L'infermiere di Tata
Racconto mensile
La mattina d'un giorno piovoso di marzo, un ragazzo vestito da campagnuolo, tutto inzuppato d'acqua e infangato, con un involto di panni sotto il braccio, si presentava al portinaio dell'Ospedale maggiore di Napoli e domandava di suo padre, presentando una lettera. Aveva un bel viso ovale d'un bruno pallido, gli occhi pensierosi e due grosse labbra semiaperte, che lasciavan vedere i denti bianchissimi. Veniva da un villaggio dei dintorni di Napoli. Suo padre, partito di casa l'anno addietro per andare a cercar lavoro in Francia, era tornato in Italia e sbarcato pochi dì prima a Napoli, dove, ammalatosi improvvisamente, aveva appena fatto in tempo a scrivere un rigo alla famiglia per annunziarle il suo arrivo e dirle che entrava all'ospedale. Sua moglie, desolata di quella notizia, non potendo moversi di casa perché aveva una bimba inferma e un'altra al seno, aveva mandato a Napoli il figliuolo maggiore, con qualche soldo, ad assistere suo padre, il suo Tata, come là si dice; il ragazzo aveva fatto dieci miglia di cammino.
Il portinaio, data un'occhiata alla lettera, chiamò un infermiere e gli disse che conducesse il ragazzo dal padre.
- Che padre? - domandò l'infermiere.
Il ragazzo, tremante per il timore d'una trista notizia, disse il nome.
L'infermiere non si rammentava quel nome.
- Un vecchio operaio venuto di fuori? - domandò.
- Operaio sì, - rispose il ragazzo, sempre più ansioso; non tanto vecchio. Venuto di fuori, sì.
- Entrato all'ospedale quando? - domandò l'infermiere.
Il ragazzo diede uno sguardo alla lettera. - Cinque giorni fa, credo.
L'infermiere stette un po' pensando; poi, come ricordandosi a un tratto: - Ah! - disse, - il quarto camerone, il letto in fondo.
- È malato molto? Come sta? - domandò affannosamente il ragazzo.
L'infermiere lo guardò, senza rispondere. Poi disse: - Vieni con me.
Salirono due branche di scale, andarono in fondo a un largo corridoio e si trovarono in faccia alla porta aperta d'un camerone, dove s'allungavano due file di letti. - Vieni, - ripeté l'infermiere, entrando. Il ragazzo si fece animo e lo seguitò, gettando sguardi paurosi a destra e a sinistra, sui visi bianchi e smunti dei malati, alcuni dei quali avevan gli occhi chiusi, e parevano morti, altri guardavan per aria con gli occhi grandi e fissi, come spaventati. Parecchi gemevano, come bambini. Il camerone era oscuro, l'aria impregnata d'un odore acuto di medicinali. Due suore di carità andavano attorno con delle boccette in mano.
Arrivato in fondo al camerone, l'infermiere si fermò al capezzale d'un letto, aperse le tendine e disse: - Ecco tuo padre.
Il ragazzo diede in uno scoppio di pianto, e lasciato cadere l'involto, abbandonò la testa sulla spalla del malato, afferrandogli con una mano il braccio che teneva disteso immobile sopra la coperta. Il malato non si scosse.
Il ragazzo si rialzò e guardò il padre, e ruppe in pianto un'altra volta. Allora il malato gli rivolse uno sguardo lungo e parve che lo riconoscesse. Ma le sue labbra non si muovevano. Povero Tata, quanto era mutato! Il figliuolo non l'avrebbe mai riconosciuto. Gli s'erano imbiancati i capelli, gli era cresciuta la barba, aveva il viso gonfio, d'un color rosso carico, con la pelle tesa e luccicante, gli occhi rimpiccioliti, le labbra ingrossate, la fisionomia tutta alterata: non aveva più di suo che la fronte e l'arco delle sopracciglia. Respirava con affanno. - Tata, tata mio! - disse il ragazzo. - Son io, non mi riconoscete? Sono Cicillo, il vostro Cicillo, venuto dal paese, che m'ha mandato la mamma. Guardatemi bene, non mi riconoscete? Ditemi una parola.
Ma il malato, dopo averlo guardato attentamente, chiuse gli occhi.
- Tata! Tata! che avete? Sono il vostro figliuolo, Cicillo vostro.
