenebra è una cosa sulla quale la donna non ha le idee chiare, ma in realtà è la stessa cosa che provocò la sua reazione favorevole quando il marito dirigente d’azienda cominciò a farle la corte, con la sensazione, in entrambi i casi, di cavalcare un’onda che con la sua forza irresistibile l’avrebbe innalzata oltre ogni possibilità di libertà che poteva avere da sola. Ma ormai è legata all’amante e alle sue abitudini tanto quanto lo era a quelle del marito, e per lei la libertà si configura come sottomissione, come un’idea realizzabile solo nel proprio naufragio.
E così abbiamo in questi tre ruoli tre vite più o meno sganciate dalla realtà e vivificate da questo fatto. L’amante, da parte sua, immagina per la propria impresa un gran finale talmente pericoloso, talmente estremo, da decidere che la propria vita, finora alla deriva nella noia, nell’alienazione e nell’assenza di serie convinzioni, possa oggi riscattarsi ed essere riconcepita come una forma d’arte.
* * *
— Questo è il mio laboratorio, qui, nel cranio. Posso assicurarvi che è poveramente ammobiliato. In realtà, per modo di dire, il mio lavoro è consistito nel vuotare il mio laboratorio della roba che c’era dentro, dei becher, delle bilance graduate, degli armadietti, dei vecchi libri. Pur essendovi riuscito fino a un certo punto, ci sono ancora delle cose, qui, dalle quali sembra che io non riesca a separarmi: l’idea che l’universo sia stato progettato, che esistano alcune semplici regole, o leggi, leggi fisiche, dalle quali si possono derivare tutti i molteplici processi della vita e della nonvita. Vedete, dunque, che io non sono affatto l’insidioso rivoluzionario e sovversivo per il quale i nazisti di Hitler mi hanno fatto passare.
Certo, l’universo che tutti abbiamo visto e conosciuto da bambini è spiegato solo in apparenza dal grande e stimato Sir Isaac Newton. Quell’universo, con tutte le stelle nei cieli e i pianeti che girano nelle loro orbite e la notte che segue il giorno e le azioni che hanno reazioni e gli oggetti che cadono per forza di gravità… tutto questo sembra ben fondato, tranne che a una mente come la mia, e non è l’unica. Perché il modello meccanico dell’universo del mio riverito Sir Isaac si basa su una o due ipotesi che non possono essere provate. L’idea del moto assoluto e del riposo assoluto, per esempio, l’idea che qualcosa possa muoversi in senso assoluto senza alcun rapporto con tutto il resto. Questo è chiaramente impossibile, un concetto che non si può provare in modo empirico, rifacendosi all’esperienza. La nave che si muove sul mare lo fa in relazione alla terra. O, se preferite, in relazione a un’altra nave, muovendosi a maggiore o minore velocità. Oppure in relazione a un dirigibile soprastante. O a una balena sotto il mare. O alle correnti del mare stesso. Sempre in relazione a qualche cosa. E questo vale anche per i pianeti. Nell’universo non esiste nulla di cui si possa dimostrare il moto assoluto senza che sia in relazione con qualche altra cosa presente nell’universo o, se è per questo, senza che sia in relazione con l’universo nella sua totalità.
Ora, questa è una semplicissima insistenza sulla quale si basano tutti gli altri ragionamenti. Che moto assoluto e riposo assoluto siano falsi concetti che non si possono dimostrare. Ma, vedete, le implicazioni di questa mia pignola e testarda insistenza, l’insistenza che ci si occupi di queste cose solo nella misura in cui possono essere provate, sono enormi. Vi farò vedere, è molto semplice. Procederemo a un piccolo esperimento logico…
Se io sono su un aerorazzo che vola nello spazio a milioni di chilometri l’ora… e voi mi raggiungete col vostro aerorazzo e decelerate in modo tale che noi si voli fianco a fianco alla stessa velocità… e una persona che dorme in ciascuno dei nostri aerorazzi si sveglia e dal proprio finestrino guarda nel finestrino dell’altra… senza vedere i meteoriti e i frammenti di materia stellare che sfrecciano qua e là… ma vedendo solo l’interno delle reciproche cabine… non potranno dire, nessuno dei due, se gli aerorazzi si muovono insieme uniformemente o non si muovono affatto. Perché in entrambi i casi l’esperienza è la stessa.
Vedete com’è semplice? Io sono veramente un uomo semplice e parto dalle domande che farebbe un bambino. Per esempio, non ero molto più grande di un bambino quando mi chiesi che cosa sarebbe accaduto se avessi viaggiato alla velocità della luce. Nulla, nel nostro universo, può muoversi a una velocità maggiore di quella della luce. Sapete cosa significa questo? Significa che nel nostro universo non esistono processi istantanei, perché nulla può succedere più in fretta di quanto possa muoversi la luce, e la luce ha bisogno di tempo per andare da un punto all’altro. Significa, ad esempio, che una persona non può essere in due posti nello stesso momento. E anche, ad esempio, che non possono esistere gli spettri tanto cari a tante persone perché, non diversamente da ogni altra cosa, gli spettri non possono apparire e sparire come se non avessero bisogno di tempo per andare da un posto all’altro. Dunque, ciò di cui mi resi conto quando ero un bambino fu che, se avessi viaggiato alla velocità della luce tenendo uno specchio davanti a me, non avrei visto la mia immagine nello specchio perché, alla stessa velocità con cui l’immagine del mio viso illuminato si muoveva verso lo specchio, be’, altrettanto velocemente lo specchio si sarebbe allontanato. E nello specchio che tenevo davanti al mio viso non ci sarebbe stato niente da vedere. Eppure questo non sembra giusto. Si ha l’impressione che non dovrebbe essere così, eh? È un’idea piuttosto terrificante, in effetti, che se io mi muovessi alla velocità della luce non potrei avere nessuna conferma della mia esistenza da una fonte oggettiva di luce riflessa come uno specchio. Sarei come uno spirito nell’universo, materialmente inverificabile nel corso del tempo.
Così, da questo semplice esperimento logico ho dedotto quanto segue: nessun oggetto, né specchio né persona, e neanche una persona più esile di me, una che non si lasciasse ingolosire dalla Sachertorte o dal tè con la marmellata di lamponi o da una focaccina col burro, no, nemmeno la persona più magra della terra può muoversi attraverso l’universo alla velocità della luce. Poiché siamo sempre visibili a noi stessi negli specchi e agli altri, dobbiamo muoverci più lentamente di così, anche se la luce stessa si muove dalla superficie dei nostri cari visi e dai nostri specchi alla stessa costante estrema velocità. Noi siamo più lenti. Anche sui nostri aerorazzi più veloci. Sapete cosa accadrebbe se ci muovessimo intorno o più vicino alla velocità della luce, andando sempre più in fretta, da zero a trecentomila chilometri il secondo? Sapete cosa ci capiterebbe? Santo cielo, diventeremmo pesantissimi, tanto più pesanti quanto più aumenta la velocità, finché il nostro immenso peso o la nostra immensa densità sarebbe così grande che lo spazio intorno a noi s’incurverebbe nella nostra direzione e quello spazio noi lo risucchieremmo nella densità che avremmo intorno tanto che… per veloci che potessimo andare, diminuirebbe sempre più la possibilità di raggiungere la velocità della luce… perché più velocemente ci muovessimo, più grande sarebbe la massa che avremmo, e più grande fosse questa massa, maggiore diventerebbe la resistenza al nostro progresso… finché la volta celeste intorno a noi si piegherebbe e, deformandosi e storcendosi, renderebbe, tutti noi e se stessa, completamente irriconoscibili.
E da queste poche semplici riflessioni, riflessioni forse sciocche, ho scoperto alcune leggi, leggi fisiche, che a tal punto allarmano la gente da farla giungere alla conclusione che è impossibile far comprendere all’uomo della strada le cose di cui sto parlando, la rivoluzione che presumibilmente ho compiuto. Alla conclusione che io sono una specie di genio da rispettare o addirittura venerare, mentre voi vi grattate la testa e dite: Dio lo benedica. Guardate com’è buffo, con i capelli dritti che vanno da tutte le parti, forse perché ha cercato di volare dentro il suo specchio alla velocità della luce. Guardate la maglietta della sua tuta, i calzoni gualciti… Alla conclusione, non che questa tenuta sia pratica per lavorare, ma se dimentica di mettersi la giacca e la cravatta, dev’essere un genio. Il gesso con cui scrive le sue formule segrete sulla lavagna, il gesso gli si spezza tra le dita! Questo è il modo in cui quelli della carta stampata e della radio vi hanno risparmiato la fatica di pensare alle cose che ho da dire. È un’offesa non soltanto per me ma anche per voi, perché la mente umana – è naturale – può sempre scoprire la verità, perché, per quanto nascosta, la verità finirà per saltar fuori. E io non ho scoperto proprio nulla di rivoluzionario, perché vedo solo ciò che è sempre stato com’è ora e come, per quello che mi consta, sempre sarà. È solo che la nostra percezione è diventata più… percettiva.
Dunque: dopotutto, dell’universo del Vecchio, con certezza, possiamo dire solo quanto segue: che non c’è nulla di costante tranne la velocità della luce.
Dello spazio tutto ciò che possiamo dire con certezza è che è una cosa che si misura con il righello.
E del tempo tutto ciò che possiamo dire è che è una cosa che si misura con l’orologio.
Ma delle visioni teologiche e degli spaventi e delle urla di terrore che questo produce nel nostro cervello, vi prego, non attribuitemi la responsabilità.
* * *
— Non esistono canzoni sulla scienza degne di questo nome. Nessuna canzone ti dice che la forza di attrazione di due corpi è direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. Eppure la scienza qualcosa ci insegna sulla canzone: formule scientifiche descrivono le leggi in base alle quali funziona l’universo e suggeriscono con le loro equazioni che un equilibrio è possibile anche quando le cose sono apparentemente squilibrate. Altrettanto fanno le canzoni. Le canzoni sono compensatrici. Quando un cantante chiede: Perché mi hai fatto questo, perché mi hai spezzato il cuore?… la formula inerente è che la misura del tradimento è equivalente all’eloquenza del grido di dolore. I sentimenti subiscono trasmutazioni non meno rapide e perverse di quelle degli eventi subatomici, e quando si raggiunge la massa critica erompe una canzone, ma la quantità complessiva di energia pura rimane costante. E quando una canzone è buona, quando diventa un classico, dobbiamo riconoscere che esprime una verità. Come una formula, si può applicare a tutti, e non solo al cantante.
* * *
— Strano avvistamento sul molo, un grande airone azzurro che guarda da una parte, quasi dorso a dorso con un’egretta candida come la neve che guarda nella direzione opposta. Ecco perché ogni tanto tutti dovrebbero lasciare la città.
Con le stesse risorse alimentari, mi chiedo come facciano a tirare avanti, eppure eccoli là con quell’aria mutuamente indifferente. Io non ti guardo, ma so che ci sei. L’egretta si alza per prima, il collo teso, la gialla baionetta del becco puntata davanti a sé, un uccello bellissimo in volo, slanciato, simile a un idrovolante preraffaellita, ma con due occhi crudeli… e l’airone, con un’aria un po’ arruffata e la tonda macchia nera sulla spalla, col corpo piumato più bigio che azzurro, le zampe e i piedi lunghi e il becco nero. È un uccello meno aggraziato, un uccello meno splendido dell’egretta, anche se, con l’enorme apertura alare, mentre decolla, basso sopra l’acqua, raggiunge veramente l’imponenza di un aereo di linea. Ma ha un che di doloroso nello sguardo, ed è chiaramente un solitario, uno scapolo a cui farebbe comodo qualche attenzione femminile, una ripassatina, come me.
* * *
— Il furto
Telefonata da Joshua, il rabbino:
Se a proposito di questo vogliamo fare gli investigatori… partiamo da quello che sappiamo, non è così che ha fatto lei? Quello che so io, quello da cui posso partire, è che nessun ebreo avrebbe rubato la sua croce. Non gli sarebbe mai venuto in mente. Nemmeno nell’abisso della confusione prodotta da qualche droga.
Credo anch’io, dico, pensando: perché Joshua sente il bisogno di escluderlo?
La polizia le ha detto che sul mercato la sua croce non aveva alcun valore. Ma se qualcuno la vuole, allora un valore ce l’ha.
Per un rabbioso antisemita già sul posto, ad esempio.
Sì, è probabile. Questo è un quartiere misto, multiculturale. Può darsi che ci siano delle persone che non vogliono una sinagoga nel loro isolato. Non ho raccolto alcun segnale in questo senso, ma è sempre possibile.
Giusto.
Ma è anche possibile… mettermi quella croce sul tetto; be’, è una cosa che avrebbe potuto essere fatta anche da un fanatico ultraortodosso. È possibile anche questo.
Buon Dio!
Non dico che sia così. Sto solo cercando di considerare tutte le possibilità. C’è gente per la quale ciò che Sarah e io stiamo facendo, nel tentativo di riformare, rivalutare la nostra tradizione… be’, ai loro occhi è qualcosa di equivalente all’apostasia.
Non ci credo, dissi. Cioè, mi sembra inverosimile. Perché dovrebbe essere andata così?
La voce che ha detto che il mio tetto bruciava? Quella era una cosa che poteva dire un ebreo. Naturalmente non ne sono sicuro, posso sbagliarmi in pieno. Ma è una cosa sulla quale vale la pena di riflettere. Mi dica, Padre…
Tom…
Tom. Lei è un po’ più anziano, ne ha viste più di me, forse ha riflettuto più di me su queste cose. Nel mondo d’oggi, ovunque si volga lo sguardo, Dio appartiene agli atavisti. Ed è così feroce, questa gente, così sicura di sé… come se ogni umana conoscenza dopo le Scritture non fosse anch’essa una rivelazione divina! Voglio dire, che il tempo sia un anello? Lei non ha la stessa impressione che ho io, che tutto sembra correre all’indietro? Che la civiltà ha innestato la retromarcia?
Oh, mio caro Rabbi. Joshua. Che cosa posso dirti? Se è così, e Dio appartiene veramente agli atavisti, allora… questa è la sostanza della fede e questi sono gli effetti della fede. E noi restiamo a piedi, tu e io.
– lunedì
Le porte sono chiuse con il lucchetto. Nella cucina della canonica, appoggiato alla spalliera e in bilico sulle gambe posteriori della sedia con la rivista “People” in mano, c’è il vigilante di St Timothy appena assunto, campione della più tipica indolenza.
Mi conforta anche la donna di Ecstatic Reps. È là, come sempre, che cammina senza schiodarsi dallo stesso posto, con la cuffia sulle orecchie e i piedoni nella calzamaglia nera che vanno su e giù come due massi di Sisifo. Con l’oscurarsi del pomeriggio si frantumerà e si scioglierà nei verdi e nei celesti delle rifrazioni luminose sulla finestra.
Tutto, dunque, è come dovrebbe essere, il mondo è al posto suo. L’orologio a muro ticchetta. Non ho nulla di cui preoccuparmi all’infuori di quello che dirò agli esaminatori inviati dal vescovo che dovranno decidere il corso del resto della mia vita.
Ecco quello che dirò, per cominciare: “Miei cari colleghi, quella che voi oggi dovete esaminare non è una crisi spirituale. Mettiamolo bene in chiaro. Io non sono entrato in crisi, non ho avuto cedimenti, non ho dato segni di squilibrio, non mi sono perso d’animo. Vero, la mia vita privata è uno schifo, la mia chiesa sembra un rudere rimasto in piedi dopo la guerra, e poiché non sono tipo da chiedere consiglio o da entrare in qualche gruppo di sostegno, e Dio, come al solito, ha ignorato le mie comunicazioni (senza offesa, Signore), mi sento effettivamente un po’ isolato. Ammetterò persino che negli ultimi due o tre anni, no, negli ultimi cinque o sei anni non ho trovato nulla di meglio da fare, per la mia cronica disperazione, che andare a spasso per le strade di Manhattan. Ciononostante, le idee che desidero illustrarvi hanno un valido contenuto e, se è possibile che qualcuna di esse vi sembri allarmante, vi pregherei… vi suggerirei, vi raccomanderei, vi consiglierei… vi consiglierei di prenderle in considerazione per i loro meriti e non come testimonianza del declino psicologico di una mente per la quale un tempo avevate un certo rispetto… cioè, per la quale un tempo avevate un certo rispetto”.
Finora andiamo bene, no, Signore? Glielo servo su un piatto d’argento. Forse mi dimostro un po’ troppo permaloso. Dopotutto, cosa potrebbero macchinare? Nell’ordine delle probabilità: uno, un’ammonizione, due, un rimprovero formale, tre, censura, quattro, un mese o giù di lì in ritiro terapeutico seguito dall’assegnazione a una nuova sede brillantemente remota dove nessuno sentirà più parlare di me, cinque, pensionamento anticipato obbligatorio con tutti i benefici, sei, sospensione, sette, scomunica. Che diavolo!
A proposito, Signore, quali sono le mie idee con “un valido contenuto”? La frase m’è venuta così, spontaneamente. Dunque, qui ci vuole un piccolo aiuto. Tra una cosa e l’altra, col margine ridotto di attenzione che c’è oggi non me ne servono novantacinque, me la posso cavare con due o tre. Il fatto è che, qualunque cosa io dica, li metterà in allarme. Non c’è nulla di più traballante, in una chiesa, della sua dottrina. Ecco perché la difendono con le unghie e coi denti, no? Voglio dire, per soffermarci solo sulla parola che comincia per E, be’, eresia è un concetto giuridico, punto e basta. Intendo dire che lo scandalo dovrebbe essere Tuo, ma un eretico non può scandalizzarTi più di uno che sia espulso da un condominio per aver suonato il pianoforte dopo le dieci di sera. Perciò Ti prego, Signore, non permettermi di tirar fuori qualcosa che mi valga un semplice rimprovero. Fammi avere della roba buona. Parlami. Mandami un’e-mail.
Un tempo Ti sentirono parlare,
Tu stesso sei un verbo, anche se
da qualcuno ritenuto impronunciabile,
Si dice che Tu sia la Parola, e non dubito
che Tu sia l’Ultima Parola.
Tu sei il Signore nostro Narratore, che ha creato un testo
dal nulla, questa almeno è la nostra storia
di Te.
Ecco dunque il Tuo servo, il Reverendo Dott. Thomas Pemberton, non più (quasi) pastore della chiesa episcopale di St Timothy, che si rivolge a Te con una delle Tue invenzioni, uno dei Tuoi sistemi intonativi di schiocchi e grugniti, occlusive glottali e vibrazioni.
Non avrai pietà di lui, di questa povera anima tormentata dalla nostalgia per il Tuo Figlio Unico? Come investigatore è stato un fiasco, e non ha risolto nulla.
Ciononostante, può cercare Te? Dio? Il Mistero?
* * *
— Per assicurarvi ulteriormente che io non sono un genio dalle idee troppo astruse per la maggior parte del genere umano, permettetemi di darvi qualche informazione personale. Vedrete come sono state comuni le mie origini e come anch’io, al pari di tutti gli altri, sono stato preso nel vortice della storia spaventosa del mio tempo. Non ho detto una parola per i primi tre o quattro anni di vita e poi sono stato affetto da anchiloglossia. A nove anni parlavo ancora lentamente, quasi fossi alle prese con una lingua straniera, e in effetti per me era proprio così. Che importa! Ogni lingua è una traduzione da qualche altra cosa, e in quell’altra cosa io sono vissuto per settantatré anni.
