Perché, Enrico, mai più? Questo dipenderà da te. Finita la quarta, tu andrai al Ginnasio ed essi faranno gli operai, ma rimarrete nella stessa città, forse per molti anni. E perché, allora, non v'avrete più a rivedere? Quando tu sarai all'Università o al Liceo, li andrai a cercare nelle loro botteghe o nelle loro officine, e ti sarà un grande piacere il ritrovare i tuoi compagni d'infanzia, - uomini, - al lavoro. Vorrei vedere che tu non andassi a cercar Coretti e Precossi; dovunque fossero. Tu ci andrai, e passerai delle ore in loro compagnia, e vedrai, studiando la vita e il mondo, quante cose potrai imparare da loro, che nessun altri ti saprà insegnare, e sulle loro arti e sulla loro società e sul tuo paese. E bada che se non conserverai queste amicizie, sarà ben difficile che tu ne acquisti altre simili in avvenire, delle amicizie, voglio dire, fuori della classe a cui appartieni; e così vivrai in una classe sola, e l'uomo che pratica una sola classe sociale, è come lo studioso che non legge altro che un libro. Proponiti quindi fin d'ora di conservarti quei buoni amici anche dopo che sarete divisi; e coltivali fin d'ora di preferenza, appunto perché son figliuoli d'operai. Vedi: gli uomini delle classi superiori sono gli ufficiali, e gli operai sono i soldati del lavoro, ma così nella società come nell'esercito, non solo il soldato non è men nobile dell'ufficiale, perché la nobiltà sta nel lavoro e non nel guadagno, nel valore e non nel grado, ma se c'è una superiorità di merito è dalla parte del soldato, dell'operaio, i quali ricavan dall'opera propria minor profitto. Ama dunque, rispetta sopra tutti, fra i tuoi compagni, i figliuoli dei soldati del lavoro; onora in essi le fatiche e i sacrifici dei loro parenti; disprezza le differenze di fortuna e di classe, sulle quali i vili soltanto regolano i sentimenti e la cortesia; pensa che uscì quasi tutto dalle vene dei lavoratori delle officine e dei campi il sangue benedetto che ci ha redento la patria, ama Garrone, ama Precossi, ama Coretti, ama il tuo "muratorino" che nei loro petti di piccoli operai chiudono dei cuori di principi, e giura a te medesimo che nessun cangiamento di fortuna potrà mai strappare queste sante amicizie infantili dall'anima tua. Giura che se fra quarant'anni; passando in una stazione di strada ferrata, riconoscerai nei panni d'un macchinista il tuo vecchio Garrone col viso nero... ah, non m'occorre che tu lo giuri: son sicuro che salterai sulla macchina e che gli getterai le braccia al collo, fossi anche Senatore del Regno.

TUO PADRE


 

La madre di Garrone

29, sabato


Tornato alla scuola, subito una triste notizia. Da vari giorni Garrone non veniva più perché sua madre era malata grave. Sabato sera è morta. Ieri mattina, appena entrato nella scuola, il maestro ci disse: - Al povero Garrone è toccata la più grande disgrazia che possa colpire un fanciullo. Gli è morta la madre. Domani egli ritornerà in classe. Vi prego fin d'ora, ragazzi: rispettate il terribile dolore che gli strazia l'anima. Quando entrerà, salutatelo con affetto, e seri: nessuno scherzi, nessuno rida con lui, mi raccomando. - E questa mattina, un po' più tardi degli altri, entrò il povero Garrone. Mi sentii un colpo al cuore a vederlo. Era smorto in viso, aveva gli occhi rossi, e si reggeva male sulle gambe: pareva che fosse stato un mese malato: quasi non si riconosceva più: era vestito tutto di nero: faceva compassione. Nessuno fiatò; tutti lo guardarono. Appena entrato, al primo riveder quella scuola, dove sua madre era venuta a prenderlo quasi ogni giorno, quel banco sul quale s'era tante volte chinata i giorni d'esame a fargli l'ultima raccomandazione, e dove egli aveva tante volte pensato a lei, impaziente d'uscire per correrle incontro, diede in uno scoppio di pianto disperato. Il maestro lo tirò vicino a sé, se lo strinse al petto e gli disse: - Piangi, piangi pure, povero ragazzo; ma fatti coraggio. Tua madre non è più qua, ma ti vede, t'ama ancora, vive ancora accanto a te, e un giorno tu la rivedrai, perché sei un'anima buona e onesta come lei. Fatti coraggio. - Detto questo, l'accompagnò al banco, vicino a me. Io non osavo di guardarlo. Egli tirò fuori i suoi quaderni e i suoi libri che non aveva aperti da molti giorni; e aprendo il libro di lettura dove c'è una vignetta che rappresenta una madre col figliuolo per mano, scoppiò in pianto un'altra volta, e chinò la testa sul banco. Il maestro ci fece segno di lasciarlo stare così, e cominciò la lezione. Io avrei voluto dirgli qualche cosa, ma non sapevo. Gli misi una mano sul braccio e gli dissi all'orecchio: - Non piangere, Garrone. - Egli non rispose, e senz'alzar la testa dal banco, mise la sua mano nella mia e ve la tenne un pezzo. All'uscita nessuno gli parlò tutti gli girarono intorno, con rispetto, e in silenzio. Io vidi mia madre che m'aspettava e corsi ad abbracciarla, ma essa mi respinse, e guardava Garrone. Subito non capii perché, ma poi m'accorsi che Garrone, solo in disparte, guardava me; e mi guardava con uno sguardo d'inesprimibile tristezza, che voleva dire: - Tu abbracci tua madre, e io non l'abbraccerò più! Tu hai ancora tua madre, e la mia è morta! - E allora capii perché mia madre m'aveva respinto e uscii senza darle la mano.

 

Giuseppe Mazzini

29, sabato


Anche questa mattina Garrone venne alla scuola pallido e con gli occhi gonfi di pianto; e diede appena un'occhiata ai piccoli regali che gli avevamo messi sul banco per consolarlo. Ma il maestro aveva portato una pagina d'un libro, da leggergli, per fargli animo. Prima ci avvertì che andassimo tutti domani al tocco al Municipio a veder dare la medaglia del valor civile a un ragazzo che ha salvato un bambino dal Po, e che lunedì egli ci avrebbe dettato la descrizione della festa, in luogo del racconto mensile. Poi, rivoltosi a Garrone, che stava col capo basso, gli disse: - Garrone, fa uno sforzo, e scrivi anche tu quello che io detto. - Tutti pigliammo la penna. Il maestro dettò.

"Giuseppe Mazzini, nato a Genova nel 1805, morto a Pisa nel 1872, grande anima di patriotta, grande ingegno di scrittore, ispiratore ed apostolo primo della rivoluzione italiana; il quale per amore della patria visse quarant'anni povero, esule, perseguitato, ramingo, eroicamente immobile nei suoi principii e nei suoi propositi; Giuseppe Mazzini che adorava sua madre, e che aveva attinto da lei quanto nella sua anima fortissima e gentile v'era di più alto e di più puro, così scriveva a un suo fedele amico, per consolarlo della più grande delle sventure. Son presso a poco le sue parole: "Amico, tu non vedrai mai più tua madre su questa terra. Questa è la tremenda verità. Io non mi reco a vederti, perché il tuo è uno di quei dolori solenni e santi che bisogna soffrire e vincere da sé soli. Comprendi ciò che voglio dire con queste parole: - Bisogna vincere il dolore? - Vincere quello che il dolore ha di meno santo, di meno purificatore; quello che, invece di migliorare l'anima, la indebolisce e l'abbassa. Ma l'altra parte del dolore, la parte nobile, quella che ingrandisce e innalza l'anima, quella deve rimanere con te, non lasciarti più mai. Quaggiù nulla si sostituisce a una buona madre. Nei dolori, nelle consolazioni che la vita può darti ancora, tu non la dimenticherai mai più. Ma tu devi ricordarla, amarla, rattristarti della sua morte in un modo degno di lei. O amico, ascoltami. La morte non esiste, non è nulla. Non si può nemmeno comprendere. La vita è vita, e segue la legge della vita: il progresso. Tu avevi ieri una madre in terra: oggi hai un angelo altrove. Tutto ciò che è bene sopravvive, cresciuto di potenza, alla vita terrena. Quindi anche l'amore di tua madre. Essa t'ama ora più che mai. E tu sei responsabile delle tue azioni a Lei più di prima. Dipende da te, dalle opere tue d'incontrarla, di rivederla in un'altra esistenza. Tu devi dunque, per amore e riverenza a tua madre, diventar migliore e darle gioia di te. Tu dovrai d'ora innanzi, ad ogni atto tuo, dire a te stesso: - Lo approverebbe mia madre? - La sua trasformazione ha messo per te nel mondo un angelo custode al quale devi riferire ogni cosa tua. Sii forte e buono; resisti al dolore disperato e volgare; abbi la tranquillità dei grandi patimenti nelle grandi anime: è ciò che essa vuole."

- Garrone! - soggiunse il maestro: - sii forte e tranquillo, è ciò che essa vuole. Intendi?

Garrone accennò di sì col capo, e intanto gli cadevan delle lacrime grosse e fitte sulle mani, sul quaderno, sul banco.


 

Valor civile

Racconto mensile


Al tocco eravamo col maestro davanti al Palazzo di città per veder dare la medaglia del valor civile al ragazzo che salvò il suo compagno dal Po.

Sul terrazzo della facciata sventolava una grande bandiera tricolore.

Entrammo nel cortile del Palazzo.

Era già pieno di gente. Si vedeva in fondo un tavolo col tappeto rosso, e delle carte sopra, e dietro una fila di seggioloni dorati per il Sindaco e per la Giunta: c'erano gli uscieri del Municipio con la sottoveste azzurra e le calze bianche. A destra del cortile stava schierato un drappello di guardie civiche, che avevano molte medaglie, e accanto a loro un drappello di guardie daziarie; dall'altra parte i pompieri, in divisa festiva, e molti soldati senz'ordine, venuti là per vedere: soldati di cavalleria, bersaglieri, artiglieri. Poi tutt'intorno dei signori, dei popolani, alcuni ufficiali, e donne e ragazzi, che si accalcavano. Noi ci stringemmo in un angolo dov'erano già affollati molti alunni d'altre sezioni, coi loro maestri, e c'era vicino a noi un gruppo di ragazzi del popolo, tra i dieci e i diciott'anni, che ridevano e parlavan forte, e si capiva ch'erano tutti di Borgo Po, compagni o conoscenti di quello che doveva aver la medaglia. Su, a tutte le finestre, c'erano affacciati degli impiegati del Municipio; la loggia della biblioteca pure era piena di gente, che si premeva contro la balaustrata; e in quella del lato opposto, che è sopra il portone d'entrata, stavano pigiate un gran numero di ragazze delle scuole pubbliche, e molte ragazze militari, coi loro bei veli celesti. Pareva un teatro. Tutti discorrevano allegri, guardando a ogni tratto dalla parte del tavolo rosso, se comparisse nessuno. La banda musicale suonava piano in fondo al portico. Sui muri alti batteva il sole. Era bello.

All'improvviso tutti si misero a batter le mani dal cortile, dalle logge, dalle finestre.

Io m'alzai in punta di piedi per vedere.

La folla che stava dietro al tavolo rosso s'era aperta, ed eran venuti avanti un uomo e una donna. L'uomo teneva per mano un ragazzo.

Era quello che aveva salvato il compagno.

L'uomo era suo padre, un muratore, vestito a festa. La donna, - sua madre, - piccola e bionda, aveva una veste nera. Il ragazzo, anche biondo e piccolo, aveva una giacchetta grigia.

A veder tutta quella gente e a sentir quello strepito d'applausi, rimasero lì tutti e tre, che non osavano più né guardare né muoversi. Un usciere municipale li spinse accanto al tavolo, a destra.

Tutti stettero zitti un momento, e poi un'altra volta scoppiarono gli applausi da tutte le parti. Il ragazzo guardò su alle finestre e poi alla loggia delle Figlie dei militari; teneva il cappello fra le mani, sembrava che non capisse bene dove fosse. Mi parve che somigliasse un poco a Coretti, nel viso; ma più rosso. Suo padre e sua madre tenevan gli occhi fissi sul tavolo.

Intanto tutti i ragazzi di borgo Po, che eran vicini a noi, si sporgevano avanti, facevano dei gesti verso il loro compagno per farsi vedere, chiamandolo a voce bassa: - Pin! Pin! Pinot! - A furia di chiamarlo si fecero sentire. Il ragazzo li guardò, e nascose il sorriso dietro il cappello.

A un dato punto tutte le guardie si misero sull'attenti.

Entrò il Sindaco, accompagnato da molti signori.

Il Sindaco, tutto bianco, con una gran sciarpa tricolore, si mise al tavolino, in piedi; tutti gli altri dietro e dai lati.

La banda cessò di suonare, il Sindaco fece un cenno, tutti tacquero.

Cominciò a parlare. Le prime parole non le intesi bene; ma capii che raccontava il fatto del ragazzo. Poi la sua voce s'alzò, e si sparse così chiara e sonora per tutto il cortile, che non perdetti più una parola. - ...Quando vide dalla sponda il compagno che si dibatteva nel fiume, già preso dal terrore della morte, egli si strappò i panni di dosso e accorse senza titubare un momento. Gli gridarono: - T'anneghi!, - non rispose; lo afferrarono, si svincolò; lo chiamaron per nome, era già nell'acqua. Il fiume era gonfio, il rischio terribile, anche per un uomo. Ma egli si slanciò contro la morte con tutta la forza del suo piccolo corpo e del suo grande cuore; raggiunse e afferrò in tempo il disgraziato, che già era sott'acqua, e lo tirò a galla; lottò furiosamente con l'onda che li volea travolgere, col compagno che tentava d'avvinghiarlo; e più volte sparì sotto e rivenne fuori con uno sforzo disperato; ostinato, invitto nel suo santo proposito, non come un ragazzo che voglia salvare un altro ragazzo, ma come un uomo, come un padre che lotti per salvare un figliuolo, che è la sua speranza e la sua vita. Infine, Dio non permise che una così generosa prodezza fosse inutile. Il nuotatore fanciullo strappò la vittima al fiume gigante, e la recò a terra, e le diè ancora, con altri, i primi conforti; dopo di che se ne tornò a casa solo e tranquillo, a raccontare ingenuamente l'atto suo. Signori! Bello, venerabile è l'eroismo nell'uomo. Ma nel fanciullo, in cui nessuna mira d'ambizione o d'altro interesse è ancor possibile; nel fanciullo che tanto deve aver più d'ardimento quanto ha meno di forza; nel fanciullo a cui nulla domandiamo, che a nulla è tenuto, che ci pare già tanto nobile e amabile, non quando compia, ma solo quando comprenda e riconosca il sacrificio altrui; l'eroismo nel fanciullo è divino. Non dirò altro, signori. Non voglio ornar di lodi superflue una così semplice grandezza. Eccolo qui davanti a voi il salvatore valoroso e gentile. Soldati, salutatelo come un fratello; madri, beneditelo come un figliuolo; fanciulli, ricordatevi il suo nome, stampatevi nella mente il suo viso, ch'egli non si cancelli mai più dalla vostra memoria e dal vostro cuore. Avvicinati, ragazzo. In nome del Re d'Italia, io ti do la medaglia al valor civile.

Un evviva altissimo, lanciato insieme da molte voci, fece echeggiare il palazzo.

Il Sindaco prese sul tavolo la medaglia e l'attaccò al petto del ragazzo. Poi lo abbracciò e lo baciò.

La madre si mise una mano sugli occhi, il padre teneva il mento sul petto.

Il Sindaco strinse la mano a tutti e due, e preso il decreto della decorazione, legato con un nastro, lo porse alla donna.

Poi si rivolse al ragazzo e disse: - Che il ricordo di questo giorno così glorioso per te, così felice per tuo padre e per tua madre, ti mantenga per tutta la vita sulla via della virtù e dell'onore. Addio!

Il Sindaco uscì, la banda sonò e tutto parea finito, quando il drappello dei pompieri s'aperse, e un ragazzo di otto o nove anni, spinto innanzi da una donna che subito si nascose, si slanciò verso il decorato e gli cascò fra le braccia.

Un altro scoppio d'evviva e d'applausi fece rintronare il cortile; tutti avevan capito alla prima: quello era il ragazzo stato salvato dal Po, che veniva a ringraziare il suo salvatore. Dopo averlo baciato, gli si attaccò a un braccio per accompagnarlo fuori. Essi due primi, e il padre e la madre dietro, s'avviarono verso l'uscita, passando a stento fra la gente che faceva ala al loro passaggio, guardie, ragazzi, soldati, donne, alla rinfusa. Tutti si spingevano avanti e s'alzavano in punta di piedi per vedere il ragazzo. Quelli che eran sul passaggio gli toccavan la mano. Quando passò davanti ai ragazzi delle scuole, tutti agitarono i berretti per aria. Quelli di borgo Po fecero un grande schiamazzo, tirandolo per le braccia e per la giacchetta, e gridando: - Pin, viva Pin! Bravo Pinot! - Io lo vidi passar proprio vicino. Era tutto acceso nel viso, contento: la medaglia aveva il nastro bianco, rosso e verde. Sua madre piangeva e rideva; suo padre si torceva un baffo con una mano, che gli tremava forte, come se avesse la febbre. E su dalle finestre e dalle logge seguitavano a sporgersi fuori e ad applaudire. Tutt'a un tratto, quando furono per entrar sotto il portico, venne giù dalla loggia delle Figlie dei militari una vera pioggia di pensieri, di mazzettini di viole e di margherite, che caddero sulla testa del ragazzo, del padre, della madre, e si sparsero in terra. Molti si misero a raccoglierli in fretta e li porgevano alla madre. E la banda in fondo al cortile sonava piano piano un'aria bellissima, che pareva il canto di tante voci argentine che s'allontanassero lente giù per le rive d'un fiume.


 

 

MAGGIO


I bambini rachitici

5, venerdì


Oggi ho fatto vacanza perché non stavo bene, e mia madre m'ha condotto con sé all'istituto dei ragazzi rachitici, dov'è andata a raccomandare una bimba del portinaio; ma non mi ha lasciato entrar nella scuola...

Non hai capito perché, Enrico, non ti lasciai entrare? Per non mettere davanti a quei disgraziati, lì nel mezzo della scuola, quasi come in mostra, un ragazzo sano e robusto: troppe occasioni hanno già di trovarsi a dei paragoni dolorosi. Che triste cosa! Mi venne su il pianto dal cuore a entrar là dentro. Erano una sessantina, tra bambini e bambine... Povere ossa torturate! Povere mani, poveri piedini rattrappiti e scontorti! Poveri corpicini contraffatti! Subito osservai molti visi graziosi; degli occhi pieni d'intelligenza e di affetto: c'era un visetto di bimba, col naso affilato e il mento aguzzo, che pareva una vecchietta, ma aveva un sorriso d'una soavità celeste. Alcuni, visti davanti, son belli, e paion senza difetti, ma si voltano... e vi danno una stretta all'anima. C'era il medico, che li visitava. Li metteva ritti sui banchi, e alzava i vestitini per toccare i ventri enfiati e le giunture grosse, ma non si vergognavano punto, povere creature; si vedeva ch'eran bambini assuefatti a essere svestiti, esaminati, rivoltati per tutti i versi. E pensare che ora son nel periodo migliore della loro malattia, ché quasi non soffron più. Ma chi può dire quello che soffrirono durante il primo deformarsi del corpo, quando col crescere della loro infermità, vedevano diminuire l'affetto intorno a sé, poveri bambini, lasciati soli per ore ed ore nell'angolo d'una stanza o d'un cortile, mal nutriti, e a volte anche scherniti, o tormentati per mesi da bendaggi e da apparecchi ortopedici inutili! Ora però, grazie alle cure, alla buona alimentazione e alla ginnastica, molti migliorano. La maestra fece fare la ginnastica. Era una pietà, a certi comandi, vederli distender sotto i banchi tutte quelle gambe fasciate, strette fra le stecche, nocchierute, sformate, delle gambe che si sarebbero coperte di baci! Parecchi non potevano alzarsi dal banco, e rimanevan lì, col capo ripiegato sul braccio, accarezzando le stampelle con la mano; altri, facendo la spinta delle braccia, si sentivan mancare il respiro, e ricascavano a sedere, pallidi, ma sorridevano, per dissimulare l'affanno. Ah! Enrico, voi altri che non pregiate la salute, e vi sembra così poca cosa lo star bene! Io pensavo ai bei ragazzi forti e fiorenti, che le madri portano in giro come in trionfo, superbe della loro bellezza, e mi sarei prese tutte quelle povere teste, me le sarei strette tutte sul cuore, disperatamente, avrei detto, se fossi stata sola: non mi movo più di qui; voglio consacrare la vita a voi, servirvi, farvi da madre a tutti fino al mio ultimo giorno... E intanto cantavano, cantavano con certe vocine esili, dolci, tristi, che andavano all'anima, e la maestra avendoli lodati, si mostraron contenti; e mentre passava tra i banchi, le baciavano le mani e le braccia, perché senton tanta gratitudine per chi li benefica, e sono molto affettuosi. E anche hanno ingegno, quegli angioletti; e studiano, mi disse la maestra. Una maestra giovane e gentile, che ha sul viso pieno di bontà una certa espressione di mestizia, come un riflesso delle sventure che essa accarezza e consola. Cara ragazza! Fra tutte le creature umane che si guadagnan la vita col lavoro, non ce n'è una che se la guadagni più santamente di te, figliuola mia.

TUA MADRE


 

Sacrificio.