Il malato non si mosse più, e continuò a respirare affannosamente.
Allora, piangendo, il ragazzo prese una seggiola, sedette e stette aspettando, senza levar gli occhi dal viso di suo padre. - Un medico passerà bene a far la visita, - pensava. - Egli mi dirà qualche cosa. - E s'immerse ne' suoi pensieri tristi, ricordando tante cose del suo buon padre, il giorno della partenza, quando gli aveva dato l'ultimo addio sul bastimento, le speranze che aveva fondato la famiglia su quel suo viaggio, la desolazione di sua madre all'arrivo della lettera; e pensò alla morte, vide suo padre morto, sua madre vestita di nero, la famiglia nella miseria. E stette molto tempo così. Quando una mano leggiera gli toccò una spalla, ed ei si riscosse: era una monaca. - Che cos'ha mio padre? - le domandò subito. - È tuo padre? - disse la suora, dolcemente. - Sì, è mio padre, son venuto. Che cos'ha? - Coraggio, ragazzo, - rispose la suora; - ora verrà il medico. - E s'allontanò, senza dir altro.
Dopo mezz'ora, sentì il tocco d'una campanella, e vide entrare in fondo al camerone il medico, accompagnato da un assistente; la suora e un infermiere li seguivano. Cominciaron la visita, fermandosi a ogni letto. Quell'aspettazione pareva eterna al ragazzo, e ad ogni passo del medico gli cresceva l'affanno. Finalmente arrivò al letto vicino. Il medico era un vecchio alto e curvo, col viso grave. Prima ch'egli si staccasse dal letto vicino, il ragazzo si levò in piedi, e quando gli s'avvicinò, si mise a piangere.
Il medico lo guardò.
- È il figliuolo del malato - disse la suora; - è arrivato questa mattina dal suo paese.
Il medico gli posò una mano sulla spalla, poi si chinò sul malato, gli tastò il polso, gli toccò la fronte, e fece qualche domanda alla suora, la quale rispose: - nulla di nuovo. Rimase un po' pensieroso, poi disse: - Continuate come prima.
Allora il ragazzo si fece coraggio e domandò con voce di pianto: - Che cos'ha mio padre?
- Fatti animo, figliuolo, - rispose il medico, rimettendogli una mano sulla spalla. - Ha una risipola facciale. È grave, ma c'è ancora speranza. Assistilo. La tua presenza gli può far del bene.
- Ma non mi riconosce! - esclamò il ragazzo in tuono desolato.
- Ti riconoscerà... domani, forse. Speriamo bene, fatti coraggio.
Il ragazzo avrebbe voluto domandar altro; ma non osò. Il medico passò oltre. E allora egli cominciò la sua vita d'infermiere. Non potendo far altro accomodava le coperte al malato, gli toccava ogni tanto la mano, gli cacciava i moscerini, si chinava su di lui ad ogni gemito, e quando la suora portava da bere, le levava di mano il bicchiere o il cucchiaio, e lo porgeva in sua vece. Il malato lo guardava qualche volta; ma non dava segno di riconoscerlo. Senonché il suo sguardo si arrestava sempre più a lungo sopra di lui, specialmente quando si metteva agli occhi il fazzoletto. E così passò il primo giorno. La notte il ragazzo dormì sopra due seggiole, in un angolo del camerone, e la mattina riprese il suo ufficio pietoso. Quel giorno parve che gli occhi del malato rivelassero un principio di coscienza. Alla voce carezzevole del ragazzo pareva che un'espressione vaga di gratitudine gli brillasse un momento nelle pupille, e una volta mosse un poco le labbra come se volesse dir qualche cosa. Dopo ogni breve assopimento, riaprendo gli occhi, sembrava che cercasse il suo piccolo infermiere. Il medico, ripassato due volte, notò un poco di miglioramento. Verso sera, avvicinandogli il bicchiere alle labbra, il ragazzo credette di veder guizzare sulle sue labbra gonfie un leggerissimo sorriso. E allora cominciò a riconfortarsi, a sperare. E con la speranza d'essere inteso, almeno confusamente, gli parlava, gli parlava a lungo, della mamma, delle sorelle piccole, del ritorno a casa, e lo esortava a farsi animo, con parole calde e amorose. E benché dubitasse sovente di non esser capito, pure parlava, perché gli pareva che, anche non comprendendo, il malato ascoltasse con un certo piacere la sua voce, quell'intonazione insolita di affetto e di tristezza. E in quella maniera passò il secondo giorno, e il terzo, e il quarto, in una vicenda di miglioramenti leggieri e di peggioramenti improvvisi; e il ragazzo era così tutto assorto nelle sue cure, che appena sbocconcellava due volte al giorno un po' di pane e un po' di formaggio, che gli portava la suora, e non vedeva quasi quel che seguiva intorno a lui, i malati moribondi, l'accorrere improvviso delle suore di notte, i pianti e gli atti di desolazione dei visitatori che uscivano senza speranza, tutte quelle scene dolorose e lugubri della vita d'un ospedale, che in qualunque altra occasione l'avrebbero sbalordito e atterrito. Le ore, i giorni passavano, ed egli era sempre là col suo Tata, attento, premuroso, palpitante ad ogni suo sospiro e ad ogni suo sguardo, agitato senza riposo tra una speranza che gli allargava l'anima e uno sconforto che gli agghiacciava il cuore.