Il mio primo ricordo è la pavimentazione di pietra di Ulm, quella sulla quale continuavo a sgambettare mentre ruotavo, e qualche volta mi dondolavo violentemente, intorno all’asse del polso, nella robusta stretta del mio papà. Ogni lastra arrotondata sulla quale strascicavo i piedi mi restituiva la sua massa ineluttabile. E come mai, mi chiedevo, le lastre erano sistemate così bene, come pagnotte nel forno del panettiere? Poi scoprii le tracce degli utensili degli scalpellini che rendevano ogni pietra diversa dalle altre pur essendo tutte uguali. Ogni pietra registrava la propria formazione, aveva il segno della sua parte di storia del lavoro umano, e le pietre tutte insieme rappresentavano un’infinità di decisioni nell’ambito di un unico progetto, quello di creare una strada percorribile. Come infatti era accaduto: una strada che saliva e improvvisamente si allargava in ogni direzione formando la grande piazza della cattedrale, lastricata anch’essa. Il mondo intero era di pietra. Carrozze e barrocci trainati da cavalli attraversavano il mio campo visivo con un grande e tonante acciottolio che non si traduceva, tuttavia, in un danno per me, e stivali mi passavano davanti agli occhi, e vortici di gonne femminili, e gli accaniti commerci di tutta la città si svolgevano sopra queste pietre scolpite separatamente e disposte l’una accanto all’altra tanto tempo prima. E all’ombra della cattedrale di pietra grande e nera io ebbi l’infantile rivelazione di camminare sui pensieri dei defunti. E così il lastricato di Ulm, il luogo medievale della mia nascita, è il mio primo ricordo: non il seno di mia madre, non il mio letto, non un giocattolo disperatamente amato, ma una strada, una via di transito da qui a lì.
La piccola officina di mio padre si trovava nella piazza della cattedrale. Lì, con lo zio Jakob, lui fabbricava motori elettrici. Si sentiva un magnifico ronzio, un rumore sommesso e intonato, un linguaggio di totale elisione, con parole inseparabili, dal significato istantaneo e incompleto al tempo stesso.
L’unica cosa che gli somigliava veniva dal canale che correva dietro la nostra casa per raccogliere le acque di uno degli affluenti minori del fiume Blau. Mia madre era molto innervosita dai bambini che giocavano sulla scarpata di pietra, buttando nel rivo i loro ramoscelli e le loro barchette di carta e seguendole di corsa per vederle portar via dalla corrente. Ma io ero un bambino stolido e silenzioso. Era come se non mi piacesse muovermi troppo in fretta sotto il peso della grossa testa, e così me ne stavo semplicemente là fermo ad ascoltare mentre l’acqua scorreva attraverso il canale lasciando sulle pietre la sua bava nera, fischiando e sciabordando nel passare come gli indaffarati cittadini di un altro universo tutti presi da una serrata conversazione.
Forse crederete, da queste osservazioni, che io attribuisca alla mia infanzia una percezione troppo acuta. È naturale, lo facciamo tutti. Andiamo avanti e indietro, revisionando di continuo la nostra mente. Il problema della mente è di enorme interesse, ma affrontarlo richiede un coraggio sovrumano. La mente che considera se stessa: rabbrividisco; è troppo vasta, uno spazio senza dimensioni, pieno di cosmici eventi che sono silenziosi e immateriali. Per il proprio equilibrio mentale è preferibile cercare Dio nel mondo esterno.
Ulm, naturalmente, fu distrutta durante la Seconda guerra mondiale. Ben prima di quella guerra mio padre e mio zio avevano trasferito la loro aziendina a Monaco, dove si proponevano di fabbricare dinamo, lampade ad arco, trasformatori e altre apparecchiature elettriche usate dalle municipalità. E per qualche tempo andò tutto bene. Vivevamo in un sobborgo, in una grande casa dietro un muro, dove c’era un giardino con qualche albero. Le sere di primavera erano piene del profumo dei fiori di melo, lì dove sarebbe nato il nazismo. E ora io avevo con me la mia sorellina Maria, di due anni più giovane, Maja, la mia compagna indivisibile, i cui enormi occhi nocciola mi facevano ridere e per la quale catturavo grilli da mettere in un vaso e facevo collane di denti di leone.
In quella casa, per l’insistenza di mia madre, cominciai a studiare il violino. Mia madre era musicista, una pianista di risoluta serietà. Per lei la musica era fondamentale nell’educazione di un essere umano. Rispettosamente io mi applicai sotto la tutela di Herr Schmied, un uomo imbronciato che si lasciava crescere i capelli in omaggio a Paganini e le cui dita erano ingiallite per le macchie di tabacco. Quanti anni passai prima di capire che le note erano intervalli, rapporti numerici, e che il suono era una proprietà di questi rapporti? Ma finalmente il sistema della musica mi si precisò e io tremai davanti alla sua bellezza, ogni pezzo la proposta di una costruzione logica e autosufficiente. Cominciai a studiare sul serio. Volevo dare precisione al mio archeggio; cercavo come un bisogno intellettuale la più pura risonanza di ogni nota, e la gioia di fare musica, specie insieme ad altri, mi sembrava una forma di viaggio mentale dentro un cosmo degno di tutta la mia fiducia. Bach, Mozart, Schubert… non ti tradiranno mai. Quando la esegui come si deve, la loro opera ha la natura dell’inevitabile, come nella grande matematica, che sembra sempre essere fatta di verità preesistenti.
Vi dirò, per contrasto, che cosa imparai a scuola. Avevo un insegnante al Luitpold Gymnasium. Quando entrava nell’aula ci alzavamo in piedi, e quando si stringeva tra le dita i risvolti di velluto della cappa e faceva un inchino ci mettevamo a sedere. Questo era assolutamente normale. Ma io avevo sempre pensato che la disciplina fosse il loro strumento per imporre il rigore intellettuale e tenere desta l’attenzione per le idee. Ed è questo il motivo per cui in quella scuola ridicola non si camminava ma si marciava, e ci si alzava e ci si sedeva all’unisono e si cantavano le declinazioni latine come se fossero giuramenti tribali. Era assolutamente offensivo, a mio giudizio, forse persino fatale. Dopo un trimestre o due quei ragazzi perdevano tutta la loro vivacità, se ne spegneva forzatamente ogni curiosità, se ne segnava irrevocabilmente il carattere, e durante l’intervallo io sedevo con le spalle all’edificio e li guardavo correre qua e là o lottare tra loro o prendere a calci un pallone, ma, qualunque fosse il gioco, cercando innegabilmente di ammazzarsi. Nella loro sventatezza, con le giacche delle divise tolte e ordinatamente accatastate perché non si sciupassero, quella che montava confusamente tra i compagni era la rabbia che avevano dentro e che covava sotto la cenere. Vedendo questo, dunque, io mi tenevo in disparte e sbrigavo il mio lavoro, che non era troppo impegnativo, senza mettere mai alla prova le ambiguità di una possibile amicizia con qualcuno perché era tutta una rovina, a parer mio, e una rovina interamente prodotta da quel principio germanico, chiaramente sbagliato, dell’educazione attraverso la tirannia. Sedevo nell’aula e lasciavo errare i miei pensieri. Il fratello di mia madre, Casar, mi aveva regalato un libro sulla geometria euclidea. Lo avevo letto come si leggono i romanzi. Per me era un libro entusiasmante, nuovo. E quel mattino sorridevo tra me, ricordando il magnifico teorema di Pitagora, quando tutt’a un tratto l’insegnante si fermò davanti a me e per riconquistare la mia attenzione mi batté sul banco la bacchetta che teneva in mano. Quando la lezione finì, mentre stavo per uscire insieme agli altri, mi chiamò in fondo all’aula. Dalla cattedra abbassò lo sguardo su di me. Aveva una faccia tonda e lucida, quell’insegnante, che mi faceva pensare a una mela caramellata. In una faccia come quella si sarebbero potuti affondare i denti, pregustando la polpa che c’era sotto il duro strato della glassa. Tu hai una cattiva influenza sulla mia scolaresca, Albert, disse. Ti farò trasferire. Non capivo. Domandai cos’avevo fatto di male. Stai seduto là in fondo a sorridere e sognare, disse lui. Se non ho l’attenzione di tutti gli studenti, come posso mantenere il rispetto di me stesso? Con quella frase imparai in un lampo il segreto di ogni dispotismo.
Questo stesso insegnante – o forse era un altro, con la stessa facilità sarebbe potuto essere ognuno di loro, ma non importa – un giorno in classe ci mostrò il chiodo arrugginito che teneva tra il pollice e l’indice. Un chiodo come questo fu piantato nelle mani e nei piedi di Cristo, disse, guardandomi fisso.
A proposito del quale, povero Gesù, a proposito di quell’ebreo e del sistema costruito sul suo nome, dirò soltanto questo: quale scherzo mostruoso gli ha fatto la storia.
* * *
— Walt Whitman ci garantisce la trascendenza del trambusto e del chiasso di New York, la sublimità, l’esuberante arroganza della spinta vitale. Ma le immagini possono mentire? Quelle vecchie stampe al nitrato d’argento… I barrocci e le carrozze, i tram, i treni della sopraelevata e i velieri ormeggiati nel porto… Una città sempre in moto, grandi cantieri edili cinti da armature di legno, strade segnate da funicelle. Uomini in ginocchio che posano lastre di pietra, grandi soffitte dalla luce fioca piene di donne alla macchina da cucire, uomini in maniche di camicia e bombetta in posa sulla soglia delle loro mercerie, file e file d’impiegati dietro i loro alti scrittoi, donne in camicetta e gonna lunga che insegnano a scolaresche di bambini, coppie che salutano altre coppie nella Fifth Avenue, pattinatori imbacuccati sul ghiaccio del laghetto in Central Park… Questa è la città che abbiamo costruito, l’indiscutibile geografia dell’anima nostra, ma queste persone non siamo noi, abitano la nostra città come se ne facessero parte, la presunzione del loro diritto alla città è in ogni gesto, in ogni sguardo, ma non siamo noi, questi sono degli estranei che abitano nella nostra città, anche se vagamente familiari, come gli sconosciuti dei nostri sogni.
Sento questa immobilità, l’immobilità di chi ascolta una storia della quale conosce la fine. Quelli che contemplo sono tempi in cui la gente aveva una storia da recitare e le strade sulle quali camminava erano passaggi narrativi. Che razza di parola è “infrastruttura”? È una parola che dimostra che abbiamo perduto la nostra città. Le nostre strade sono fatte per transitarvi. Le nostre storie vengono smontate, i grattacieli che ci rinserrano deridono l’idea di una cultura credibile.
Cristo, che sbaglio indicare il ponte di Brooklyn o Soho o le case a schiera di Harlem come esempi della nostra continuità! È successa una cosa tremenda. Come se queste fotografie non fossero muti esempi del passato ma avessero, come spettri, la pretesa di essere simultaneamente di ieri e di oggi, onde predire ossessivamente la nostra confisca del loro mondo, nel poco tempo concesso perché fioriscano le nostre illusioni prima di essere costretti a prendere il nostro posto nelle fotografie, a unirci a loro, a questi sconosciuti dei nostri sogni, ma meno nitidi, con facce e figure difficili da distinguere, se non totalmente invisibili.
* * *
— E così Tom Pemberton si fa vivo e andiamo a bere qualcosa insieme da Knickerbocker, all’angolo della Nona con University Place.
In questi giorni non porta il collarino, non è spretato ma più o meno permanentemente a disposizione. Lavora in un ricovero di Roosevelt Island per malati di cancro. Si è appesantito, il faccione è più segnato di come lo ricordassi, ma sempre aperto, candido, florido e bello, mentre gli occhi chiari e distanti frugano irrequieti nella sala come cercando qualcuno che possa rallegrargli il cuore.
Tu scrivi abbastanza bene, dice, ma nessuno scrittore può riprodurre il tono genuino della vita vissuta.
Nemmeno Joyce?
Dovrei dargli un’altra occhiata. Ma adesso che vedo la differenza dall’interno, diciamo così, credo che d’ora in poi diffiderò della letteratura.
Mossa intelligente.
Ti sei offeso. Ma io ti sto dicendo che sei esemplare. È un complimento. Dopotutto, avrei potuto semplicemente scartarti come un pessimo scrittore. È sconcertante leggere di me dall’interno della mia mente. Un altro colpo a un’altra fede.
Be’, forse dovrei lasciar perdere ogni cosa.
Non hai bisogno della mia approvazione, santo Dio. Ho accettato… cioè, senza condizioni. Non ti ho nemmeno chiesto di omettere quell’accenno alle mie figlie. Ora sono più grandi, naturalmente. Hanno i loro appartamenti.
Consideralo fatto.
Trish si è risposata… Perché non hai detto chi è suo padre?
Questo deve ancora venire.
Ogni tanto lui mi manda sue notizie. Il solito sorrisetto di sufficienza, anche se devo dire che non gli dispiaceva avere in famiglia un prete pacifista.
Buono per il look.
Immagino. Ma ora, senti, tu stai usando i nomi veri. Mi avevi detto…
Lo so. Li cambierò. In questo momento sono ancora i nomi migliori. D’altronde, una volta erano gli unici nomi possibili. È un progresso.
E non è stato il “Times” a pubblicare la storia del mio crocifisso rubato. È stato solo uno dei giornali liberi.
Be’, Padre, quando si compone qualcosa è così che si procede, si fa la composizione. S’incurva il tempo, si cambiano le cose, se ne mettono dentro alcune, se ne lasciano fuori altre. Non si è tenuti a riportare tutto. O a far succedere una cosa com’è successa. I fatti possono essere inibitori. La realtà non è pertinente. È irrilevante.
La realtà è irrilevante?
Si fa di tutto perché l’orologio continui a ticchettare.
Be’, ci sono delle cose che sono semplicemente sbagliate.
Oddio! Cosa, Pem?
Io non ti dico che cosa devi scrivere, capisci? Non mi riguarda. Ma non fu una predica nella chiesa di St Tim a mettermi contro il vescovo. E quello che mi hai fatto dire tu non fu la vera causa. In realtà si è trattato di un mucchio di cose.
Mi avevi parlato di una predica in particolare…
Be’, sì e no – ci ho pensato – e credo che potrebbe essere stato un intervento fatto a Newark, come ospite, che è stato per lui l’ultima goccia. Ma non sono sicuro. A proposito, in quella diocesi è diverso, sono della Chiesa Allargata, loro. Accolgono le donne, i gay… la faccia progressista della medaglia. La mia. Non bisogna semplificare troppo. Là è pieno di anglicani. C’è davvero più tolleranza per la gente come me di quanta in genere se ne attribuisca alla chiesa.
Cosa dicevi?
Cosa?
L’ultima goccia del tuo vescovo.
Oh… fu abbastanza semplice. Mi limitai a chiedere ai fedeli che cosa, secondo loro, la strage degli ebrei architettata in Europa avesse fatto alla cristianità. Alla nostra storia di Gesù Cristo. Cioè, data la blanda reazione dei nostri, l’Olocausto è un problema solo per i teologi ebrei? Ma oltre a questo li pregai – c’era una gran folla quel mattino, ed erano tutti con me, lo sentivo, dopo i banchi vuoti di St Tim sembrava il Radio City – li pregai d’immaginare… quale mortificazione, quale rito, quale pratica sarebbe potuta essere un’adeguata reazione cristiana al disastro. Qualcosa per garantirci che la nostra fede non era una sorta d’illusoria compiacenza. Qualcosa che ci tranquillizzasse sulla sacra verità della nostra storia. Qualcosa di sconvolgente, a modo suo, come Auschwitz e Dachau. Cosa poteva essere, dunque? Formulai alcune possibilità. Un esilio in massa? L’impegno di milioni di cristiani a errare per il mondo, derelitti, per tutta la vita? Uno sgombero delle terre e delle città per mille chilometri in ogni direzione da ogni campo di sterminio? Spiegai che non sapevo quale fosse la risposta giusta… ma ero certo che l’avrei riconosciuta, se l’avessi vista.
Fu questo che dicesti?
Per cominciare.
Capisco.
Già. Quella fu la ciliegina sulla torta.
* * *
— Le tecniche digitali più raffinate ed efficaci liberano dal segreto i conti bancari e il deposito titoli del marito, le sue polizze di assicurazione e le sue cartelle cliniche, i suoi mutui ipotecari, le sue pagelle scolastiche e il suo stato di servizio militare, le posizioni finanziarie, i contributi politici. Tutto disponibile per essere studiato e infine confiscato. I servizi ai quali si appoggia, legali, di contabilità, di consulenza finanziaria. Chi e dove sono. Mezzi di comunicazione. Analisi grafologica. Analisi della voce: un accento di Filadelfia facile da imitare. Analisi di credit card e bollette telefoniche di un mese tipo per vedere quali segreti ci siano nella sua vita, un’amichetta, una madre a carico. Nulla. Nessun traffico illecito con gioiellieri, fioristi, il marito è un narcisista immacolato, l’unica passione, ma divorante, è per se stesso.
Di dieci o quindici anni più vecchio di tutt’e due, il marito è una specie di prodigio aziendale, direttore generale di una fabbrica di computer corteggiato da un gruppo giapponese con holding internazionali in comunicazioni satellitari, elettronica e nell’industria delle bevande analcoliche. L’amante capisce che a questo livello una direzione efficiente non richiede una speciale conoscenza della natura di un’azienda e incarica la donna di convincere il marito ad accettare la sfida: la vita in un’altra città, viaggi regolari in Giappone, nuovi mercati da conquistare… Questo viene fatto. Poi, mentre il marito è impegnato a sistemare le ultime cose nel suo vecchio posto di lavoro, preoccupandosi di mantenere rapporti cordiali, dando persino al consiglio di amministrazione raccomandazioni sul suo successore – la sostanza della vita delle aziende è la volubilità e non viene mai bruciato nessun ponte – la moglie/amante si trapianta sulla costa del Pacifico per familiarizzarsi con la situazione, trovare una casa nuova nel quartiere giusto e così via.
L’amante vola con lei nella nuova città, sceglie la casa, l’arredamento, tutto fino al minimo dettaglio. A questo punto lei, mentalmente, è così schiava di lui che tutto quello che stanno facendo le sembra assolutamente naturale e normale.
Ha trovato varie foto del marito, dalle istantanee ai ritratti aziendali ufficiali. L’amante vola a Budapest con le fotografie digitalizzate tradotte in una rappresentazione olografica per un chirurgo molto disponibile che conosce da gran tempo e, senza dire chiaramente che fa ancora parte del mondo del controspionaggio, glielo lascia credere, in modo che entri in vigore il codice dell’estrema discrezione. Non sei poi tanto diverso, dice il medico, studiando l’ologramma. Ed è vero, pensa l’amante: dopotutto, l’attrazione che ho esercitato su di lei doveva derivare almeno in parte dal fatto che, più o meno, io e suo marito abbiamo la stessa morfologia, e tutt’e due dobbiamo averle ricordato qualcuno che ha amato da bambina. Non alludo necessariamente a un rapporto edipico, tutti noi agogniamo alla purezza degli attaccamenti che si sono formati nella nostra incosciente giovinezza. Ci sono transfert anche allora, in quella tenera età in cui personaggi modello s’imprimono come amori di tutta una vita così profondamente e indelebilmente da renderti eliotropico alla loro presenza.