9, martedì


Mia madre è buona, e mia sorella Silvia è come lei, ha lo stesso cuore grande e gentile. Io stavo copiando ieri sera una parte del racconto mensile Dagli Appennini alle Ande, che il maestro ci ha dato a copiare un poco a tutti, tanto è lungo; quando Silvia entrò in punta di piedi e mi disse in fretta e piano: - Vieni con me dalla mamma. Li ho sentiti stamani che discorrevano: al babbo è andato male un affare, era addolorato, la mamma gli faceva coraggio; siamo nelle strettezze, capisci? non ci sono più denari. Il babbo diceva che bisognerà fare dei sacrifici per rimettersi. Ora bisogna che ne facciamo anche noi dei sacrifici, non è vero? Sei pronto? Bene, parlo alla mamma, e tu accenna di sì e promettile sul tuo onore che farai tutto quello che dirò io. Detto questo, mi prese per mano, e mi condusse da nostra madre, che stava cucendo, tutta pensierosa; io sedetti da una parte del sofà, Silvia sedette dall'altra, e subito disse: - Senti, mamma, ho da parlarti. Abbiamo da parlarti tutti e due. - La mamma ci guardò meravigliata. E Silvia cominciò: - Il babbo è senza denari, è vero? - Che dici? - rispose la mamma arrossendo, - Non è vero! Che ne sai tu? Chi te l'ha detto? - Lo so, disse Silvia, risoluta. - Ebbene, senti, mamma; dobbiamo fare dei sacrifici anche noi. Tu m'avevi promesso un ventaglio per la fin di maggio, e Enrico aspettava la sua scatola di colori; non vogliamo più nulla; non vogliamo che si sprechino i soldi; saremo contenti lo stesso, hai capito? - La mamma tentò di parlare, ma Silvia disse: - No, sarà così. Abbiamo deciso. E fin che il babbo non avrà dei denari, non vogliamo più né frutta né altre cose; ci basterà la minestra, e la mattina a colazione mangeremo del pane; così si spenderà meno a tavola, ché già spendiamo troppo, e noi ti promettiamo che ci vedrai sempre contenti ad un modo. Non è vero, Enrico? - Io risposi di sì. - Sempre contenti ad un modo, - ripeté Silvia, chiudendo la bocca alla mamma con una mano; - e se c'è altri sacrifici da fare, o nel vestire, o in altro, noi li faremo volentieri, e vendiamo anche i nostri regali: io do tutte le mie cose, ti servo io di cameriera, non daremo più nulla a fare fuor di casa, lavorerò con te tutto il giorno, farò tutto quello che vorrai, sono disposta a tutto! A tutto! - esclamò gettando le braccia al collo a mia madre; - pur che il babbo e la mamma non abbian più dispiaceri, pur ch'io torni a vedervi tutti e due tranquilli, di buon umore come prima, in mezzo alla vostra Silvia e al vostro Enrico, che vi vogliono tanto bene, che darebbero la loro vita per voi! - Ah! io non vidi mai mia madre così contenta come a sentir quelle parole; non ci baciò mai in fronte a quel modo, piangendo e ridendo, senza poter parlare. E poi assicurò Silvia che aveva capito male, che non eravamo mica ridotti come essa credeva, per fortuna, e cento volte ci disse grazie, e fu allegra tutta la sera, fin che rientrò mio padre, a cui disse tutto. Egli non aperse bocca, povero padre mio! Ma questa mattina sedendo a tavola... provai insieme un gran piacere e una gran tristezza: io trovai sotto il tovagliolo la mia scatola, e Silvia ci trovò il suo ventaglio.

 

L'incendio

11, giovedì


Questa mattina io avevo finito di copiare la mia parte del racconto Dagli Appennini alle Ande, e stavo cercando un tema per la composizione libera che ci diede da fare il maestro, quando udii un vocìo insolito per le scale, e poco dopo entrarono in casa due pompieri, i quali domandarono a mio padre il permesso di visitar le stufe e i camini, perché bruciava un fumaiolo sui tetti, e non si capiva di chi fosse. Mio padre disse: - Facciano pure, - e benché non avessimo fuoco acceso da nessuna parte, essi cominciarono a girar per le stanze e a metter l'orecchio alle pareti, per sentire se rumoreggiasse il foco dentro alle gole che vanno su agli altri piani della casa.

E mio padre mi disse, mentre giravan per le stanze: - Enrico, ecco un tema per la tua composizione: i pompieri. Provati un po' a scrivere quello che ti racconto. Io li vidi all'opera due anni fa, una sera che uscivo dal teatro Balbo, a notte avanzata. Entrando in via Roma, vidi una luce insolita, e un'onda di gente che accorreva: una casa era in fuoco: lingue di fiamma e nuvoli di fumo rompevan dalle finestre e dal tetto; uomini e donne apparivano ai davanzali e sparivano, gettando grida disperate, c'era gran tumulto davanti al portone; la folla gridava: - Brucian vivi! Soccorso! I pompieri! - Arrivò in quel punto una carrozza, ne saltaron fuori quattro pompieri, i primi che s'eran trovati al Municipio, e si slanciarono dentro alla casa. Erano appena entrati, che si vide una cosa orrenda: una donna s'affacciò urlando a una finestra del terzo piano, s'afferrò alla ringhiera, la scavalcò, e rimase afferrata così, quasi sospesa nel vuoto, con la schiena in fuori, curva sotto il fumo e le fiamme che fuggendo dalla stanza le lambivan quasi la testa. La folla gettò un grido di raccapriccio. I pompieri, arrestati per isbaglio al secondo piano dagli inquilini atterriti, avevan già sfondato un muro e s'eran precipitati in una camera; quando cento grida li avvertirono: - Al terzo piano! Al terzo piano! - Volarono al terzo piano. Qui era un rovinio d'inferno, travi di tetto che crollavano, corridoi pieni di fiamme, un fumo che soffocava. Per arrivare alle stanze dov'eran gl'inquilini rinchiusi, non restava altra via che passar pel tetto.

Si lanciaron subito su, e un minuto dopo si vide come un fantasma nero saltar sui coppi, tra il fumo. Era il caporale, arrivato il primo. Ma per andare dalla parte del tetto che corrispondeva al quartierino chiuso dal fuoco, gli bisognava passare sopra un ristrettissimo spazio compreso tra un abbaino e la grondaia; tutto il resto fiammeggiava, e quel piccolo tratto era coperto di neve e di ghiaccio, e non c'era dove aggrapparsi. - È impossibile che passi! - gridava la folla di sotto. Il caporale s'avanzò sull'orlo del tetto: - tutti rabbrividirono, e stettero a guardar col respiro sospeso: - passò: - un immenso evviva salì al cielo. Il caporale riprese la corsa, e arrivato al punto minacciato, cominciò a spezzare furiosamente a colpi d'accetta coppi, travi, correntini, per aprirsi una buca da scender dentro. Intanto la donna era sempre sospesa fuor della finestra, il fuoco le infuriava sul capo, un minuto ancora, e sarebbe precipitata nella via. La buca fu aperta: si vide il caporale levarsi la tracolla e calarsi giù; gli altri pompieri, sopraggiunti, lo seguirono. Nello stesso momento un'altissima scala Porta, arrivata allora, s'appoggiò al cornicione della casa, davanti alle finestre da cui uscivano fiamme e urli da pazzi. Ma si credeva che fosse tardi. - Nessuno si salva più, - gridavano. - I pompieri bruciano. - È finita. - Son morti. - All'improvviso si vide apparire alla finestra della ringhiera la figura nera del caporale, illuminata di sopra in giù dalle fiamme, - la donna gli si avvinghiò al collo; - egli l'afferrò alla vita con tutt'e due le braccia, la tirò su, la depose dentro alla stanza. La folla mise un grido di mille voci, che coprì il fracasso dell'incendio. Ma e gli altri? e discendere? La scala, appoggiata al tetto davanti a un'altra finestra, distava dal davanzale un buon tratto. Come avrebbero potuto attaccarvisi? Mentre questo si diceva, uno dei pompieri si fece fuori della finestra, mise il piede destro sul davanzale e il sinistro sulla scala, e così ritto per aria, abbracciati ad uno ad uno gli inquilini, che gli altri gli porgevan di dentro, li porse a un compagno, ch'era salito su dalla via, e che, attaccatili bene ai pioli, li fece scendere, l'un dopo l'altro, aiutati da altri pompieri di sotto. Passò prima la donna della ringhiera, poi una bimba, un'altra donna, un vecchio. Tutti eran salvi. Dopo il vecchio, scesero i pompieri rimasti dentro; ultimo a scendere fu il caporale, che era stato il primo ad accorrere. La folla li accolse tutti con uno scoppio d'applausi; ma quando comparve l'ultimo, l'avanguardia dei salvatori, quello che aveva affrontato innanzi agli altri l'abisso, quello che sarebbe morto, se uno avesse dovuto morire, la folla lo salutò come un trionfatore, gridando e stendendo le braccia con uno slancio affettuoso d'ammirazione e di gratitudine, e in pochi momenti il suo nome oscuro - Giuseppe Robbino - suonò su mille bocche... Hai capito? Quello è coraggio, il coraggio del cuore, che non ragiona, che non vacilla, che va diritto cieco fulmineo dove sente il grido di chi muore. Io ti condurrò un giorno agli esercizi dei pompieri, e ti farò vedere il caporale Robbino; perché saresti molto contento di conoscerlo, non è vero?

Risposi di sì.

- Eccolo qua, - disse mio padre.

Io mi voltai di scatto. I due pompieri, terminata la visita, attraversavan la stanza per uscire.

Mio padre m'accennò il più piccolo, che aveva i galloni, e mi disse: - Stringi la mano al caporale Robbino.

Il caporale si fermò e mi porse la mano, sorridendo: io gliela strinsi; egli mi fece un saluto ed uscì.

- E ricordatene bene, - disse mio padre, - perché delle migliaia di mani che stringerai nella vita, non ce ne saranno forse dieci che valgono la sua.


 

Dagli Appennini alle Ande

Racconto mensile


Molti anni fa un ragazzo genovese di tredici anni, figliuolo d'un operaio, andò da Genova in America, da solo, per cercare sua madre.

Sua madre era andata due anni prima a Buenos Aires, città capitale della Repubblica Argentina, per mettersi al servizio di qualche casa ricca, e guadagnar così in poco tempo tanto da rialzare la famiglia, la quale, per effetto di varie disgrazie, era caduta nella povertà e nei debiti. Non sono poche le donne coraggiose che fanno un così lungo viaggio per quello scopo, e che grazie alle grandi paghe che trova laggiù la gente di servizio, ritornano in patria a capo di pochi anni con qualche migliaio di lire. La povera madre aveva pianto lacrime di sangue al separarsi dai suoi figliuoli, l'uno di diciott'anni e l'altro di undici; ma era partita con coraggio, e piena di speranza. Il viaggio era stato felice: arrivata appena a Buenos Aires, aveva trovato subito, per mezzo d'un bottegaio genovese, cugino di suo marito, stabilito là da molto tempo, una buona famiglia argentina, che la pagava molto e la trattava bene. E per un po' di tempo aveva mantenuto coi suoi una corrispondenza regolare. Com'era stato convenuto fra loro, il marito dirigeva le lettere al cugino, che le recapitava alla donna, e questa rimetteva le risposte a lui, che le spediva a Genova, aggiungendovi qualche riga di suo. Guadagnando ottanta lire al mese e non spendendo nulla per sé, mandava a casa ogni tre mesi una bella somma, con la quale il marito, che era galantuomo, andava pagando via via i debiti più urgenti, e riguadagnando così la sua buona reputazione. E intanto lavorava ed era contento dei fatti suoi, anche per la speranza che la moglie sarebbe ritornata fra non molto tempo, perché la casa pareva vuota senza di lei, e il figliuolo minore in special modo, che amava moltissimo sua madre, si rattristava, non si poteva rassegnare alla sua lontananza.

Ma trascorso un anno dalla partenza, dopo una lettera breve nella quale essa diceva di star poco bene di salute, non ne ricevettero più. Scrissero due volte al cugino; il cugino non rispose. Scrissero alla famiglia argentina, dove la donna era a servire; ma non essendo forse arrivata la lettera perché avean storpiato il nome sull'indirizzo, non ebbero risposta. Temendo d'una disgrazia, scrissero al Consolato italiano di Buenos Aires, che facesse fare delle ricerche; e dopo tre mesi fu risposto loro dal Console che, nonostante l'avviso fatto pubblicare dai giornali, nessuno s'era presentato, neppure a dare notizie. E non poteva accadere altrimenti, oltre che per altre ragioni, anche per questa: Che con l'idea di salvare il decoro dei suoi, ché le pareva di macchiarlo a far la serva, la buona donna non aveva dato alla famiglia argentina il suo vero nome. Altri mesi passarono, nessuna notizia. Padre e figliuolo erano costernati; il più piccolo, oppresso da una tristezza che non poteva vincere. Che fare? A chi ricorrere? La prima idea del padre era stata di partire, d'andare a cercare sua moglie in America. Ma e il lavoro? Chi avrebbe mantenuto i suoi figliuoli? E neppure avrebbe potuto partire il figliuol maggiore, che cominciava appunto allora a guadagnar qualche cosa, ed era necessario alla famiglia. E in questo affanno vivevano, ripetendo ogni giorno gli stessi discorsi dolorosi, o guardandosi l'un l'altro, in silenzio. Quando una sera Marco, il più piccolo, uscì a dire risolutamente: - Ci vado io in America a cercar mia madre. - Il padre crollò il capo, con tristezza, e non rispose. Era un pensiero affettuoso, ma una cosa impossibile. A tredici anni, solo, fare un viaggio in America, che ci voleva un mese per andarci! Ma il ragazzi insistette, pazientemente. Insistette quel giorno, il giorno dopo, tutti i giorni con una grande pacatezza, ragionando col buon senso d'un uomo. - Altri ci sono andati, - diceva - e più piccoli di me. Una volta che son sul bastimento, arrivo là come un altro. Arrivato là, non ho che a cercare la bottega del cugino. Ci sono tanti italiani, qualcheduno m'insegnerà la strada. Trovato il cugino, e trovata mia madre, se non trovo lui vado dal Console, cercherò la famiglia argentina. Qualunque cosa accada, laggiù c'è del lavoro per tutti; troverò del lavoro anch'io, almeno per guadagnar tanto da ritornare a casa. - E così, a poco a poco, riuscì quasi a persuadere suo padre. Suo padre lo stimava, sapeva che aveva giudizio e coraggio, che era assuefatto alle privazioni e ai sacrifici, e che tutte queste buone qualità avrebbero preso doppia forza nel suo cuore per quel santo scopo di trovar sua madre, ch'egli adorava. Si aggiunse pure che un Comandante di piroscafo, amico d'un suo conoscente, avendo inteso parlar della cosa, s'impegnò di fargli aver gratis un biglietto di terza classe per l'Argentina. E allora, dopo un altro po' di esitazione, il padre acconsentì, il viaggio fu deciso. Gli empirono una sacca di panni, gli misero in tasca qualche scudo, gli diedero l'indirizzo del cugino, e una bella sera del mese di aprile lo imbarcarono. - Figliuolo, Marco mio, - gli disse il padre dandogli l'ultimo bacio, con le lacrime agli occhi, sopra la scala del piroscafo che stava per partire: - fatti coraggio. Parti per un santo fine e Dio t'aiuterà.

Povero Marco! Egli aveva il cuor forte e preparato alle più dure prove per quel viaggio; ma quando vide sparire all'orizzonte la sua bella Genova, e si trovò in alto mare, su quel grande piroscafo affollato di contadini emigranti, solo, non conosciuto da alcuno, con quella piccola sacca che racchiudeva tutta la sua fortuna, un improvviso scoraggiamento lo assalì. Per due giorni stette accucciato come un cane a prua, non mangiando quasi, oppresso da un gran bisogno di piangere. Ogni sorta di tristi pensieri gli passava per la mente, e il più triste, il più terribile era il più ostinato a tornare: il pensiero che sua madre fosse morta. Nei suoi sogni rotti e pensosi egli vedeva sempre la faccia d'uno sconosciuto che lo guardava in aria di compassione e poi gli diceva all'orecchio: - Tua madre è morta. - E allora si svegliava soffocando un grido. Nondimeno, passato lo stretto di Gibilterra, alla prima vista dell'Oceano Atlantico, riprese un poco d'animo e di speranza. Ma fu un breve sollievo. Quell'immenso mare sempre eguale, il calore crescente, la tristezza di tutta quella povera gente che lo circondava, il sentimento della propria solitudine tornarono a buttarlo giù. I giorni, che si succedevano vuoti e monotoni, gli si confondevano nella memoria, come accade ai malati. Gli parve d'esser in mare da un anno. E ogni mattina, svegliandosi, provava un nuovo stupore di esser là solo, in mezzo a quell'immensità d'acqua, in viaggio per l'America. I bei pesci volanti che venivano ogni tanto a cascare sul bastimento, quei meravigliosi tramonti dei tropici, con quelle enormi nuvole color di bragia e di sangue, e quelle fosforescenze notturne che fanno parer l'Oceano tutto acceso come un mare di lava, non gli facevan l'effetto di cose reali, ma di prodigi veduti in sogno. Ebbe delle giornate di cattivo tempo, durante le quali restò chiuso continuamente nel dormitorio, dove tutto ballava e rovinava, in mezzo a un coro spaventevole di lamenti e d'imprecazioni; e credette che fosse giunta la sua ultima ora. Ebbe altre giornate di mare quieto e giallastro, di caldura insopportabile, di noia infinita; ore interminabili e sinistre, durante le quali i passeggeri spossati, distesi immobili sulle tavole, parevan tutti morti. E il viaggio non finiva mai: mare e cielo, cielo e mare, oggi come ieri, domani come oggi, - ancora, - sempre, eternamente. Ed egli per lunghe ore stava appoggiato al parapetto a guardar quel mare senza fine, sbalordito, pensando vagamente a sua madre, fin che gli occhi gli si chiudevano e il capo gli cascava dal sonno; e allora rivedeva quella faccia sconosciuta che lo guardava in aria di pietà, e gli ripeteva all'orecchio: - Tua madre è morta! - e a quella voce si risvegliava in sussulto, per ricominciare a sognare a occhi aperti e a guardar l'orizzonte immutato.

Ventisette giorni durò il viaggio! Ma gli ultimi furono i migliori. Il tempo era bello e l'aria fresca. Egli aveva fatto conoscenza con un buon vecchio lombardo, che andava in America a trovare il figliuolo, coltivatore di terra vicino alla città di Rosario; gli aveva detto tutto di casa sua, e il vecchio gli ripeteva ogni tanto, battendogli una mano sulla nuca: - Coraggio, bagai, tu troverai tua madre sana e contenta. - Quella compagnia lo riconfortava, i suoi presentimenti s'erano fatti di tristi lieti. Seduto a prua, accanto al vecchio contadino che fumava la pipa, sotto un bel cielo stellato, in mezzo a gruppi d'emigranti che cantavano, egli si rappresentava cento volte al pensiero il suo arrivo a Buenos Aires, si vedeva in quella certa strada, trovava la bottega, si lanciava incontro al cugino: - Come sta mia madre? Dov'è? Andiamo subito! - Andiamo subito; - correvano insieme, salivano una scala, s'apriva una porta... E qui il suo soliloquio muto s'arrestava, la sua immaginazione si perdeva in un sentimento d'inesprimibile tenerezza, che gli faceva tirar fuori di nascosto una piccola medaglia che portava al collo, e mormorare, baciandola, le sue orazioni.

Il ventisettesimo giorno dopo quello della partenza, arrivarono. Era una bella aurora rossa di maggio quando il piroscafo gittava l'àncora nell'immenso fiume della Plata, sopra una riva del quale si stende la vasta città di Buenos Aires, capitale della Repubblica Argentina. Quel tempo splendido gli parve di buon augurio. Era fuor di sé dalla gioia e dall'impazienza. Sua madre era a poche miglia di distanza da lui! Tra poche ore l'avrebbe veduta! Ed egli si trovava in America, nel nuovo mondo, e aveva avuto l'ardimento di venirci so]o! Tutto quel lunghissimo viaggio gli pareva allora che fosse passato in un nulla. Gli pareva d'aver volato, sognando, e di essersi svegliato in quel punto. Ed era così felice, che quasi non si stupì né si afflisse, quando si frugò nelle tasche, e non ci trovò più uno dei due gruzzoli in cui aveva diviso il suo piccolo tesoro, per esser più sicuro di non perdere tutto. Gliel'avevan rubato, non gli restavan più che poche lire; ma che gli importava, ora ch'era vicino a sua madre. Con la sua sacca alla mano scese insieme a molti altri italiani in un vaporino che li portò fino a poca distanza dalla riva, calò dal vaporino in una barca che portava il nome di Andrea Doria, fu sbarcato al molo, salutò il suo vecchio amico lombardo, e s'avviò a lunghi passi verso la città.

Arrivato all'imboccatura della prima via fermò un uomo che passava e lo pregò di indicargli da che parte dovesse prendere per andar in via de los Artes. Aveva fermato per l'appunto un operaio italiano. Questi lo guardò con curiosità e gli domandò se sapeva leggere. Il ragazzo accennò di sì. - Ebbene, - gli disse l'operaio, indicandogli la via da cui egli usciva; - va su sempre diritto, leggendo i nomi delle vie a tutte le cantonate; finirai con trovare la tua. - Il ragazzo lo ringraziò e infilò la via che gli s'apriva davanti.