Il quinto giorno, improvvisamente, il malato peggiorò.
Il medico, interrogato, scrollò il capo, come per dire che era finita, e il ragazzo s'abbandonò sulla seggiola, rompendo in singhiozzi. Eppure una cosa lo consolava. Malgrado che peggiorasse, a lui sembrava che il malato andasse riacquistando lentamente un poco d'intelligenza. Egli guardava il ragazzo sempre più fissamente e con un'espressione crescente di dolcezza, non voleva più prender bevanda o medicina che da lui, e sempre più spesso faceva quel movimento forzato delle labbra, come se volesse pronunciare una parola; e lo faceva così spiccato qualche volta, che il figliuolo gli afferrava il braccio con violenza, sollevato da una speranza improvvisa, e gli diceva con accento quasi di gioia: - Coraggio, coraggio, Tata, guarirai, ce n'andremo, torneremo a casa con la mamma, ancora un po' di coraggio!
Erano le quattro della sera, e allora appunto il ragazzo s'era abbandonato a uno di quegli impeti di tenerezza e di speranza, quando di là dalla porta più vicina del camerone udì un rumore di passi, e poi una voce forte, due sole parole: - Arrivederci, suora! - che lo fecero balzare in piedi, con un grido strozzato nella gola. Nello stesso momento entrò nel camerone un uomo, con un grosso involto alla mano, seguito da una suora.
Il ragazzo gettò un grido acuto e rimase inchiodato al suo posto.
L'uomo si voltò, lo guardò un momento, gittò un grido anch'egli: - Cicillo! - e si slanciò verso di lui.
Il ragazzo cadde fra le braccia di suo padre, soffocato. Le suore, gl'infermieri, l'assistente accorsero, e rimasero lì, pieni di stupore.
Il ragazzo non poteva raccogliere la voce.
- Oh Cicillo mio! - esclamò il padre, dopo aver fissato uno sguardo attento sul malato, baciando e ribaciando il ragazzo. - Cicillo, figliuol mio, come va questo? T'hanno condotto al letto d'un altro. E io che mi disperavo di non vederti, dopo che mamma scrisse: l'ho mandato. Povero Cicillo! Da quanti giorni sei qui? Com'è andato questo imbroglio? Io me la son cavata con poco. Sto bene in gamba, sai! E la mamma? E Concettella? E 'u nennillo, come vanno? Io me n'esco dall'ospedale. Andiamo dunque. O signore Iddio! Chi l'avrebbe mai detto!
Il ragazzo stentò a spiccicar quattro parole per dar notizie della famiglia. - Oh come sono contento! - balbettò. - Come sono contento! Che brutti giorni ho passati! E non rifiniva di baciar suo padre.
Ma non si muoveva.
- Vieni dunque - gli disse il padre. - Arriveremo ancora a casa stasera. Andiamo. - E lo tirò a sé.
Il ragazzo si voltò a guardare il suo malato.
- Ma... vieni o non vieni? - gli domandò il padre, stupito.
Il ragazzo diede ancora uno sguardo al malato, il quale, in quel momento, aperse gli occhi e lo guardò fissamente.