Mi romperanno il naso e dilateranno le narici, l’attaccatura dei capelli verrà abbassata per mezzo di trapianti fino a formare una punta sulla fronte, dovrò tenere i capelli corti e brizzolati sulle tempie per dimostrare una decina d’anni di più. La mascella sarà un po’ allargata con impianti. Dovrò ingrassare di sei o sette chili, portare zeppe nelle scarpe…
Ma questa non può essere una storia articolata nei minimi dettagli. Per acquistare credibilità non può dipendere da una presentazione realistica di particolari accuratamente studiati. Su tutto questo possiamo sorvolare senza problemi in fase di montaggio. Il film dovrebbe svolgersi nel regno astratto in cui le questioni pratiche danno luogo a strane risonanze con la verità di tutti i giorni. Perché il male, come lo si commette nella maggior parte dei casi, viene dalla vita che viviamo, prende non soltanto la sua motivazione, ma anche la sua forma, dalla struttura delle circostanze esistenti, non è – in genere – espressione di una devianza così raffinata e per essere commesso non richiede una così ampia progettazione.
In realtà, si può dire che il film inizia solo con quella che nella mente dell’amante è la scena culminante, un esempio di performance art in cui un brillante uomo d’affari americano, un uomo per il quale lui non prova nulla, e men che meno antipatia, piomberà improvvisamente in uno stato di prostrazione fisica e psichica. Arriverà davanti a una porta che crede sua e non sarà riconosciuto dalla moglie, che dirà di non averlo mai visto. Un doppione di se stesso chiederà alla polizia di portarlo via e lo denuncerà per molestie. Guardie private gli impediranno di entrare nel suo ufficio. Gli alberghi non accetteranno le sue carte di credito. I vecchi amici si tireranno indietro, spaventati. Gli avvocati non risponderanno ai suoi appelli. Il passaporto gli sarà ritirato perché falso. Disorientato, e comprendendo solo imperfettamente che gli è stato fatto qualcosa, l’uomo sarà lasciato là a piangere e imprecare in uno stato di folle e totale spaesamento, deportato da se stesso.
Forse, pensa l’amante, impazzirà. Forse tenterà di uccidermi e finirà in un manicomio criminale. Un altro delizioso elemento di suspense è la misura del mio dominio su di lei, calcolabile entro i limiti in cui di questa donna ci si può fidare. Se in lei agiranno residui sentimenti d’affetto sotto forma di pietà o di terrore, magari tali da spingerla a rivelare al marito la verità, la donna potrà portare, anche a rischio di compromettersi penalmente, l’intera e mirabile opera d’arte a una rovinosa conclusione.
Ciò che è più probabile, ovviamente – e come posso dire di non averlo sospettato fin dal primo momento? – è che, commesso questo crimine di usurpazione, scoprirò che neanche questo può sottrarmi alla mia profonda, cronica apatia, che ora potrà essere alleviata, almeno per un attimo, abbandonando la donna che così ossessivamente, così appassionatamente si è votata a me, dimodoché l’unica cosa che le resterà nella vita sarà il marito schiantato che ha tradito.
E così abbiamo la versione secolare, illuministica, di Anfitrione. E tutto a causa della bella ragazza, bella e sicura di sé, accanto alla quale sedevo durante un dinner party. Questo è il mio laboratorio, qui, nel cranio…
* * *
— Corvi sulla banchina? Ora, dunque, ci sono anche loro. Non avevo mai sentito parlare di corvi che si avvicinassero all’acqua salata. È un bruttissimo segno. Guardali, tre o quattro, che dalle palafitte saltano giù sulla banchina, beccando le zampe dei granchi e le conchiglie lasciate dai gabbiani. Un’avanguardia, una pattuglia in ricognizione. Se gradiranno quello che trovano, caleranno a stormi sugli alberi della riva gracchiando e stridendo, facendo un baccano d’inferno come un club di dannati motociclisti. Gesù. Qui ci sono rigogoli che balenano tra i mirtilli, fringuelli che quando si alza il vento amano tenersi in equilibrio sulla punta delle canne palustri, ci sono alirosse, mimi poliglotti, itteri del bestiame, cardinali rossi, scriccioli, picchi dorati, rondoni, ci sono rincopi, tringhe e nitticore sbilenche come vecchie signore con la gobba… I corvi sono più furbi, più grossi e più chiassosi, e si raccolgono in stormi. Occupano il territorio, scacceranno tutti gli altri, questo è grave, dovrò tenerli d’occhio. Tornate nei boschi suburbani di Westchester, corvi. Siete abitanti dell’entroterra, voi, vi accalcate sui grandi aceri e scendete in strada a mangiare le carcasse degli scoiattoli. Non fate una bella figura sull’ampio sfondo del cielo. I corvi sulle banchine del porto sono una figura retorica che contiene due metafore contrastanti.
— Consideriamo per un momento quelle frasi del mio insegnante al Luitpold Gymnasium: che per non perdere il rispetto di se stesso aveva bisogno della mia attenzione e che Gesù era stato crocifisso da quelli come me. Lì, dunque, s’erano fusi i due elementi: l’autoritario e il cristiano militante. E ora vi chiedo di riflettere sulla possibilità che la devota attività mentale dei preti e dei re cristiani che per secoli avevano demonizzato e trattato in modo razzista la popolazione ebraica dell’Europa con gli auto-da-fé, i pogrom, le proscrizioni economiche, gli impedimenti legali, le deportazioni e una cultura di antisemitismo socialmente rispettabile… avesse in quel momento, nella mia aula ginnasiale, raggiunto la massa critica. Immaginiamo che questi piccoli e silenziosi risentimenti implodano nelle orecchie di mille, un milione di bambini della mia generazione. E dopo un attimo: l’Olocausto. Perché, vedete, quello che si muove, non alla velocità della luce ma abbastanza in fretta, e con una tale densità di massa da riuscire insostenibile, è il disastro sempre più incalzante della storia umana.
Allora, per essere logici, cosa dobbiamo concludere? Dobbiamo concludere che, dopo quanto è avvenuto nel Ventesimo secolo della civiltà europea, il tradizionale concetto religioso di Dio non può più essere seriamente mantenuto. Dunque, se io sono una persona seria, come credo di essere, devo cercare Dio in un luogo diverso dalle Sacre Scritture. Devo sforzarmi di vedere un comportamento trascendente in certe irriducibili leggi dell’universo. In queste leggi Dio, Il Vecchio, si renderà manifesto.
Ora, abbastanza stranamente, anche se sono verità fredde, eterne e senza effigie, nella misura in cui cominceremo a capirle, a capire queste grandi, imponenti, silenziose abitudini di dimensioni universali, potremo trarre conforto dalla loro bellezza. Potremo gloriarci della conoscenza che ne abbiamo, del fatto che esse sono – incomprensibilmente – comprensibili.
Perché, non dimenticate, in teoria potrebbero esistere alternative alle cose come stanno. Per esempio, se la gravità cessasse di essere un meccanismo fondamentale dell’universo – facciamo un’ipotesi – quali sarebbero le conseguenze? Il nostro sistema solare esploderebbe, tutte le acque della terra uscirebbero dai bacini oceanici e si riverserebbero, cristallizzate, nello spazio come pezzi di carbone su uno scivolo, e tutto il sistema dello spazio, con la sua materia scura e con le stelle, la luce del sole, la vita organica, la mitosi, e una cosa e l’altra in un dispiegarsi di condizioni necessarie e sufficienti… non esisterebbe. Cosa esisterebbe, dunque? Forse, dopo qualche trilione di anni, dalla tenebra eterna informe e nera uscirebbe qualcosa di organico che per propagarsi non dipenderebbe dalla luce o dall’umidità – qualche effimera senza forma e nutrita di nulla – e la vita, se vita fosse, si definirebbe in un modo oggi impossibile da definire. Certo, tutto questo è un incentivo alla presa di coscienza meno forte di quello che abbiamo adesso, di quello che vediamo adesso, di quello che ci sforziamo di capire adesso.
Per distendere i nervi celebriamo la costanza della velocità della luce, tessiamo l’elogio della gravità, che in azione è la curvatura dello spazio, ed esultiamo per il fatto che anche la luce viene piegata dalla sua forza e cavalca le curvature dello spazio verso oggetti celestiali come una fine e luccicante rete rossa e oro che li avviluppasse. La sottomissione della luce alla gravità fu provata dal mio collega Millikan alcuni anni dopo che io avevo elaborato la mia teoria, quando la luce, passando vicino alla stella X, mostrò, secondo le sue misurazioni, uno spostamento verso il rosso dello spettro, indicando che si era incurvata. E questo, miei cari amici, per noi è un sacramento, non è vero? Un sacramento di primaria importanza, la curvatura della luce stellare. Sì. La curvatura della luce stellare.
* * *
— Conversazione fra Sarah Blumenthal e suo padre
Ero una staffetta. Il mio lavoro consisteva nel recare le notizie o le istruzioni del consiglio alle famiglie nelle loro case. O messaggi da un membro del consiglio a un altro. O nello stare all’erta vicino alla piazza, all’imboccatura del ponte, per avvertirli se arrivava la macchina scoperta seguita dal semicingolato carico di soldati, il che significava che stava per succedere un’altra brutta cosa. Per dare l’allarme io correvo come il vento attraverso le viuzze e le strade laterali. Avevo dunque grandi responsabilità, per la mia età. Eravamo in sette, sette ragazzi, a fare la staffetta. Portavamo berretti speciali, simili a quelli della polizia, con un’ala rivoltata, alla militare. E la stella cucita sulla giacca, naturalmente; per cui era davvero distorta, quella mia impressione di essere un soldato. Mi sentivo privilegiato perché la stella non era come tutte le altre stelle, ma indicava in qualche modo un grado, e per il berretto da soldato, e perché venivo a sapere quello che succedeva quasi prima di chiunque altro… Tutto questo mi faceva sentire speciale. Il signor Barbanel, il primo assistente del capo della comunità, il dottor Koenig, diceva che ero la sua migliore staffetta. Per le cose più importanti sceglieva sempre me. Ecco dunque qual era la situazione, avevo una stella sulla giubba e una bustina militare, ed ero la stella delle staffette, questo era come mi vedevo.
Ti prego di ricordare. Avevo appena dieci anni. Nello stesso momento in cui vivevo questa illusione, e a volte persino ammiravo segretamente le uniformi dei nostri nemici, sapevo benissimo cosa stava succedendo. Come avrei potuto non sapere?
Compito generale del consiglio era fornire su base giornaliera brigate di lavoro alle fabbriche militari della città. Se questo non fosse stato fatto, se i tedeschi avessero pensato che non eravamo abbastanza produttivi, sarebbe stata la fine. Mentre gli uomini e le donne più giovani venivano reclutati come manodopera, la maggior parte delle donne e gli uomini meno validi era incaricata di gestire il ghetto, di farlo funzionare, panificio, ospedale, lavanderia eccetera. Perciò anche le donne dovevano essere in forma. Tutte quelle trovate incinte venivano portate via e trucidate. Oppure, se il bambino nasceva, venivano uccisi madre e figlio. Perciò le madri incinte, nonché i vecchi, i bambini senza famiglia e gli invalidi, erano tenuti illegalmente dentro case sparse in tutto il ghetto. Quando si veniva a sapere che stava per svolgersi una perquisizione, ogni staffetta aveva un certo numero di case da avvertire. Io mi precipitavo verso quelle che mi erano state assegnate e bussavo alla porta in un modo particolare. Era il segnale che la gente doveva nascondersi. Bisognava fare tutto in silenzio, efficientemente, senza urla né pianti. Poi, completato il mio giro, o avevo il tempo di tornare alla sicurezza degli uffici del consiglio o mi nascondevo in qualche posto, di solito sul tetto di una casa deserta, rannicchiandomi contro il camino. Erano momenti di terrore, i momenti del terrore più puro, allorché gli illegali venivano dispersi in tutti i nascondigli possibili e immaginabili, armadi, cassoni per le patate vuoti, cantine, soffitte, pozzi, cripte sotterranee. E quando, inevitabilmente, qualcuno di questi nascondigli veniva scoperto, io sentivo tutto. Da vari quartieri udivo il rumore dei passi di una squadra di soldati che correvano, o grida gutturali, poi le urla di qualcuno, o certe volte un colpo di pistola. Durante queste perquisizioni i tedeschi si facevano accompagnare dai poliziotti ebrei del ghetto e li torturavano su due piedi per farsi dire quello che sapevano. Le persone scoperte venivano trascinate via, si udivano suoni orribili salire dalle diverse strade. Ovunque mi trovassi, per quanto io fossi al sicuro, provavo una rabbia fortissima… e arrivavo quasi al punto di cedere all’impulso suicida di correre fuori e aggredire i soldati, saltargli sulla schiena, graffiarli con le unghie, tempestarli di pugni. Sentivo questo desiderio nell’osso della mandibola, nei denti.
Quando mi assegnarono alla piazza dove le sentinelle fermavano e passavano in rivista le squadre di lavoro che dovevano attraversare il ponte, la mia missione consisteva nell’avvertire il consiglio di qualunque cosa insolita. Le guardie erano poco intelligenti, uomini stupidi per la maggior parte, erano la feccia dell’esercito tedesco, alcuni chiaramente di mezza età. Con la mia bustina da staffetta io ero per loro praticamente invisibile. Potevo continuare ad attraversare la piazza all’infinito, ogni tanto accovacciandomi persino dietro qualche mucchio di macerie per osservare gli avvenimenti. Se ad esempio uno dei lavoratori veniva sorpreso, la sera, mentre cercava di introdurre di contrabbando nel ghetto una pagnotta o qualche sigaretta, scoppiava una terribile baruffa e il consiglio doveva intervenire in fretta e furia per tentare di fargli avere la punizione meno drastica. Certe volte i soldati abbordavano una donna e con un pretesto cercavano di trattenerla nel corpo di guardia, e bisognava occuparsi anche di questo. A metà della giornata, quando non c’era molto movimento, io stavo per lo più nelle traverse, anche se mai così lontano dalla piazza da non sentire o da non vedere cosa succedeva. Ero un bambino responsabile, ma quando le cose erano troppo tranquille e non potevo resistere all’impulso sgattaiolavo in una delle case vuote e mi arrampicavo sul tetto per proseguire di là la mia vigilanza. La maggior parte delle case del ghetto era costituita in genere da capanne, ma ce n’erano alcune di due piani, altre di pietra, e c’erano stalle con fienili, scuderie, botteghe col tetto piano, un edificio commerciale o due. Il pericolo di vigilare dal tetto, rannicchiato nella fessura del camino e scaldato dal sole, era che potevo addormentarmi, e che una delle macchine scoperte potesse attraversare il ponte e passare sotto di me senza che io me ne accorgessi. Di solito avevo troppa fame per addormentarmi, anche se effettivamente sognavo a occhi aperti. Dal tetto si vedeva tutto il ponte e, oltre il fiume, il fronte delle strade cittadine che una volta erano state la mia casa. Le vene della città si diramavano verso le regioni montagnose, e si vedevano gli agglomerati di condomini e palazzi per uffici e, a seconda di dove mi trovavo, anche le fabbriche militari sullo sfondo delle colline dalle cui ciminiere, nei giorni senza vento, il fumo saliva dritto dritto verso il cielo.
Se giravo la testa verso oriente, potevo vedere dove la pianura cedeva il posto dapprima a una serie di colline pedemontane e poi a vere e proprie montagne tagliate da canaloni, tutte coperte da fitte foreste di pini e di betulle. Quel territorio era magico, per me, perché era il luogo in cui si erano nascosti i partigiani ebrei che avevano armi e attaccavano i tedeschi con improvvise incursioni. Ero convinto, affatto irragionevolmente, che i miei genitori si trovassero con i partigiani, che fossero anche loro eroi della resistenza ebraica. Lo credevo nello stesso momento in cui credevo che fossero morti. Ero convinto di entrambe le cose simultaneamente. Te lo voglio spiegare, perché ti aiuterà anzitutto a capire in che modo diventai una staffetta.
Prima dell’invasione tedesca, prima della cacciata degli ebrei, mio padre, tuo nonno, era stato docente di economia agraria all’università. Questo significava occuparsi di raccolti, produzione agricola e via dicendo. Ecco perché era un consulente segreto del consiglio. Dovevano organizzare la distribuzione dei viveri assegnati dai tedeschi. Naturalmente non bastavano mai. Fu mio padre a elaborare, in due terreni abbandonati, il progetto di un orto comunitario che il consiglio sottopose ai tedeschi per averne l’approvazione.
Mia madre era stata tra i candidati al dottorato in lingua e letteratura inglese nella stessa università. Quando ci trasferimmo nel ghetto, tutto questo finì. Nei primi tempi mio padre attraversava il ponte ogni giorno all’alba con le squadre di operai per andare a lavorare alla catena di montaggio nella fabbrica di aeroplani, mentre mia madre era stata destinata a insegnare nella scuola del ghetto. Ma la situazione cambiava di continuo, le restrizioni si susseguivano, e a poco a poco ci venivano tolte tutte le cose normali della vita. Così un giorno i tedeschi chiusero le nostre scuole, e da allora mia madre fu assegnata, come mio padre, alle brigate di lavoro in città.
Mi esortarono a non farmi vedere. Passavo quasi tutto il tempo in casa. Mia madre aveva salvato diversi libri dalla confisca e me li aveva portati a casa. I libri stavano in camera mia, dietro un’asse della parete che ballava. Era una soffitta con una finestrella dalla quale si poteva vedere qualcosa solo mettendosi in ginocchio. Studiai quei libri avidamente, antologie inglesi e francesi, testi di esercizi di matematica e storie della civiltà europea. Ammiravo i libri delle classi superiori e avevo una gran voglia di conoscerli a fondo. Mia madre mi assegnava i compiti e mi faceva fare persino qualche esame. Io amavo gli esami. Amavo la sua voce quando leggeva il mio elaborato e gli dava il voto e l’amavo quando ci chinavamo insieme sul libro degli esercizi, la sera, dopo che lei ci aveva preparato la cena.
Naturalmente avevo degli amici. Joseph Liebner, che a scuola era davanti a me di un anno e il cui padre faceva il fornaio nel panificio del ghetto, un ragazzo di nome Nicoli che mi prestava i suoi romanzi di avventure alla cowboy in tedesco7 e la bionda Sarah Levin, la cui bella madre Miriam insegnava musica e aveva detto a mia madre che Sarah aveva un debole per me, notizia che io avevo accolto con simulata indifferenza. Ogni settimana, il martedì, facevo due isolati per andare a lezione di violino dalla signora Levin. Il violino lo teneva in casa sua, anche se era mio. Ovviamente non potevo mai esercitarmi. La mia lezione comprendeva anche gli esercizi che avrei dovuto studiare nel frattempo. Si svolgeva mentre gli uomini della vicina falegnameria continuavano a lavorare, in modo che il fracasso coprisse il suono del violino. In quei momenti Sarah Levin sedeva nella stanza, esile bimba dai capelli chiari con due grandi occhi che mi guardavano e che io mi dicevo di odiare, anche se naturalmente mi obbligavano a suonare meglio che potevo.
Tuttavia, per la maggior parte del tempo ero solo. Aspettavo i miei genitori, pregando il Signore che tornassero dal lavoro quotidiano che facevano in città. Appena entravano, portando con sé l’aria fredda, magari con un po’ di cibo da borsa nera ottenuto dai lituani in cambio di qualcosa, ringraziavo Iddio per la Sua generosità.