Era una via diritta e sterminata, ma stretta; fiancheggiata da case basse e bianche, che pareva tanti villini; piena di gente, di carrozze, di grandi carri, che facevano uno strepito assordante; e qua e là spenzolavano enormi bandiere di vari colori, con su scritto a grossi caratteri l'annunzio di partenze di piroscafi per città sconosciute. A ogni tratto di cammino, voltandosi a destra e a sinistra, egli vedeva due altre vie che fuggivano diritte a perdita d'occhio, fiancheggiate pure da case basse e bianche, e piene di gente e di carri, e tagliate in fondo dalla linea diritta della sconfinata pianura americana, simile all'orizzonte del mare. La città gli pareva infinita; gli pareva che si potesse camminar per giornate e per settimane vedendo sempre di qua e di là altre vie come quelle, e che tutta l'America ne dovesse esser coperta. Guardava attentamente i nomi delle vie: dei nomi strani che stentava a leggere. A ogni nuova via, si sentiva battere il cuore, pensando che fosse la sua. Guardava tutte le donne con l'idea di incontrare sua madre. Ne vide una davanti a sé, che gli diede una scossa al sangue: la raggiunse, la guardò: era una negra. E andava, andava, affrettando il passo. Arrivò a un crocicchio, lesse, e restò come inchiodato sul marciapiede Era la vita delle Arti. Svoltò, vide il numero 117 dovette fermarsi per riprender respiro. E disse tra sé: - O madre mia! madre mia! È proprio vero che ti vedrò a momenti! - Corse innanzi, arrivò a una piccola bottega di merciaio. Era quella. S'affacciò. Vide una donna coi capelli grigi e gli occhiali.

- Che volete, ragazzo? - gli domandò quella, in spagnuolo.

- Non è questa, - disse, stentando a metter fuori la voce, - la bottega di Francesco Merelli?

- Francesco Merelli è morto, - rispose la donna in italiano.

Il ragazzo ebbe l'impressione d'una percossa nel petto.

- Quando morto?

- Eh, da un pezzo, - rispose la donna; - da mesi. Fece cattivi affari, scappò. Dicono che sia andato a Bahia Blanca, molto lontano di qui. E morì appena arrivato. La bottega è mia.

Il ragazzo impallidì.

Poi disse rapidamente: - Merelli conosceva mia madre, mia madre era qua a servire dal signor Mequinez. Egli solo poteva dirmi dov'era. Io sono venuto in America a cercar mia madre. Merelli le mandava le lettere. Io ho bisogno di trovar mia madre.

- Povero figliuolo, - rispose la donna, - io non so. Posso domandare al ragazzo del cortile. Egli conosceva il giovane che faceva commissioni per Merelli. Può darsi che sappia dir qualche cosa.

Andò in fondo alla bottega e chiamò il ragazzo, che venne subito. - Dimmi un poco, - gli domandò la bottegaia; - ti ricordi che il giovane di Merelli andasse qualche volta a portar delle lettere a una donna di servizio, in casa di figli del paese?

- Dal signor Mequinez, - rispose il ragazzo, sì signora, qualche volta. In fondo a via delle Arti.

- Ah, signora, grazie! - gridò Marco. - Mi dica il numero... non lo sa? Mi faccia accompagnare, - accompagnami tu subito, ragazzo; - io ho ancora dei soldi.

E disse questo con tanto calore, che senz'aspettar la preghiera della donna, il ragazzo rispose: - andiamo; - e uscì pel primo a passi lesti.

Quasi correndo, senza dire una parola, andarono fino in fondo alla via lunghissima, infilarono l'andito d'entrata d'una piccola casa bianca, e si fermarono davanti a un bel cancello di ferro, da cui si vedeva un cortiletto, pieno di vasi di fiori. Marco diede una strappata al campanello.

Comparve una signorina.

- Qui sta la famiglia Mequinez, non è vero? - domandò ansiosamente il ragazzo.

- Ci stava, - rispose la signorina, pronunziando l'italiano alla spagnuola. - Ora ci stiamo noi, Zeballos.

- E dove sono andati i Mequinez? - domandò Marco, col batticuore.

- Sono andati a Cordova.

- Cordova! - esclamò Marco. - Dov'è Cordova? E la persona di servizio che avevano? la donna, mia madre! La donna di servizio era mia madre! Hanno condotto via anche mia madre?

La signorina lo guardò e disse: - Non so. Lo saprà forse mio padre, che li ha conosciuti quando partirono. Aspettate un momento.

Scappò e tornò poco dopo con suo padre, un signore alto, con la barba grigia. Questi guardò fisso un momento quel tipo simpatico di piccolo marinaio genovese, coi capelli biondi e il naso aquilino, e gli domandò in cattivo italiano: - Tua madre è genovese?

Marco rispose di sì.

- Ebbene la donna di servizio genovese è andata con loro, lo so di certo.

- Dove sono andati?

- A Cordova, una città.

Il ragazzo mise un sospiro; poi disse con rassegnazione: - Allora... andrò a Cordova.

- Ah pobre Niño! - esclamò il signore, guardandolo in aria di pietà. - Povero ragazzo! È a centinaia di miglia di qua, Cordova.

Marco diventò pallido come un morto, e s'appoggiò con una mano alla cancellata.

- Vediamo, vediamo, - disse allora il signore, mosso a compassione, aprendo la porta, - vieni dentro un momento, vediamo un po' se si può far qualche cosa. - Sedette, gli diè da sedere, gli fece raccontar la sua storia, lo stette a sentire molto attento, rimase un pezzo pensieroso; poi gli disse risolutamente: - Tu non hai denari, non è vero?

- Ho ancora... poco, - rispose Marco.

Il signore pensò altri cinque minuti, poi si mise a un tavolino, scrisse una lettera, la chiuse, e porgendola al ragazzo, gli disse: - Senti, italianito. Va' con questa lettera alla Boca. È una piccola città mezza genovese, a due ore di strada di qua. Tutti ti sapranno indicare il cammino. Va' là e cerca di questo signore, a cui è diretta la lettera, e che è conosciuto da tutti. Portagli questa lettera. Egli ti farà partire domani per la città di Rosario, e ti raccomanderà a qualcuno lassù, che penserà a farti proseguire il viaggio fino a Cordova, dove troverai la famiglia Mequinez e tua madre. Intanto, piglia questo. - E gli mise in mano qualche lira. - Va', e fatti coraggio; qui hai da per tutto dei compaesani, non rimarrai abbandonato. Adios.

Il ragazzo gli disse: - Grazie, - senza trovar altre parole, uscì con la sua sacca, e congedatosi dalla sua piccola guida, si mise lentamente in cammino verso la Boca, pieno di tristezza e di stupore, a traverso alla grande città rumorosa.

Tutto quello che gli accadde da quel momento fino alla sera del giorno appresso gli rimase poi nella memoria confuso ed incerto come una fantasticheria di febbricitante, tanto egli era stanco, sconturbato, avvilito. E il giorno appresso, all'imbrunire, dopo aver dormito la notte in una stanzuccia d'una casa della Boca, accanto a un facchino del porto, - dopo aver passata quasi tutta la giornata, seduto sopra un mucchio di travi, e come trasognato, in faccia a migliaia di bastimenti, di barconi e di vaporini, - si trovava a poppa d'una grossa barca a vela, carica di frutte, che partiva per la città di Rosario, condotta da tre robusti genovesi abbronzati dal sole; la voce dei quali, e il dialetto amato che parlavano gli rimise un po' di conforto nel cuore.

Partirono, e il viaggio durò tre giorni e quattro notti, e fu uno stupore continuo per il piccolo viaggiatore. Tre giorni e quattro notti su per quel meraviglioso fiume Paranà, rispetto al quale il nostro grande Po non è che un rigagnolo, e la lunghezza dell'Italia, quadruplicata, non raggiunge quella del suo corso. Il barcone andava lentamente a ritroso di quella massa d'acqua smisurata. Passava in mezzo a lunghe isole, già nidi di serpenti e di tigri, coperte d'aranci e di salici, simili a boschi galleggianti; e ora infilava stretti canali, da cui pareva che non potesse più uscire; ora sboccava in vaste distese d'acque, dell'aspetto di grandi laghi tranquilli; poi daccapo fra le isole, per i canali intricati d'un arcipelago, in mezzo a mucchi enormi di vegetazione. Regnava un silenzio profondo. Per lunghi tratti, le rive e le acque solitarie e vastissime davan l'immagine d'un fiume sconosciuto, in cui quella povera vela fosse la prima al mondo ad avventurarsi. Quanto più s'avanzavano, e tanto più quel mostruoso fiume lo sgomentava. Egli immaginava che sua madre si trovasse alle sorgenti, e che la navigazione dovesse durare degli anni. Due volte al giorno mangiava un po' di pane e di carne salata coi barcaioli, i quali, vedendolo triste, non gli rivolgevan mai la parola. La notte dormiva sopra coperta, e si svegliava ogni tanto, bruscamente, stupito della luce limpidissima della luna che imbiancava le acque immense e le rive lontane; e allora il cuore gli si serrava. - Cordova! - Egli ripeteva quel nome: - Cordova! - come il nome d'una di quelle città misteriose, delle quali aveva inteso parlare nelle favole. Ma poi pensava: - Mia madre è passata di qui, ha visto queste isole, quelle rive, - e allora non gli parevan più tanto strani e solitari quei luoghi in cui lo sguardo di sua madre s'era posato... La notte, uno dei barcaiuoli cantava. Quella voce gli rammentava le canzoni di sua madre, quando l'addormentava bambino. L'ultima notte, all'udir quel canto, singhiozzò. Il barcaiuolo s'interruppe. Poi gli gridò: - Animo, animo, figioeu! Che diavolo! Un genovese che piange perché è lontano da casa! I genovesi girano il mondo gloriosi e trionfanti! - E a quelle parole egli si riscosse, sentì la voce del sangue genovese, e rialzò la fronte con alterezza, battendo il pugno sul timone. - Ebbene, si - disse tra sé, - dovessi anch'io girare tutto il mondo, viaggiare ancora per anni e anni, e fare delle centinaia di miglia a piedi, io andrò avanti, fin che troverò mia madre. Dovessi arrivare moribondo, e cascar morto ai suoi piedi! Pur che io la riveda una volta! Coraggio! - E con quest'animo arrivò allo spuntar d'un mattino rosato e freddo di fronte alla città di Rosario, posta sulla riva alta del Paranà, dove si specchiavan nelle acque le antenne imbandierate di cento bastimenti d'ogni paese.

Poco dopo sbarcato, salì alla città, con la sua sacca alla mano, a cercare un signore argentino per cui il suo protettore della Boca gli aveva rimesso un biglietto di visita con qualche parola di raccomandazione. Entrando in Rosario gli parve d'entrare in una città già conosciuta. Erano quelle vie interminabili, diritte, fiancheggiate di case basse e bianche, attraversate in tutte le direzioni, al disopra dei tetti, da grandi fasci di fili telegrafici e telefonici, che parevano enormi ragnateli; e un gran trepestio di gente, di cavalli, di carri. La testa gli si confondeva: credette quasi di rientrare a Buenos Aires, e di dover cercare un'altra volta il cugino. Andò attorno per quasi un'ora, svoltando e risvoltando, e sembrandogli sempre di tornar nella medesima via; e a furia di domandare, trovò la casa del suo nuovo protettore. Tirò il campanello. S'affacciò alla porta un grosso uomo biondo, arcigno, che aveva l'aria d'un fattore, e che gli domandò sgarbatamente, con pronunzia straniera:

- Che vuoi?

Il ragazzo disse il nome del padrone.

- Il padrone, - rispose il fattore, - è partito ieri sera per Buenos Aires con tutta la sua famiglia.

Il ragazzo restò senza parola.

Poi balbettò: - Ma io... non ho nessuno qui! Sono solo! - E porse il biglietto.

Il fattore lo prese, lo lesse e disse burberamente: - Non so che farci. Glielo darò fra un mese, quando ritornerà.

- Ma io, io son solo! io ho bisogno! - esclamò il ragazzo, con voce di preghiera.

- Eh! andiamo, - disse l'altro; - non ce n'è ancora abbastanza della gramigna del tuo paese a Rosario! Vattene un po' a mendicare in Italia. - E gli chiuse il cancello sulla faccia.

Il ragazzo restò là come impietrato.

Poi riprese lentamente la sua sacca, ed uscì, col cuore angosciato, con la mente in tumulto, assalito a un tratto da mille pensieri affannosi. Che fare? dove andare? Da Rosario a Cordova c'era una giornata di strada ferrata. Egli non aveva più che poche lire. Levato quello che gli occorreva di spendere quel giorno, non gli sarebbe rimasto quasi nulla. Dove trovare i denari per pagarsi il viaggio? Poteva lavorare. Ma come, a chi domandar lavoro? Chieder l'elemosina! Ah! no, essere respinto, insultato, umiliato come poc'anzi, no, mai, mai più, piuttosto morire! - E a quell'idea, e al riveder davanti a sé la lunghissima via che si perdeva lontano nella pianura sconfinata, si sentì fuggire un'altra volta il coraggio, gettò la sacca sul marciapiede, vi sedette su con le spalle al muro, e chinò il viso tra le mani, senza pianto, in un atteggiamento desolato.

La gente l'urtava coi piedi passando; i carri empivan la via di rumore; alcuni ragazzi si fermarono a guardarlo. Egli rimase un pezzo così.

Quando fu scosso da una voce che gli disse tra in italiano e in lombardo: - Che cos'hai, ragazzetto?

Alzò il viso a quelle parole, e subito balzò in piedi gettando un'esclamazione di meraviglia: - Voi qui!

Era il vecchio contadino lombardo, col quale aveva fatto amicizia nel viaggio.

La meraviglia del contadino non fu minore della sua. Ma il ragazzo non gli lasciò il tempo d'interrogarlo, e gli raccontò rapidamente i casi suoi. - Ora son senza soldi, ecco; bisogna che lavori; trovatemi voi del lavoro da poter mettere insieme qualche lira; io faccio qualunque cosa; porto roba, spazzo le strade, posso far commissioni, anche lavorare in campagna; mi contento di campare di pan nero; ma che possa partir presto, che possa trovare una volta mia madre, fatemi questa carità, del lavoro, trovatemi voi del lavoro, per amor di Dio, che non ne posso più!

- Diamine, diamine, - disse il contadino, guardandosi attorno e grattandosi il mento. - Che storia è questa!... Lavorare... è presto detto. Vediamo un po'. Che non ci sia mezzo di trovar trenta lire fra tanti patriotti?

Il ragazzo lo guardava, confortato da un raggio di speranza.

- Vieni con me, - gli disse il contadino.

- Dove? - domandò il ragazzo, ripigliando la sacca.

- Vieni con me.

Il contadino si mosse, Marco lo seguì, fecero un lungo tratto di strada insieme, senza parlare. Il contadino si fermò alla porta d'un'osteria che aveva per insegna una stella e scritto sotto: - La estrella de Italia; - mise il viso dentro e voltandosi verso il ragazzo disse allegramente: - Arriviamo in buon punto. - Entrarono in uno stanzone, dov'eran varie tavole, e molti uomini seduti, che bevevano, parlando forte. Il vecchio lombardo s'avvicinò alla prima tavola, e dal modo come salutò i sei avventori che ci stavano intorno, si capiva ch'era stato in loro compagnia fino a poco innanzi. Erano rossi in viso e facevan sonare bicchieri, vociando e ridendo.

- Camerati, - disse senz'altro il lombardo, restando in piedi, e presentando Marco; - c'è qui un povero ragazzo nostro patriotta, che è venuto solo da Genova a Buenos Aires a cercare sua madre. A Buenos Aires gli dissero: - Qui non c'è, è a Cordova. - Viene in barca a Rosario, tre dì e tre notti, con due righe di raccomandazione; presenta la carta: gli fanno una figuraccia. Non ha la croce d'un centesimo. È qui solo come un disperato. È un bagai pieno di cuore. Vediamo un poco. Non ha da trovar tanto da pagare il biglietto per andare a Cordova a trovar sua madre? L'abbiamo da lasciar qui come un cane?

- Mai al mondo, perdio! - Mai non sarà detto questo! - gridarono tutti insieme, battendo il pugno sul tavolo. - Un patriotta nostro! - Vieni qua, piccolino. - Ci siamo noi, gli emigranti! - Guarda che bel monello. - Fuori dei quattrini, camerati. - Bravo! Venuto solo! Hai del fegato! - Bevi un sorso, patriotta. - Ti manderemo da tua madre, non pensare. - E uno gli dava un pizzicotto alla guancia, un altro gli batteva la mano sulla spalla, un terzo lo liberava dalla sacca; altri emigranti s'alzarono dalle tavole vicine e s'avvicinarono; la storia del ragazzo fece il giro dell'osteria; accorsero dalla stanza accanto tre avventori argentini; e in meno di dieci minuti il contadino lombardo che porgeva il cappello, ci ebbe dentro quarantadue lire. - Hai Visto, - disse allora, voltandosi verso il ragazzo, - come si fa presto in America? - Bevi - gli gridò un altro, porgendogli un bicchiere di vino: - Alla salute di tua madre! - Tutti alzarono i bicchieri. - E Marco ripeté: - Alla salute di mia... - Ma un singhiozzo di gioia gli chiuse la gola, e rimesso il bicchiere sulla tavola, si gettò al collo del suo vecchio.

La mattina seguente, allo spuntare del giorno, egli era già partito per Cordova, ardito e ridente, pieno di presentimenti felici. Ma non c'è allegrezza che regga a lungo davanti a certi aspetti sinistri della natura. Il tempo era chiuso e grigio; il treno, presso che vuoto, correva a traverso a un'immensa pianura priva d'ogni segno d'abitazione. Egli si trovava solo in un vagone lunghissimo, che somigliava a quelli dei treni per i feriti. Guardava a destra, guardava a sinistra, e non vedeva che una solitudine senza fine, sparsa di piccoli alberi deformi, dai tronchi e dai rami scontorti, in atteggiamenti non mai veduti, quasi d'ira e d'angoscia; una vegetazione scura, rada e triste, che dava alla pianura l'apparenza d'uno sterminato cimitero. Sonnecchiava mezz'ora, tornava a guardare: era sempre lo stesso spettacolo. Le stazioni della strada ferrata eran solitarie, come case di eremiti; e quando il treno si fermava, non si sentiva una voce; gli pareva di trovarsi solo in un treno, perduto, abbandonato in mezzo a un deserto. Gli sembrava che ogni stazione dovesse essere l'ultima, e che s'entrasse dopo quella nelle terre misteriose e spaurevoli dei selvaggi. Una brezza gelata gli mordeva il viso. Imbarcandolo a Genova sul finir d'aprile, i suoi non avevan pensato che in America egli avrebbe trovato l'inverno, e l'avevan vestito da estate. Dopo alcune ore, incominciò a soffrire il freddo, e col freddo, la stanchezza dei giorni passati, pieni di commozioni violente, e delle notti insonni e travagliate. Si addormentò, dormì lungo tempo, si svegliò intirizzito; si sentiva male. E allora gli prese un vago terrore di cader malato e di morir per viaggio, e d'esser buttato là in mezzo a quella pianura desolata, dove il suo cadavere sarebbe stato dilaniato dai cani e dagli uccelli di rapina, come certi corpi di cavalli e di vacche che vedeva tratto tratto accanto alla strada, e da cui torceva lo sguardo con ribrezzo. In quel malessere inquieto, in mezzo a quel silenzio tetro della natura, la sua immaginazione s'eccitava e volgeva al nero. Era poi ben sicuro di trovarla, a Cordova, sua madre? E se non ci fosse stata? Se quel signore di via delle Arti avesse sbagliato? E se fosse morta? In questi pensieri si riaddormentò, sognò d'essere a Cordova di notte, e di sentirsi gridare da tutte le porte e da tutte le finestre: - Non c'è! Non c'è! Non c'è! - si risvegliò di sobbalzo, atterrito, e vide in fondo al vagone tre uomini barbuti, ravvolti in scialli di vari colori, che lo guardavano, parlando basso tra di loro; e gli balenò il sospetto che fossero assassini e lo volessero uccidere, per rubargli la sacca. Al freddo, al malessere gli s'aggiunse la paura; la fantasia già turbata gli si stravolse; - i tre uomini lo fissavano sempre, - uno di essi mosse verso di lui; - allora egli smarrì la ragione, e correndogli incontro con le braccia aperte, gridò: - Non ho nulla. Sono un povero ragazzo. Vengo dall'Italia vo a cercar mia madre, son solo; non mi fate del male! - Quelli capirono subito, n'ebbero pietà, lo carezzarono e lo racquetarono, dicendogli molte parole che non intendeva; e vedendo che batteva i denti dal freddo, gli misero addosso uno dei loro scialli, e lo fecero risedere perché dormisse. E si riaddormentò, che imbruniva. Quando lo svegliarono, era a Cordova.

Ah! che buon respiro tirò, e con che impeto si cacciò fuori del vagone! Domandò a un impiegato della stazione dove stesse di casa l'ingegner Mequinez: quegli disse il nome d'una chiesa: - la casa era accanto alla chiesa; - il ragazzo scappò via. Era notte. Entrò in città. E gli parve d'entrare in Rosario un'altra volta, al veder quelle strade diritte, fiancheggiate di piccole case bianche, e tagliate da altre strade diritte e lunghissime. Ma c'era poca gente, e al chiarore dei rari lampioni incontrava delle facce strane, d'un colore sconosciuto, tra nerastro e verdognolo, e alzando il viso a quando a quando, vedeva delle chiese d'architettura bizzarra che si disegnavano enormi e nere sul firmamento. La città era oscura e silenziosa; ma dopo aver attraversato quell'immenso deserto, gli pareva allegra. Interrogò un prete, trovò presto la chiesa e la casa, tirò il campanello con una mano tremante, e si premette l'altra sul petto per comprimere i battiti del cuore, che gli saltava alla gola.

Una vecchia venne ad aprire, con un lume in mano. Il ragazzo non poté parlar subito.

- Chi cerchi? - domandò quella, in spagnuolo.

- L'ingegnere Mequinez, - disse Marco.

La vecchia fece l'atto d'incrociar le braccia sul seno, e rispose dondolando il capo. - Anche tu, dunque, l'hai con l'ingegnere Mequinez! E mi pare che sarebbe tempo di finirla. Son tre mesi oramai, che ci seccano. Non basta che l'abbiano detto i giornali. Bisognerà farlo stampare sulle cantonate che il signor Mequinez è andato a stare a Tucuman!

Il ragazzo fece un gesto di disperazione. Poi diede in uno scoppio di rabbia. - È una maledizione dunque! Io dovrò morire per la strada senza trovare mia madre! Io divento matto, m'ammazzo! Dio mio! Come si chiama quel paese? Dov'è? A che distanza è?