Allora gli sgorgò dall'anima un torrente di parole. - No, Tata, aspetta... ecco... non posso. C'è quel vecchio. Da cinque giorni son qui. Mi guarda sempre. Credevo che fossi tu. Gli volevo bene. Mi guarda, io gli do da bere, mi vuol sempre accanto, ora sta molto male, abbi pazienza, non ho coraggio, non so, mi fa troppo pena, tornerò a casa domani, lasciami star qui un altro po', non va mica bene che lo lasci, vedi in che maniera mi guarda, io non so chi sia, ma mi vuole, morirebbe solo, lasciami star qui, caro Tata!
- Bravo, piccerello! - gridò l'assistente.
Il padre rimase perplesso, guardando il ragazzo; poi guardò il malato. - Chi è? - domandò.
- Un contadino come voi - rispose l'assistente, - venuto di fuori, entrato all'ospedale lo stesso giorno che c'entraste voi. Lo portaron qui ch'era fuor di senso, e non poté dir nulla. Forse ha una famiglia lontana, dei figliuoli. Crederà che sia un dei suoi, il vostro.
Il malato guardava sempre il ragazzo.
Il padre disse a Cicillo: - Resta.
- Non ha più da restar che per poco, - mormorò l'assistente.
- Resta -, ripeté il padre. - Tu hai cuore. Io vado subito a casa a levar di pena la mamma. Ecco uno scudo pei tuoi bisogni. Addio, bravo figliuolo mio. A rivederci.
Lo abbracciò, lo guardò fisso, lo ribaciò in fronte, e partì.
Il ragazzo tornò accanto al letto, e l'infermo parve racconsolato. E Cicillo ricominciò a far l'infermiere, non piangendo più, ma con la stessa premura, con la stessa pazienza di prima; ricominciò a dargli da bere, ad accomodargli le coperte, a carezzargli la mano, a parlargli dolcemente, per fargli coraggio. Lo assistette tutto quel giorno, lo assistette tutta la notte, gli restò ancora accanto il giorno seguente. Ma il malato s'andava sempre aggravando; il suo viso diventava color violaceo, il suo respiro ingrossava, gli cresceva l'agitazione, gli sfuggivan dalla bocca delle grida inarticolate, l'enfiagione si faceva mostruosa. Alla visita della sera, il medico disse che non avrebbe passata la notte. E allora Cicillo raddoppiò le sue cure e non lo perdette più d'occhio un minuto. E il malato lo guardava, lo guardava, e muoveva ancora le labbra, tratto tratto, con un grande sforzo, come se volesse dir qualche cosa, e un'espressione di dolcezza straordinaria passava a quando a quando nei suoi occhi, che sempre più si rimpiccolivano e s'andavano velando. E quella notte il ragazzo lo vegliò fin che vide biancheggiare alle finestre il primo barlume di giorno, e comparire la suora. La suora s'avvicinò al letto, diede un'occhiata al malato e andò via a rapidi passi. Pochi momenti dopo ricomparve col medico assistente e con un infermiere, che portava una lanterna.
- È all'ultimo momento, - disse il medico.
Il ragazzo afferrò la mano del malato. Questi aprì gli occhi, lo fissò, e li richiuse.
In quel punto parve al ragazzo di sentirsi stringere la mano.
- M'ha stretta la mano! - esclamò.
Il medico rimase un momento chino sul malato, poi s'alzò. La suora staccò un crocifisso dalla parte.
- E morto! - gridò il ragazzo.
- Va', figliuolo, - disse il medico. - La tua santa opera è compiuta. Va' e abbi fortuna, che la meriti. Dio ti proteggerà. Addio.
La suora che s'era allontanata un momento, tornò con un mazzettino di viole, tolte da un bicchiere sulla finestra, e lo porse al ragazzo, dicendo: - Non ho altro da darti. Tieni questo per memoria dell'ospedale.
- Grazie, - rispose il ragazzo, - pigliando il mazzetto con una mano e asciugandosi gli occhi con l'altra; - ma ho tanta strada da fare a piedi... lo sciuperei. - E sciolto il mazzolino sparpagliò le viole sul letto, dicendo: - Le lascio per ricordo al mio povero morto. Grazie, sorella. Grazie, signor dottore. - Poi, rivolgendosi al morto: - Addio... - E mentre cercava un nome da dargli, gli rivenne dal cuore alle labbra il dolce nome che gli aveva dato per cinque giorni: - Addio, povero Tata!