Fu in questa fase della mia vita che, osservando i miei genitori, imparai che cosa fosse l’amore degli adulti. Che tale amore si potesse mantenere – presupponendo la forza virile di un padre, la bellezza di una madre, le sue premure, la sua accoglienza nel letto coniugale – mentre vivevano spogliati della vita, ridotti in schiavitù, senza possedere più nulla, solo qualche anno dopo capii che era una cosa straordinaria. Allora mi limitavo a raccogliere le prove. La forte attrazione esistente tra loro non aveva nulla a che fare con me. Mia madre non poteva smettere di guardare suo marito. Quando lui si trovava nella stessa stanza con noi, lei era di sasso. Io guardavo il suo petto mentre respirava. Notavo lo spessore della curva dell’avambraccio di mio padre sotto la manica della camicia rimboccata. L’osservavo mentre stava sulla porta aperta e guardava in strada, a destra e a sinistra, prima di permettersi di uscire con mia madre. All’alba, quando si preparavano per andare a lavorare, aiutava mia madre a indossare il paltò e poi lei si voltava e gli tirava su il bavero della giacca. Su entrambi gli indumenti, davanti e didietro, era cucita la stella di stoffa gialla.
Una notte mi svegliò quello che credevo fosse il vento che fischiava attraverso le fessure tra le assi della soffitta. Ma non era il vento, erano urli. Non da vicino, non da casa mia: sentivo i miei genitori nella stanza sottostante, i toni urgenti delle loro voci quando credevano che non potessi udirli. Mi inginocchiai davanti alla finestra. Il cielo era rosso. La mia strada era tranquilla, le case buie, ma il cielo oltre le case sembrava alzarsi in volo. Vidi il colore della fiamma specchiarsi nella mia camicia da notte e chiamai i miei genitori. Al fuoco, al fuoco! In un attimo mia madre mi raggiunse e mi riportò a letto. Sss, disse, è tutto a posto, non c’è nessun incendio, sei al sicuro, rimettiti a dormire. Mi affidai alla protezione delle coperte, mi premetti il cuscino sulle orecchie e canticchiai qualcosa tra me per non udire quegli urli. Era un suono terribile, anche se distante, di molte voci urlanti. Vidi il chiarore dell’incendio svanire all’interno delle mie palpebre. Presi sonno immaginando che gli urli tornassero a mescolarsi al vento, come risucchiati da Dio, per salire al cielo.
La mattina dopo arrivò la notizia che i tedeschi avevano bruciato l’ospedale. Quando dico “l’ospedale”, non devi immaginare uno dei moderni grattacieli che abbiamo qui. Era un gruppo di case ristrutturate sventrando muri e unendo gli edifici con corridoi di legno in modo da ricavarne tre sale piene di brandine, una per gli uomini, una per le donne e una per i bambini, oltre a qualche ambulatorio per le visite, a una sala operatoria piccola e male attrezzata e a una farmacia. I tedeschi circondarono l’ospedale, sbarrarono porte e finestre e, con più di sessantacinque persone all’interno, compresi ventitré bambini, appiccarono il fuoco all’edificio. Questi sono numeri indelebili nella mia mente. Sessantacinque. Ventitré. Alcuni dei pazienti si erano ammalati di tifo e i tedeschi temevano il contagio, la decimazione della scorta di manodopera. Perciò fu quella la soluzione, bruciare vivi tutti i degenti, compreso il personale. Il fumo aleggiò sopra la città per tutto il giorno seguente. Il cielo era coperto, la stagione insolitamente calda. Il fumo indugiava come una coltre di nebbia. Mi bruciavano gli occhi, tossivo per espellere il fumo dai polmoni. Immaginavo di aver inalato il fumo dei morti, e forse era vero. All’alba, tutti dovettero andare a lavorare come al solito. La sera, dopo il ritorno dei lavoratori, pur essendo illegale radunarsi in più di tre o quattro persone, parecchi uomini s’introdussero di nascosto nella casa del rabbino, alla porta accanto, per recitare il kaddish per le anime degli assassinati.
Non era la prima delle cosiddette azioni tedesche. Ce n’erano e ce ne sarebbero state altre, retate senza preavviso nelle case, quando trasportavano la gente nella vecchia fortezza sul fiume, a ovest della città, per trucidarla. Avevano momenti di grande efficienza. Ma dopo quest’ultimo orrore mio padre si dimise dalla carica che aveva presso il consiglio. Non riusciva più a sopportare la propria complicità in una vita d’impotente sottomissione. La sera del giorno successivo all’incendio si svolse una riunione segreta del consiglio, e quando lui tornò io ero di sopra, apparentemente addormentato, ma in realtà ben desto e tutt’orecchi. Un lungo silenzio, mentre mia madre gli metteva davanti il pane e la minestra. Poi mio padre allontanò il piatto.
«Domani c’è l’incontro mensile con i tedeschi» le disse. «Il consiglio inoltrerà una formale protesta. Per influenzare moralmente queste ingovernabili forze del terrore.» La sua voce era stranamente plumbea e inespressiva.
«Tu cosa vorresti che facesse?» domandò mia madre. Parlava piano. La sentivo appena.
«Al di sopra e al di là del fatto della nostra sistematica schiavitù, amano sorprenderci» disse mio padre. La sua voce si fece più forte e rabbiosa. «Vogliono divertirsi. Schmitz, lo sciacallo che dirige la baracca» – era l’ufficiale delle SS di grado più elevato – «come fa il consiglio a guardarlo, a parlare con lui, quasi fosse un essere umano? Questa rituale impostura di un’umanità condivisa alla quale dobbiamo fingere di credere se speriamo di durare più di loro! Come se fossimo i custodi di un branco di pazzi ai quali non bisogna mai dire che sono pazzi. Schmitz e gli altri rideranno tra sé mentre fingono di partecipare a un’educata conversazione. Diranno che c’è la guerra e che queste cose deplorevoli sono, nondimeno, inevitabili. E passeranno al secondo punto all’ordine del giorno, continuando a parlare delle quote di farina e di patate da assegnare.»
«Ari, zitto» disse mia madre. «Lo sveglierai.»
«Non resisto più!»
Quel grido disperato io non lo dimenticherò mai, non soltanto per la stretta al cuore che provai, ragazzo, nel rendermi conto che mio padre mancava di tutte le risorse necessarie per proteggerci, ma per l’immagine fulminante che mi diede di me stesso: ero, materialmente, la selvaggina di un predatore. Lui continuò a parlare di questo effetto della nostra storia: che eravamo vissuti tra loro, tra i cristiani, per generazioni e generazioni, solo per vederci distorcere e adattare alla forma del loro odio. Eravamo stati trasformati in ebrei perché gli altri potessero essere cristiani.
Ora, cos’accadde esattamente dopo questo episodio non te lo so dire. Forse fu due o tre mesi dopo l’incendio, quando l’emozione si era spenta. Lo choc era stato assorbito dalla routine del lavoro, delle riunioni segrete, delle preghiere recitate di nascosto dai religiosi. Il ritorno, ancora una volta, alla speranza di durare più di loro, di resistere fino alla liberazione. Si era sparsa la notizia della disfatta delle armate naziste in Africa. Fu in questo periodo che i miei genitori non tornarono a casa alla fine di una giornata di lavoro. A tutt’oggi non conosco le circostanze. Una mattina all’alba, come sempre, lui l’aiutò a mettere il paltò, lei gli tirò su il bavero per ripararlo dal freddo, e tutt’e due baciarono il figlio. Mi diedero le solite istruzioni per la giornata. E aprirono la porta sul mattino buio e si chiusero la porta alle spalle e io non li vidi mai più.
So per certo che intorno a questa data un avviso fu affisso nel ghetto: i tedeschi cercavano cento persone istruite per un lavoro particolare, come curatori e catalogatori degli archivi cittadini. I miei genitori ne parlarono tra loro. Lei era contraria a presentarsi, sostenendo che dei tedeschi non ci si poteva fidare. L’opinione di mio padre era che il rischio era ragionevole e lo si poteva correre: lui si sarebbe presentato. Era convinto che in un posto come quello avrebbe visto gente che conosceva e preso contatto con la Resistenza. Mia madre disse che voleva la nostra sopravvivenza. Mio padre disse che, anche se ogni decisione che prendevano poteva essere l’ultima, di una cosa era sicuro: di come sarebbe finita per tutti quelli che restavano nel ghetto.
Be’, aveva ragione mia madre, naturalmente; era solo un altro degli ignobili inganni dei tedeschi: le persone istruite che avevano presentato le loro credenziali per il lavoro archivistico furono trasportate fuori città, nella vecchia fortezza sul fiume, e fucilate. Ma, se mio padre era tra loro, dov’era finita mia madre, che non intendeva presentarsi? O alla fine si era lasciata convincere? Però sarebbe stato eccessivamente avventato correre insieme un simile rischio e lasciarsi dietro un bambino piccolo. Forse, se lui si era presentato, in qualche modo era stata coinvolta e portata via anche lei prima che potesse fuggire. Forse erano stati assassinati per ragioni diverse che non c’entravano con questa storia. Non lo sapevo.
Ma esisteva un’altra possibilità: che fossero ancora vivi, che fossero riusciti a scappare e a unirsi ai partigiani. Fu il rabbino Grynspan della porta accanto a dirmelo, la sera stessa in cui i miei genitori non tornarono. «Vieni, presto, non puoi restare qui» disse. «Tecnicamente tu sei un orfano, anche se, è naturale, i tuoi genitori sono vivi nella foresta e torneranno a prenderti quando il Signore, che sia benedetto, mostrerà loro la strada.»
«Sono entrati nella Resistenza?»
«Sì.» Questo, dopo un attimo di esitazione.
«Be’, non potevano prendermi con loro?»
«Hanno pensato che tu fossi più al sicuro qui. Presto, basta con le chiacchiere. I nazisti non li tollerano, i bambini senza genitori. Qualcuno si occuperà di te, lascia stare i libri, prendi il golf, queste camicie, metti questa roba nel paltò e vieni con me.»
Da allora in poi vissi sapendo che i miei genitori erano morti, ma aspettando al tempo stesso che venissero a salvarmi. Sapevo che erano morti perché non avrebbero mai pensato che sarei stato più al sicuro da solo nel ghetto che con loro. Ma credevo che fossero vivi perché il rabbino aveva confermato ciò che aveva detto mio padre, che voleva mettersi in contatto con la Resistenza. Vissi in questo incerto stato d’animo per un tempo considerevole, sapendo in cuor mio che erano morti, ma alzando sempre gli occhi da quello che stavo facendo per vedere se erano venuti a prendermi. Molto tempo passò prima che io smettessi definitivamente di pensare a loro.
* * *
— Se Albert ha ragione, c’è un conforto da trarre dai pianeti. Per esempio, che sono tutti sferoidali, che nessuno di essi ha la forma di un dado o dei cartoni intorno ai quali si piegano le camicie lavate e stirate. E pensando alla loro formazione, a come, da turbini amorfi e furiosi di polvere cosmica e gas, ogni cosa esce vorticosamente e si raffredda e si organizza in un sistema solare dominato dalla forza di gravità… e che questo, evidentemente, è successo altrove, che esistono miliardi di galassie con un numero incalcolabile di stelle, sicché, anche se solo una frazione delle stelle ha pianeti con lune orbitanti intorno a loro… qualche pianeta, almeno, può avere l’acqua necessaria per la vita intelligente che potrebbe attraversare la stessa crisi metafisica che scombussola noi. Abbiamo questo, dunque, per sentirci meglio.
* * *
— Conversazione fra Sarah Blumenthal e suo padre
Il rabbino mi condusse negli uffici del consiglio. C’erano parecchi bambini. Alcuni piangevano. Mi sedetti sul pavimento insieme a loro e appoggiai le spalle al muro e aguzzai lo sguardo e aprii le orecchie. I membri del consiglio pregarono tutti di fare silenzio. Un uomo seduto a un tavolino stava scrivendo a macchina. Aveva una macchina da scrivere perché faceva parte del consiglio. Mi piaceva il ticchettio chiaro e preciso dei tasti. Mi appisolai e dormii per qualche tempo. Quando mi svegliai gli altri bambini erano spariti, la stanza era silenziosa e una donna si stava inginocchiando davanti a me. «Hai un nome nuovo, adesso» disse con un sorriso. «Un bel nome, anche. Yehoshua. Su, dillo.»
«Yehoshua.»
«Esatto. Yehoshua Mendelssohn. D’ora in poi questo sei tu. È il nome al quale devi rispondere, e questo è il documento che dice che adesso tu sei questa persona, e che tu porterai sempre in tasca, d’accordo? Casomai qualcuno te lo chiedesse. Abiti in via Demokratu. Ti accompagno. È bella, dà sull’orto.»
La donna raccolse il mio fagotto, mi prese per mano come se fossi un bambino piccolo e attraversò il ghetto insieme a me. Il suo palmo sudava di paura, ma lei non mollò la presa. Si fermò davanti alla porta di una casetta. «Hai un nonno» mi disse, e bussò alla porta.
Il cosiddetto nonno era un sarto di nome Srebnitsky, un uomo esile e stizzoso, piuttosto curvo, con qualche ricciolo grigio che spuntava da sotto il berretto e due spalle strette da cui pendevano una camicia e un gilè troppo larghi. Mandava un odore di muffa che doveva essere – pensai – l’odore dei nonni. Aveva due occhi celesti che un umidore faceva luccicare. Ma l’impressione più forte che fece su di me fu che si trattava di un estraneo.
La sua casa consisteva di due stanze, una davanti e una dietro, e di una nicchia che fungeva da cucina. Io avrei dormito su un divano nella stanza sul davanti, dove il sarto sbrigava il suo lavoro.
«Ho un nipote, dunque» disse senza sorridere. «Così Dio provvede, nella Sua saggezza. Posso sperare che mi dia anche una figlia e un genero? E perché non una moglie, già che c’è?» Non parlava rivolto a me, ma apparentemente al lavoro che aveva tra le mani, o forse alle mani stesse, che erano lunghe, lisce e agili, e perciò affascinanti, perché sembravano molto più giovani di tutto il resto della sua persona. L’ago volava attraverso la stoffa, dentro e fuori, e file di punti perfettamente allineati crescevano con una straordinaria rapidità.
Col passare delle settimane mi incaricai di spazzare il pavimento dei pezzi di filo e dei ritagli che vi si accumulavano. Ma non si poteva buttare via niente, tutto finiva nella cesta degli stracci. Gli indumenti che portavano dal sarto erano giacche, calzoni e vestiti da donna lisi che lui rattoppava o scuciva e rimetteva insieme, in qualche modo, con i suoi pezzi di filo e gli stracci della cesta, in modo che si potessero indossare ancora, almeno per un po’. Non c’erano soldi che cambiassero di mano, ma dei “pagherò” su un pezzo di carta. Il più delle volte si ricorreva al baratto. Questo i tedeschi non potevano impedirlo. Un carpentiere al quale il sarto aveva rammendato la giacca gli aggiustava una persiana perché si chiudesse bene. Una donna alla quale aveva foderato un paltò gli lasciava un piatto di minestra.
L’unico libro in tutta la casa era una Bibbia, perciò mi misi a leggerla molto attentamente. La trovai sconcertante, almeno in parte. Immaginando che il vecchio fosse pio, cominciai a fargli domande. Lampi di trionfo balenarono negli occhi umidi di Srebnitsky. Con piacere m’indicò le contraddizioni e le assurdità del testo biblico. «Fa’ attenzione a quello che leggi» disse. «Le date sono rivelatrici. Quando è successo questo, quando è successo quello. Samuele non avrebbe potuto scrivere Samuele più di quanto Mosè avrebbe potuto scrivere Mosè. Come potevano sapere quando erano morti? Storie, sciocchezze, tutto quanto. Devote imposture. E in principio? In principio… cosa? Chi parla, a chi ci si rivolge? Chi era presente? Dov’è la pezza d’appoggio? Le persone che hanno inventato queste storie ne sapevano ancor meno di noi. Vuoi Dio? Non cercarlo nelle Scritture, guardati attorno, dappertutto, guarda i pianeti, le costellazioni, l’universo. Guarda un insetto, una pulce. Guarda le molteplici meraviglie del creato, nazisti compresi. Quello è il Dio con cui abbiamo a che fare.»
Trovai uno strano conforto in queste frasi. Anch’io avevo sempre nutrito dubbi sul Dio biblico, dubbi che ho ancora, come tu sai bene e, spero, perdonerai. Inoltre, l’atteggiamento del vecchio mi ricordava mio padre, che era un sionista e un uomo di scienza, anche se osservava lo Shabbat e le Feste Solenni. Ma in più c’era una sorta d’intimo compiacimento nella stima che il vecchio mostrava di avere parlando con me come con una persona capace di usare il cervello, di pensare con la propria testa e di non credere a tutto ciò che le veniva raccontato, anche se ero solo un ragazzo.
Per la maggior parte del tempo, tuttavia, non c’erano conversazioni con Srebnitsky, che sedeva ingobbito al suo tavolo da lavoro, un’ora dopo l’altra, con le belle mani che tenevano, nella mia mente, una specie di svelto discorso da sordomuto. La concentrazione dello sguardo su quel piccolo pezzo di tela, sopra il quale parlavano le sue mani, io la vedevo come una sfida a tutte le menzogne di Dio e l’ostinato rifiuto di Srebnitsky di abbandonarsi alla disperazione che spazzava il ghetto a ondate, come una febbre.
Gli avevano tolto la macchina da cucire, la cui perdita ogni giorno il sarto malediva. Come unica concessione al suo mestiere gli avevano lasciato le forbici, gli aghi, scatole di spilli e matasse di filo. Più i due manichini a rotelle, uno da uomo e uno da donna, in fil di ferro dalla vita in su. Quei manichini erano spesso oggetto della mia contemplazione. Pur essendo praticamente trasparenti, li sentivo come vere presenze nella stanza. Mi rendevo conto di quanto poco ci volesse per sembrare umani. A volte i manichini venivano spostati e io trasalivo nel trovarmi inaspettatamente davanti a loro, scambiandoli per persone vere. Fantasticavo sulla loro indifferenza, sul fatto che nulla poteva ferirli. Potevi impiccarli, sparargli, potevi trasformarli a martellate in un informe ammasso di ferraglia, potevi scioglierli e snodarli in un lungo fil di ferro, e non avrebbero sentito niente, non gliene sarebbe importato niente. Essere inanimati era, a mio parere, uno stato invidiabile, addirittura trascendente. Eppure al tempo stesso non stentavo a immaginare che i manichini potessero parlarsi. Dopo che il sarto si era ritirato e poco prima che io stesso mi coricassi per dormire, amavo metterli nella posizione di due individui immersi in conversazione: Be’, è calata la sera, è ora di andare a riposarsi, diceva l’uomo alla donna. Sì, rispondeva lei, e domani il sole verrà sicuramente a irradiare il suo calore su di noi.
* * *
— Obiezioni di Pem agli esaminatori inviati dal vescovo
Il senso di Dio dentro di noi è un senso totale attribuito alla creatura nella sua globalità, rivelatore, ispirato. Questa è la solita risposta che si dà all’intelletto che pone domande, che da sé non può giungere alla verità consacrata. Ma l’intelletto non è forse compreso in una più vasta categoria? Non è la creatura nella sua globalità che comprende l’intelletto? Perché la gloria di Dio non dovrebbe risplendere attraverso la mente umana?
La mia posizione è questa: che la vera fede non è una conoscenza sostitutiva. Non può scartare l’intelletto. Non può rispondere all’intelletto con un sorriso condiscendente. Qui io cerco la parità. Non sosterrò che il vostro accesso al numinoso sia un’illusione, se voi non mi direte che il mio intelletto è irrilevante…
Le storie bibliche, le storie del Vangelo, erano le nozioni originarie, erano scienza e religione, erano tutto, tutto quello che si aveva. Ma non si sono scritte da sole. Dobbiamo riconoscere l’opera del narratore.