- Eh, povero ragazzo, - rispose la vecchia, impietosita, - una bagattella! Saranno quattrocento o cinquecento miglia, a metter poco.

Il ragazzo si coprì il viso con le mani; poi domandò con un singhiozzo: - E ora... come faccio?

- Che vuoi che ti dica, povero figliuolo, - rispose la donna; - io non so.

Ma subito le balenò un'idea e soggiunse in fretta: - Senti, ora che ci penso. Fa una cosa. Svolta a destra per la via, troverai alla terza parte un cortile; c'è un capataz, un commerciante, che parte domattina per Tucuman con le sue carretas e i suoi bovi; va a vedere se ti vuol prendere, offrendogli i tuoi servizi; ti darà forse un posto sur un carro; va' subito.

Il ragazzo afferrò la sacca, ringraziò scappando, e dopo due minuti si trovò in un vasto cortile rischiarato da lanterne, dove vari uomini lavoravano a caricar sacchi di frumento sopra certi carri enormi, simili a case mobili di saltimbanchi, col tetto rotondo e le ruote altissime; ed un uomo alto e baffuto, ravvolto in una specie di mantello a quadretti bianchi e neri, con due grandi stivali, dirigeva il lavoro. Il ragazzo s'avvicinò a questo, e gli fece timidamente la sua domanda, dicendo che veniva dall'Italia e che andava a cercare sua madre.

Il capataz, che vuol dir capo (il capo conduttore di quel convoglio di carri), gli diede un'occhiata da capo a piedi, e rispose seccamente: - Non ci ho posto.

- Io ho quindici lire, - rispose il ragazzo, supplichevole, - do le mie quindici lire. Per viaggio lavorerò. Andrò a pigliar l'acqua e la biada per le bestie, farò tutti i servizi. Un poco di pane mi basta. Mi faccia un po' di posto, signore!

Il capataz tornò a guardarlo, e rispose con miglior garbo: - Non c'è posto... e poi... noi non andiamo a Tucuman, andiamo a un'altra città, Santiago dell'Estero. A un certo punto ti dovremmo lasciare, e avresti ancora un gran tratto da far a piedi.

- Ah! io ne farei il doppio! - esclamò Marco; - io camminerò, non ci pensi; arriverò in ogni maniera, mi faccia un po' di posto, signore, per carità, per carità non mi lasci qui solo!

- Bada che è un viaggio di venti giorni!

- Non importa.

- È un viaggio duro!

- Sopporterò tutto

- Dovrai viaggiar solo!

- Non ho paura di nulla. Purché ritrovi mia madre. Abbia compassione!

Il capataz gli accostò al viso una lanterna e lo guardò. Poi disse: - Sta bene.

Il ragazzo gli baciò la mano.

- Stanotte dormirai in un carro, - soggiunse il capataz, lasciandolo; - domattina alle quattro ti sveglierò. Buenas noches.

La mattina alle quattro, al lume delle stelle, la lunga fila dei carri Si mise in movimento con grande strepitio: ciascun carro tirato da sei bovi, seguiti tutti da un gran numero di animali di ricambio. Il ragazzo, svegliato e messo dentro a un dei carri, sui sacchi, si raddormentò subito, profondamente. Quando si svegliò, il convoglio era fermo in un luogo solitario, sotto il sole, e tutti gli uomini - i peones - stavan seduti in cerchio intorno a un quarto di vitello, che arrostiva all'aria aperta, infilato in una specie di spadone piantato in terra, accanto a un gran foco agitato dal vento. Mangiarono tutti insieme, dormirono e poi ripartirono; e così il viaggio continuò, regolato come una marcia di soldati. Ogni mattina si mettevano in cammino alle cinque, si fermavano alle nove, ripartivano alle cinque della sera, tornavano a fermarsi alle dieci. I peones andavano a cavallo e stimolavano i buoi con lunghe canne. Il ragazzo accendeva il fuoco per l'arrosto, dava da mangiare alle bestie, ripuliva le lanterne, portava l'acqua da bere. Il paese gli passava davanti come una visione indistinta: vasti boschi di piccoli alberi bruni; villaggi di poche case sparse, con le facciate rosse e merlate; vastissimi spazi, forse antichi letti di grandi laghi salati, biancheggianti di sale fin dove arrivava la vista; e da ogni parte e sempre, pianura, solitudine, silenzio. Rarissimamente incontravano due o tre viaggiatori a cavallo, seguiti da un branco di cavalli sciolti, che passavano di galoppo, come un turbine. I giorni eran tutti eguali, come sul mare; uggiosi e interminabili. Ma il tempo era bello. Senonché i peones, come se il ragazzo fosse stato il loro servitore obbligato, diventavano di giorno in giorno più esigenti: alcuni lo trattavano brutalmente, con minacce; tutti si facevan servire senza riguardi; gli facevan portare carichi enormi di foraggi; lo mandavan a pigliar acqua a grandi distanze; ed egli, rotto dalla fatica, non poteva neanche dormire la notte, scosso continuamente dai sobbalzi violenti del carro e dallo scricchiolìo assordante delle ruote e delle sale di legno. E per giunta, essendosi levato il vento, una terra fina, rossiccia e grassa, che avvolgeva ogni cosa, penetrava nel carro, gli entrava sotto i panni, gli empiva gli occhi e la bocca, gli toglieva la vista e il respiro, continua, opprimente, insopportabile. Sfinito dalle fatiche e dall'insonnia, ridotto lacero e sudicio, rimbrottato e malmenato dalla mattina alla sera, il povero ragazzo s'avviliva ogni giorno di più, e si sarebbe perduto d'animo affatto se il capataz non gli avesse rivolto di tratto in tratto qualche buona parola. Spesso, in un cantuccio del carro, non veduto, piangeva col viso contro la sua sacca, la quale non conteneva più che dei cenci. Ogni mattina si levava più debole e più scoraggiato, e guardando la campagna, vedendo sempre quella pianura sconfinata e implacabile, come un oceano di terra, diceva tra sé: - Oh! fino a questa sera non arrivo, fino a questa sera non arrivo! Quest'oggi muoio per la strada! - E le fatiche crescevano, i mali trattamenti raddoppiavano. Una mattina, perché aveva tardato a portar l'acqua, in assenza del capataz, uno degli uomini lo percosse. E allora cominciarono a farlo per vezzo, quando gli davano un ordine, a misurargli uno scapaccione, dicendo: - Insacca questo, vagabondo! - Porta questo a tua madre! - Il cuore gli scoppiava; ammalò; - stette tre giorni nel carro, con una coperta addosso, battendo la febbre, e non vedendo nessuno, fuori che il capataz, che veniva a dargli da bere e a toccargli il polso. E allora Si credette perduto, e invocava disperatamente sua madre, chiamandola cento volte per nome: - Oh mia madre! madre mia! Aiutami! Vienmi incontro che muoio! Oh povera madre mia, che non ti vedrò mai più! Povera madre mia, che mi troverai morto per la strada! - E giungeva le mani sul petto e pregava. Poi miglioro, grazie alle cure del capataz, e guarì; ma con la guarigione sopraggiunse il giorno più terribile del suo viaggio, il giorno in cui doveva rimaner solo. Da più di due settimane erano in cammino. Quando arrivarono al punto dove dalla strada di Tucuman si stacca quella che va a Santiago dell'Estero, il capataz gli annunciò che dovevano separarsi. Gli diede qualche indicazione intorno al cammino, gli legò la sacca sulle spalle in modo che non gli desse noia a camminare, e tagliando corto, come se temesse di commuoversi, lo salutò. Il ragazzo fece appena in tempo a baciargli un braccio. Anche gli altri uomini, che lo avevano maltrattato così duramente, parve che provassero un po' di pietà a vederlo rimaner così solo, e gli fecero un cenno d'addio, allontanandosi. Ed egli restituì il saluto con la mano, stette a guardar il convoglio fin che si perdette nel polverìo rosso della campagna, e poi si mise in cammino, tristamente.

Una cosa, per altro, lo riconfortò un poco, fin da principio. Dopo tanti giorni di viaggio a traverso a quella pianura sterminata e sempre eguale egli vedeva davanti a sé una catena di montagne altissime, azzurre, con le cime bianche, che gli rammentavano le Alpi, e gli davan come un senso di ravvicinamento al suo paese. Erano le Ande, la spina dorsale del continente Americano, la catena immensa che si stende dalla Terra del fuoco fino al mare glaciale del polo artico per cento e dieci gradi di latitudine. Ed anche lo confortava il sentire che l'aria si veniva facendo sempre più calda; e questo avveniva perché, risalendo verso settentrione, egli si andava avvicinando alle regioni tropicali. A grandi distanze trovava dei piccoli gruppi di case, con una botteguccia; e comprava qualche cosa da mangiare. Incontrava degli uomini a cavallo; vedeva ogni tanto delle donne e dei ragazzi seduti in terra, immobili e gravi, delle faccie nuove affatto per lui, color di terra, con gli occhi obbliqui, con l'ossa delle guance sporgenti; i quali lo guardavano fisso, e lo accompagnavano con lo sguardo, girando il capo lentamente, come automi. Erano Indiani. Il primo giorno camminò fin che gli ressero le forze, e dormì sotto un albero. Il secondo giorno camminò assai meno, e con minor animo. Aveva le scarpe rotte, i piedi spellati, lo stomaco indebolito dalla cattiva nutrizione. Verso sera s'incominciava a impaurire. Aveva inteso dire in Italia che in quei paesi c'eran dei serpenti: credeva di sentirli strisciare, s'arrestava, pigliava la corsa, gli correvan dei brividi nelle ossa. A volte lo prendeva una grande compassione di sé, e piangeva in silenzio, camminando. Poi pensava: - Oh quanto soffrirebbe mia madre se sapesse che ho tanta paura! - e questo pensiero gli ridava coraggio. Poi, per distrarsi dalla paura, pensava a tante cose di lei, si richiamava alla mente le sue parole di quand'era partita da Genova, e l'atto con cui soleva accomodargli le coperte sotto il mento, quando era a letto, e quando era bambino, che alle volte se lo pigliava fra le braccia, dicendogli: - Sta' un po' qui con me, - e stava così molto tempo, col capo appoggiato sul suo, pensando, pensando. E le diceva tra sé: - Ti rivedrò un giorno, cara madre? Arriverò alla fine del mio viaggio, madre mia? - E camminava, camminava, in mezzo ad alberi sconosciuti, a vaste piantagioni di canne da zucchero, a praterie senza fine, sempre con quelle grandi montagne azzurre davanti, che tagliavano il cielo sereno coi loro altissimi coni. Quattro giorni - cinque - una settimana passò. Le forze gli andavan rapidamente scemando, i piedi gli sanguinavano. Finalmente, una sera al cader del sole, gli dissero: - Tucuman è a cinque miglia di qui. - Egli gittò un grido di gioia, e affrettò il passo, come se avesse riacquistato in un punto tutto il vigore perduto. Ma fu una breve illusione. Le forze lo abbandonarono a un tratto, e cadde sull'orlo d'un fosso, sfinito. Ma il cuore gli batteva dalla contentezza. Il cielo, fitto di stelle splendidissime, non gli era mai parso così bello. Egli le contemplava, adagiato sull'erba per dormire, e pensava che forse nello stesso tempo anche sua madre le guardava. E diceva: - O madre mia, dove sei? che cosa fai in questo momento? Pensi al tuo figliuolo? Pensi al tuo Marco, che ti è tanto vicino?

Povero Marco, s'egli avesse potuto vedere in quale stato si trovava sua madre in quel punto, avrebbe fatto uno sforzo sovrumano per camminare ancora, e arrivar da lei qualche ora prima. Era malata, a letto, in una camera a terreno d'una casetta signorile, dove abitava tutta la famiglia Mequinez; la quale le aveva posto molto affetto e le faceva grande assistenza. La povera donna era già malaticcia quando l'ingegnere Mequinez aveva dovuto partire improvvisamente da Buenos Aires, e non s'era punto rimessa colla buon'aria di Cordova. Ma poi, il non aver più ricevuto risposta alle sue lettere né dal marito né dal cugino, il presentimento sempre vivo di qualche grande disgrazia, l'ansietà continua in cui era vissuta, incerta tra il partire e il restare, aspettando ogni giorno una notizia funesta, l'avevano fatta peggiorare fuor di modo. Da ultimo, le s'era manifestata una malattia gravissima: un'ernia intestinale strozzata. Da quindici giorni non s'alzava da letto. Era necessaria un'operazione chirurgica per salvarle la vita. E in quel momento appunto, mentre il suo Marco la invocava, stavano accanto al suo letto il padrone e la padrona di casa, a ragionarla con molta dolcezza perché si lasciasse operare, ed essa persisteva nel rifiuto, piangendo. Un bravo medico di Tucuman era già venuto la settimana prima, inutilmente. - No, cari signori - essa diceva, - non mette conto; non ho più forza di resistere; morirei sotto i ferri del chirurgo. È meglio che mi lascino morir così. Non ci tengo più alla vita oramai. Tutto è finito per me. È meglio che muoia prima di sapere cos'è accaduto alla mia famiglia. - E i padroni a dirle di no, che si facesse coraggio, che alle ultime lettere mandate a Genova direttamente avrebbe ricevuto risposta, che si lasciasse operare, che lo facesse per i suoi figliuoli. Ma quel pensiero dei suoi figliuoli non faceva che aggravare di maggior ansia lo scoraggiamento profondo che la prostrava da lungo tempo. A quelle parole scoppiava in un pianto. - Oh, i miei figliuoli! i miei figliuoli! - esclamava, giungendo le mani; - forse non ci sono più! È meglio che muoia anch'io. Li ringrazio, buoni signori, li ringrazio di cuore. Ma è meglio che muoia. Tanto non guarirei neanche con l'operazione, ne sono sicura. Grazie di tante cure, buoni signori. È inutile che dopo domani torni il medico. Voglio morire. È destino ch'io muoia qui. Ho deciso. - E quelli ancora a consolarla, a ripeterle: - No, non dite questo; - e a pigliarla per le mani e a pregarla. Ma essa allora chiudeva gli occhi, sfinita, e cadeva in un assopimento, che pareva morta. E i padroni restavano lì un po' di tempo, alla luce fioca d'un lumicino, a guardare con grande pietà quella madre ammirabile, che per salvare la sua famiglia era venuta a morire a sei mila miglia dalla sua patria, a morire dopo aver tanto penato, povera donna, così onesta, così buona, così sventurata.

Il giorno dopo, di buon mattino, con la sua sacca sulle spalle, curvo e zoppicante, ma pieno d'animo, Marco entrava nella città di Tucuman, una delle più giovani e delle più floride città della Repubblica Argentina. Gli parve di rivedere Cordova, Rosario, Buenos Aires: erano quelle stesse vie diritte e lunghissime, e quelle case basse e bianche; ma da ogni parte una vegetazione nuova e magnifica, un'aria profumata, una luce meravigliosa, un cielo limpido e profondo, come egli non l'aveva mai visto, neppure in Italia. Andando innanzi per le vie, riprovò l'agitazione febbrile che lo aveva preso a Buenos Aires; guardava le finestre e le porte di tutte le case; guardava tutte le donne che passavano, con una speranza affannosa di incontrar sua madre; avrebbe voluto interrogar tutti, e non osava fermar nessuno. Tutti di sugli usci, si voltavano a guardar quel povero ragazzo stracciato e polveroso, che mostrava di venir di tanto lontano. Ed egli cercava fra la gente un viso che gl'ispirasse fiducia, per rivolgergli quella tremenda domanda, quando gli caddero gli occhi sopra un insegna di bottega, su cui era scritto un nome italiano. C'era dentro un uomo con gli occhiali e due donne. Egli s'avvicinò lentamente alla porta, e fatto un animo risoluto, domandò: - Mi saprebbe dire, signore, dove sta la famiglia Mequinez?

- Dell'ingeniero Mequinez? - domandò il bottegaio alla sua volta.

- Dell'ingegnere Mequinez, - rispose il ragazzo, con un fil di voce.

- La famiglia Mequinez, - disse il bottegaio, - non è a Tucuman.

Un grido di disperato dolore, come d'una persona pugnalata, fece eco a quelle parole.

Il bottegaio e le donne s'alzarono, alcuni vicini accorsero. - Che c'è? che hai, ragazzo? - disse il bottegaio, tirandolo nella bottega e facendolo sedere; - non c'è da disperarsi, che diavolo! I Mequinez non sono qui, ma poco lontano, a poche ore da Tucuman!

- Dove? dove? - gridò Marco, saltando su come un resuscitato.

- A una quindicina di miglia di qua, - continuò l'uomo, - in riva al Saladillo, in un luogo dove stanno costruendo una grande fabbrica da zucchero, un gruppo di case, c'è la casa del signor Mequinez, tutti lo sanno, ci arriverai in poche ore.

- Ci son stato io un mese fa, - disse un giovane che era accorso al grido.

Marco lo guardò con gli occhi grandi e gli domandò precipitosamente, impallidendo: - Avete visto la donna di servizio del signor Mequinez, l'italiana?

- La jenovesa? L'ho vista.

Marco ruppe in un singhiozzo convulso, tra di riso e di pianto. Poi con un impeto di risoluzione violenta: - Dove si passa, presto, la strada, parto subito, insegnatemi la strada!

- Ma c'è una giornata di marcia, - gli dissero tutti insieme, - sei stanco, devi riposare, partirai domattina.

- Impossibile! Impossibile! - rispose il ragazzo. - Ditemi dove si passa, non aspetto più un momento, parto subito, dovessi morire per via!

Vistolo irremovibile, non s'opposero più. - Dio t'accompagni, - gli dissero. - Bada alla via per la foresta. - Buon viaggio, italianito. - Un uomo l'accompagnò fuori di città, gli indicò il cammino, gli diede qualche consiglio e stette a vederlo partire. In capo a pochi minuti, il ragazzo scomparve, zoppicando, con la sua sacca sulle spalle, dietro agli alberi folti che fiancheggiavan la strada.

Quella notte fu tremenda per la povera inferma. Essa aveva dei dolori atroci che le strappavan degli urli da rompersi le vene, e le davan dei momenti di delirio. Le donne che l'assistevano, perdevan la testa. La padrona accorreva di tratto in tratto, sgomentata. Tutti cominciarono a temere che, se anche si fosse decisa a lasciarsi operare, il medico che doveva venire la mattina dopo, sarebbe arrivato troppo tardi. Nei momenti che non delirava, però, si capiva che il suo più terribile strazio non erano i dolori del corpo, ma il pensiero della famiglia lontana. Smorta, disfatta, col viso mutato, si cacciava le mani nei capelli con un atto di disperazione che passava l'anima, e gridava: - Dio mio! Dio mio! Morire tanto lontana, morire senza rivederli! I miei poveri figliuoli, che rimangono senza madre, le mie creature, il povero sangue mio! Il mio Marco, che è ancora così piccolo, alto così, tanto buono e affettuoso! Voi non sapete che ragazzo era! Signora, se sapesse! Non me lo potevo staccare dal collo quando son partita, singhiozzava da far compassione, singhiozzava; pareva che lo sapesse che non avrebbe mai più rivisto sua madre, povero Marco, povero bambino mio! Credevo che mi scoppiasse il cuore! Ah se fossi morta allora, morta mentre mi diceva addio! morta fulminata fossi! Senza madre, povero bambino, lui che m'amava tanto, che aveva tanto bisogno di me, senza madre, nella miseria, dovrà andare accattando, lui, Marco, Marco mio, che tenderà la mano, affamato! Oh! Dio eterno! No! Non voglio morire! Il medico! Chiamatelo subito! Venga, mi tagli, mi squarci il seno, mi faccia impazzire, ma mi salvi la vita! Voglio guarire, voglio vivere, partire, fuggire, domani, subito! Il medico! Aiuto! Aiuto! - E le donne le afferavan le mani, la palpavano, pregando, la facevano tornare in sé a poco a poco, e le parlavan di Dio e di speranza. E allora essa ricadeva in un abbattimento mortale, piangeva, con le mani nei capelli grigi, gemeva come una bambina, mettendo un lamento prolungato, e mormorando di tratto in tratto: - Oh la mia Genova! La mia casa! Tutto quel mare!... Oh Marco mio, il mio povero Marco! Dove sarà ora, la povera creatura mia!

Era mezzanotte; e il suo povero Marco, dopo aver passato molte ore sulla sponda d'un fosso, stremato di forze, camminava allora attraverso a una foresta vastissima di alberi giganteschi, mostri della vegetazione, dai fusti smisurati, simili a pilastri di cattedrali, che intrecciavano a un'altezza meravigliosa le loro enormi chiome inargentate dalla luna. Vagamente, in quella mezza oscurità, egli vedeva miriadi di tronchi di tutte le forme, ritti, inclinati, scontorti, incrociati in atteggiamenti strani di minaccia e di lotta; alcuni rovesciati a terra, come torri cadute tutte d'un pezzo, e coperti d'una vegetazione fitta e confusa, che pareva una folla furente che se li disputasse a palmo a palmo; altri raccolti in grandi gruppi, verticali e serrati come fasci di lancie titaniche, di cui la punta toccasse le nubi; una grandezza superba, un disordine prodigioso di forme colossali, lo spettacolo più maestosamente terribile che gli avesse mai offerto la natura vegetale. A momenti lo prendeva un grande stupore. Ma subito l'anima sua si rilanciava verso sua madre. Ed era sfinito, coi piedi che facevan sangue, solo in mezzo a quella formidabile foresta, dove non vedeva che a lunghi intervalli delle piccole abitazioni umane, che ai piedi di quegli alberi parevan nidi di formiche, e qualche bufalo addormentato lungo la via; era sfinito, ma non sentiva la stanchezza; era solo, e non aveva paura. La grandezza della foresta ingrandiva l'anima sua; la vicinanza di sua madre gli dava la forza e la baldanza d'un uomo; la ricordanza dell'oceano, degli sgomenti, dei dolori sofferti e vinti, delle fatiche durate, della ferrea costanza spiegata, gli facea, alzare la fronte; tutto il suo forte e nobile sangue genovese gli rifluiva al cuore in un'onda ardente d'alterezza e d'audacia. E una cosa nuova seguiva in lui: che mentre fino allora aveva portata nella mente un'immagine della madre oscurata e sbiadita un poco da quei due anni di lontananza, in quei momenti quell'immagine gli si chiariva; egli rivedeva il suo viso intero e netto come da lungo tempo non l'aveva visto più; lo rivedeva vicino, illuminato, parlante; rivedeva i movimenti più sfuggevoli dei suoi occhi e delle sue labbra, tutti i suoi atteggiamenti, tutti i suoi gesti, tutte le ombre dei suoi pensieri; e sospinto da quei ricordi incalzanti, affrettava il passo; e un nuovo affetto, una tenerezza indicibile gli cresceva, gli cresceva nel cuore, facendogli correre giù pel viso delle lacrime dolci e quiete; e andando avanti nelle tenebre, le parlava, le diceva le parole che le avrebbe mormorate all'orecchio tra poco: - Son qui, madre mia, eccomi qui, non ti lascerò mai più; torneremo a casa insieme, e io ti starò sempre accanto sul bastimento, stretto a te, e nessuno mi staccherà mai più da te, nessuno, mai più, fin che avrai vita! - E non s'accorgeva intanto che sulle cime degli alberi giganteschi andava morendo la luce argentina della luna nella bianchezza delicata dell'alba.