Detto questo, si mise sotto il braccio il suo involtino di panni, e a lenti passi, rotto dalla stanchezza, se n'andò. L'alba spuntava.
L'officina
18, sabato
Precossi venne ieri sera a rammentarmi che andassi a vedere la sua officina, che è sotto nella strada, e questa mattina, uscendo con mio padre, mi ci feci condurre un momento. Mentre noi ci avvicinavamo all'officina, ne usciva di corsa Garoffi, con un pacco in mano, facendo svolazzare il suo gran mantello, che copre le mercanzie. Ah! ora lo so dove va a raspare la limatura di ferro, che vende per dei giornali vecchi, quel trafficone di Garoffi! Affacciandoci alla porta, vedemmo Precossi, seduto sur una torricella di mattoni, che studiava la lezione, col libro sulle ginocchia. S'alzò subito e ci fece entrare: era uno stanzone pien di polvere di carbone, colle pareti tutte irte di martelli, di tanaglie, di spranghe, di ferracci d'ogni forma, e in un angolo ardeva il fuoco d'un fornello, in cui soffiava un mantice, tirato da un ragazzo. Precossi padre era vicino all'incudine, e un garzone teneva una spranga di ferro nel fuoco. - Ah! eccolo qui, - disse il fabbro appena ci vide, levandosi la berretta, - il bravo ragazzo che regala i treni delle strade ferrate! È venuto a vedere un po' lavorare, non è vero? Eccolo servito sul momento. - E dicendo questo sorrideva, non aveva più quella faccia torva, quegli occhi biechi dell'altre volte. Il garzone gli porse una lunga spranga di ferro arroventata da un capo, e il fabbro l'appoggiò sull'incudine. Faceva una di quelle spranghe a voluta per le ringhiere a gabbia dei terrazzini. Alzò un grosso martello e cominciò a picchiare, spingendo la parte rovente ora di qua ora di là tra una punta dell'incudine e il mezzo, e rigirandola in vari modi, ed era una meraviglia a vedere come sotto ai colpi rapidi e precisi del martello il ferro s'incurvava, s'attorceva, pigliava via via la forma graziosa della foglia arricciata d'un fiore, come un cannello di pasta, ch'egli avesse modellato con le mani. E intanto il suo figliuolo ci guardava, con una cert'aria altera, come per dire: - Vedete come lavora mio padre! - Ha visto come si fa, il signorino? - mi domandò il fabbro, quand'ebbe finito, mettendomi davanti la spranga, che pareva il pastorale d'un vescovo. Poi la mise in disparte e ne ficcò un'altra nel fuoco. - Ben fatto davvero, - gli disse mio padre. E soggiunse: - Dunque... si lavora, eh? La buona voglia è tornata. - È tornata, sì - rispose l'operaio, asciugandosi il sudore, e arrossendo un poco. - E sa chi me l'ha fatta tornare? - Mio padre finse di non capire. - Quel bravo ragazzo, - disse il fabbro, accennando il figliuolo col dito, - quel bravo figliuolo là, che studiava e faceva onore a suo padre mentre suo padre... faceva baldoria e lo trattava come una bestia. Quando ho visto quella medaglia... Ah! il piccinetto mio, alto come un soldo di cacio, vieni un po' qua che ti guardi bene nel muso! - Il ragazzo corse subito, il fabbro lo prese e lo mise diritto sull'incudine, tenendolo sotto le ascelle, e gli disse: - Pulite un poco il frontespizio a questo bestione di babbo. - E allora Precossi coprì di baci il viso nero di suo padre fin che fu anche lui tutto nero. - Così va bene, - disse il fabbro, e lo rimise in terra. - Così va bene davvero, Precossi! - esclamò mio padre, contento. E detto a rivederci al fabbro e al figliuolo, mi condusse fuori. Mentre uscivo, Precossino mi disse: - Scusami, - e mi cacciò in tasca un pacchetto di chiodi; io l'invitai a venir a vedere il carnevale da casa mia. - Tu gli hai regalato il tuo treno di strada ferrata, - mi disse mio padre per la strada; - ma se fosse stato d'oro e pieno di perle, sarebbe stato ancora un piccolo regalo per quel santo figliuolo che ha rifatto il cuore a suo padre.