Se non in tutte le storie, certo in tutti i romanzi gialli, lo scrittore procede a ritroso. Il finale è noto e la storia viene costruita in modo tale da giungere a questo finale. Se voi sapete che gli abitanti della terra parlano molte lingue, è questo il finale: vi ci porta la storia della torre di Babele. Il finale noto della vita è la morte: la storia di Adamo ed Eva arriva a quel finale. Perché soffriamo, perché dobbiamo morire? Be’, vedete, c’era questo Paradiso Terrestre…
Il finale della storia suggerisce che sarebbe potuto esistere un finale diverso. Ecco il trucco, un trucchetto da due soldi. Tu ammetti che, poiché le cose sono andate in questo modo, sarebbero potute andare in un altro. Crei conflitto e suspense dove non c’erano. Hai trasformato la condizione umana nel racconto ininterrotto di come si è formata.
Be’, a mio modo di vedere, Dio ha dato le carte di un mazzo truccato. Adamo ed Eva non hanno mai avuto la minima possibilità. La storia della Caduta è una parabola della gloria e del tormento della coscienza umana. Ma è tutto lì…
Mamma mia, non esiste un individuo più pericoloso del narratore. No, rettifico, dell’editor del narratore. Agostino, che trasforma i versetti 2-4 della Genesi nel peccato originale. Che abile operazioncina di decostruzione! Trasmettendolo ai figli, come l’Hiv. Come la dottrina della dannazione universale, la Caduta diventa uno strumento di controllo sociale. Dio nomina i suoi agenti plenipotenziari per dispensare la salvezza o negarla. Non so di voi, cari colleghi, ma la storia ha questa tendenza a mettere la mia fede in cattiva luce. Siamo vincolati a una teologia che stenta a resistere ai colpi dell’incredulo buonsenso. Così, ad esempio, i neonati che muoiono senza un battesimo cattolico sono forse condannati ai limbici gironi superiori dell’inferno? Insomma… in tutte le diverse confessioni, le fantasie punitive del peccato originale hanno prodotto e continuano a produrre generazioni di bambini terrorizzati e di adulti ossessionati, e danno una particolare ricchezza di significati a quei cimiteri calvinisti del New England che richiamano alla mente i roghi delle streghe, le fustigazioni e la rinuncia alle gioie più comuni e alle meraviglie della vita sulla terra di cui lo spirito non indottrinato è l’erede naturale…
Data la lugubre storia di quest’assurdità, come possiamo avere la presunzione di esaltare la nostra visione religiosa al di sopra del comune lavorio della nostra mente razionale?
* * *
Il vecchio sarto tendeva a trattarmi come se io fossi un pigionante adulto capace di badare a se stesso. Ciononostante, quando i miei vestiti diventavano troppo piccoli me li allungava o me ne trovava altri. E quando presi a zoppicare perché le scarpe erano diventate troppo strette, le barattò con un paio di zoccoli. Cucinava la minestra di patate o tagliava il pane e indicava il tavolo e ci sedevamo a mangiare in silenzio. Io accettavo tutto questo come la migliore delle situazioni possibili. In effetti ero un vero pigionante. Io e il vecchio non eravamo parenti, e non arrivai mai a pensare che quello fosse qualcosa di più di un accomodamento provvisorio.
Vivendo in clandestinità, non potevo più incontrare i miei amici di prima o ricevere le lezioni di musica dalla signora Levin o vedere quella piccola Sarah che era così pazza di me. Di tanto in tanto la donna del consiglio che mi aveva dato il nome nuovo veniva a trovarmi, a dare un’occhiata in giro, a vedere se tutto andava bene. Portava a Srebnitsky qualche sigaretta o dello Schnaps in una bottiglietta. Lui accettava queste cose come se gli fossero dovute. Per Yehoshua Mendelssohn la donna aveva un pettinino o un quaderno e una matita. Ma la cosa migliore che portò, il mio tesoro più prezioso, fu un fumetto americano, una pagina di fumetti a colori di un giornale americano utilizzata come carta da imballaggio per un pacco che miracolosamente aveva trovato la strada del ghetto. Lisciai quel foglio spiegazzato e lo lessi e rilessi, cercando di capire le parole inglesi sopra la testa dei personaggi. Una storia era di un cavaliere medievale con la corazza che galoppava attraverso i campi su un cavallo bianco. Un’altra mostrava un detective della polizia con un impermeabile giallo che correva sul tetto di un vagone ferroviario con una pistola in mano. Non mi seccava non poter seguire ogni storia oltre le sei o le otto vignette del giornale, mi bastava sapere che esistevano simili eroi e immaginare per conto mio le avventure che potevano avere. C’era un accenno a diversi periodi storici, a gente che nasceva in epoche diverse, ciascuna delle quali aveva i suoi pericoli. Era, più o meno, la stessa riflessione fatta da un rabbino durante una riunione clandestina di bambini per Hanukkah.8 «Il Santissimo, benedetto sia il Suo nome, ci ha dato la Torah, ci ha dato la compassione, l’umiltà e la forza di resistere a tutti coloro che vogliono negarci la nostra fede. E noi siamo messi alla prova come lo furono i maccabei, che ripresero il Tempio ai malvagi e accesero il lume che aveva olio solo per un giorno ma che, grazie al Santissimo, che sia benedetto, ne durò otto. E noi spezzeremo le nostre catene e sconfiggeremo gli oppressori come fecero i maccabei.»
Ogni mattina, appena alzato, guardavo, di là dalla strada, l’orto che mio padre aveva progettato per la comunità. Anche nella rigida stagione invernale, col terreno spoglio tra le stoppie rinsecchite, vedevo i solchi che delimitavano le diverse parti e immaginavo i suoi pensieri mentre rifletteva su cosa piantare e dove. Nel pomeriggio, quando era abbastanza buio, mi piaceva andarvi a passeggiare. Nessuno veniva a disturbarmi. I soldati di guardia tendevano a essere meno vigili, più preoccupati di stare al caldo che di sorvegliare alcunché. Ma poi cadde la neve, come un sudario funebre steso sopra il campo. La configurazione del terreno sparì e non rimase altro che una candida distesa fredda e abbacinante. Mi accecava, m’impediva di guardarla, e per la prima volta da quando avevo perso i genitori piansi. Guardando quel terribile candore mi ero accorto che i ricordi che avevo di loro cominciavano a svanire… il loro aspetto fisico, le voci.
Alla fine, per quanti sforzi facessi, tutto ciò che di essi riuscii a recuperare furono gli sprazzi della loro moralità nel mio modo di pensare.
Un giorno, tornando dai miei vagabondaggi, vidi che Srebnitsky stava ritagliando un abito da una grossa pezza di magnifica stoffa morbida e di un vivo color nerofumo. Da dove veniva? Glielo avrei domandato, se nella concentrazione del sarto non fosse stata esplicita la richiesta di tacere. Le sue labbra si muovevano come se stesse parlando tra sé. Sembrava arrabbiato. Eppure svolgeva il suo lavoro rapidamente e con precisione. Mi sedetti di fianco a lui e gli guardai le mani. Alla fine esse alzarono i pezzi di stoffa che avevano tagliato e li imbastirono e li drappeggiarono sul manichino da uomo, che in un lampo diventò un ufficiale delle SS in corso di realizzazione.
Fece un passo indietro per studiare la sua opera. «Vedi com’è diventato famoso tuo nonno? La notizia della sua arte è arrivata a Sua Eminenza il maggiore Schmitz. Ho sbagliato ad accettare quest’onore?» disse, indicando il manichino.
«Dovevi farlo» dissi con la franchezza dei giovani.
«Sì. Credo di sì. E mi dico che è un buon segno, i primi fermenti nella loro evoluzione, che uno di questi criminali possa veramente prender parte a una normale operazione commerciale.»
A questo punto Srebnitsky scoprì una macchina da cucire a pedale. «Così me l’hanno restituita. Eh? Hai detto qualcosa?» Scossi il capo, ma lui continuò a discutere tra sé come se a contestarlo fossi io. «Se non fosse per il suo talento, Srebnitsky non sarebbe qui. Ricordatelo. Queste mani che tu guardi sempre con ammirazione – perché io so questo di te, anche se tu sei troppo arrogante per diventare un sarto – sono queste sue vecchie mani che l’hanno tenuto in vita. E se questo per te non vale niente, hanno tenuto in vita anche te, Yehoshua Mendelssohn! Yehoshua Mendelssohn» ripeté, brontolando, mentre tornava a dedicarsi al suo lavoro.
Perché naturalmente, come mi resi conto in quel momento, proprio come lui era un estraneo per me, io non ero suo nipote. L’hai capito, no, che mi avevano dato il nome del defunto nipote del sarto? Non mi disse mai com’era andata, e fu solo più tardi, al consiglio, che lo seppi. Prima dell’esistenza del ghetto, quando la guerra aveva raggiunto la nostra città, i russi si erano ritirati verso est. I nostri vicini lituani avevano colto l’occasione per concedersi un piccolo pogrom. Srebnitsky viveva con la figlia, il genero e il nipote Yehoshua in un appartamento di via Vytauto. Mentre lavorava nella sua bottega in un’altra parte della città, una folla tumultuante sfondò la porta dell’appartamento, trascinò in strada i suoi familiari e li uccise a bastonate. Tutt’intorno, altri facevano lo stesso, ammazzando ebrei e asportando dalle loro case mobili, tappeti, piatti, apparecchi radio, ogni cosa. Srebnitsky corse a casa e trovò i corpi della figlia, del marito di sua figlia e di suo nipote sul marciapiede. Quando i tedeschi occuparono la città, riportarono l’ordine sfrattando tutti gli ebrei e trasferendoli nel quartiere povero e in rovina oltre il fiume che diventò il ghetto. Questo fu fatto non per proteggerci, ovviamente, ma per tenerci come manodopera forzata nelle fabbriche di materiale bellico. Io stesso ricordavo quei tempi, quando ci eravamo nascosti nel nostro appartamento, a un piano alto, per fortuna, con l’armadio davanti alla porta d’ingresso. E ricordavo la nostra migrazione, con i miei genitori che spingevano il carretto di masserizie che ci avevano permesso di portare con noi di là dal ponte. Srebnitsky, orbo di tutti i suoi familiari, aveva fatto quel viaggio da solo.
Naturalmente l’esperienza del sarto non era affatto eccezionale, ma alcuni anni dopo, quando riflettei sull’atto che aveva provocato la sua morte, giunsi a questa conclusione: che, mentre non si poteva spingere nessuno fino al punto di rinunciare alla propria vita, nei casi come quello di Srebnitsky non era il semplice desiderio di morire, era il desiderio di trascendere se stessi che, una volta realizzato, portava alla fine della vita. È una cosa diversa, non è affatto la stessa cosa. E così i tormenti che provavamo tutti, insopportabili e consueti, erano davvero eccezionali nel modo in cui venivano assorbiti da ogni cuore.
* * *
— Obiezioni di Pem agli esaminatori inviati dal vescovo
Burkert, forse il nostro più eminente studioso di antiche religioni… Conoscete la sua opera? Analizza le origini del sacro, impresa eretica di per sé. Ci fa l’esempio della lucertola che lascia la coda in bocca al predatore. Della volpe che si rosicchia via una zampa per scampare alla tagliola. Volete sapere cosa c’entra questo con Dio? In quella risposta biologica programmata c’è l’idea del sacrificio. Rinunci a una parte per salvare l’intero. Abbondano i miti dell’antichità in cui esseri umani sfuggono a mostri e si salvano solo sacrificando pezzi di se stessi per deviare o frenare l’inseguimento. Oreste perde un dito, e così pure Odisseo. Perdere un dito era un sacrificio molto grande nella Grecia antica. Ma col tempo, per la maggior parte, i sacrifici si sono ritualizzati, sono diventati simbolici. Non ti mutili più, al posto del dito lasci un anello sull’altare. Sgozzi un agnello. Abbandoni un capro espiatorio nel deserto. Ma quando è in gioco il destino di una comunità, si sceglie un uomo che salti nell’abisso affinché l’abisso non inghiotta la comunità. Si offre una vergine al lago senza fondo. Dalla slitta una persona viene gettata ai lupi lanciati all’inseguimento. Giona è buttato in mare per salvare la nave e il suo equipaggio. E proprio come il branco pascola sicuro per qualche tempo dopo che i leoni ne hanno sbranato e divorato un membro, così l’umanità si sente più difesa dagli infiniti terrori senza volto se uno dei suoi componenti viene sacrificato, se, per il bene di tutti, uno deve pagare come parte dell’intero, come la zampa che la volpe lascia nella tagliola.
Pensateci. Stiamo facendo i discorsi degli intellettuali. Stiamo cercando la possibile origine biologica del sacro, di quanto abbiamo di più venerabile, la nostra solenne rappresentazione del Dio incarnato che muore e rimuore, di domenica in domenica, perché il resto di noi possa trovare la salvezza.
È irrilevante, tutto questo?…
Pagels, lavorando sui rotoli scoperti a Nag Hammadi, in Egitto, nel 1945, trova che i primi cristiani erano profondamente divisi tra coloro che proponevano una chiesa secondo una successione apostolica basata su un’interpretazione letterale della resurrezione di Gesù e coloro che accettavano la resurrezione solo come metafora spirituale per la gnosi raggiunta emozionalmente, misticamente, come sapienza al di là della comune sapienza, come percezione sotto o sopra la verità di tutti i giorni… C’era, dunque, una lotta per il potere. Gnostici e sinottici si battevano tra loro con vangeli concorrenti. Gli gnostici, i quali dicevano che non c’era bisogno né della chiesa né del sacerdote né dell’episcopato, furono sconfitti, inevitabilmente, non avendo un’organizzazione, date le loro idee. Mentre i cristiani istituzionalizzati erano comprensibilmente ansiosi e coscienti del fatto che, per sopravvivere, la loro setta perseguitata aveva bisogno di una rete, con norme associative e comuni strategie per la sopravvivenza; il concetto di martirio, per esempio, fu coniato per trarre qualcosa di positivo dalla loro terribile persecuzione; ed è anche vero che la lotta per Gesù fu una lotta per il potere, che l’idea di una vera resurrezione, che gli istituzionalisti propugnavano e gli gnostici mettevano in ridicolo, conferì autorevolezza alle cariche della chiesa, e che la lotta per definire Gesù e canonizzarne le parole, o le interpretazioni delle sue parole fatte da altri, era politica pura, per appassionata o venerabile che fosse, e che, col desiderio di perpetuare l’autorità di Gesù che sfocia nella Riforma e nella creazione delle sette protestanti, nelle quali si proponeva una specie di gnosi residua in segno di protesta contro i cumuli sacramentali di una burocrazia ecclesiastica, quella che oggi è la cristianità, con tutta la risonanza che ha come fede e come cultura ricca e complessa, è una creazione politica con una storia politica. Fu un Gesù politicamente trionfante quello creato dai conflitti della prima cristianità, e da allora è sempre stato un Gesù politico, a partire dal giorno della conversione dell’imperatore Costantino nel quarto secolo e attraverso tutta la lunga storia del cristianesimo europeo; basta pensare alla storia della Chiesa cattolica, alle sue crociate, alla sua Inquisizione, alle sue contese e/o alle sue alleanze con re e imperatori; e, con l’avvento della Riforma, alla storia della partecipazione attiva della cristianità, in tutte le sue forme, alle guerre tra gli stati e al governo dei popoli. È la storia del potere…
Scusate. Voi volevate interrogarmi e io invece mi sono dilungato su queste cose elementari che conoscete bene. Ma io comincio a sentirne il peso. L’esegesi biblica dura ormai da centocinquant’anni. Dobbiamo tornare a vedere ciò che è sotto gli occhi di tutti. La nostra divergenza è nel modo di valutare queste… divagazioni intellettuali. Voi le considerate irrilevanti. Io vorrei che le vedeste come una sfida. La nostra tradizione ha una grande latitudine. Quelli che ci uniscono sono i sacramenti, ma quando si arriva ai problemi dottrinali tra noi c’è divisione, e io credo che dovremmo riconoscerlo. Tutti questi miracoli che proclamiamo per me sono solo un peso. Eppure mi ritengo un buon cristiano. Questa è una professione di fede. Spero che non la userete per espellere dai ranghi uno della mia generazione che, secondo voi, si è tirato dietro, fin qui, gli anni Sessanta. Grazie.
* * *
— Il Midrash Jazz Quartet suona i classici
STARDUST
Sometimes I wonder why
I spend the lonely night
Dreaming of a song?
The melody haunts my reverie,
And I am once again with you
When our love was new,
And each kiss an inspiration,
But that was long ago: now my consolation
Is in the stardust of a song.
Beside a garden wall, when stars are bright,
You are in my arms.
The nightingale tells his fairy tale
Of paradise, where roses grew.
Tho’ I dream in vain
In my heart it will remain:
My stardust melody,
The memory of love’s refrain.9
Il cantante si chiede perché sciupa le notti
spasimando per il suo perduto amore
che sogna quasi fosse una canzone. Naturalmente lui sa perché:
è ossessionato, non riesce a trattenersi,
è in un disgustoso stato d’animo di autocommiserazione.
Lei doveva brillare, per lui, come una stella,
se il canto che ode non è che la sua polvere.
Che strano invocare, in nome del perduto amore,
i cinerei prodotti di una conflagrazione nucleare.
Questo è il suo problema, la sua metaforica disperazione.
C’è da meravigliarsi del suo sentimentalismo
– avere preteso addirittura di essere in paradiso,
nel Giardino dell’Eden
dove ogni cosa durava in eterno e le rose
non cessavano mai di sbocciare
e la sera la sua innamorata duettava
con l’uccello appollaiato prediletto dai reali cinesi –
come se nessuno dei suoi antenati avesse mai mangiato
il frutto dell’albero famoso,
come se l’amore fosse eterno, la vita affrancata dalla morte.
(radi applausi)
Se quella che tu canti tra te e te
non è una canzone,
ma il sogno di ciò che una canzone dovrebbe essere,
naturalmente è tutto sbagliato,
la canzone si dissolve come i sogni
e tutto quello che credevi di sapere
se n’è andato,
ogni nota un lamento.
Ecco il vero problema del cuore:
c’è una grande confusione nella mente
ed è impossibile distinguere
il giorno dalla notte.
Come se Dio, nella sua costernazione,
avesse riportato il mondo al punto di partenza.
E in tutto questo, come sogno, come canto,
dove sta l’innamorato? Certo non in un Giardino.
Ci sono fulmini, c’è la pioggia,
fuochi celesti, mondi in collisione,
e il canto dello spezzarsi dell’amore
è la musica delle sfere.
(applausi indifferenti)
Il momento peggiore è di notte quand’è solo,
ma lei è lì, non se n’è andata.
Lui ricorda quando erano una cosa sola,
Che è l’unico paradiso che possiamo
tentare di ottenere,
sebbene di breve durata,
poiché dura meno di un bocciolo di rosa.
Oggi dunque non sono più nel Giardino,
come se lui fosse l’unico uomo sulla terra
e lei l’unica donna,
ma seduti nel soggiorno in poltrone contrapposte,
e forse lui sta leggendo il giornale, o fingendo di leggerlo,
e lei ha un libro o una Bibbia,
e non hanno niente da dirsi,
se non cercare di coordinare
i loro appuntamenti dal medico.
Se ora lui la prendesse tra le braccia
lei farebbe un passo indietro,
sbalordita da quel bizzarro comportamento,
e forse nel suo sogno a occhi aperti lui guarda fuori dalla finestra,
vede passare ragazze avvenenti e flessuose
e pensa, con le parole del poeta:
“Un giorno ne conoscevo una più bella di voi”.
Che non è una grande consolazione.