Alle otto di quella mattina il medico di Tucuman, - un giovane argentino - era già al letto della malata, in compagnia d'un assistente, a tentare per l'ultima volta di persuaderla a lasciarsi operare; e con lui ripetevano le più calde istanze l'ingegnere Mequinez e la sua signora. Ma tutto era inutile. La donna, sentendosi esausta di forze, non aveva più fede nell'operazione; essa era certissima o di morire sull'atto o di non sopravvivere che poche ore, dopo d'aver sofferto invano dei dolori più atroci di quelli che la dovevano uccidere naturalmente. Il medico badava a ridirle: - Ma l'operazione è sicura, ma la vostra salvezza è certa, purché ci mettiate un po' di coraggio! Ed è egualmente certa la vostra morte se vi rifiutate! - Eran parole buttate via. - No, - essa rispondeva, con la voce fioca, - ho ancora coraggio per morire; ma non ne ho più per soffrire inutilmente. Grazie, signor dottore. È destinato così. Mi lasci morir tranquilla. - Il medico, scoraggiato, desistette. Nessuno parlò più. Allora la donna voltò il viso verso la padrona, e le fece con voce di moribonda le sue ultime preghiere. - Cara, buona signora, - disse a gran fatica, singhiozzando, - lei manderà quei pochi denari e le mie povere robe alla mia famiglia... per mezzo del signor Console. Io spero che sian tutti vivi. Il cuore mi predice bene in questi ultimi momenti. Mi farà la grazia di scrivere... che ho sempre pensato a loro, che ho sempre lavorato per loro... per i miei figliuoli... e che il mio solo dolore fu di non rivederli più... ma che son morta con coraggio... rassegnata... benedicendoli; e che raccomando a mio marito... e al mio figliuolo maggiore... il più piccolo, il mio povero Marco... che l'ho avuto in cuore fino all'ultimo momento... - Ed esaltandosi tutt'a un tratto, gridò giungendo le mani: - Il mio Marco! Il mio bambino! La vita mia!... - Ma girando gli occhi pieni di pianto, vide che la padrona non c'era più: eran venuti a chiamarla furtivamente. Cercò il padrone: era sparito. Non restavan più che le due infermiere e l'assistente. Si sentiva nella stanza vicina un rumore affrettato di passi, un mormorio di voci rapide e sommesse, e d'esclamazioni rattenute. La malata fissò sull'uscio gli occhi velati, aspettando. Dopo alcuni minuti vide comparire il medico, con un viso insolito; poi la padrona e il padrone, anch'essi col viso alterato. Tutti e tre la guardarono con un'espressione singolare, e si scambiarono alcune parole a bassa voce. Le parve che il medico dicesse alla signora: - Meglio subito. - La malata non capiva.

- Josefa, - le disse la padrona con la voce tremante. - Ho una buona notizia da darvi. Preparate il cuore a una buona notizia.

La donna la guardò attentamente.

- Una notizia, - continuò la signora, sempre più agitata, - che vi darà una grande gioia.

La malata dilatò gli occhi.

- Preparatevi, - proseguì la padrona, - a vedere una persona... a cui volete molto bene.

La donna alzò il capo con un scatto vigoroso, e cominciò a guardare rapidamente ora la signora ora l'uscio, con gli occhi sfolgoranti.

- Una persona, - soggiunse la signora, impallidendo, - arrivata or ora... inaspettatamente.

- Chi è? - gridò la donna con una voce strozzata e strana, come di persona spaventata.

Un istante dopo gittò un grido altissimo, balzando a sedere sul letto, e rimase immobile, con gli occhi spalancati e con le mani alle tempie, come davanti a un'apparizione sovrumana.

Marco, lacero e polveroso, era là ritto sulla soglia, trattenuto per un braccio dal dottore.

La donna urlò tre volte: - Dio! Dio! Dio mio!

Marco si slanciò avanti, essa protese le braccia scarne, e serrandolo al seno con la forza d'una tigre, scoppiò in un riso violento, rotto da profondi singhiozzi senza lagrime, che la fecero ricader soffocata sul cuscino.

Ma si riprese subito e gridò pazza di gioia, tempestandogli il capo di baci: - Come sei qui? Perché? Sei tu? Come sei cresciuto! Chi t'ha condotto? Sei solo? Non sei malato? Sei tu, Marco! Non è un sogno! Dio mio! Parlami! - Poi cambiando tono improvvisamente: - No! Taci! Aspetta! - E voltandosi verso il medico, a precipizio: - Presto, subito, dottore. Voglio guarire. Son pronta. Non perda un momento. Conducete via Marco che non senta. Marco mio, non è nulla. Mi racconterai. Ancora un bacio. Va. Eccomi qui, dottore.

Marco fu portato via. I padroni e le donne uscirono in fretta; rimasero il chirurgo e l'assistente, che chiusero la porta.

Il signor Mequinez tentò di tirar Marco in una stanza lontana; ma fu impossibile; egli parea inchiodato al pavimento.

- Cosa c'è? - domandò. - Cos'ha mia madre? Cosa le fanno?

E allora il Mequinez, piano, tentando sempre di condurlo via: - Ecco. Senti. Ora ti dirò. Tua madre è malata, bisogna farle una piccola operazione, ti spiegherò tutto, vieni con me.

- No, - rispose il ragazzo, impuntandosi, - voglio star qui. Mi spieghi qui.

L'ingegnere ammontava parole su parole, tirandolo: il ragazzo cominciava a spaventarsi e a tremare.

A un tratto un grido acutissimo, come il grido d'un ferito a morte, risonò in tutta la casa.

Il ragazzo rispose con un altro grido disperato: - Mia madre è morta!

Il medico comparve sull'uscio e disse: - Tua madre è salva.

Il ragazzo lo guardò un momento e poi si gettò ai suoi piedi singhiozzando: - Grazie dottore!

Ma il dottore lo rialzò d'un gesto, dicendo: - Levati!... Sei tu, eroico fanciullo, che hai salvato tua madre.


 

Estate

24, mercoledì


Marco il genovese è il penultimo piccolo eroe di cui facciamo conoscenza quest'anno: non ne resta che uno per il mese di giugno. Non ci son più che due esami mensili, ventisei giorni di lezione, sei giovedì e cinque domeniche. Si sente già l'aria della fine dell'anno. Gli alberi del giardino, fronzuti e fioriti, fanno una bell'ombra sugli attrezzi della ginnastica. Gli scolari son già vestiti da estate. È bello ora veder l'uscita delle classi, com'è tutto diverso dai mesi scorsi. Le capigliature che toccavan le spalle sono andate giù: tutte le teste sono rapate; si vedono gambe nude e colli nudi; cappellini di paglia d'ogni forma, con dei nastri che scendon fin sulle schiene; camicie e cravattine di tutti i colori; tutti i più piccoli con qualche cosa addosso di rosso o d'azzurro, una mostra, un orlo, una nappina, un cencino di color vivo appiccicato pur che sia dalla mamma, perché faccia figura, anche i più poveri, e molti vengono alla scuola senza cappello, come scappati di casa. Alcuni portano il vestito bianco della ginnastica. C'è un ragazzo della maestra Delcati che è tutto rosso da capo a piedi, come un gambero cotto. Parecchi sono vestiti da marinai. Ma il più bello è il muratorino che ha messo su un cappellone di paglia, che gli dà l'aria d'una mezza candela col paralume; ed è un ridere a vedergli fare il muso di lepre là sotto. Coretti anche ha smesso il suo berretto di pel di gatto e porta un vecchio berretto di seta grigia da viaggiatore. Votini ha una specie di vestimento alla scozzese, tutto attillato; Crossi mostra il petto nudo; Precossi sguazza dentro a un camiciotto turchino da fabbro ferraio. E Garoffi? Ora che ha dovuto lasciare il mantellone, che nascondeva il suo commercio, gli rimangono scoperte bene tutte le tasche gonfie d'ogni sorta di carabattole da rigattiere, e gli spuntan fuori le liste delle lotterie. Ora tutti lascian vedere quello che portano: dei ventagli fatti con mezza gazzetta, dei bocciuoli di canna, delle freccie da tirare agli uccelli, dell'erba, dei maggiolini che sbucano fuor delle tasche e vanno su pian piano per le giacchette. Molti di quei piccoli portano dei mazzetti di fiori alle maestre. Anche le maestre son tutte vestite da estate, di colori allegri; fuorché la "monachina" che è sempre nera, e la maestrina della penna rossa ha sempre la sua penna rossa, e un nodo di nastri rosa al collo, tutti sgualciti dalle zampette dei suoi scolari, che la fanno sempre ridere e correre. È la stagione delle ciliegie, delle farfalle, delle musiche sui viali e delle passeggiate in campagna; molti di quarta scappano già a bagnarsi nel Po; tutti hanno già il cuore alle vacanze; ogni giorno si esce dalla scuola più impazienti e contenti del giorno innanzi. Soltanto mi fa pena di veder Garrone col lutto, e la mia povera maestra di prima che è sempre più smunta e più bianca e tosse sempre più forte. Cammina curva ora, e mi fa un saluto così triste!

 

Poesia

26, venerdì


Tu cominci a comprendere la poesia della scuola, Enrico; ma la scuola, per ora, non la vedi che di dentro: ti parrà molto più bella e più poetica fra trent'anni, quando ci verrai a accompagnare i tuoi figliuoli, e la vedrai di fuori, come io la vedo. Aspettando l'uscita, io giro per le strade silenziose, intorno all'edifizio, e porgo l'orecchio alle finestre del pian terreno, chiuse dalle persiane. Da una finestra sento la voce d'una maestra che dice - Ah! quel taglio di t! Non va, figliuol mio. Che ne direbbe tuo padre?... - Alla finestra vicina è la grossa voce d'un maestro che detta lentamente. - Comperò cinquanta metri di stoffa... a lire quattro e cinquanta il metro... li rivendette... - Più in là è la maestrina della penna rossa che legge ad alta voce: - Allora Pietro Micca con la miccia accesa... - Dalla classe vicina esce come un cinguettio di cento uccelli, che vuol dir che il maestro è andato fuori un momento. Vo innanzi, e alla svoltata del canto sento uno scolaro che piange, e la voce della maestra che lo rimprovera o lo consola. Da altre finestre vengono fuori dei versi, dei nomi d'uomini grandi e buoni, dei frammenti di sentenze che consiglian la virtù, l'amor di patria, il coraggio. Poi seguono dei momenti di silenzio, in cui si direbbe che l'edifizio è vuoto, e non par possibile che ci sian dentro settecento ragazzi, poi si senton degli scoppi rumorosi d'ilarità, provocati dallo scherzo d'un maestro di buon umore... E la gente che passa si sofferma a ascoltare, e tutti rivolgono uno sguardo di simpatia a quell'edificio gentile, che racchiude tanta giovinezza e tante speranze. Poi si ode un improvviso strepito sordo, un batter di libri e di cartelle, uno stropiccio di piedi, un ronzìo che si propaga di classe in classe e dal basso all'alto, come al diffondersi improvviso d'una buona notizia: è il bidello che gira ad annunziare il finis. E a quel rumore una folla di donne, d'uomini, di ragazze e di giovanetti, si stringono di qua e di là dalla porta, a aspettare i figliuoli, i fratelli, i nipotino, mentre dagli usci delle classi schizzan fuori come zampillando nel camerone i ragazzi piccoli, a pigliar cappottini e cappelli, facendone un arruffìo sul pavimento, e ballettando tutt'in giro, fin che il bidello li ricaccia dentro a uno a uno. E finalmente escono, in lunghe file, battendo i piedi. E allora da tutti i parenti comincia la pioggia delle domande: - Hai saputo la lezione? Quanto t'ha dato del lavoro? Che cos'avete per domani? Quand'è l'esame mensile? - E anche le povere madri che non sanno leggere, aprono i quaderni, guardano i problemi, domandano i punti: - Solamente otto? - Dieci con lode? - Nove di lezione? - E s'inquietano e si rallegrano e interrogano i maestri e parlan di programmi e d'esami. Com'è bello tutto questo, com'è grande, e che immensa promessa è pel mondo!

TUO PADRE


 

La sordomuta

28, domenica


Non potevo finirlo meglio che con la visita di questa mattina il mese di maggio. Udiamo una scampanellata, corriamo tutti. Sento mio padre che dice in tuono di meraviglia: - Voi qui, Giorgio? - Era Giorgio, il nostro giardiniere di Chieri, che ora ha la famiglia a Condove, arrivato allora allora da Genova, dov'era sbarcato il giorno avanti, di ritorno dalla Grecia, dopo tre anni che lavorava alle strade ferrate. Aveva un grosso fagotto fra le braccia. È un po' invecchiato, ma sempre rosso in viso e gioviale.

Mio padre voleva che entrasse; ma egli disse di no, e domandò subito, facendo il viso serio: - Come va la mia famiglia? Come sta Gigia?

- Bene fino a pochi giorni fa, - rispose mia madre.

Giorgio tirò un gran sospiro: - Oh! Sia lodato Iddio! Non avevo il coraggio di presentarmi ai Sordomuti senz'aver notizie da lei. Io lascio qui il fagotto e scappo a pigliarla. Tre anni che non la vedo la mia povera figliuola! Tre anni che non vedo nessuno dei miei!

Mio padre mi disse: - Accompagnalo.

- Ancora una parola, mi scusi, - disse il giardiniere sul pianerottolo.

Ma mio padre l'interruppe: - E gli affari?

- Bene, - rispose, - grazie a Dio. Qualche soldo l'ho portato. Ma volevo domandare. Come va l'istruzione della mutina, dica un po'. Io l'ho lasciata che era come un povero animaletto, povera creatura. Io ci credo poco, già, a questi collegi. Ha imparato a fare i segni? Mia moglie mi scriveva bene: - Impara a parlare, fa progressi. - Ma, dicevo io, che cosa vale che impari a parlare lei se io i segni non li so fare? Come faremo a intenderci, povera piccina? Quello è buono per capirsi fra loro, un disgraziato con l'altro. Come va, dunque? Come va?

Mio padre sorrise, e rispose: - Non vi dico nulla; vedrete voi; andate, andate; non le rubate un minuto di più.

Uscimmo; l'istituto è vicino. Strada facendo, a grandi passi, il giardiniere mi parlava, rattristandosi. - Ah! la mia povera Gigia! Nascere con quella disgrazia! Dire che non mi son mai sentito chiamar padre da lei, che lei non s'è mai sentita chiamar figliuola da me, che mai non ha detto né inteso una parola al mondo! E grazia che s'è trovato un signore caritatevole che ha fatto le spese dell'istituto. Ma tanto... prima degli otto anni non c'è potuta andare. Son tre anni che non è in casa. Va per gli undici, adesso. È cresciuta, mi dica un po', è cresciuta? È di buon umore?

- Ora vedrete, ora vedrete, - gli risposi affrettando il passo.

- Ma dov'è quest'istituto? - domandò. - Mia moglie ce l'accompagnò ch'ero già partito. Mi pare che debba essere da queste parti.

Eravamo appunto arrivati. Entrammo subito nel parlatorio. Ci venne incontro un custode. - Sono il padre di Gigia Voggi, disse il giardiniere; - la mia figliuola subito subito. - Sono in ricreazione, - rispose il custode, - vado a avvertir la maestra. - E scappò.

Il giardiniere non poteva più né parlare, né star fermo; guardava i quadri alle pareti, senza veder nulla.

La porta s'aperse: entrò una maestra, vestita di nero, con una ragazza per mano.

Padre e figliuola si guardarono un momento e poi si slanciarono l'uno nelle braccia dell'altro, mettendo un grido.

La ragazza era vestita di rigatino bianco e rossiccio, con un grembiale grigio. È più alta di me. Piangeva e teneva suo padre stretto al collo con tutt'e due le braccia.

Suo padre si svincolò, e si mise a guardarla da capo a piedi, coi lucciconi agli occhi, ansando come se avesse fatto una gran corsa; e sclamò: - Ah! com'è cresciuta! come s'è fatta bella! Oh la mia cara, la mia povera Gigia! La mia povera mutina! È lei, signora, la maestra? Le dica un po' che mi faccia pure i suoi segni, che qualche cosa capirò, e poi imparerò a poco a poco. Le dica che mi faccia capire qualche cosa, coi gesti.

La maestra sorrise e disse a bassa voce alla ragazza: - Chi è quest'uomo che t'è venuto a trovare?

E la ragazza, con una voce grossa, strana, stuonata come quella d'un selvaggio che parlasse per la prima volta la nostra lingua, ma pronunciando chiaro, e sorridendo, rispose: - È mi-o pa-dre.

Il giardiniere diede un passo indietro e gridò come un matto: - Parla! Ma è possibile! Ma è possibile! Parla? Ma tu parli, bambina mia, parli? dimmi un poco: parli? - E di nuovo l'abbracciò e la baciò sulla fronte tre volte. - Ma non è coi gesti che parlano, signora maestra, non è con le dita, così? Ma cosa è questo?

- No, signor Voggi, - rispose la maestra, - non è coi gesti. Quello era il metodo antico. Qui s'insegna col metodo nuovo, col metodo orale. Come non lo sapevate?

- Ma io non sapevo niente! - rispose il giardiniere, trasecolato. - Tre anni che son fuori! O me l'avranno scritto e non l'ho capito. Sono una testa di legno, io. O figliuola mia, tu mi capisci, dunque? Senti la mia voce? Rispondi un poco: mi senti? Senti quello che ti dico?

- Ma no, buon uomo, - disse la maestra, - la voce non la sente, perché è sorda. Essa capisce dai movimenti della vostra bocca quali sono le parole che voi dite; ecco la cosa; ma non sente le vostre parole e neppure quello che essa dice a voi; le pronuncia perché le abbiamo insegnato, lettera per lettera, come deve atteggiar le labbra e muover la lingua, e che sforzo deve far col petto e con la gola, per metter fuori la voce.

Il giardiniere non capì, e stette a bocca aperta. Non ci credeva ancora.

- Dimmi, Gigia, - domandò alla figliuola, parlandole all'orecchio, - sei contenta che tuo padre sia ritornato? - E rialzato il viso, stette a aspettar la risposta.

La ragazza lo guardò, pensierosa, e non disse nulla.

Il padre rimase turbato.

La maestra rise. Poi disse: - Buon uomo, non vi risponde perché non ha visto i movimenti delle vostre labbra: le avete parlato all'orecchio! Ripetete la domanda tenendo bene il vostro viso davanti al suo.

Il padre, guardandola bene in faccia, ripeté: - Sei contenta che tuo padre sia ritornato? che non se ne vada più via?

La ragazza, che gli aveva guardato attenta le labbra, cercando anche di vedergli dentro alla bocca, rispose francamente:

- Sì, so-no contenta, che sei tor-na-to, che non vai via... mai più.

Il padre l'abbracciò impetuosamente, e poi in fretta e in furia, per accertarsi meglio, la affollò di domande.

- Come si chiama la mamma?

- An-tonia.

- Come si chiama la tua sorella piccola?

- A-de-laide.

- Come si chiama questo collegio?

- Dei sor-do-muti.

- Quanto fa due volte dieci?

- Venti.

Mentre credevamo che ridesse di gioia, tutt'a un tratto si mise a piangere. Ma era gioia anche quella.

- Animo, - gli disse la maestra, - avete motivo di rallegrarvi, non di piangere. Vedete che fate piangere anche la vostra figliuola. Siete contento, dunque?

Il giardiniere afferrò la mano alla maestra e gliela baciò due o tre volte dicendo: - Grazie, grazie, cento volte grazie, mille volte grazie, cara signora maestra! E mi perdoni che non le so dir altro!

- Ma non solo parla, - gli disse la maestra; - la vostra figliuola sa scrivere. Sa far di conto. Conosce il nome di tutti gli oggetti usuali. Sa un poco di storia e di geografia. Ora è nella classe normale. Quando avrà fatte le altre due classi, saprà molto, molto di più. Uscirà di qui che sarà in grado di prendere una professione. Ci abbiamo già dei sordomuti che stanno nelle botteghe a servir gli avventori, e fanno i loro affari come gli altri.

Il giardiniere rimase stupito daccapo. Pareva che gli si confondessero le idee un'altra volta. Guardò la figliuola e si grattò la fronte. Il suo viso domandava ancora una spiegazione.

Allora la maestra si voltò al custode e gli disse:

- Chiamatemi una bimba della classe preparatoria.

Il custode tornò poco dopo con una sordomuta di otto o nove anni, entrata da pochi giorni nell'istituto.