Il piccolo pagliaccio
20, lunedì
Tutta la città è in ribollimento per il carnevale, che è sul finire, in ogni piazza si rizzan baracche di saltimbanchi e giostre, e noi abbiamo sotto le finestre un circo di tela, dove dà spettacolo una piccola compagnia veneziana, con cinque cavalli. Il circo è nel mezzo della piazza, e in un angolo ci son tre carrozzoni grandi, dove i saltimbanchi dormono e si travestono; tre casette con le ruote, coi loro finestrini e un caminetto ciascuna, che fuma sempre; e tra finestrino e finestrino sono stese delle fasce da bambini. C'è una donna che allatta un putto, fa da mangiare e balla sulla corda. Povera gente! Si dice saltimbanco come un'ingiuria; eppure si guadagnano il pane onestamente, divertendo tutti; e come faticano! Tutto il giorno corrono tra il circo e i carrozzoni, in maglia, con questi freddi; mangian due bocconi a scappa e fuggi, in piedi, tra una rappresentazione e l'altra, e a volte, quando hanno già il circo affollato, si leva un vento che strappa le tele e spegne i lumi, e addio spettacolo! debbon rendere i denari e lavorar tutta la sera a rimetter su la baracca. Ci hanno due ragazzi che lavorano; e mio padre riconobbe il più piccolo mentre attraversava la piazza: è il figliuolo del padrone lo stesso che vedemmo fare i giochi a cavallo l'anno passato, in un circo di piazza Vittorio Emanuele. È cresciuto, avrà otto anni, è un bel ragazzo, un bel visetto rotondo e bruno di monello, con tanti riccioli neri che gli scappan fuori dal cappello a cono. È vestito da pagliaccio, ficcato dentro a una specie di saccone con le maniche, bianco ricamato di nero, e ha le scarpette di tela. È un diavoletto. Piace a tutti. Fa di tutto. Lo vediamo ravvolto in uno scialle, la mattina presto, che porta il latte alla sua casetta di legno; poi va a prendere i cavalli alla rimessa di via Bertola; tiene in braccio il bimbo piccolo; trasporta cerchi cavalletti, sbarre, corde; pulisce i carrozzoni, accende il fuoco, e nei momenti di riposo è sempre appiccicato a sua madre. Mio padre lo guarda sempre dalla finestra, e non fa che parlar di lui e dei suoi, che han l'aria di buona gente, e di voler bene ai figliuoli. Una sera ci siamo andati, al circo; faceva freddo, non c'era quasi nessuno; ma tanto il pagliaccino si dava un gran moto per tener allegra quella po' di gente: faceva dei salti mortali, s'attaccava alla coda dei cavalli, camminava con le gambe per aria, tutto solo, e cantava, sempre sorridente, col suo visetto bello e bruno; e suo padre che aveva un vestito rosso e i calzoni bianchi, con gli stivali alti e la frusta in mano, lo guardava; ma era triste. Mio padre n'ebbe compassione, e ne parlò il dì dopo col pittore Delis, che venne a trovarci. Quella povera gente s'ammazza a lavorare e fa così cattivi affari! Quel ragazzino gli piaceva tanto! Che cosa si poteva fare per loro? Il pittore ebbe un'idea. - Scrivi un bell'articolo sulla Gazzetta, - gli disse, - tu che sai scrivere: tu racconti i miracoli del piccolo pagliaccio e io faccio il suo ritratto; la Gazzetta la leggon tutti, e almeno per una volta accorrerà gente. - E così fecero. Mio padre scrisse un articolo, bello e pieno di scherzi, che diceva tutto quello che noi vediamo dalla finestra, e metteva voglia di conoscere e di carezzare il piccolo artista; e il pittore schizzò un ritrattino somigliante e grazioso, che fu pubblicato sabato sera. Ed