Non più della vista
delle stelle notturne
che brillano abbastanza vivacemente,
ma sono braci morenti
tra le ceneri della sua letargia.
(applausi molto sporadici)
Cantiamo i blues,
Parole inventeremo,
Il canto degli uccelli
Imiteremo
Nel giardino dell’Addizione
Pari e Dispari spio,
Lei non è tra le sue braccia,
Stanno cercando Dio
Notte piena di stelle
Ridotta – aiuto –
In polvere. E io qui,
Nel paradiso perduto.
— Il cantante inventa una canzone
— Ogni nota un lamento
— Mentre noi siamo seduti nelle poltrone del soggiorno
— Qui nel paradiso perduto
Sometimes I wonder why
I spend the lonely night
Dreaming of a song?
The melody haunts my reverie,
And I am once again with you
When our love was new,
And each kiss an inspiration…
(applausi riconoscenti)
* * *
— Un mattino d’inverno, solo qualche minuto dopo che Srebnitsky aveva cucito le mostrine sulle spalle e il cordoncino sui risvolti della divisa, una macchina si fermò davanti alla porta e ne scese l’ufficiale delle SS che aveva commissionato il lavoro. Era il maggiore Schmitz, comandante e direttore generale del terrore. Io corsi nella stanza sul retro e sgattaiolai fuori dalla porta. L’impresa del sarto mi aveva preoccupato fin dal primo momento, perché violava la regola che imponeva di mantenere la massima anonimità, di non fare nulla per distinguersi. Se il suo genio sartoriale l’aveva reso utile e ci aveva tenuti in vita, lui e me, esso lasciava intravedere anche la possibilità della morte. La logica delle nostre sciagurate circostanze garantiva l’inesistenza di una semplice proposizione che non contenesse il suo contrario.
Mi piazzai vicino al recinto dell’orto, a una certa distanza dall’isolato. Era una mattina fredda e nuvolosa. Nel grigiore dell’inverno e tra le misere dimore di quella strada, con i fili di fumo che uscivano dai camini, la macchina dello stato maggiore spiccava come l’imponente rarità di un altro mondo. Era una Mercedes, una berlina nera con la cabina squadrata e il cofano del motore lungo e basso, con la griglia cromata del radiatore a mo’ di prua. Aveva due enormi fanali argentei che brillavano come stelle, evidentemente inattaccabili dalla neve, dalla fuliggine e dalla fanghiglia. L’autista si preoccupava di girarle intorno con uno straccio per cancellare gli affronti più recenti. Capivo, da come mi guardava, che avrei potuto avvicinarmi quanto volevo per vedere – io, ragazzo ebreo – di cos’era capace la civiltà tedesca, per inchinarmi davanti alla gloria di quella macchina e alla noncurante magnificenza del suo autista. Indossava una divisa da graduato delle SS con la pistola nella fondina.
Naturalmente ciò che mi spinse ad avvicinarmi a quella macchina non fu il suo lustro, ma il calore diffuso dal motore. Ebbi così la possibilità di vedere molto bene ciò che accadde. Il maggiore Schmitz, quando uscì, indossava la sua nuova uniforme su misura, compresa la bustina portata sulle ventitré. Era un uomo corpulento dai fianchi larghi. Dietro di lui c’era Srebnitsky, con la vecchia uniforme sul braccio. L’autista avanzò di scatto per prendere l’uniforme. Aprì la portiera posteriore al proprio comandante, poi quella anteriore, e negli attimi che seguirono si occupò di stendere con cura l’uniforme sul sedile. Schmitz rimase in posa nell’elegante divisa nuova e negli stivali neri con le mani sui fianchi e un sorriso sprezzante sulla faccia. «Ma non me la paga?» chiese Srebnitsky con voce timida. L’ufficiale si mise a ridere. «Non un Pfennig per il buon lavoro di Srebnitsky, anche le maniche foderate, e tutto con doppie cuciture?» E si mise a ridere anche lui. «Neanche una sigaretta per il vecchio sarto che ha lavorato tanto, l’artista che ha confezionato questo capo per il bel maggiore del Terzo Reich?» E ridevano di cuore tutt’e due per quello scherzo, un ebreo che si aspettava di essere pagato. All’improvviso Srebnitsky aggrottò la fronte, e le spalle gli s’incurvarono mentre lui scrutava attentamente qualcosa sulla divisa nuova. «Mi perdoni, Eccellenza, un pezzo di filo, un momento.» E portando una mano al petto del comandante, che aveva alzato gli occhi al cielo e aspettava con pazienza l’ultimo tocco, diede uno strattone al bavero e squarciò con la punta delle forbici il petto della divisa, un gesto così brusco che nell’arco di un istante un gran pezzo della giubba rovinata restò a penzolare sul ginocchio dell’ufficiale. «Cucila da te allora, ladro!» urlò il sarto. «Ladro, ecco cosa sei, ecco cosa siete tutti quanti. Tutti ladri, ladri del nostro lavoro, ladri della nostra vita!»
Il maggiore rimase a bocca aperta, credo avesse persino lanciato un grido di paura. Ma il suo autista saltò addosso al vecchio e lo buttò a terra colpendolo con l’impugnatura della pistola. Poi cominciò a prenderlo a calci. «Come osi aggredire un ufficiale tedesco?» urlava. «Come osi alzare la mano su di lui?» Poi puntò la pistola sul sarto ferito e gli avrebbe sparato lì per lì se il maggiore non gli avesse ordinato di fermarsi. Stringendosi al petto la giubba strappata, Schmitz somigliava a una donna che si coprisse i seni. Si guardò intorno per vedere chi avesse assistito alla sua umiliazione e grazie a Dio non scorse la mia faccia, perché io gli avevo voltato le spalle e stavo scomparendo nella viuzza tra due case. Da quella posizione vantaggiosa tra le ombre, qualche attimo dopo, vidi l’auto passare in un lampo per la strada. Tesi l’orecchio al suono sempre più sommesso del motore, poi tornai di corsa da Srebnitsky, che giaceva nella neve là dov’era caduto. Perdeva sangue dalla testa, tossiva, si tastava la gola e cercava di dire qualcosa. Mi inginocchiai accanto a lui. Cominciò a scuotere la testa e fece un tentativo di sorridere, poi riprese a tossire, a borbottare con voce chioccia e a tossire di nuovo, e per un attimo gli occhi gli rotearono nelle orbite. Poi, improvvisamente, mi sentii raddrizzare da uno dei vicini. «Non hai ancora capito? È spacciato, il tuo vecchio. Fila, scappa, via di qui!» Poi lui stesso rientrò in casa di corsa e sbatté la porta.
Cosa voleva dire quel vicino? Che quando un capofamiglia commetteva un reato oppure veniva destinato all’eliminazione, la linea di condotta dei tedeschi consisteva nell’uccidere anche le persone a carico. Ecco perché, quando i miei genitori non erano tornati a casa, io ero stato portato subito negli uffici del consiglio e avevo ricevuto un altro nome. Fu al consiglio che corsi adesso, da solo questa volta.
Il mio arrivo gettò nel silenzio quel posto animato e rumoroso: il viso pallido e terrorizzato di un bambino era un segnale che conoscevano fin troppo bene. Le mie parole li misero in allarme. Vari ragazzi furono chiamati e spediti a dare la notizia tra le case e le botteghe: le persone ignote ai tedeschi dovevano nascondersi immediatamente. Io rimasi là seduto, in silenzio, mentre quei ragazzi, nei cui ranghi presto sarei entrato, si disperdevano in ogni direzione. In pochi minuti tutti nel ghetto sapevano cos’aveva fatto il sarto. Dopo un po’ arrivò la notizia che era stato preso e condotto al comando della Gestapo. Il problema adesso era: come avrebbero i tedeschi giudicato il suo reato? La gente cominciava a radunarsi nella strada davanti agli uffici del consiglio. Circolavano voci di ogni genere: il prezzo dell’atto di Srebnitsky sarebbe stato di trenta, quaranta, cento vite ebree. Parecchie volte il signor Barbanel, il direttore dell’ufficio, dovette andar fuori e dire alla folla di disperdersi e badare ai fatti suoi.
In netto contrasto col pubblico, che diventava sempre più agitato, gli impiegati dell’ufficio mantennero la calma. Il più calmo di tutti, forse la fonte di questa calma, era il presidente del consiglio, il dottor Sigmund Koenig, un bell’uomo tra i sessanta e i settant’anni, un signore di grande dignità, alto più di un metro e ottanta. Alla fine uscì anche lui, e la sua sola comparsa fece ammutolire la piccola folla che si era radunata. Il dottor Koenig disse che si aspettava di essere chiamato dal comandante del ghetto per appurare esattamente il da farsi, ma che per il momento, secondo lui, non c’era il pericolo di un’azione in grande stile. Le sue parole erano quasi sussurrate. Stando alle sue spalle, sulla soglia, udivo a malapena quanto diceva. Non portava né cappotto né cappello. Pareva che il freddo non gli desse alcun fastidio. Era vestito con cura, un doppiopetto grigio con una camicia pulita e una cravatta. Ben presto sarei venuto a sapere che era l’unico completo che avesse. Era liso – avevo ormai l’occhio del sarto per quelle cose – e gli pendeva da tutte le parti in modo tale da far pensare a un logoramento fisico. Il colletto della camicia gli ballava intorno al collo. Anche le scarpe nere erano molto sciupate, e avevo notato che una lente dei suoi occhiali, la destra, era incrinata, tanto che l’occhio stesso sembrava fratturato. Ciononostante, tutto in lui era meticolosamente in ordine. Era sbarbato di fresco e aveva bellissimi capelli color argento pettinati all’indietro con una lunga onda che mi faceva pensare a qualcosa di poetico, allo stendardo di un cavaliere medievale sventolante sopra la sua testa mentre al piccolo trotto si accingeva a dare battaglia. Senza badare a me, il dottor Koenig tornò nel proprio ufficio interno. Da un uomo della sua importanza non mi sarei aspettato altro.
Fu nel pomeriggio che un soldato tedesco in motocicletta arrivò con un ordine per il consiglio, l’ordine scritto di fornire immediatamente alcuni carpentieri per erigere una forca nella piazza cittadina accanto al ponte. Poco dopo il dottor Koenig poté raggiungere il comandante per telefono. Gli fu detto che tutti gli ebrei dovevano trovarsi all’alba nella piazza per assistere all’impiccagione del sarto Srebnitsky. Fu un grande sollievo per tutti, mi parve, per tutti tranne me. Ora che il mio preteso nonno era spacciato, i membri del consiglio valutarono con calma che cosa fare di me. Dopo avere spulciato i registri, decisero che non era disponibile nessuna famiglia con un figlio deceduto del quale io potessi assumere l’identità.
Il signor Barbanel, il vicepresidente, uomo che sarei giunto a venerare, si accostò alla panca dov’ero seduto e si accovacciò davanti a me. Doveva avere trentaquattro o trentacinque anni, cosa che lo rendeva il membro di gran lunga più giovane del consiglio. Era un uomo tarchiato con una faccia buona e sincera, un ciuffo di capelli corvini, due occhi scuri sotto folte sopracciglia nere, una bocca larga e un naso slavo che sembrava essere stato modellato a suon di pugni. Sapeva scherzare, Barbanel. Sapeva parlare ai bambini.
«Dunque, Yehoshua X, uomo del mistero, agente segreto, sei pronto per la tua nuova missione?» Aveva tra le mani una bustina come quelle che avevo visto sugli altri ragazzi. Senza tante cerimonie me la mise in testa, e con questo io diventai ufficialmente una staffetta agli ordini del consiglio, noto a tutti come Yehoshua, ma senza cognome, né Mendelssohn né quello della mia famiglia, e senza una carta d’identità che mi tutelasse, ma con la bustina militare munita di un’ala gialla rivoltata che s’intonava con la stella gialla che avevo sulla giacca.
Fu per impedirmi di rimuginare troppo, immagino, che mi ordinarono di dedicarmi subito alle mie mansioni di staffetta accompagnando Micah, un ragazzo più grande di me, uno spilungone, nei giri che doveva fare quella sera per informare i suoi “clienti”, come li chiamava lui, che all’alba dovevano trovarsi nella piazza. Dopo un po’ Micah m’incoraggiò a recare personalmente il mio messaggio. Vi riuscii senza fatica. Il vecchio doveva essere impiccato, e io ero lì che andavo in giro dicendo a tutti di venire a vederlo dondolare. Mi sentivo strano, la testa mi girava come se avessi fatto delle piroette. Non ero più il falso nipote del sarto, ma un’altra persona, falsa anche questa: un orfano senza nome affidato alla tutela del consiglio? Una delle sue staffette? Non lo sapevo. In ogni caso ero un ragazzo che sapeva nascondersi quando una persona si metteva nei pasticci, e sapeva dire a tutti di venire a vedere i pasticci in cui si trovava quella persona.
Passai la mia prima notte nel dormitorio delle staffette, sopra gli uffici del consiglio, nella morsa di un gelido terrore. Che spettacolo nauseante, un vecchio scaraventato per terra e preso a calci! E poi era rimasto là disteso sulla neve con gli occhi roteanti nelle orbite. Era in quel momento che avrei dovuto assisterlo, invece di scappare. Avrei potuto restare con lui per un po’, in ogni modo, anche solo per aiutarlo a rientrare in casa.
La notte, al buio, è il momento in cui vedi la verità. Non mi assolvevo perché ero un bambino.
Ora, un’altra cosa è che mai prima di allora ero stato vicino alla vera direzione del ghetto, anche se naturalmente avevo udito mio padre parlare del consiglio in modo critico. E così, mentre passavo quell’orribile notte in bianco, pensai a ciò che avevo visto negli uffici e provai sentimenti contrastanti. Mi avevano trattato piuttosto bene, non era questo che mi disturbava. Era che tutti erano così calmi… com’era piatta, la calma di chi era all’interno, di chi vedeva tutto il quadro! Ed era indubbiamente necessario, se il consiglio doveva funzionare. Ma in un certo senso, ai miei giovani occhi quella calma, il suo effetto su di me, mi suggeriva che quanto stava accadendo era ordinaria amministrazione, come se il terribile potere dei tedeschi su di noi fosse una cosa assolutamente normale.
Questo dottor Koenig, per esempio, così carico di responsabilità… forse avevo avuto l’impressione che operasse allo stesso livello dei tedeschi e che fosse, in pratica, un loro pari. Data la sua incontestabile dignità, forse i tedeschi avevano avuto la stessa impressione, e forse era stato per negare a se stessi che era così che gli avevano affibbiato, come dovevo apprendere, il titolo canzonatorio di “ebreo in capo”, una presa in giro destinata a fargli intendere qual era il suo posto. Naturalmente non era uno sciocco, non occorreva descrivergli la situazione. Capiva tutto. E non negava né a se stesso né agli altri membri del consiglio ciò che avrebbero potuto essere indotti a pensare: che il loro ruolo non era moralmente ambiguo. Per ogni razione supplementare che riuscivano a ottenere, o per ogni strappo al regolamento, pagavano con una concessione. Era un calcolo brutale di corpi e di lavoro e di cibo e di combustibile e di salute e di malattie. Qui non intendo porre in dubbio il suo onore, la sua forza d’animo, la sua nobiltà, dottor Koenig. Era stato costretto ad assumere la presidenza del consiglio dal grande rispetto in cui lo teneva la comunità. Agiva con coraggio nelle circostanze più pericolose, che più tardi arrivai a comprendere fin nei minimi particolari. Ma in quel momento nulla fece per il sarto che era al centro della crisi. Non che avrebbe potuto cambiare qualcosa, certo. Ma nel mio cuore di decenne tormentato dai rimorsi, mi sembrava che lui e tutti gli altri fossero più che pronti ad adattarsi al disastro che si era abbattuto sul signor Srebnitsky e a lasciare che facesse il suo corso. Ho pensato molto a tutto questo. La calma che tanto mi aveva sconcertato da bambino era anzitutto quella tipica dei medici, che hanno una grande familiarità con la morte e non si scompongono alla sua presenza. Sigmund Koenig, dopotutto, era proprio un medico. Ma, oltre a questo, essa deriva dalla capacità di reagire con pragmatico realismo a esperienze che sono surreali, capacità di cui dispongono gli adulti, ma di solito non i bambini. Ed è qui che si nasconde l’ambiguità.
Naturalmente tutte queste sottigliezze dovevano svanire in poco tempo, via via che, come staffetta, i miei rapporti con l’amministrazione si stringevano, e io ero sempre più assorbito dalla drammaticità dei miei nuovi compiti.
All’alba i tedeschi illuminarono la piazza con i riflettori del corpo di guardia e i fari dei camion. Si era radunata una buona parte della cittadinanza, forse mille, forse millecinquecento persone, tante da riempire la piazza e soddisfare le autorità. Tolto il rombo dei motori al minimo, regnava il più assoluto silenzio. Presenti e ben visibili erano Schmitz e il suo stato maggiore, funzionari della polizia lituana, il sindaco della città, vari soldati e così via. Il signor Barbanel aveva suggerito che per me sarebbe stato forse meglio restare nel dormitorio finché non fosse finito tutto, ma io presi la decisione opposta. Anzi, mi feci largo tra la folla fino a trovarmi da un lato della piazza, vicinissimo al patibolo.
Quando lo portarono fuori, il sarto era accasciato sulle spalle di due poliziotti ebrei del ghetto e sembrava già mezzo morto. Trascinava i piedi per terra. Non riusciva a camminare, e io ebbi l’impressione che gli avessero rotto le gambe. Lo issarono sulla pedana passando per la scaletta e lo sostennero tenendolo per le braccia mentre un altro poliziotto gli legava le mani dietro la schiena e gli metteva il cappio intorno al collo. Le sue mani, quegli agili e abili strumenti che avevo ammirato, erano due straziate protuberanze coperte di sangue raggrumato. All’ultimo momento, prima che gli togliessero con un calcio lo sgabello da sotto i piedi, il signor Srebnitsky parve uscire dalla sua dolorosa catalessi. Alzò la testa e, ne sono sicuro, vide chiaramente la scena che aveva davanti agli occhi e, apprezzandone la grandiosità, vi lesse la propria gloria. Mi chiederai come faccio a saperlo: avevo visto, avevamo visto tutti, i resti carbonizzati delle vittime dell’ospedale, conoscevamo la voluta anonimità dei cadaveri mitragliati in massa nel forte. Ora io credo che una folle luce di trionfo brillò negli occhi del sarto prima che un calcio gli togliesse lo sgabello da sotto i piedi e che il suo fragile corpo penzolasse dalla forca. Non fece un movimento, non lottò, la vita lo lasciò quasi istantaneamente. I membri dell’amministrazione cittadina salirono in macchina e si allontanarono, i soldati si dispersero, le squadre di lavoro serrarono le file, varcarono la porta e cominciarono a marciare attraverso il ponte. Un soldato delle SS appese al collo del cadavere un cartello rozzamente compilato: Questo ebreo ha osato alzare la mano contro un ufficiale tedesco.
Finalmente un po’ di luce cominciò ad apparire nel cielo. Mi trattenni nella piazza. Avrei voluto che il signor Srebnitsky mi vedesse, che vedesse che non lo avevo dimenticato. Mi sedetti per qualche minuto con le spalle appoggiate alla forca.
Con le forbici che teneva in mano avrebbe potuto pugnalare il comandante. Per un attimo avevo creduto che l’avrebbe fatto, tanto grande era la sua rabbia. Da allora sono giunto a un’altra conclusione: doveva aver capito quale disastro sarebbe stato per il ghetto se avesse ucciso quell’uomo. Vedi, dunque, che la sua fu una vera e propria autoimmolazione, un atto di sfida calcolato e preciso come l’arte che metteva nel suo mestiere.