- Questa, - disse la maestra, - è una di quelle a cui insegniamo i primi elementi. Ecco come si fa. Voglio farle dire e. State attento. - La maestra aperse la bocca, come si apre per pronunciare la vocale e, e accennò alla bimba che aprisse la bocca nella stessa maniera. La bimba obbedì. Allora la maestra le fece cenno che mettesse fuori la voce. Quella mise fuori la voce, ma invece di e, pronunziò o. - No, - disse la maestra, - non è questo. - E pigliate le due mani della bimba, se ne mise una aperta sulla gola e l'altra sul petto, e ripeté: - e. - La bimba, sentito con le mani il movimento della gola e del petto della maestra, riaperse la bocca come prima, e pronunziò benissimo: - e. - Nello stesso modo la maestra le fece dire c e d, sempre tenendosi le due piccole mani sul petto e sulla gola. - Avete capito ora? - domandò.

Il padre aveva capito; ma pareva più meravigliato di quando non capiva. - E insegnano a parlare in quella maniera? - domandò, dopo un minuto di riflessione, guardando la maestra. - Hanno la pazienza d'insegnare a parlare a quella maniera, a poco a poco, a tutti quanti? a uno a uno?... per anni e anni?... Ma loro sono santi, sono! Ma loro sono angeli del paradiso! Ma non c'è al mondo una ricompensa, per loro! Che cosa ho da dire?... Ah! mi lascino un poco con la mia figliuola, ora. Me la lascino cinque minuti per me solo.

E tiratala a sedere in disparte cominciò a interrogarla, e quella a rispondere, ed egli rideva con gli occhi lustri, battendosi i pugni sulle ginocchia, e pigliava la figliuola con le mani, guardandola, fuor di sé dalla contentezza a sentirla, come se fosse una voce che venisse dal cielo; poi domandò alla maestra: - Il signor Direttore, sarebbe permesso di ringraziarlo?

- Il Direttore non c'è, - rispose la maestra. - Ma c'è un'altra persona che dovreste ringraziare. Qui ogni ragazza piccola è data in cura a una compagna più grande, che le fa da sorella, da madre. La vostra è affidata a una sordomuta di diciassette anni, figliuola d'un fornaio, che è buona e le vuol bene molto: da due anni va a aiutarla a vestirsi ogni mattina, la pettina, le insegna a cucire, le accomoda la roba, le tien buona compagnia. Luigia, come si chiama la tua mamma dell'istituto?

La ragazza sorrise e rispose: - Cate-rina Gior-dano. - Poi disse a suo padre: - Mol-to, mol-to buona.

Il custode, uscito a un cenno della maestra, ritornò quasi subito con una sordomuta bionda, robusta di viso allegro, vestita anch'essa di rigatino rossiccio col grembiale grigio; la quale si arrestò sull'uscio e arrossì; poi chinò la testa, ridendo. Aveva il corpo d'una donna, e pareva una bambina.

La figliuola di Giorgio le corse subito incontro, la prese per un braccio come una bimba e la tirò davanti a suo padre, dicendo con la sua grossa voce: - Ca-te-rina Gior-dano.

- Ah! la brava ragazza! - esclamò il padre, e allungò la mano per carezzarla, ma la tirò indietro, e ripeté: - Ah! la buona ragazza, che Dio la benedica, che le dia tutte le fortune, tutte le consolazioni, che la faccia sempre felice lei e tutti i suoi, una buona ragazza così, povera la mia Gigia, è un onesto operaio, un povero padre di famiglia che glielo augura di tutto cuore!

La ragazza grande accarezzava la piccola, sempre tenendo il viso basso e sorridendo; e il giardiniere continuava a guardarla, come una madonna.

- Oggi vi potete pigliar con voi la vostra figliuola, - disse la maestra.

- Se me la piglio! - rispose il giardiniere. - Me la conduco a Condove e la riporto domani mattina. Si figuri un po' se non me la piglio! - La figliuola scappò a vestirsi. - Dopo tre anni che non la vedo! - riprese il giardiniere. - Ora che parla! A Condove subito me la porto. Ma prima voglio far un giro per Torino con la mia mutina a braccetto, che tutti la vedano, e condurla dalle mie quattro conoscenze, che la sentano! Ah! la bella giornata! Questa si chiama una consolazione.! Qua il braccio a tuo padre, Gigia mia! - La ragazza, ch'era tornata con una mantellina e una cuffietta, gli diede il braccio.

- E grazie a tutti! - disse il padre di sull'uscio. - Grazie a tutti con tutta l'anima mia! Tornerò ancora una volta a ringraziar tutti!

Rimase un momento sopra pensiero, poi si staccò bruscamente dalla ragazza, tornò indietro frugandosi con una mano nella sottoveste, e gridò come un furioso: - Ebbene, sono un povero diavolo, ma ecco qui, lascio venti lire per l'istituto, un marengo d'oro bell'e nuovo.

E dando un gran colpo sul tavolino, vi lasciò il marengo.

- No, no, brav'uomo, - disse la maestra commossa. - Ripigliatevi il vostro denaro. Io non lo posso accettare. Ripigliatevelo. Non tocca a me. Verrete quando ci sarà il Direttore. Ma non accetterà nemmeno lui, statene sicuro. Avete faticato troppo per guadagnarveli, pover'uomo. Vi saremo tutti grati lo stesso.

- No, io lo lascio, - rispose il giardiniere, intestato; - e poi... si vedrà.

Ma la maestra gli rimise la moneta in tasca senza lasciargli il tempo di respingerla.

E allora egli si rassegnò, crollando il capo; e poi, rapidamente, mandato un bacio con la mano alla maestra e alla ragazza grande, e ripreso il braccio della sua figliuola, si slanciò con lei fuor della porta dicendo: - Vieni, vieni, figliuola mia, povera mutina mia, mio tesoro!

E la figliuola esclamò con la sua voce grossa: - Oh-che-bel-sole!


 

 

GIUGNO


Garibaldi

3, sabato. Domani è la festa nazionale


Oggi è un lutto nazionale. Ieri sera è morto Garibaldi. Sai chi era? È quello che affrancò dieci milioni d'Italiani dalla tirannia dei Borboni. È morto a settantacinque anni. Era nato a Nizza, figliuolo d'un capitano di bastimento. A otto anni salvò la vita a una donna, a tredici, tirò a salvamento una barca piena di compagni che naufragavano, a ventisette, trasse dall'acque di Marsiglia un giovanetto che s'annegava, a quarant'uno scampò un bastimento dall'incendio sull'Oceano. Egli combatté dieci anni in America per la libertà d'un popolo straniero, combatté in tre guerre contro gli Austriaci per la liberazione della Lombardia e del Trentino difese Roma dai Francesi nel 1849, liberò Palermo e Napoli nel 1860, ricombatté per Roma nel '67, lottò nel 1870 contro i Tedeschi in difesa della Francia. Egli aveva la fiamma dell'eroismo e il genio della guerra. Combatté in quaranta combattimenti e ne vinse trentasette. Quando non combatté, lavorò per vivere o si chiuse in un'isola solitaria a coltivare la terra. Egli fu maestro marinaio, operaio, negoziante, soldato, generale, dittatore. Era grande, semplice e buono. Odiava tutti gli oppressori; amava tutti i popoli; proteggeva tutti i deboli; non aveva altra aspirazione che il bene, rifiutava gli onori; disprezzava la morte, adorava l'Italia. Quando gettava un grido di guerra, legioni di valorosi accorrevano a lui da ogni parte. signori lasciavano i palazzi; operai le officine, giovanetti le scuole per andar a combattere al sole della sua gloria. In guerra portava una camicia rossa. Era forte, biondo, bello. Sui campi di battaglia era un fulmine, negli affetti un fanciullo, nei dolori un santo. Mille Italiani son morti per la patria, felici morendo di vederlo passar di lontano vittorioso migliaia si sarebbero fatti uccidere per lui; milioni lo benedissero e lo benediranno. È morto. Il mondo intero lo piange. Tu non lo comprendi per ora. Ma leggerai le sue gesta, udrai parlar di lui continuamente nella vita; e via via che crescerai, la sua immagine crescerà pure davanti a te; quando sarai un uomo, lo vedrai gigante, e quando non sarai più al mondo tu, quando non vivranno più i figli dei tuoi figli, e quelli che saran nati da loro, ancora le generazioni vedranno in alto la sua testa luminosa di rendentore di popoli coronata dai nomi delle sue vittorie come da un cerchio di stelle, e ad ogni italiano risplenderà la fronte e l'anima pronunziando il suo nome.

TUO PADRE


 

L'esercito

11, domenica. Festa nazionale. Ritardata di sette giorni per la morte di Garibaldi


Siamo andati in piazza Castello a veder la rassegna dei soldati, che sfilarono davanti al Comandante del Corpo d'esercito, in mezzo a due grandi ali di popolo. Via via che sfilavano, al suono delle fanfare e delle bande, mio padre mi accennava i Corpi e le glorie delle bandiere. Primi gli allievi dell'Accademia, quelli che saranno ufficiali del Genio e dell'Artiglieria, circa trecento, vestiti di nero, passarono, con una eleganza ardita e sciolta di soldati e di studenti. Dopo di loro sfilò la fanteria: la brigata Aosta che combatté a Goito e a San Martino, e la brigata Bergamo che combatté a Castelfidardo, quattro reggimenti, compagnie dietro compagnie, migliaia di nappine rosse, che parevan tante doppie ghirlande lunghissime di fiori color di sangue, tese e scosse pei due capi, e portate a traverso alla folla. Dopo la fanteria s'avanzarono i soldati del Genio, gli operai della guerra, coi pennacchi di crini neri e i galloni cremisini; e mentre questi sfilavano, si vedevano venire innanzi dietro di loro centinaia di lunghe penne diritte, che sorpassavano le teste degli spettatori: erano gli alpini, i difensori delle porte d'Italia, tutti alti, rosei e forti, coi capelli alla calabrese e le mostre di un bel verde vivo, color dell'erba delle loro montagne. Sfilavano ancor gli alpini, che corse un fremito nella folla, e i bersaglieri, l'antico dodicesimo battaglione, i primi che entrarono in Roma per la breccia di Porta Pia, bruni, lesti, vivi, coi pennacchi sventolanti, passarono come un'ondata d'un torrente nero, facendo echeggiare la piazza di squilli acuti di tromba che sembravan grida d'allegrezza. Ma la loro fanfara fu coperta da uno strepito rotto e cupo che annunziò l'artiglieria di campagna; e allora passarono superbamente, seduti sugli alti cassoni, tirati da trecento coppie di cavalli impetuosi i bei soldati dai cordoni gialli e i lunghi cannoni di bronzo e d'acciaio, scintillanti sugli affusti leggieri, che saltavano e risonavano, e ne tremava la terra. E poi venne su lenta, grave, bella nella sua apparenza faticosa e rude, coi suoi grandi soldati, coi suoi muli potenti, l'artiglieria di montagna, che porta lo sgomento e la morte fin dove sale il piede dell'uomo. E infine passò di galoppo, con gli elmi al sole con le lancie erette, con le bandiere al vento, sfavillando d'argento e d'oro, empiendo l'aria di tintinni e di nitriti, il bel reggimento Genova cavalleria, che turbinò su dieci campi di battaglia, da Santa Lucia a Villafranca. - Come è bello! - io esclamai. Ma mio padre mi fece quasi un rimprovero di quella parola, e mi disse: - Non considerare l'esercito come un bello spettacolo. Tutti questi giovani pieni di forza e di speranze possono da un giorno all'altro esser chiamati a difendere il nostro paese, e in poche ore cader sfracellati tutti dalle palle e dalla mitraglia. Ogni volta che senti gridare in una festa: Viva l'esercito, viva l'Italia, raffigurati, di là dai reggimenti che passano, una campagna coperta di cadaveri e allagata di sangue, e allora l'evviva all'esercito t'escirà più dal profondo del cuore, e l'immagine dell'Italia t'apparirà più severa e più grande.

 

Italia

14, martedì


Salutala così la patria, nei giorni delle sue feste: - Italia, patria mia, nobile e cara terra, dove mio padre e mia madre nacquero e saranno sepolti, dove io spero di vivere e di morire, dove i miei figli cresceranno e morranno; bella Italia, grande e gloriosa da molti secoli; unita e libera da pochi anni; che spargesti tanta luce d'intelletti divini sul mondo, e per cui tanti valorosi moriron sui campi e tanti eroi sui patiboli; madre augusta di trecento città e di trenta milioni di figli, io, fanciullo, che ancora non ti comprendo e non ti conosco intera, io ti venero e t'amo con tutta l'anima mia, e sono altero d'esser nato da te, e di chiamarmi figliuol tuo. Amo i tuoi mari splendidi e le tue Alpi sublimi, amo i tuoi monumenti solenni e le tue memorie immortali; amo la tua gloria e la tua bellezza; t'amo e ti venero tutta come quella parte diletta di te, dove per la prima volta vidi il sole e intesi il tuo nome. V'amo tutte di un solo affetto e con pari gratitudine, Torino valorosa, Genova superba, dotta Bologna, Venezia incantevole, Milano possente; v'amo con egual reverenza di figlio, Firenze gentile e Palermo terribile. Napoli immensa e bella, Roma meravigliosa ed eterna. T'amo, patria sacra! E ti giuro che amerò tutti i figli tuoi come fratelli; che onorerò sempre in cuor mio i tuoi grandi vivi e i tuoi grandi morti; che sarò un cittadino operoso ed onesto, inteso costantemente a nobilitarmi, per rendermi degno di te, per giovare con le mie minime forze a far sì che spariscano un giorno dalla tua faccia la miseria, l'ignoranza, l'ingiustizia, il delitto, e che tu possa vivere ed espanderti tranquilla nella maestà del tuo diritto e della tua forza. Giuro che ti servirò, come mi sarà concesso, con l'ingegno, col braccio, col cuore, umilmente e arditamente; e che se verrà giorno in cui dovrò dare per te il mio sangue e la mia vita, darò il mio sangue e morrò, gridando al cielo il tuo santo nome e mandando l'ultimo mio bacio alla tua bandiera benedetta.

TUO PADRE


 

32 gradi

Venerdì, 16


In cinque giorni che passarono dalla festa nazionale il caldo è cresciuto di tre gradi. Ora siamo in piena estate, tutti cominciano a essere stanchi, hanno tutti perduto i bei colori rosati della primavera; i colli e le gambe s'assottigliano, le teste ciondolano e gli occhi si chiudono. Il povero Nelli, che patisce molto il caldo e ha fatto un viso di cera, s'addormenta qualche volta profondamente, col capo sul quaderno; ma Garrone sta sempre attento a mettergli davanti un libro aperto e ritto perché il maestro non lo veda. Crossi appoggia la sua zucca rossa sul banco in un certo modo, che par distaccata dal busto e messa lì. Nobis si lamenta che ci siamo troppi e che gli guastiamo l'aria. Ah! che forza bisogna farsi ora per istudiare! Io guardo dalle finestre di casa quei begli alberi che fanno un'ombra così scura, dove andrei a correre tanto volentieri, e mi vien tristezza e rabbia di dovermi andar a chiudere tra i banchi. Ma poi mi fo animo a veder la mia buona madre che mi guarda sempre, quando esco dalla scuola per veder se son pallido; e mi dice a ogni pagina di lavoro: - Ti senti ancora? - e ogni mattina alle sei, svegliandomi per la lezione: - Coraggio! Non ci son più che tanti giorni: poi sarai libero e riposerai, andrai all'ombra dei viali. - Sì, essa ha ben ragione a rammentarmi i ragazzi che lavoran nei campi sotto la sferza del sole, o tra le ghiaie bianche dei fiumi, che accecano e scottano, e quelli delle fabbriche di vetro, che stanno tutto il giorno immobili, col viso chinato sopra una fiamma di gas; e si levan tutti più presto di noi, e non hanno vacanze. Coraggio, dunque! E anche in questo è il primo di tutti Derossi, che non soffre né caldo né sonno, vivo sempre, allegro coi suoi riccioli biondi, com'era d'inverno, e studia senza fatica, e tien desti tutti intorno a sé, come se rinfrescasse l'aria con la sua voce. E ci sono due altri pure, sempre svegli e attenti: quel cocciuto di Stardi, che si punge il muso per non addormentarsi, e quanto più è stanco e fa caldo, e tanto più stringe i denti e spalanca gli occhi, che par che si voglia mangiare il maestro; e quel trafficone di Garoffi tutto affaccendato a fabbricare ventagli di carta rossa ornati con figurine di scatole di fiammiferi, che vende a due centesimi l'uno. Ma il più bravo è Coretti; povero Coretti che si leva alle cinque per aiutare suo padre a portar legna! Alle undici, nella scuola, non può più tenere gli occhi aperti, e gli casca il capo sul petto. E nondimeno si riscuote, si dà delle manate nella nuca, domanda il permesso d'uscire per lavarsi il viso, si fa scrollare e pizzicottare dai vicini. Ma tanto questa mattina non poté reggere e s'addormentò d'un sonno di piombo. Il maestro lo chiamò forte: - Coretti! - Egli non sentì. Il maestro, irritato, ripeté: - Coretti! - Allora il figliuolo del carbonaio che gli sta accanto di casa, s'alzò e disse: - Ha lavorato dalle cinque alle sette a portar fascine. - Il maestro lo lasciò dormire, e continuò a far lezione per una mezz'ora. Poi andò al banco da Coretti e piano piano, soffiandogli nel viso, lo svegliò. A vedersi davanti il maestro, si fece indietro impaurito. Ma il maestro gli prese il capo fra le mani e gli disse baciandolo sui capelli: - Non ti rimprovero, figliuol mio. Non è mica il sonno della pigrizia il tuo; è il sonno della fatica.

 

Mio padre

Sabato, 17


Non certo il tuo compagno Coretti, né Garrone, risponderebbero mai al loro padre come tu hai risposto al tuo questa sera. Enrico! Come è possibile? Tu mi devi giurare che questo non accadrà mai più, fin ch'io viva. Ogni volta che a un rimprovero di tuo padre ti correrà una cattiva risposta alle labbra, pensa a quel giorno, che verrà immancabilmente, quando egli ti chiamerà al suo letto per dirti - Enrico, io ti lascio. - O figliuol mio, quando sentirai la sua voce per l'ultima volta, e anche molto tempo dopo, quando piangerai solo nella sua stanza abbandonata, in mezzo a quei libri ch'egli non aprirà mai più, allora, ricordandoti d'avergli mancato qualche volta di rispetto, ti domanderai tu pure: - Com'è possibile? - Allora capirai che egli è sempre stato il tuo migliore amico, che quando era costretto a punirti, ne soffriva più di te, e che non t'ha mai fatto piangere che per farti del bene; e allora ti pentirai, e bacierai piangendo quel tavolino su cui ha tanto lavorato, su cui s'è logorata la vita per i suoi figliuoli. Ora non capisci: egli ti nasconde tutto di sé fuorché la sua bontà e il suo amore. Tu non lo sai che qualche volta egli è così affranto dalla fatica che crede di non aver più che pochi giorni da vivere, e che in quei momenti non parla che di te, non ha altro affanno in cuore che quello di lasciarti povero e senza protezione! E quante volte, pensando a questo, entra nella tua camera mentre dormi; e sta là col lume in mano a guardarti, e poi fa uno sforzo, e stanco e triste com'è, torna al lavoro! E neppure sai che spesso egli ti cerca e sta con te, perché ha un'amarezza nel cuore, dei dispiaceri che a tutti gli uomini toccano nel mondo, e cerca te come un amico, per confortarsi e dimenticare, e ha bisogno di rifugiarsi nel tuo affetto, per ritrovare la serenità e il coraggio. Pensa dunque che dolore dev'esser per lui quando invece di trovar affetto in te, trova freddezza e irriverenza! Non macchiarti mai più di questa orribile ingratitudine! Pensa che se anche fossi buono come un santo, non potresti mai compensarlo abbastanza di quello che ha fatto e fa continuamente per te. E pensa anche: sulla vita non si può contare: una disgrazia ti potrebbe toglier tuo padre mentre sei ancora ragazzo, fra due anni, fra tre mesi; domani. Ah! povero Enrico mio, come vedresti cambiar tutto intorno a te, allora, come ti parrebbe vuota, desolata la casa, con la tua povera madre vestita di nero! Va', figliuolo; va' da tuo padre: egli è nella sua stanza che lavora: va' in punta di piedi, che non ti senta entrare, va' a metter la fronte sulle sue ginocchia e a dirgli che ti perdoni e ti benedica.