ecco, alla rappresentazione di domenica, una gran folla che accorre al circo. Era annunziato: Rappresentazione a beneficio del pagliaccino; del pagliaccino, com'era chiamato nella Gazzetta. Mio padre mi condusse nei primi posti. Accanto all'entrata avevano affisso la Gazzetta. Il circo era stipato; molti spettatori avevano la Gazzetta in mano, e la mostravano al pagliaccino, che rideva e correva or dall'uno or dall'altro, tutto felice. Anche il padrone era contento. Figurarsi! Nessun giornale gli aveva mai fatto tanto onore, e la cassetta dei soldi era piena. Mi padre sedette accanto a me. Tra gli spettatori trovammo delle persone di conoscenza. C'era vicino all'entrata dei cavalli, in piedi, il maestro di Ginnastica, quello che è stato con Garibaldi; e in faccia a noi, nei secondi posti, il muratorino, col suo visetto tondo, seduto accanto a quel gigante di suo padre... e appena mi vide, mi fece il muso di lepre. Un po' più in là vidi Garoffi, che contava gli spettatori, calcolando sulle dita quanto potesse aver incassato la Compagnia. C'era anche nelle seggiole dei primi posti, poco lontano da noi, il povero Robetti, quello che salvò il bimbo dall'omnibus, con le sue stampelle fra le ginocchia, stretto al fianco di suo padre, capitano d'artiglieria, che gli teneva una mano sulla spalla. La rappresentazione cominciò. Il pagliaccino fece meraviglie sul cavallo, sul trapezio e sulla corda, e ogni volta che saltava giù, tutti gli battevan le mani e molti gli tiravano i riccioli. Poi fecero gli esercizi vari altri, funamboli, giocolieri e cavallerizzi, vestiti di cenci e scintillanti d'argento. Ma quando non c'era il ragazzo, pareva che la gente si seccasse. A un certo punto vidi il maestro di ginnastica, fermo all'entrata dei cavalli, che parlò nell'orecchio del padrone del circo, e questi subito girò lo sguardo sugli spettatori, come se cercasse qualcuno. Il suo sguardo si fermò su di noi. Mio padre se ne accorse, capì che il maestro aveva detto ch'era lui l'autor dell'articolo, e per non esser ringraziato se ne scappò via, dicendomi: - Resta, Enrico; io t'aspetto fuori. - Il pagliaccino, dopo aver scambiato qualche parola col suo babbo, fece ancora un esercizio: ritto sul cavallo che galoppava, si travestì quattro volte, da pellegrino, da marinaio, da soldato, da acrobata, e ogni volta che mi passava vicino, mi guardava. Poi, quando scese, cominciò a fare il giro del circo col cappello da pagliaccio tra le mani, e tutti ci gettavan dentro soldi e confetti. Io tenni pronti due soldi; ma quando fu in faccia a me, invece di porgere il cappello, lo tirò indietro, mi guardò e passò avanti. Rimasi mortificato. Perché m'aveva fatto quello sgarbo? La rappresentazione terminò, il padrone ringraziò il pubblico, e tutta la gente s'alzò, affollandosi verso l'uscita. Io ero confuso tra la folla, e stavo già per uscire, quando mi sentii toccare una mano. Mi voltai: era il pagliaccino, col suo bel visetto bruno e i suoi riccioli neri, che mi sorrideva: aveva le mani piene di confetti. Allora capii. - Voresistu - mi disse - agradir sti confeti del pagiazzeto? - Io accennai di sì, e ne presi tre o quattro. - Alora, - soggiunse - ciapa anca un baso. - Dammene due -, risposi, e gli porsi il viso. Egli si pulì con la manica la faccia infarinata, mi pose un braccio intorno al collo, e mi stampò due baci sulle guance, dicendomi: - Tò, e portighene uno a to pare.