Ma dopo tutti questi anni ciò che resta nella mia mente di quel vecchio irascibile e stizzoso, di quell’iconoclasta, di quell’anima inasprita, è che mi allungava i vestiti man mano che crescevo e che si occupò di procurarmi un altro paio di scarpe quando quelle vecchie non mi andarono più bene.
Un’altra cosa: i tedeschi avevano ordinato che il corpo dell’impiccato rimanesse esposto al pubblico per ventiquattr’ore. Un rabbino ortodosso la considerò un’intollerabile empietà. Venne negli uffici del consiglio a chiedere che si facesse qualcosa. Il signor Barbanel perse la pazienza. «Un’empietà!» urlò. «Mi dica, cosa non è un’empietà? Averlo trucidato, quello che cos’era?… Ha un’altra parola per quello?» Il rabbino girò sui tacchi e corse via. Andò nella piazza con un altro uomo, un aiutante che portava un sudario bianco. Si arrampicarono sul patibolo e stavano tagliando la corda per tirare giù il cadavere quando una sentinella tedesca alzò la carabina e li uccise entrambi.
* * *
— Il pianeta terra ha avuto in dono l’acqua, in grandi quantità, masse ondeggianti di oceano e mari salini, limpidi laghi azzurri e fiumi palpitanti di pesci, ruscelli, torrenti, rogge e sorgenti pulsanti, acque di superficie montane, piogge, nebbie, foschie e uragani. Alla nostra nascita, miliardi d’anni fa, massa amorfa di materia stellare ronzante e radiante, ci sciogliemmo rapprendendoci in un nucleo di ferro e nickel, fuso ai margini, e sopra questo nucleo formammo un manto di roccia rovente e una crosta minerale. Cominciammo immediatamente a raffreddarci, creando così enormi nuvole di vapore che si condensarono nei grandi crateri e nei bacini rocciosi finché i mari non furono pieni. La roccia, sgretolandosi, diventò terra, diventò fondo marino, e i granuli del fondo marino cedettero il sale che contenevano e produssero le prime possibilità – ossigenate, azotate e gorgoglianti – di una vita cieca e muta. La materia cellulare morta espunta dai mari fertilizzò la terra nata dallo sgretolarsi della roccia. Siamo un’oasi blu nello spazio nero, imbozzolati nei nutrienti gas della nostra atmosfera. Sembriamo pacifici, ma non lo siamo. Siamo un pianeta d’acqua e di roccia, di sabbia, limo e terra. Le placche tettoniche sotto la crosta terrestre si muovono e si spostano qua e là, spezzando la massa terrestre in continenti che galleggiano e, nel corso di eoni, cambiano forma. Le placche collidono, montano l’una sull’altra, si fendono, e grandi tratti del fondo marino s’innalzano con un sospiro trasformandosi in catene montuose, enormi vulcani sul fondo del mare creano isole che sbocciano negli oceani, la crosta terrestre trema, con un brivido ci dà forme diverse, e noi cambiamo faccia e ci spacchiamo, tempeste assalgono i nostri cieli, i nostri monti scaricano tonanti valanghe di neve sulle nostre valli, i nostri banchi di ghiaccio galleggiante dell’Artide e dell’Antartide si spezzano come le ossa di Dio, le nostre dune di sabbia del deserto, erose dal vento, si ammassano per seppellirci, folli trombe d’aria ci fanno volare qua e là e ci sbattono per terra come bambole di stracci, grandi alluvioni di viscosa lava rovente seppelliscono i nostri villaggi, e in tutta questa furia di autorealizzazione planetaria noi ruotiamo attorno a un asse e giriamo attorno al sole, e i nostri oceani sono tirati e spinti dalle maree lunari, i nostri oceani sono agitati da onde che esistono indipendentemente dall’acqua attraverso la quale passano, le nostre atmosfere sono percorse da frequenze elettromagnetiche, e noi giriamo sui nostri terreni totalmente magnetizzati dal nucleo di ferro al nostro centro, con i cieli che di notte brulicano di asteroidi e risplendono di infiammate particelle boreali dei venti solari che ardono come gli occhi luminosi degli smilodonti che accerchiano il muro di tenebre intorno al nostro falò.
Che pianeta allegro, tutto sommato. Non è infatti, dopotutto, vivibile?
* * *
— il martin pescatore americano, un piccolo tuffatore con la testa troppo grande, forse boriosa, e un assurdo portamento regale conferito dalla riga nera intorno al collo: ha beccato un pesce azzurro e ora lo sbatte diverse volte contro la palafitta. Sbam sbam. Lo uccide. Lo lancia in aria e lo riprende al volo, verticalmente, facendoselo scivolare in gola senza intoppi. Per questa abilità, il piccolo martin pescatore ha diritto alla sua boria. Non è certo disposto a fare invidiosi paragoni con tuffatori cinque volte più grandi di lui, il falco pescatore, per esempio, che è capace di librarsi ad alta quota, tenendosi fermo con qualche colpo d’ala, e, quando vede un’ombra nell’acqua, di lasciarsi cadere dal cielo come una pietra.
* * *
— Naturalmente non può esistere un Anfitrione laico. Una plausibile incarnazione del marito sarebbe possibile solo grazie a quella specie di magia di cui dispone un dio malizioso e arrapato come Zeus. Attribuire un’ambizione simile a un uomo, anche a uno maligno e ingegnoso come questo individuo, significa addentrarsi faticosamente in una storia destinata all’insuccesso, goffa e farraginosa, e procedere sugli strepitanti battistrada del suo intreccio. Ecco perché questo può accadere solo in un film. Che finisce più o meno così: nel corso di una vita di avventure clandestine il nostro seduttore-usurpatore aveva passato qualche tempo nell’alto bacino amazzonico, lungo la frontiera tra Perù e Ecuador, con la tribù di cacciatori di teste dei Jivaro. Da uno degli anziani aveva imparato le loro usanze. Ora, col marito spodestato che è diventato una spina nel fianco, un vendicativo lottatore, incapace di rassegnarsi alla sconfitta, avendo tra l’altro trovato i mezzi per comprare un furgone di seconda mano in cui vive e che parcheggia nella strada davanti alla proprietà della perfida coppia, e avendo dimostrato in tribunale di avere il diritto di farlo, di potere, come ogni cittadino, parcheggiare nelle ore diurne in una pubblica strada, e avendo provato il proprio ulteriore diritto di protestare davanti alla casa con cartelli e volantini che spiegano l’iniquità della sua sorte, ed essendo riuscito in tutti i modi a dare un seguito alla propria storia, addirittura al punto di far uscire sul locale giornale suburbano un lungo articolo che lo descrive come un interessante eccentrico… il marito vero induce quello falso a comminargli una pena di una gravità inconcepibile per chi non abbia passato un certo tempo ai margini della civiltà.
Il generoso usurpatore invita nella grande casa l’ex dirigente d’azienda, leso nei propri diritti e ridotto a livello di un barbone, e senza tante cerimonie lo uccide. Lo decapita e si libera del resto del corpo. Non importa come. Sono più interessanti i particolari di quello che fa con la testa.
Il cranio non interessa, naturalmente. Passi il coltello dalla nuca al cocuzzolo e poi stacchi la pelle del volto e il cuoio capelluto, un lavoro lungo quando è fatto bene, perché non vuoi di certo rovinargli i connotati. Scartato il cranio, denti e occhi compresi, ti resta il materiale basilare.
Rivolti la pelle e cuci le palpebre. Poi cuci le labbra e, da ultimo, dopo avere rigirato la pelle, suturi l’incisione che avevi praticato sulla nuca fino ad avere un sacchetto vuoto grande più o meno come la testa originaria. Lo metti nell’acqua bollente, alla quale si aggiungono erbe che non posso nominare nel timore che questo diventi un manuale d’istruzioni per qualche idiota… per fare in modo che non cadano i capelli. Dopo qualche ora le dimensioni del sacchetto si sono ridotte a circa un terzo di quelle originarie.
E in questo formato ridotto il dirigente d’azienda rovinato viene offerto come un trofeo, sul palmo di una mano tesa, alla moglie rubata e costretta in schiavitù che, un attimo prima di suicidarsi, telefona alla polizia per informarla che suo marito ha assassinato il derelitto accampato davanti alla loro casa, e che troveranno tutte le prove appese al filo di perle che porta al collo. Abbastanza ironicamente, la testa rimpicciolita ora somiglia al perfido impostore com’era prima dell’operazione di chirurgia estetica, più del marito pre-rimpicciolimento, e così, come se Dio fosse il fioretto dell’ironia, la stoccata più terribile viene inferta all’impostore, il quale, dato per scomparso dal giorno della sua trasformazione estetica, viene ora processato come l’assassino di se stesso.
E quella che era stata proposta come una storia di sottile orrore esistenziale si rivela dopotutto un semplice melodramma con personaggi di cartone in cui l’autore, come il suo “cattivo”, ha quello che si merita. E se è vero che uno psicopatico non può mai mostrare ritegno, ma deve insistere per una sempre maggiore amplificazione della propria malvagità fino al proprio annientamento, così deve l’autore onorare il carattere della sua idea e lasciare che si esprima in tutta la sua sventurata insufficienza fino al momento in cui anch’essa arriverà alla sua miserabile
fine.
* * *
— 1. Numero i miei pensieri per amore di chiarezza, in modo che ognuno di essi mandi un suono limpido e di un’altezza ben distinta, come una campana.
1.01. In altre parole, mi propongo di pensare solo in termini di fatti. (Questo, in sé, non è un fatto.)
2. Il mio nome è Ludwig Wittgenstein.
3. Ludwig è un nome tedesco piuttosto comune.
4. Io credo, però, di essere stato chiamato così da Ludwig van Beethoven.
5. Mentre la verità del punto 4. non può essere verificata, la mia convinzione che sia vera è un fatto.
5.01. La mia convinzione è una ragionevole inferenza dal fatto che mia madre era pianista e che lei era convinta che la musica fosse essenziale alla vita…
5.11. …e che il mio fratello maggiore Paul diventò pianista concertista…
5.21. …e che il mio fratello maggiore Hans, quello che si è suicidato, era un prodigio musicale…
5.31. …e che le mie sorelle Hermine, Helene e Margarete erano tutte dotate o musicalmente preparate…
5.41. …e che Brahms e Mahler erano amici dei miei genitori e venivano a suonare in casa nostra.
5.51. Per Brahms, Mahler, i miei genitori e tutti i miei conoscenti era un fatto che Beethoven fosse il più grande di tutti i geni musicali.
5.61. Essendo stato chiamato col nome di un genio, anch’io mi credevo un genio designato.
6. È un fatto che i miei genitori e i miei fratelli non condividevano la mia convinzione.
6.01. Erano giunti a questa conclusione perché fino a quattro anni non ho parlato.
7. Avevo imparato a parlare molto prima di compiere quattro anni, ma ero così atterrito dal mondo in cui mi trovavo che scelsi il silenzio.
7.01. Da allora, in tutta la filosofia che ho fatto, ho distinto le verità che si possono dire dalle verità che esistono solo nel silenzio.
7.02. Da allora, in tutta la filosofia che ho fatto, ho sempre sostenuto che le verità del silenzio, quando vengono dette, non sono più vere.
8. Il mio primo ricordo è lo scalone nella mia casa di Alleegasse, a Vienna.
8.01. Si componeva di trentaquattro gradini di marmo, larghi tre metri.
8.02. Era coperto da una lussuosa guida rossa, verde e bianca: i colori dell’impero austroungarico.
8.03. La guida era tenuta ben tesa alla base di ogni alzata da una bacchetta di ottone lucido.
8.1. Ringhiere con balaustre di alabastro a forma di vasi sottili fiancheggiavano ogni pianerottolo.
8.12. Sulle pareti rivestite di marmo rosa di Carrara si specchiava all’infinito la persona che saliva verso il grande foyer.
8.2. I soffitti a volta erano incorniciati da modanature scolpite e dorate.
8.21. Erano affrescati con motivi di elementi persiani.
8.3. In cima alla scala era appeso un immenso arazzo raffigurante gentiluomini in calzamaglia di seta e dame con cappelli a larghe tese, gonne a crinolina e parasoli, in posa davanti a un bosco, con fitte nuvole rosa e un cielo azzurro sopra la testa.
8.4. Davanti all’arazzo, su un piedistallo, c’era una grande urna di Dresda piena di fiori che venivano cambiati ogni mattina.
8.5. Accovacciati sul pavimento, ai lati dell’urna, c’erano due cani d’ottone cinesi.
9. Il barocco splendore di quella sontuosa dimora in Alleegasse mi nauseava allora e, a pensarci, mi nausea ancora oggi.
9.01. La nausea registra l’indigeribile contenuto dello stomaco che sta per essere vomitato.
9.02. Il ricordo che è nauseante registra il contenuto della mente che non potrà mai essere vomitato.
9.03. Dopo la crisi peristaltica, la sensazione di malessere o di debolezza si generalizza nel sistema.
9.04. Il ricordo dello scalone nella sfarzosa dimora di Alleegasse suscita in me una disperazione generalizzata della cultura fin de siècle della mia giovinezza.
10. I miei genitori dedicarono la vita all’ascensione di quelle scale.
10.01. I loro nonni erano ebrei convertiti al cattolicesimo.
10.02. All’istituto tecnico al quale mi mandarono, Adolf Hitler era uno studente indietro di due classi rispetto a me.
11. Quando tornai dalla Grande Guerra cedetti immediatamente ai miei fratelli l’immensa ricchezza da me ereditata.
12. Basandomi sul principio del cubo, progettai una casa in Kundmanngasse – semplice, severa, disadorna e priva di qualsiasi fronzolo e abbellimento – per mia sorella, la cui anima destava i miei timori.
13. Me ne andai a vivere in povertà e a lavorare manualmente in campagna.
13.01. Nelle scuole elementari insegnai aritmetica ai figli dei contadini.
14. Fui attirato dalla filosofia.
14.01. Mi resi conto che il linguaggio del pensiero filosofico occidentale era soffocato da ammennicoli barocchi e pretenziosi, come la mia ancestrale dimora in Alleegasse.
15. Comprai un quaderno a righe.
16. Mi ritirai in una capanna in un fiordo norvegese e mi scoprii più desolatamente solo di quanto potessi sopportare.
17. Per udire una voce umana, piansi.
18. Affondai lo sguardo nell’infinita notte norvegese e mi misi a studiare la nuova fisica di Einstein.
19. Scrissi nel mio quaderno che, anche se si trovasse una soluzione per tutte le questioni scientifiche possibili, il nostro problema continuerà a non essere preso in esame.
* * *
— Al Knickerbocker con Pem:
Ho acceso il registratore, va bene?
Perché no?
È successa qualche altra cosa?
Se io sono ancora dentro, vuoi dire? Appeso a un filo. Per quanto li riguarda, come possono non mostrarsi caritatevoli verso uno di loro, o verso uno che un tempo era dei loro? E io non lascio, ho paura di lasciare. Vedo nel mio incarico, benché insignificante, qualcosa che mi salva dal più assoluto abbandono. Questo crocifisso appeso al collo mi difende da me stesso.
Su…
Non ridere. Anche quando avevo famiglia e abitavo in Park Avenue non ne sono mai stato molto lontano. La mia natura randagia mi tallona. Lo ha fatto sempre. La mia vera casa è nelle vie della città. Io le batto, queste vie. C’è qualcosa, per me, nelle strade, qualche segreto, non necessariamente per il mio bene… Un’altra ragione per cui non lascio è che prego ancora. Mi sorprendo a farlo ancora. Tu preghi?
No.
Dovresti provarci. Come atto di autodrammatizzazione, è imbattibile. Senti il ronzio, il sonante ronzio della tua prosopopea. Come cantare sotto la doccia. [ride] … Non dovrei parlare così. Perché non posso avere un sentimento senza mandare tutto in vacca? La verità è che ho ancora delle speranze… la missione impossibile di convertirmi a una fede collegata. Al cattolicesimo, diciamo, o al luteranesimo. Come il grande vescovo Pike, che cambiò spesso casa, prima cattolico, poi protestante, un dilettante dello spiritualismo… Ah, be’, forse non è l’esempio migliore, un’altra testa pensante andata a rotoli.
E la grande croce, Pem, quella di St Tim?
Cosa?
L’ultima volta accennavi a un’altra spiegazione. Qualcosa che mi è sfuggito, nel capitolo del Furto.
L’ho detto io?
Tu.
Be’, forse puoi cogliere qualcosa, capisci, e semplicemente non sapere cosa.
Dài, Pem, è importante.
[parole poco chiare] … Questa volta il conto lo pago io.
Perché?
Non sono certo ridotto in miseria. Inoltre, non mi si può avere per così poco. Io valgo di più.
Pensi che mi stia approfittando di te?
No, no, lo sai che non è questo. Ne abbiamo già discusso. Ho detto che non volevo diritti d’autore, eccetera. Tutto resta com’è. Ma comincio a innervosirmi. Sono le cose sostanziali della mia vita.
Signori…?
Cosa beviamo?
Absolut on the rocks.
Per me una Stoli Cristall…
Allora?
Potrebbe venirmi la voglia di scrivere un libro tutto mio. [ride] Guarda, è impallidito.
No? Perché no? Dovresti farlo.
Mica quello che stai scrivendo tu. Nonfiction. Nonfiction sulla fiction. Il contrario di quello che fai tu.
Credi? Ti darò i miei appunti.
[risata]
L’attenzione mi piace, lo ammetto. Se tu fai quello che devi, chissà quante richieste mi arriveranno di scrivere la mia versione. La fonte più autorevole, eccetera. Un grosso anticipo dall’editore. Niente male!
Allora sarà meglio rimettersi al lavoro. Possiamo?
Stoli per te. Absolut…
L’chaim… Il fatto è che quelli che hanno fregato la croce forse non erano gli stronzi imbecilli che credevo io. E forse non erano antisemiti, né ultrà ebrei, quelli che l’hanno portata sul tetto della sinagoga dell’EE. Cominciava a pensarlo anche il povero Joshua.
Chi, allora? Non capisco. In ogni modo, chiunque ce l’abbia messa, è stato un affronto.
Forse sì, forse no.
Che altro potrebbe essere stato?
Quella è l’opinione di Sarah. La superba razionalista rimane lei.
Be’, io sto dalla sua parte. Non siete voi a insegnare che il cristianesimo è la religione successiva? Dunque, come si svilupperebbe l’Ebraismo Evoluzionista, stando alla posizione di un cristiano militante, se non verso la croce? E dov’era diretta questa piccola sinagoga errante, secondo un ebreo ultraortodosso, se non verso l’apostasia? In un modo o nell’altro, era degenerata.
Ti ricordo che il Wittgenstein degli ultimi anni afferma che, dopotutto, c’è un significato anche nelle proposizioni che non si possono verificare.
Wittgenstein? Cosa c’entra con tutto questo?
Tu sai, naturalmente, che il cristianesimo era in origine una setta ebraica. Questo lo sanno tutti.
E allora? Cosa c’entra…
Per favore. Sono o non sono il tuo Detective in Teologia?
Okay, okay.
Abbi un po’ di pazienza. Paolo… lo conosci, Paolo. Quello che ebbe un colpo sulla via di Damasco?
Un colpo? [ride]
Perché no? Insomma, qualcosa che lo mise al tappeto, e lo lasciò debole e barcollante. Un colpo seguito da una visione. Non se ne verificano più. Oggi, dopo un colpo, diventi un invalido. Lui cambiò idea. Era stato piuttosto sprezzante nei confronti di Gesù, prima d’allora. Mi segui?