TUA MADRE


 

In campagna

19, lunedì


Il mio buon padre mi perdonò, anche questa volta, e mi lasciò andare alla scampagnata che si era combinata mercoledì col padre di Coretti, il rivenditor di legna. Ne avevamo tutti bisogno d'una boccata d'aria di collina. Fu una festa. Ci trovammo ieri alle due in piazza dello Statuto, Derossi, Garrone, Garoffi, Precossi, padre e figlio Coretti, ed io, con le nostre provviste di frutte, di salsicciotti e d'ova sode: avevamo anche delle barchette di cuoio e dei bicchieri di latta: Garrone portava una zucca con dentro del vino bianco; Coretti, la fiaschetta da soldato di suo padre, piena di vino nero; e il piccolo Precossi, col suo camiciotto di fabbro ferraio, teneva sotto il braccio una pagnotta di due chilogrammi. S'andò in omnibus fino alla Gran Madre di Dio, e poi su, alla lesta, per i colli. C'era un verde, un'ombra, un fresco! Andavamo rivoltoloni nell'erba, mettevamo il viso nei rigagnoli, saltavamo a traverso alle siepi. Coretti padre ci seguitava di lontano, con la giacchetta sulle spalle, fumando con la sua pipa di gesso, e di tanto in tanto ci minacciava con la mano, che non ci facessimo delle buche nei calzoni. Precossi zufolava, non l'avevo mai sentito zufolare. Coretti figlio faceva di tutto, strada facendo; sa far di tutto, quell'ometto lì, col suo coltelluccio a cricco, lungo un dito: delle rotine da mulino, delle forchette, degli schizzatoi; e voleva portar la roba degli altri, era carico che grondava sudore; ma sempre svelto come un capriolo. Derossi si fermava ogni momento a dirci i nomi delle piante e degli insetti: io non so come faccia a saper tante cose. E Garrone mangiava del pane, in silenzio; ma non ci attacca mica più quei morsi allegri d'una volta, povero Garrone, dopo che ha perduto sua madre. È sempre lui, però, buono come il pane: quando uno di noi pigliava la rincorsa per saltare un fosso, egli correva dall'altra parte e tendergli le mani; e perché Precossi aveva paura delle vacche, ché da piccolo è stato cozzato, ogni volta che ne passava una, Garrone gli si parava davanti. Andammo su fino a Santa Margherita, e poi giù per le chine a salti, a rotoloni, a scortica... mele. Precossi, inciampando in un cespuglio, si fece uno strappo al camiciotto, e restò lì vergognoso col suo brindello ciondoloni; ma Garoffi che ha sempre degli spilli nella giacchetta, glielo appuntò che non si vedeva, mentre quegli badava a dirgli: - Scusami, scusami; - e poi ricominciò a correre. Garoffi non perdeva il suo tempo, per via: coglieva delle erbe da insalata, delle lumache, e ogni pietra che luccicasse un po', se la metteva in tasca, pensando che ci fosse dentro dell'oro o dell'argento. E avanti a correre, a ruzzolare, a rampicarsi, all'ombra e al sole, su e giù per tutti i rialti e le scorciatoie, fin che arrivammo scalmanati e sfiatati sulla cima d'una collina, dove ci sedemmo a far merenda, sull'erba. Si vedeva una pianura immensa, e tutte le Alpi azzurre con le cime bianche. Morivamo tutti di fame, il pane pareva che fondesse. Coretti padre ci porgeva le porzioni di salsicciotto su delle foglie di zucca. E allora cominciammo a parlare tutti insieme, dei maestri, dei compagni che non avevan potuto venire, e degli esami. Precossi si vergognava un poco a mangiare e Garrone gli ficcava in bocca il meglio della sua parte, di viva forza. Coretti era seduto accanto a suo padre, con le gambe incrociate: parevan piuttosto due fratelli, che padre e figlio, a vederli così vicini, tutti e due rossi e sorridenti, con quei denti bianchi. Il padre trincava con gusto, vuotava anche le barchette e i bicchieri che noi lasciavamo ammezzati, e diceva: - A voi altri che studiate, il vino vi fa male; sono i rivenditori di legna che n'han bisogno! - Poi pigliava e scoteva per il naso il figliuolo, dicendoci: - Ragazzi, vogliate bene a questo qui, che è un fior di galantuomo, son io che ve lo dico! - E tutti ridevano, fuorché Garrone. Ed egli seguitava, trincando: - Peccato, eh! Ora siete tutti insieme, da bravi camerati; e fra qualche anno, chi sa, Enrico e Derossi saranno avvocati e professori, o che so io, e voi altri quattro in bottega o a un mestiere, o chi sa diavolo dove. E allora buona notte, camerati. - Che! - rispose Derossi, - per me, Garrone sarà sempre Garrone, Precossi sarà sempre Precossi, e gli altri lo stesso, diventassi imperatore delle Russie; dove saranno loro, andrò io. - Benedetto! - esclamò Coretti padre, alzando la fiaschetta; - così si parla, sagrestia! Toccate qua! Viva i bravi compagni, e viva anche la scuola, che vi fa una sola famiglia, quelli che ne hanno e quelli che non ne hanno! Noi toccammo tutti la sua fiaschetta con le barchette e i bicchieri, e bevemmo l'ultima volta. E lui: - Viva il quadrato del '49! gridò, levandosi in piedi, e cacciando giù l'ultimo sorso; - e se avrete da far dei quadrati anche voi, badate di tener duro come noi altri, ragazzi! - Era già tardi: scendemmo correndo e cantando, e camminando per lunghi tratti tutti a braccetto, e arrivammo sul Po che imbruniva, e volavano migliaia di lucciole. E non ci separammo che in piazza dello Statuto, dopo aver combinato di trovarci tutti insieme domenica per andare al Vittorio Emanuele, a veder la distribuzione dei premi agli alunni delle scuole serali. Che bella giornata! Come sarei rientrato in casa contento se non avessi incontrato la mia povera maestra! La incontrai che scendeva le scale di casa nostra, quasi al buio, e appena mi riconobbe mi prese per tutt'e due le mani e mi disse all'orecchio: - Addio, Enrico, ricordati di me! - M'accorsi che piangeva. Salii, e lo dissi a mia madre: - Ho incontrato la mia maestra. Andava a mettersi a letto, - rispose mia madre, che avea gli occhi rossi. E poi soggiunse con grande tristezza, guardandomi fisso: - La tua povera maestra... sta molto male.

 

La distribuzione dei premi agli operai

25, domenica


Come avevano convenuto, andammo tutti insieme al Teatro Vittorio Emanuele, a veder la distribuzione dei premi agli operai. Il teatro era addobbato come il 14 marzo, e affollato, ma quasi tutto di famiglie d'operai, e la platea occupata dagli allievi e dalle allieve della scuola di canto corale; i quali cantarono un inno ai soldati morti in Crimea, così bello, che quando fu finito tutti s'alzarono battendo le mani e gridando, e lo dovettero cantare da capo. E subito dopo cominciarono a sfilare i premiati davanti al sindaco, al prefetto e a molti altri, che davano libri libretti della cassa di risparmio, diplomi e medaglie. In un canto della platea vidi il muratorino, seduto accanto a sua madre, e da un'altra parte c'era il Direttore, e dietro di lui la testa rossa del mio maestro di seconda. Sfilarono pei primi gli alunni delle scuole serali di disegno, orefici, scalpellini, litografi, e anche dei falegnami e dei muratori; poi quelli della scuola di commercio; poi quelli del Liceo musicale, fra cui parecchie ragazze, delle operaie, tutte vestite in gala, che furono salutate con un grande applauso, e ridevano. Infine vennero gli alunni delle scuole serali elementari, e allora cominciò a esser bello a vedere. Di tutte le età ne passavano, di tutti i mestieri, e vestiti in tutti i modi; uomini coi capelli grigi, ragazzi degli opifici, operai con grandi barbe nere. I piccoli eran disinvolti, gli uomini un po' imbarazzati; la gente batteva le mani ai più vecchi e ai più giovani. Ma nessuno rideva tra gli spettatori, come facevano alla nostra festa: si vedevano tutti i visi attenti e seri. Molti dei premiati avevan la moglie e i figliuoli in platea, e c'eran dei bambini che quando vedevan passare il padre sul palco scenico, lo chiamavan per nome ad alta voce e lo segnavan con la mano, ridendo forte. Passarono dei contadini, dei facchini: questi erano della scuola Buoncompagni. Della scuola della Cittadella, passò un lustrascarpe, che mio padre conosce, e il Prefetto gli diede un diploma. Dopo di lui vedo venire un uomo grande come un gigante, che mi pareva d'aver già veduto altre volte... Era il padre del muratorino, che prendeva il secondo premio! Mi ricordai di quando l'avevo visto nella soffitta, al letto del figliuolo malato, e cercai subito il figliuolo in platea: povero muratorino! Egli guardava sua padre cogli occhi luccicanti, e per nasconder la commozione, faceva il muso di lepre. In quel momento sentii uno scoppio d'applausi, guardai sul palco: c'era un piccolo spazzacamino, col viso lavato, ma coi suoi panni da lavoro, e il Sindaco gli parlava tenendolo per una mano. Dopo lo spazzacamino venne un cuoco. Poi passò a prender la medaglia uno spazzino municipale, della scuola Raineri. Io mi sentivo non so che cosa nel cuore, come un grande affetto e un grande rispetto, a pensare quanto eran costati quei premi a tutti quei lavoratori, padri di famiglia, pieni di pensieri, quante fatiche aggiunte alle loro fatiche, quante ore tolte al sonno, di cui hanno tanto bisogno, e anche quanti sforzi dell'intelligenza non abituata allo studio e delle mani grosse, intozzite dal lavoro! Passò un ragazzo d'officina, a cui si vedeva che suo padre aveva imprestata la giacchetta per quell'occasione, e gli spenzolavan le maniche, tanto che se le dovette rimboccare lì sul palco per poter prendere il suo premio; e molti risero; ma il riso fu subito soffocato dai battimani. Dopo venne un vecchio con la testa calva e la barba bianca. Passarono dei soldati d'artiglieria, di quelli che venivano alla scuola serale nella nostra Sezione; poi delle guardie daziarie, delle guardie municipali, di quelle che fan la guardia alle nostre scuole. Infine gli allievi della scuola serale cantarono ancora l'inno ai morti in Crimea, ma con tanto slancio, questa volta, con una forza d'affetto che veniva così schietta dal cuore, che la gente non applaudì quasi più, e usciron tutti commossi, lentamente e senza far chiasso. In pochi momenti tutta la via fu affollata. Davanti alla porta del Teatro c'era lo spazzacamino, col suo libro di premio legato in rosso, e tutt'intorno dei signori che gli parlavano. Molti si salutavano da una parte all'altra della strada, operai, ragazzi, guardie, maestri. Il mio maestro di seconda uscì in mezzo a due soldati d'artiglieria. E si vedevano delle mogli d'operai coi bambini in braccio, i quali tenevano nelle manine il diploma del padre, e lo mostravano alla gente, superbi.

 

La mia maestra morta

Martedì, 27


Mentre noi eravamo al Teatro Vittorio Emanuele, la mia povera maestra moriva. È morta alle due, sette giorni dopo ch'era stata a trovar mia madre. Il Direttore venne ieri mattina a darcene l'annunzio nella scuola. E disse: - Quelli di voi che furono suoi alunni, sanno quanto era buona, come voleva bene ai ragazzi: era una madre, per loro. Ora non c'è più. Una malattia terribile la consumava da molto tempo. Se non avesse avuto da lavorare per guadagnarsi il pane, avrebbe potuto curarsi, e forse guarire; si sarebbe almeno prolungata la vita di qualche mese, se avesse preso un congedo. Ma essa volle stare fra i suoi ragazzi fino all'ultimo giorno. La sera di sabato, 17, s'accomiatò da loro, con la certezza di non rivederli più, diede ancora dei buoni consigli, li baciò tutti, e se n'andò singhiozzando. Ora nessuno la rivedrà mai più. Ricordatevi di lei, figliuoli. - Il piccolo Precossi, che era stato suo scolaro nella prima superiore, chinò la testa sul banco e si mise a piangere.

Ieri sera, dopo la scuola, andammo tutti insieme alla casa della morta, per accompagnarla alla chiesa. C'era già nella strada un carro mortuario con due cavalli, e molta gente che aspettava, parlando a bassa voce. C'era il Direttore, tutti i maestri e le maestre della nostra scuola, e anche d'altre sezioni, dove essa aveva insegnato anni addietro; c'erano quasi tutti i bambini della sua classe, condotti per mano dalle madri, che portavan le torcie; e moltissimi d'altre classi, e una cinquantina d'alunne della sezione Baretti, chi con corone in mano, chi con mazzetti di rose. Molti mazzi di fiori li avevan già messi sul carro, al quale era appesa una corona grande di gaggìe con su scritto in caratteri neri: - Alla loro maestra le antiche alunne di quarta. E sotto la corona grande, ce n'era appesa una piccola, che avevan portata i suoi bambini. Si vedevano tra la folla molte donne di servizio, mandate dalle padrone, con le candele, e anche due servitori in livrea, con una torcia accesa; e un signore ricco, padre d'uno scolaro della maestra, aveva fatto venire la sua carrozza, foderata di seta azzurra. Tutti s'accalcavano davanti alla porta. C'eran parecchie ragazze che s'asciugavan le lacrime. Aspettammo un pezzo, in silenzio. Finalmente portaron giù la cassa. Quando videro infilar la cassa dentro al carro, alcuni bambini si misero a pianger forte, e uno cominciò a gridare, come se capisse soltanto allora che la sua maestra era morta, e gli prese un singhiozzo così convulso, che dovettero portarlo via. La processione si mise in ordine lentamente, e si mosse. Andavan prime le figlie del Ritiro della Concezione, vestite di verde; poi le figlie di Maria, tutte bianche, con un nastro azzurro poi i preti; e dietro al carro i maestri e le maestre, gli scolaretti della la superiore, e tutti gli altri, e in fine la folla. La gente s'affacciava alle finestre e sugli usci, e a vedere tutti quei ragazzi e la corona, dicevano: - È una maestra. - Anche delle signore che accompagnavano i più piccoli, ce n'erano alcune che piangevano. Arrivati che furono alla chiesa, levaron la cassa dal carro e la portarono in mezzo alla navata, davanti all'altar maggiore: le maestre ci misero su le corone, i bambini la copersero di fiori, e la gente tutt'intorno, con le candele accese, cominciò a cantare le preghiere, nella chiesa grande e oscura. Poi, tutt'a un tratto quando il prete disse l'ultimo Amen, le candele si spensero e tutti uscirono in fretta e la maestra rimase sola. Povera maestra, tanto buona con me, che aveva tanta pazienza, che aveva faticato per tanti anni! Essa ha lasciato i suoi pochi libri ai suoi scolari, a uno un calamaio, a un altro un quadernetto, tutto quello che possedeva; e due giorni prima di morire disse al Direttore che non ci lasciasse andare i più piccoli al suo accompagnamento, perché non voleva che piangessero. Ha fatto del bene, ha sofferto, è morta. Povera maestra, rimasta sola nella chiesa oscura! Addio! Addio per sempre, mia buona amica, dolce e triste ricordo della mia infanzia!


 

Grazie

28, mercoledì


Ha voluto finire il suo anno di scuola la mia povera maestra: se n'è andata tre soli giorni prima che terminassero le lezioni. Dopo domani andremo ancora una volta in classe a sentir leggere l'ultimo racconto mensile: Naufragio, e poi... finito. Sabato, primo di luglio, gli esami. Un altro anno dunque, il quarto, è passato! E se non fosse morta la mia maestra, sarebbe passato bene. - Io ripenso a quello che sapevo l'ottobre scorso, e mi par di sapere assai di più: ci ho tante cose nuove nella mente; riesco a dire e a scrivere meglio d'allora quello che penso; potrei anche fare di conto per molti grandi che non sanno, e aiutarli nei loro affari: e capisco molto di più, capisco quasi tutto quello che leggo. Sono contento... Ma quanti m'hanno spinto e aiutato a imparare, chi in un modo chi in un altro, a casa, alla scuola, per la strada, da per tutto dove sono andato e dove ho visto qualche cosa! Ed io ringrazio tutti ora. Ringrazio te per il primo, mio buon maestro, che sei stato così indulgente e affettuoso con me, e per cui fu una fatica ogni cognizione nuova di cui ora mi rallegro e mi vanto. Ringrazio te, Derossi, mio ammirabile compagno, che con le tue spiegazioni pronte e gentili m'hai fatto capire tante volte delle cose difficili e superare degli intoppi agli esami; e te pure Stardi, bravo e forte, che m'hai mostrato come una volontà di ferro riesca a tutto, e te, Garrone, buono e generoso, che fai generosi e buoni tutti quelli che ti conoscono e anche voi Precossi e Coretti, che m'avete sempre dato l'esempio del coraggio nei pentimenti e della serenità nel lavoro; dico grazie a voi, dico grazie a tutti gli altri. Ma sopra tutti ringrazio te, padre mio, te mio primo maestro, mio primo amico, che m'hai dato tanti buoni consigli e insegnato tante cose, mentre lavoravi per me, nascondendomi sempre le tue tristezze, e cercando in tutte le maniere di rendermi lo studio facile e la vita bella; e te, dolce madre mia, angelo custode amato e benedetto, che hai goduto di tutte le mie gioie e sofferto di tutte le mie amarezze, che hai studiato, faticato, pianto con me, carezzandomi con una mano la fronte e coll'altra indicandomi il cielo. Io m'inginocchio davanti a voi, come quando ero bambino, e vi ringrazio, vi ringrazio con tutta la tenerezza che mi avete messo nell'anima in dodici anni di sacrificio e d'amore.

 

Naufragio

Ultimo racconto mensile


Parecchi anni or sono, una mattina del mese di dicembre, salpava dal porto di Liverpool un grande bastimento a vapore, che portava a bordo più di duecento persone, fra le quali settanta uomini d'equipaggio. Il capitano e quasi tutti i marinai erano inglesi. Fra i passeggeri si trovavano vari italiani: tre signore, un prete, una compagnia di suonatori. Il bastimento doveva andare all'isola di Malta. Il tempo era oscuro.

In mezzo ai viaggiatori della terza classe, a prua, c'era un ragazzo italiano d'una dozzina d'anni, piccolo per l'età sua, ma robusto; un bel viso ardimentoso e severo di siciliano. Se ne stava solo vicino all'albero di trinchetto, seduto sopra un mucchio di corde, accanto a una valigia logora, che conteneva la sua roba, e su cui teneva una mano. Aveva il viso bruno e i capelli neri e ondulati che gli scendevan quasi sulle spalle. Era vestito meschinamente, con una coperta lacera sopra le spalle e una vecchia borsa di cuoio a tracolla. Guardava intorno a sé, pensieroso, i passeggieri, il bastimento, i marinai che passavan correndo, e il mare inquieto. Avea l'aspetto d'un ragazzo uscito di fresco da una grande disgrazia di famiglia: il viso d'un fanciullo, l'espressione d'un uomo.

Poco dopo la partenza, uno dei marinai del bastimento, un italiano, coi capelli grigi, comparve a prua conducendo per mano una ragazzina, e fermatosi davanti al piccolo siciliano, gli disse: - Eccoti una compagna di viaggio, Mario.

Poi se n'andò.

La ragazza sedette sul mucchio di corde, accanto al ragazzo.

Si guardarono.

- Dove vai? - le domandò il siciliano.

La ragazza rispose: - A Malta, per Napoli.

Poi soggiunse: - Vado a ritrovar mio padre e mia madre, che m'aspettano. Io mi chiamo Giulietta Faggiani.

Il ragazzo non disse nulla.

Dopo alcuni minuti tirò fuori dalla borsa del pane e delle frutte secche; la ragazza aveva dei biscotti; mangiarono

- Allegri! - gridò il marinaio italiano passando rapidamente. - Ora si comincia un balletto!

Il vento andava crescendo, il bastimento rullava fortemente. Ma i due ragazzi, che non pativano il mal di mare, non ci badavano. La ragazzina sorrideva. Aveva presso a poco l'età del suo compagno, ma era assai più alta: bruna di viso, sottile, un po' patita, e vestita più che modestamente. Aveva i capelli tagliati corti e ricciuti, un fazzoletto rosso intorno al capo e due cerchiolini d'argento alle orecchie.

Mangiando, si raccontarono i fatti loro. Il ragazzo non aveva più né padre né madre. Il padre, operaio, gli era morto a Liverpool pochi dì prima, lasciandolo solo, e il console italiano aveva rimandato lui al suo paese, a Palermo, dove gli restavan dei parenti lontani. La ragazzina era stata condotta a Londra, l'anno avanti, da una zia vedova, che l'amava molto, e a cui i suoi parenti, - poveri, - l'avevan concessa per qualche tempo, fidando nella promessa d'un'eredità; ma pochi mesi dopo la zia era morta schiacciata da un omnibus, senza lasciare un centesimo; e allora anch'essa era ricorsa al Console, che l'aveva imbarcata per l'Italia. Tutti e due erano stati raccomandati al marinaio italiano. - Così, - concluse la bambina, - mio padre e mia madre credevano che ritornassi ricca, e invece ritorno povera. Ma tanto mi voglion bene lo stesso. E i miei fratelli pure. Quattro ne ho, tutti piccoli. Io son la prima di casa. Li vesto. Faranno molta festa a vedermi. Entrerò in punta di piedi... Il mare è brutto.

Poi domandò al ragazzo: - E tu vai a stare coi tuoi parenti?

- Sì... se mi vorranno, - rispose.

- Non ti vogliono bene?

- Non lo so.

- Io compisco tredici anni a Natale, - disse la ragazza.

Dopo cominciarono a discorrere del mare e della gente che avevano intorno. Per tutta la giornata stettero vicini, barattando tratto tratto qualche parola. I passeggieri, li credevano fratello e sorella. La bambina faceva la calza, il ragazzo pensava, il mare andava sempre ingrossando. La sera, al momento di separarsi per andar a dormire, la bambina disse a Mario: - Dormi bene. - Nessuno dormirà bene, poveri figliuoli - esclamò il marinaio italiano passando di corsa, chiamando il capitano. Il ragazzo stava per rispondere alla sua amica: - Buona notte, - quando uno spruzzo d'acqua inaspettato lo investì con violenza e lo sbatté contro un sedile. - Mamma mia, che fa sangue! - gridò la ragazza gettandosi sopra di lui. I passeggieri che scappavano sotto, non ci badarono. La bimba s'inginocchiò accanto a Mario, ch'era rimasto sbalordito dal colpo, gli pulì la fronte che sanguinava, e levatosi il fazzoletto rosso dai capelli glie lo girò intorno al capo, poi si strinse il capo sul petto per annodare le cocche, e così si fece una macchia di sangue sul vestito giallo, sopra la cintura. Mario si riscosse, si rialzò. - Ti senti meglio? - domandò la ragazza. - Non ho più nulla, - rispose. - Dormi bene, disse Giulietta. - Buona notte - rispose Mario. - E discesero per due scalette vicine nei loro dormitori.