Ci sto provando.
Era entusiasta, Paolo, aveva trovato il Messia. Era questo che predicava. In maggioranza, la gente non se la beveva. Intanto c’erano questi gentili che ascoltavano tra le quinte. Lì ebbe un’accoglienza migliore. Però i gentili avevano paura della circoncisione, erano degli adulti, chi potrebbe dargli torto? Allora lui spiegò che non era necessario farsi circoncidere, e potevano sempre diventare ebrei. Lo sapevi? Proprio così.
Proprio così come?
… [parole poco chiare] … e via che se ne andò, armi e bagagli. E con lui i gentili. Cioè, c’era il peso delle circostanze, circostanze storiche. Puoi avere una rivelazione, okay, ma poi cosa? In questo caso, una nuova religione. In tutti i casi. Le nuove visioni nascono dalle vecchie, le sette si staccano dalle chiese e diventano chiese, le idee di Dio diventano di moda come i virus. Più volte… [parole poco chiare] … reagire alla storicizzazione di Dio, dicendo: no, non è così, non è così. Perché Dio non è storico. Dio è astorico. In realtà, forse Dio e la religione sono proposizioni incompatibili.
Il Dio della Bibbia agisce nella storia.
Certamente.
Neghi la validità di ogni rivelazione?
Ogni rivelazione è bloccata da un contrordine. Permettimi di farti una domanda: tu credi davvero al fatto che Dio diede a Mosè il Decalogo, i Dieci Comandamenti sul monte Sinai?
Be’, è una storia magnifica. Io ritengo di essere un buon giudice di storie, e questa è veramente straordinaria.
Sono tutte storie straordinarie. Il Decalogo, strutturalmente, genericamente, è modellato sugli antichi trattati mesopotamici tra il signore e il vassallo. Lo sapevi?
No.
Tu ci credi che Gesù era il figlio di Dio, risorto? Sai che la cultura predominante ai suoi tempi e durante la sua vita era greca? Che per tutta la durata dell’impero romano la lingua predominante fu il greco? E quanti culti misterici greci parlavano di resurrezioni?
Faccio un po’ fatica a ricordarmi i miti greci.
Decine. Gli Evangelisti erano scrittori. Cos’hai detto che fanno, gli scrittori? Che compongono testi? Mettono dentro cose, ne lasciano fuori delle altre. Per un laico come te forse questa non è una notizia, o neanche una brutta notizia. Ma se sei un religioso come me, e non sei un fondamentalista, hai un problema. Cosa fai, trasformi le verità della tua fede in una specie di poesia edificante? Allora sei uno schizoide religioso, la parte destra del tuo cervello crede e la sinistra può solo assaporare il sentimento della fede. E Gesù come figlio designato non è più valido degli ebrei come popolo eletto. E in tutto questo Dio che fine ha fatto?
Credi che allora il pensiero umano avesse una forma diversa?
Era brillante allora come oggi tra i cosmologi. Era raffinato, politicamente astuto, metteva ordine. Allontanava il terrore. La forma? Non so. Usavano quello che avevano. Visioni. Allucinazioni. Proprio come la scienza usa quello che ha. Ecco. Ti ho detto tutto. Beviamone un altro. Signorina? Può portarcene un altro?
Aspetta un momento, Pem.
Be’, tutto quello che i signori desiderano.
Non sapevi nulla di tutto questo, prima?
Ho sempre saputo tutto. È così per ognuno di noi. Gli studenti di teologia leggono Nietzsche per immunizzarsi. Il fatto è che la maggior parte di noi prende una decisione e vi si attiene… Ma se vuoi parlare delle modalità, ti dirò cosa ho conservato. Con quello che so nel cuore e nel cervello, non sarò mai più vicino di così a una mia rivelazione. Sono ancora felicemente, gratamente vulnerabile a un aspetto dell’antica comprensione. So riconoscere un segno quando lo vedo.
Che significa?
Non un segnale di stop, mio secolare amico.
Uh–uh. Vuoi dire che dopotutto quello che hai detto…
Lo so che è dura.
…come gli ebrei per Gesù? È questo che mi stai dicendo?
Everett, accidenti, ma fammi il piacere… Non si tratta degli ebrei per Gesù o qualunque altra tragica questione del cazzo che ti possa saltare in testa! Perché poi ho tirato fuori questa storia? Parlarne è disastroso, la manda in vacca, come tutto il resto.
Be’, non posso [parole poco chiare] …
Ascolta: non importa quali dementi ce l’hanno messa o perché l’hanno fatto, non lo capisci? Un segno è un segno. E quando sai che è un segno, non c’è bisogno d’altro. È così che sai che è un segno. Non è una cosa di cui si comprende istantaneamente il significato. Non è una delle insegne luminose di Broadway. E non è una cosa che si va a cercare, è lei a venire da te. È così che fanno i segni, sono loro che vengono da te. C’è qualcosa d’importante in questo fatto, dove sai che… finalmente è successo qualcosa. È una cosa tacita, ma fragorosa. Ho sbagliato anche solo ad accennarvi.
Volete che vi illustri le nostre specialità?
Non ora, cara, ora vogliamo bere qualcosa… Non dovrei parlarne io e non dovresti parlarne neanche tu. Mettiamoci una pietra sopra…
Dài, Padre…
Senti, ti dirò soltanto questo. Quando metti una grande croce d’ottone sul tetto di una sinagoga, cos’è che potresti stare facendo? Be’, potresti stare facendo, brillantemente, in un colpo solo, tutto quello che io ho cercato di dirti con le mie parole.
* * *
— Joel, lui era la staffetta più giovane… Isaiah, Dov, Micah, che alla fine andò a lavorare in città. Quando un ragazzo diventava troppo alto, capisci, e cambiava voce ed era ormai chiaramente idoneo al lavoro in fabbrica, gli trovavano un’altra identità e via che se ne andava. Daniel, Solomon… Forse in certi casi questi erano nomi fittizi, come il mio, Yehoshua. Non so. Ma erano, tutti, la speranza dei genitori ebrei che li avevano lasciati orfani, questa covata di re e di profeti che, in soffitta, aspettavano di ricevere i loro incarichi.
Ti dirò che tra noi non c’era un grande cameratismo. Avevamo tutti subìto gravi perdite ed eravamo spiritualmente svuotati. Inoltre, per la maggior parte del tempo eravamo affamati. Come ragazzi nella fase dello sviluppo non avevamo abbastanza da mangiare, e questo ci rendeva letargici. Quando non avevamo qualche impegno tendevamo ad addormentarci. Così, non creavamo mai problemi facendo fracasso o adottando i comportamenti normalmente sguaiati dei ragazzi. Ce ne stavamo zitti e tenevamo per noi le nostre idee. Ed eravamo tutti al corrente di segreti sui quali ci avevano insegnato a mantenere il più assoluto riserbo, tanto da non confidarci nemmeno in quale posto saremmo andati o cosa avremmo dovuto fare.
Date le circostanze, diventammo stoici e sviluppammo una pazienza innaturale per la nostra età. E così ancora oggi, nella mia esistenza adulta di sopravvissuto e tra i doni del cielo che sono riuscito ad avere, cioè la tua povera madre e te, mia grande benedizione e conforto, e anche nella sacrosanta felicità di camminare da uomo libero lungo una strada americana, ho sempre al fianco un compagno, l’ombra del mio passato non vissuto, il ragazzo dal nome diverso della mia storia perduta.
Quando l’orto di mio padre fu di nuovo in fiore, lunghe file di profughi cominciarono ad apparire, trascinandosi attraverso il ponte con borse e valigie mentre i tedeschi cercavano di ricostituire la loro scorta di manodopera forzata per le fabbriche adibite alla produzione bellica. I nuovi arrivati si accamparono nella piazza mentre le SS li passavano in rassegna e li consegnavano ai membri del consiglio perché fosse dato loro un alloggio. Le staffette avevano l’incarico di accompagnarli prima alla stazione di spidocchiamento. Nel ghetto i pidocchi erano un problema costante, li avevo avuti anch’io. Il pericolo, naturalmente, era che ti attaccavano malattie come il tifo.
Ogni tanto quelli che per una ragione o per l’altra erano stati scartati montavano sul cassone scoperto di un autocarro, e l’autocarro, quando era pieno, riattraversava il ponte. Non la potevo guardare, quella gente.
Prima dell’estate la popolazione del ghetto era salita a sei o settemila persone. Il razionamento alimentare diventò più difficile da gestire. Le misure sanitarie pubbliche assunsero una maggiore urgenza. Altre persone furono chiamate a lavorare per il consiglio, mentre si gonfiava la burocrazia tedesca. Sempre più spesso dovevo correre come il vento dal mio posto di osservazione nella piazza per informare il consiglio che una macchina del comando con il gagliardetto nazista sventolante sul parafango stava attraversando il ponte. E c’erano tutti i nuovi da registrare, sotto il proprio o sotto un altro nome, e testimonianze delle quali il signor Barbanel prendeva segretamente nota. Molti di quei profughi recavano notizie sulla sorte di altre comunità. Fuori della città di Kovno la gente era stata condotta in un campo in cui avevano scavato alcune fosse, ed era stata ammassata in queste fosse e mitragliata dai terrapieni, e poi altra gente era stata spinta sulla prima e mitragliata a sua volta, e in questo modo, tra le grida di dolore, con uomini e donne e bambini trucidati e sanguinanti e sepolti vivi, in meno di un giorno erano perite diecimila persone. Varie fonti confermavano tale numero.
Ogni volta che il signor Barbanel riceveva simili rapporti, o scriveva parola per parola tutto ciò che gli veniva riferito o chiedeva alla persona che raccontava di compilare una dichiarazione. Teneva un diario nel quale annotava tutto quello che succedeva, con la relativa documentazione, gli ultimi regolamenti, gli ordini delle esecuzioni, i decessi, le minute delle riunioni del consiglio, gli ordini firmati dal famigerato comandante Schmitz, le proscrizioni, le sentenze, le carte d’identità delle squadre di lavoro: in quella sua storia finiva ogni informazione immaginabile. Mi capitava molto spesso di vederlo intento a scrivere. Si serviva di tutta la carta disponibile: libri di esercizi scolastici inutilizzati, per esempio. Ancora oggi mi basta chiudere gli occhi per vedere la grafia di Barbanel, il suo yiddish ordinato e regolare, come una serie di punti cuciti sulla pagina: i caratteri minutissimi, le parole che gli uscivano veloci dalla penna, una riga dopo l’altra, nell’ansia di spiegare cos’accadeva ogni giorno, ogni momento, della nostra vita di prigionieri; quella decisione di annotare tutto, di registrarlo in modo indelebile, come una cosa che fosse, umanamente, di straordinaria importanza. Come, in effetti, era. Come sempre sarà. Certo, la sua attività era illegale. I tedeschi erano perfettamente consapevoli dei loro reati e vietavano fotografie o scritti non autorizzati. Avevano confiscato tutte le macchine fotografiche. Ma, come primo aiutante del dottor Koenig, Barbanel aveva sempre qualcosa da scrivere, ed era relativamente facile, per lui, farlo tra le pieghe delle sue mansioni ufficiali.
A poco a poco, col passar del tempo, seduto sulla panca nel suo ufficio mentre lui interrogava un nuovo arrivato, o vedendolo ficcare nella borsa gli ordini del comando tedesco per la settimana appena trascorsa, compresi quanto stava facendo, e un giorno gli domandai se la sua professione fosse quella dello storico. Per un attimo Barbanel parve sorpreso, poi sorrise e scosse il capo. «Sei un ragazzo sveglio, Yehoshua» disse. «Sì, sono uno storico, per necessità. Ma tu non lo dirai a nessuno, vero?» Era un’affermazione, non una domanda. Glielo giurai, e con una stretta di mano suggellammo il nostro patto.
Prima della guerra Barbanel aveva fatto il commerciante di legname. Nelle discussioni del consiglio prendeva, di solito, posizioni più ardite di quelle del dottor Koenig, e immagino che questo dipendesse dal fatto che era più giovane di lui. Ci tirava su di morale, noi ragazzi, il fatto che Barbanel si burlasse del nemico, si burlasse dei loro sistemi, come se a caratterizzarli non fosse il loro potere su di noi, ma la loro stupidità. In presenza dei tedeschi non era deferente, ma pratico e sbrigativo. Non faceva alcuno sforzo per nascondere il disprezzo che nutriva per loro; eppure, chissà perché, i tedeschi lo tolleravano.
Ora che sapevo del suo archivio, Barbanel mi accordò maggiore fiducia. Ogni settimana o giù di lì mi metteva in mano un pacchetto avvolto nella tela cerata e legato con lo spago. «Per la signorina Margolin, e bada a dove metti i piedi.» Io mi ficcavo il pacchetto sotto la camicia e correvo all’ospedale da questa infermiera, Greta Margolin, che era amica sua e, come capii solo quando fui più adulto, la sua innamorata.
La signorina Margolin era in tutto e per tutto coraggiosa come lui. Non soltanto perché gli teneva il diario, ma perché era coinvolta nella pericolosissima impresa di far uscire di nascosto dal ghetto le donne incinte, e almeno in un caso, quello di una donna che chissà come era sfuggita alla loro attenzione, di aiutarla dapprima a partorire e di farli poi uscire dal ghetto tutt’e due, lei e il bambino, come e dove non sapevo. Era una vera infermiera, l’unica vera infermiera in tutto il ghetto. Immagino che avesse una trentina d’anni. Naturalmente io ero innamorato di lei. Non vedevo l’ora di sbrigare quelle commissioni, anche se era forse la cosa più pericolosa che facevo. Questa Greta, non era tanto la sua bellezza, anche se era davvero bella, con gli zigomi sporgenti, la mascella ben profilata e i capelli dritti color paglia, che raccoglieva in un nodo sulla nuca… ma come sorrideva e come le brillavano gli occhi quando mi vedeva. Aveva un sorriso che ti faceva sentire meglio, un sorriso così spontaneo e affettuoso che per un attimo avevi l’impressione che nulla potesse interferire con il legame che esisteva tra noi due in quanto esseri umani partecipi degli stessi sentimenti, con lo stato inviolabile dell’amore tra gli esseri umani che era alla base di tutte le cose. «Yehoshua, tesoro mio, dove sei stato per tutto questo tempo?»
Potevo ammirarlo, il signor Barbanel, potevo riporre in lui tutta la mia fiducia e, senza saperlo, nutrire per lui un’autentica venerazione, ma ogni volta Barbanel mi trasmetteva un senso di urgenza, la necessità di fare o disfare delle cose. In Greta Margolin, con il suo camice da infermiera sempre immacolato, trovavo un portamento dignitoso, una compostezza che ora ricordo e che il mio cuore di ragazzo traduceva in attrazione fisica. Ai miei occhi era la donna più bella che avessi mai visto. Guardavo le sue mani mentre riceveva il pacchetto con il manoscritto, mani che a volte toccavano le mie. Arrossivo e, bruscamente, correvo via udendo, alle mie spalle, il suo riso sommesso.
Nascondeva in qualche posto, non so dove, il manoscritto di Barbanel, ma io capivo che dipendeva dal suo ruolo d’infermiera la possibilità di tenerlo al sicuro fino al momento in cui le sarebbe stato possibile farlo uscire segretamente dal ghetto, fargli attraversare il ponte fino a un altro nascondiglio, in città o forse in campagna.
Il diario di Barbanel, quando mi resi conto della sua esistenza, doveva contare migliaia di pagine, volumi, un intero baule pieno di materiale. E poiché né lui né Greta Margolin sarebbero scampati alla distruzione del ghetto, a tutt’oggi quelle carte sono nascoste là, nella terra dell’Europa orientale, tra le sue macerie, nel naufragio e nella rovina e nella polvere della sua tradizione cristiana.
Io non sono uno scrittore e perciò non posso darti un’idea della vivacità di questa coppia, della loro esuberanza, della loro energia, della grandezza della loro vita. Il devoto ricordo che ho di loro altera la verità, non dice che erano gente comune che in tempi normali avrebbe fatto una vita assolutamente banale. Nel loro splendore, non avevano proprio nulla di particolare, Josef Barbanel e Greta Margolin, non più di quanto l’avessero i miei genitori, non più di quanto l’avesse ognuno di noi.
Oggi penso che, anche se era al corrente dell’archivio segreto di Barbanel e lo approvava, il dottor Koenig non sapesse, o fingesse di non sapere, della sua radio a onde corte, che veniva tenuta dentro un muro della soffitta adibita a dormitorio delle staffette sopra gli uffici del consiglio. Due o tre sere la settimana Barbanel saliva la scaletta che portava ai nostri alloggi e noi lo aiutavamo a schiodare l’asse dalla parete per scoprire la radio e collegarla alla presa supplementare di una delle nostre lampadine. Avevamo studiato varie procedure per rimetterla a posto al più presto. E un ragazzo stava sempre di guardia alla finestra e un altro si piazzava davanti alla porta per cogliere il minimo rumore che potesse venire dal basso.
Il nostro morale riceveva colossali iniezioni di fiducia dal possesso di quella radio, cosa di cui credo Barbanel si rendesse conto. Lui si sedeva sul pavimento a gambe incrociate e con la cuffia sulle orecchie, e ascoltava a occhi chiusi gli ultimi bollettini inglesi. Noi studiavamo attentamente il suo viso, cercando di capire dalla sua espressione se le notizie erano buone o cattive, guardandolo annuire o scuotere la testa o alzare silenziosamente il pugno, immobili sino alla fine di quei quindici minuti, completamente assorti, impavidi e, soprattutto, uniti spiritualmente al resto del mondo.
La radio era un vecchio modello da tavolo di fabbricazione tedesca, una Grundig con gli spigoli arrotondati, uno schermo di stoffa davanti all’altoparlante e un quadrante che faceva salire o scendere un indicatore lungo una scala illuminata di frequenze a onde corte. Mi sembrava di poter affondare lo sguardo, in quella radio accesa, come nel cosmo. Mi faceva venire pensieri filosofici. Perché la scala numerata sulla radio nazista era riconoscibile anche da me, ragazzo ebreo? Perché i numeri erano immutabili. Il loro ordine era fisso, universalmente vero. Anche i nazisti dovevano attenervisi. Be’, se i numeri erano gli stessi per tutti in ogni parte dell’universo, ciò non significava che dovevano essere stati installati nel nostro cervello da Dio? E in tal caso perché, se non per insegnare a tutti la natura della verità? Per esempio, era vero che due più due di ogni cosa faceva quattro. A qualunque cosa li si applicasse, i numeri, essendo fissi ed eternamente ciò che erano e nient’altro, epitomizzavano la verità.
Non avrei parlato della mia idea con mio padre o con il sarto Srebnitsky. Ma nel buio della nostra soffitta io affondavo lo sguardo in questo cosmo illuminato di frequenze radiofoniche e nutrivo l’idea che i numeri fossero l’opera eternamente vera di Dio. (Senza che i nazisti potessero mai saperlo.) E che Lui ci avrebbe dato la capacità di percepire quella sua opera eternamente vera per un preciso motivo. Il motivo era quello di metterci in grado di riconoscere il Messia, quando fosse arrivato, la cui identità non sarebbe stata meno evidente del fatto che due più due fa quattro, e il cui avvento avrebbe portato la verità universalmente riconosciuta, imperitura e benefica di Dio a tutti gli uomini e a tutte le cose della terra per tutto il tempo a venire. Questi erano i pensieri di un bambino nel buio attraversato dalle frequenze illuminate della radio di fabbricazione Grundig.