Il marinaio aveva predetto giusto. Non erano ancora addormentati, che si scatenò una tempesta spaventosa. Fu come un assalto improvviso di cavalloni furiosi che in pochi momenti spezzarono un albero, e portaron via come foglie tre delle barche sospese alle gru e quattro bovi ch'erano a prua. Nell'interno del bastimento nacque una confusione e uno spavento, un rovinìo, un frastuono di grida, di pianti e di preghiere, da far rizzare i capelli. La tempesta andò crescendo di furia tutta la notte. Allo spuntar del giorno crebbe ancora. Le onde formidabili, flagellando il piroscafo per traverso, irrompevano sopra coperta, e sfracellavano, spazzavano, travolgevano nel mare ogni cosa. La piattaforma che copriva la macchina fu sfondata, e l'acqua precipitò dentro con un fracasso terribile, i fuochi si spensero, i macchinisti fuggirono; grossi rigagnoli impetuosi penetrarono da ogni parte. Una voce tonante gridò: - Alle pompe! - Era la voce del capitano. I marinai si slanciarono alle pompe. Ma un colpo di mare subitaneo, percotendo il bastimento per di dietro, sfasciò parapetti e portelli, e cacciò dentro un torrente.

Tutti i passeggieri, più morti che vivi, s'erano rifugiati nella sala grande.

A un certo punto comparve il capitano.

- Capitano! Capitano! - gridarono tutti insieme. - Che si fa? Come stiamo? C'è speranza? Ci salvi!

Il capitano aspettò che tutti tacessero, e disse freddamente: - Rassegniamoci.

Una sola donna gettò un grido: - Pietà! - Nessun altro poté metter fuori la voce. Il terrore li aveva agghiacciati tutti. Molto tempo passò così, in un silenzio di sepolcro. Tutti si guardavano, coi visi bianchi. Il mare infuriava sempre, orrendo. Il bastimento rullava pesantemente. A un dato momento il capitano tentò di lanciare in mare una barca di salvamento: cinque marinai v'entrarono, la barca calò; ma l'onda la travolse, e due dei marinai s'annegarono, fra i quali l'italiano: gli altri a stento riuscirono a riafferrarsi alle corde e a risalire.

Dopo questo i marinai medesimi perdettero ogni coraggio. Due ore dopo, il bastimento era già immerso nell'acqua fino all'altezza dei parasartie.

Uno spettacolo tremendo si presentava intanto sopra coperta. Le madri si stringevano disperatamente al seno i figliuoli, gli amici si abbracciavano e si dicevano addio: alcuni scendevan sotto nelle cabine, per morire senza vedere il mare. Un viaggiatore si tirò un colpo di pistola al capo, e stramazzò bocconi sulla scala del dormitorio, dove spirò. Molti s'avvinghiavano freneticamente gli uni agli altri, delle donne si scontorcevano in convulsioni orrende. Parecchi stavano inginocchiati intorno al prete. S'udiva un coro di singhiozzi, di lamenti infantili, di voci acute e strane, e si vedevan qua e là delle persone immobili come statue, istupidite, con gli occhi dilatati e senza sguardo, delle facce di cadaveri e di pazzi. I due ragazzi, Mario e Giulietta, avviticchiati a un albero del bastimento, guardavano il mare con gli occhi fissi, come insensati.

Il mare s'era quetato un poco; ma il bastimento continuava a affondare, lentamente. Non rimanevan più che pochi minuti.

- La scialuppa a mare! - gridò il capitano.

Una scialuppa, l'ultima che restava, fu gettata all'acqua, e quattordici marinai, con tre passeggieri, vi scesero.

Il capitano rimase a bordo.

- Discenda con noi! - gridarono di sotto.

- Io debbo morire al mio posto, - rispose il capitano.

- Incontreremo un bastimento, - gli gridarono i marinai, - ci salveremo. Discenda. Lei è perduto.

- Io rimango.

- C'è ancora un posto! - gridarono allora i marinai, rivolgendosi agli altri passeggieri. - Una donna!

Una donna s'avanzò, sorretta dal capitano; ma vista la distanza a cui si trovava la scialuppa, non si sentì il coraggio di spiccare il salto, e ricadde sopra coperta. Le altre donne eran quasi tutte già svenute e come moribonde.

- Un ragazzo! - gridarono i marinai.

A quel grido, il ragazzo siciliano e la sua compagna, ch'eran rimasti fino allora come pietrificati da uno stupore sovrumano, ridestati improvvisamente dal violento istinto della vita, si staccarono a un punto solo dall'albero e si slanciarono all'orlo del bastimento, urlando a una voce: - A me! - e cercando di cacciarsi indietro a vicenda, come due belve furiose.

- Il più piccolo! - gridarono i marinai. - La barca è sopraccarica! Il più piccolo!

All'udir quella parola, la ragazza, come fulminata, lasciò cascare le braccia, e rimase immobile, guardando Mario con gli occhi morti.

Mario guardò lei un momento, - le vide la macchia di sangue sul petto, - si ricordò, - il lampo di un'idea divina gli passò sul viso.

- Il più piccolo! - gridarono in coro i marinai, con imperiosa impazienza. - Noi partiamo!

E allora Mario, con una voce che non parea più la sua, gridò: - Lei è più leggiera. A te, Giulietta! Tu hai padre e madre! Io son solo! Ti do il mio posto! Va giù!

- Gettala in mare! - gridarono i marinai.

Mario afferrò Giulietta alla vita e la gettò in mare.

La ragazza mise un grido e fece un tonfo; un marinaio l'afferrò per un braccio e la tirò su nella barca.

Il ragazzo rimase ritto sull'orlo del bastimento, con la fronte alta, coi capelli al vento, immobile, tranquillo, sublime.

La barca si mosse, e fece appena in tempo a scampare dal movimento vorticoso delle acque prodotto dal bastimento che andava sotto, e che minacciò di travolgerla.

Allora la ragazza, rimasta fino a quel momento quasi fuori di senso, alzò gli occhi verso il fanciullo e diede in uno scroscio di pianto.

- Addio, Mario! - gli gridò fra i singhiozzi, con le braccia tese verso di lui. - Addio! Addio! Addio!

- Addio! - rispose il ragazzo, levando la mano in alto.

La barca s'allontanava velocemente sopra il mare agitato, sotto il cielo tetro. Nessuno gridava più sul bastimento. L'acqua lambiva già gli orli della coperta.

A un tratto il ragazzo cadde in ginocchio con le mani giunte e cogli occhi al cielo.

La ragazza si coperse il viso.

Quando rialzò il capo, girò uno sguardo sul mare: il bastimento non c'era più.


 

 

LUGLIO


L'ultima pagina di mia madre

1, sabato


L'anno è finito dunque, Enrico, ed è bello che ti rimanga come ricordo dell'ultimo giorno l'immagine del fanciullo sublime, che diede la vita per la sua amica. Ora tu stai per separarti dai tuoi maestri e dai tuoi compagni; e io debbo darti una notizia triste. La separazione non durerà soltanto tre mesi, ma sempre. Tuo padre, per ragioni della sua professione, deve andar via da Torino, e noi tutti con lui. Ce n'andremo il prossimo autunno. Dovrai entrare in una scuola nuova. Questo ti rincresce, non è vero? perché son certa che tu l'ami la tua vecchia scuola, dove per quattro anni; due volte al giorno, hai provato la gioia d'aver lavorato, dove hai visto per tanto tempo, a quelle date ore, gli stessi ragazzi; gli stessi maestri, gli stessi parenti, e tuo padre o tua madre che t'aspettavano sorridendo, la tua vecchia scuola, dove ti s'è aperto l'ingegno, dove hai trovato tanti buoni compagni, dove ogni parola che hai inteso dire aveva per iscopo il tuo bene, e non hai provato un dispiacere che non ti sia stato utile! Porta dunque quest'affetto con te, e dà un addio dal cuore a tutti quei ragazzi. Alcuni avranno delle disgrazie, perderanno presto il padre e la madre; altri moriranno giovani; altri forse verseranno nobilmente il loro sangue nelle battaglie, molti saranno bravi e onesti operai, padri di famiglie operose e oneste come loro, e chi sa che non ce ne sia qualcuno pure, che renderà dei grandi servigi al suo paese e farà il suo nome glorioso. Separati dunque da loro affettuosamente: lasciaci un poco dell'anima tua in quella grande famiglia, nella quale sei entrato bambino, e da cui esci giovinetto, e che tuo padre e tua madre amano tanto perché tu ci fosti tanto amato. La scuola è una madre, Enrico mio: essa ti levò dalle mie braccia che parlavi appena, e ora mi ti rende grande, forte, buono, studioso: sia benedetta, e tu non dimenticarla mai più, figliuolo. Oh! è impossibile che tu la dimentichi. Ti farai uomo, girerai il mondo, vedrai delle città immense e dei monumenti maravigliosi; e ti scorderai anche di molti fra questi; ma quel modesto edifizio bianco, con quelle persiane chiuse, e quel piccolo giardino, dove sbocciò il primo fiore della tua intelligenza, tu lo vedrai fino all'ultimo giorno della tua vita come io vedrò la casa in cui sentii la tua voce per la prima volta.

TUA MADRE


 

Gli esami

4, martedì


Eccoci finalmente agli esami. Per le vie intorno alla scuola non si sente parlar d'altro, da ragazzi, da padri, da madri, perfino dalle governanti: esami, punti, tema, media, rimandato, promosso tutti dicono le stesse parole. Ieri mattina ci fu la composizione, questa mattina l'aritmetica. Era commovente veder tutti i parenti che conducevano i ragazzi alla scuola, dando gli ultimi consigli per la strada, e molte madri che accompagnavano i figliuoli fin nei banchi, per guardare se c'era inchiostro nel calamaio e per provare la penna, e si voltavano ancora di sull'uscio a dire: - Coraggio! Attenzione! Mi raccomando! - Il nostro maestro assistente era Coatti, quello con la barbaccia nera, che fa la voce del leone, e non castiga mai nessuno. C'erano dei ragazzi bianchi dalla paura. Quando il maestro dissuggellò la lettera del Municipio, e tirò fuori il problema, non si sentiva un respiro. Dettò il problema forte, guardandoci ora l'uno ora l'altro con certi occhi terribili; ma si capiva che se avesse potuto dettare anche la soluzione, per farci promovere tutti, ci avrebbe avuto un grande piacere. Dopo un'ora di lavoro, molti cominciavano a affannarsi perché il problema era difficile. Uno piangeva. Crossi si dava dei pugni nel capo. E non ci hanno mica colpa molti, di non sapere, poveri ragazzi, che non hanno avuto molto tempo da studiare, e son stati trascurati dai parenti. Ma c'era la provvidenza. Bisognava vedere Derossi che moto si dava per aiutarli, come s'ingegnava per far passare una cifra e per suggerire un'operazione, senza farsi scorgere, premuroso per tutti, che pareva lui il nostro maestro. Anche Garrone, che è forte in aritmetica, aiutava chi poteva, e aiutò perfin Nobis, che trovandosi negli imbrogli, era tutto gentile. Stardi stette per più d'un'ora immobile, con gli occhi sul problema e coi pugni alle tempie, e poi fece tutto in cinque minuti. Il maestro girava tra i banchi dicendo: - Calma! Calma! Vi raccomando la calma! - E quando vedeva qualcuno scoraggiato, per farlo ridere, e mettergli animo spalancava la bocca come per divorarlo, imitando il leone. Verso le undici, guardando giù a traverso alle persiane, vidi molti parenti che andavano e venivano per la strada, impazienti; c'era il padre di Precossi, col suo camiciotto turchino, scappato allora dall'officina, ancora tutto nero nel viso. C'era la madre di Crossi, l'erbaiola; la madre di Nelli, vestita di nero, che non poteva star ferma. Poco prima di mezzogiorno arrivò mio padre e alzò gli occhi alla mia finestra: caro padre mio! A mezzo giorno tutti avevamo finito. E fu uno spettacolo all'uscita. Tutti incontro ai ragazzi a domandare, a sfogliare i quaderni, a confrontare coi lavori dei compagni. - Quante operazioni? - Cos'è il totale? - E la sottrazione? - E la risposta? - E la virgola dei decimali? - Tutti i maestri andavano qua e là, chiamati da cento parti. Mio padre mi levò di mano subito la brutta copia, guardò e disse: - Va bene. - Accanto a noi c'era il fabbro Precossi che guardava pure il lavoro del suo figliuolo, un po' inquieto, e non si raccapezzava. Si rivolse a mio padre: - Mi vorrebbe favorire il totale? Mio padre lesse la cifra. Quegli guardò: combinava. - Bravo, piccino! - esclamò, tutto contento; e mio padre e lui si guardarono un momento, con un buon sorriso, come due amici; mio padre gli tese la mano, egli la strinse. E si separarono dicendo: - Al verbale. - Al verbale. - Fatti pochi passi, udimmo una voce in falsetto che ci fece voltare il capo: era il fabbro ferraio che cantava.

 

L' ultimo esame

7, venerdì


Questa mattina ci diedero gli esami verbali. Alle otto eravamo tutti in classe, e alle otto e un quarto cominciarono a chiamarci quattro alla volta nel camerone, dove c'era un gran tavolo coperto d'un tappeto verde, e intorno il Direttore e quattro maestri, fra i quali il nostro. Io fui uno dei primi chiamati. Povero maestro! Come m'accorsi che ci vuol bene davvero, questa mattina. Mentre c'interrogavano gli altri, egli non aveva occhi che per noi; Si turbava quando eravamo incerti a rispondere, si rasserenava quando davamo una bella risposta, sentiva tutto, e ci faceva mille cenni con le mani e col capo per dire: - bene, - no, - sta attento, - più adagio, - coraggio. - Ci avrebbe suggerito ogni cosa se avesse potuto parlare. Se al posto suo ci fossero stati l'un dopo l'altro i padri di tutti gli alunni, non avrebbero fatto di più. Gli avrei gridato: - Grazie! - dieci volte, in faccia a tutti. E quando gli altri maestri mi dissero: - Sta bene; va pure, - gli scintillarono gli occhi dalla contentezza. Io tornai subito in classe ad aspettare mio padre. C'erano ancora quasi tutti. Mi sedetti accanto a Garrone. Non ero allegro, punto. Pensavo che era l'ultima volta che stavamo un'ora vicini! Non glielo avevo ancor detto a Garrone che non avrei più fatta la quarta con lui, che dovevo andar via da Torino con mio padre: egli non sapeva nulla. E se ne stava lì piegato in due, con la sua grossa testa china sul banco, a fare degli ornati intorno a una fotografia di suo padre, vestito da macchinista, che è un uomo grande e grosso, con un collo di toro, e ha un'aria seria e onesta, come lui. E mentre stava così curvo, con la camicia un poco aperta davanti, io gli vedevo sul petto nudo e robusto la crocina d'oro che gli regalò la madre di Nelli, quando seppe che proteggeva il suo figliuolo. Ma bisognava pure che glielo dicessi una volta che dovevo andar via. Glielo dissi: - Garrone, quest'autunno mio padre andrà via da Torino, per sempre. - Egli mi domandò se andavo via anch'io; gli risposi di sì. - Non farai più la quarta con noi? - mi disse. Risposi di no. E allora egli stette un po' senza parlare, continuando il suo disegno. Poi domandò senz'alzare il capo: - Ti ricorderai poi dei tuoi compagni di terza? - Sì, - gli dissi, - di tutti; ma di te... più che di tutti. Chi si può scordare di te? - Egli mi guardò fisso e serio con uno sguardo che diceva mille cose; e non disse nulla, solo mi porse la mano sinistra, fingendo di continuare a disegnare con l'altra, ed io la strinsi tra le mie, quella mano forte e leale. In quel momento entrò in fretta il maestro col viso rosso, e disse a bassa voce e presto, con la voce allegra: - Bravi, finora va tutto bene, tirino avanti così quelli che restano; bravi, ragazzi! Coraggio! Sono molto contento. - E per mostrarci la sua contentezza ed esilararci, uscendo in fretta, fece mostra d'inciampare e di trattenersi al muro per non cadere: lui, che non l'avevamo mai visto ridere! La cosa parve così strana, che invece di ridere, tutti rimasero stupiti; tutti sorrisero, nessuno rise. Ebbene, non so, mi fece pena e tenerezza insieme quell'atto di allegrezza da fanciullo. Era tutto il suo premio quel momento d'allegrezza, era il compenso di nove mesi di bontà, di pazienza ed anche di dispiaceri! Per quello aveva faticato tanto tempo, ed era venuto tante volte a far lezione malato, povero maestro! Quello, e non altro, egli domandava a noi in ricambio di tanto affetto e di tante cure! E ora mi pare che lo rivedrò sempre così in quell'atto, quando mi ricorderò di lui, per molti anni; e se quando sarò un uomo, egli vivrà ancora, e c'incontreremo, glielo dirò, di quell'atto che mi toccò il cuore; e gli darò un bacio sulla testa.

 

Addio

10, lunedì


Al tocco ci ritrovammo tutti per l'ultima volta alla scuola a sentire i risultati degli esami e a pigliare i libretti di promozione. La strada era affollata di parenti, che avevano invaso anche il camerone, e molti erano entrati nelle classi, pigiandosi fino accanto al tavolino del maestro: nella nostra riempivano tutto lo spazio fra il muro e i primi banchi. C'era il padre di Garrone, la madre di Derossi, il fabbro Precossi, Coretti, la signora Nelli, l'erbaiola, il padre del muratorino, il padre di Stardi, molti altri che non avevo mai visti; e si sentiva da tutte le parti un bisbiglio, un brulichìo, che pareva d'essere in una piazza. Entrò il maestro: si fece un grande silenzio. Aveva in mano l'elenco, e cominciò a leggere subito. - Abatucci, promosso, sessanta settantesimi, Archini, promosso, cinquantacinque settantesimi. Il muratorino promosso, Crossi promosso. Poi lesse forte: - Derossi Ernesto promosso, settanta settantesimi, e il primo premio. - Tutti i parenti ch'eran lì, che lo conoscevan tutti, dissero: - Bravo, bravo, Derossi! - ed egli diede una scrollata ai suoi riccioli biondi, col suo sorriso disinvolto e bello, guardando sua madre, che gli fece un saluto con la mano. Garoffi, Garrone, il calabrese, promossi. Poi tre o quattro di seguito rimandati, e uno si mise a piangere perché suo padre ch'era sull'uscio, gli fece un gesto di minaccia. Ma il maestro disse al padre: - No, signore, mi scusi; non è sempre colpa, è sfortuna molte volte. E questo è il caso. - Poi lesse: - Nelli, promosso, sessantadue settantesimi. - Sua madre gli mandò un bacio col ventaglio. Stardi promosso con sessantasette settantesimi; ma a sentire quel bel voto, egli non sorrise neppure, e non staccò i pugni dalle tempie. L'ultimo fu Votini, che era venuto tutto ben vestito e pettinato: promosso. Letto l'ultimo, il maestro si alzò e disse: - Ragazzi, questa è l'ultima volta che ci troviamo riuniti. Siamo stati insieme un anno, e ora ci lasciamo buoni amici, non è vero? Mi rincresce di separarmi da voi, cari figliuoli. - S'interruppe; poi ripigliò: - Se qualche volta m'è scappata la pazienza, se qualche volta, senza volerlo, sono stato ingiusto, troppo severo, scusatemi. - No, no, - dissero i parenti e molti scolari, - no, signor maestro, mai. - Scusatemi, - ripeté il maestro, - e vogliatemi bene. L'anno venturo non sarete più con me, ma vi rivedrò, e rimarrete sempre nel mio cuore. A rivederci, ragazzi! - Detto questo, venne avanti in mezzo a noi, e tutti gli tesero le mani, rizzandosi sui banchi, lo presero per le braccia e per le falde del vestito; molti lo baciarono, cinquanta voci insieme dissero: - A rivederlo, maestro! - Grazie, signor maestro! - Stia bene! - Si ricordi di noi! - Quando uscì, pareva oppresso dalla commozione. Uscimmo tutti, alla rinfusa. Da tutte le altre classi uscivan pure. Era un rimescolamento, un gran chiasso di ragazzi e di parenti che dicevano addio ai maestri e alle maestre e si salutavan fra loro. La maestra della penna rossa aveva quattro o cinque bambini addosso e una ventina attorno, che le legavano il fiato; e alla "monachina" avevan mezzo strappato il cappello, e ficcato una dozzina di mazzetti tra i bottoni del vestito nero e nelle tasche. Molti facevano festa a Robetti che proprio quel giorno aveva smesso per la prima volta le stampelle. Si sentiva dire da tutte le parti. - Al nuovo anno! - Ai venti d'ottobre! - A rivederci ai Santi! - Noi pure ci salutammo. Ah! come si dimenticavano tutti i dissapori in quel momento! Votini, che era sempre stato così geloso di Derossi, fu il primo a gettarglisi incontro con le braccia aperte. Io salutai il muratorino e lo baciai proprio nel momento che mi faceva il suo ultimo muso di lepre, caro ragazzo! Salutai Precossi, salutai Garoffi, che mi annunziò la vincita alla sua ultima lotteria e mi diede un piccolo calcafogli di maiolica, rotto da un canto, dissi addio a tutti gli altri. Fu bello vedere il povero Nelli, come s'avviticchiò a Garrone, che non lo potevan più staccare. Tutti s'affollarono intorno a Garrone, e addio Garrone, addio, a rivederci, e lì a toccarlo, a stringerlo, a fargli festa, a quel bravo, santo ragazzo; e c'era suo padre tutto meravigliato, che guardava e sorrideva. Garrone fu l'ultimo che abbracciai, nella strada, e soffocai un singhiozzo contro il suo petto: egli mi baciò sulla fronte. Poi corsi da mio padre e da mia madre. Mio padre mi domandò: - Hai salutati tutti i tuoi compagni? - Dissi di sì. - Se c'è qualcuno a cui tu abbia fatto un torto, vagli a dire che ti perdoni e che lo dimentichi. C'è nessuno? - Nessuno, - risposi. - E allora addio! - disse mio padre, con la voce commossa, dando un ultimo sguardo alla scuola. E mia madre ripeté: - addio! - E io non potei dir nulla.