L'ultimo giorno di carnevale
21, martedì
Che triste scena vedemmo oggi al corso delle maschere! Finì bene; ma poteva seguire una grande disgrazia. In piazza San Carlo, tutta decorata di festoni gialli, rossi e bianchi, s'accalcava una grande moltitudine; giravan maschere d'ogni colore; passavano carri dorati e imbandierati, della forma di padiglioni di teatrini e di barche, pieni d'arlecchini e di guerrieri, di cuochi, di marinai e di pastorelle; era una confusione da non saper dove guardare; un frastuono di trombette, di corni e di piatti turchi che lacerava le orecchie; e le maschere dei carri trincavano e cantavano, apostrofando la gente a piedi e la gente alle finestre, che rispondevano a squarciagola, e si tiravano a furia arancie e confetti; e al di sopra delle carrozze e della calca, fin dove arrivava l'occhio, si vedevano sventolar bandierine, scintillar caschi, tremolare pennacchi, agitarsi testoni di cartapesta, gigantesche cuffie, tube enormi, armi stravaganti, tamburelli, crotali, berrettini rossi e bottiglie: parevan tutti pazzi. Quando la nostra carrozza entrò nella piazza, andava dinanzi a noi un carro magnifico, tirato da quattro cavalli coperti di gualdrappe ricamate d'oro, e tutto inghirlandato di rose finte, sul quale c'erano quattordici o quindici signori, mascherati da gentiluomini della corte di Francia, tutti luccicanti di seta, col parruccone bianco, un cappello piumato sotto il braccio e lo spadino, e un arruffio di nastri e di trine sul petto: bellissimi. Cantavano tutti insieme una canzonetta francese, e gettavan dolci alla gente, e la gente batteva le mani e gridava. Quando a un tratto, sulla nostra sinistra, vedemmo un uomo sollevare sopra le teste della folla una bambina di cinque o sei anni, una poverella che piangeva disperatamente, agitando le braccia, come presa dalle convulsioni. L'uomo si fece largo verso il carro dei signori, uno di questi si chinò, e quell'altro disse forte: - Prenda questa bimba, ha perduto sua madre nella folla, la tenga in braccio; la madre non può essere lontana, e la vedrà, non c'è altra maniera. - Il signore prese la bimba in braccio; tutti gli altri cessarono di cantare, la bimba urlava e si dibatteva, il signore si tolse la maschera; il carro continuò a andare lentamente. In quel mentre, come ci fu detto poi, all'estremità opposta della piazza, una povera donna mezzo impazzita rompeva la calca a gomitate e a spintoni, urlando: - Maria! Maria! Maria! Ho perduto la mia figliuola! Me l'hanno rubata! Mi hanno soffocato la mia bambina! - E da un quarto d'ora smaniava, si disperava a quel modo, andando un po' di qua e un po' di là, oppressa dalla folla, che stentava ad aprirle il passo. Il signore del carro, intanto, si teneva la bimba stretta contro i nastri e le trine del petto, girando lo sguardo per la piazza, e cercando di quietare la povera creatura, che si copriva il viso con le mani, non sapendo dove fosse, e singhiozzava da schiantarsi il cuore. Il signore era commosso, si vedeva che quelle grida gli andavano all'anima; tutti gli altri offrivano alla bimba arancie e confetti; ma quella respingeva tutto, sempre più spaventata e convulsa. - Cercate la madre! gridava il signore alla folla, - cercate la madre! - E tutti si voltavano a destra e a sinistra; ma la madre non si trovava. Finalmente, a pochi passi dall'imboccatura di via Roma, si vide una donna slanciarsi verso il carro... Ah! mai più la dimenticherò! Non pareva più una creatura umana, aveva i capelli sciolti, la faccia sformata, le vesti lacere, si slanciò avanti mettendo un rantolo che non si capì se fosse di gioia, d'angoscia o di rabbia, e avventò le mani come due artigli per afferrar la figliuola. Il carro si fermò. - Eccola qui -, disse il signore, porgendo la bimba, dopo averla baciata, e la mise tra le braccia di sua madre, che se la strinse al seno come una furia... Ma una delle due manine restò un minuto secondo tra le mani del signore, e questi strappatosi dalla destra un anello d'oro con un grosso diamante, e infilatolo con un rapido movimento in un dito della piccina: - Prendi, - le disse, - sarà la tua dote di sposa. - La madre restò lì come incantata, la folla proruppe in applausi, il signore si rimise la maschera, i suoi compagni ripresero il canto, e il carro ripartì lentamente in mezzo a una tempesta di battimani e d'evviva.
I ragazzi ciechi
23, giovedì
Il maestro è molto malato e mandarono in vece sua quello della quarta, che è stato maestro nell'Istituto dei ciechi; il più vecchio di tutti, così bianco che par che abbia in capo una parrucca di cotone, e parla in un certo modo, come se cantasse una canzone malinconica; ma bene, e sa molto. Appena entrato nella scuola, vedendo un ragazzo con un occhio bendato, s'avvicinò al banco e gli domandò che cos'aveva. - Bada agli occhi, ragazzo, - gli disse. - E allora Derossi gli domandò: - È vero, signor maestro, che è stato maestro dei ciechi? - Sì, per vari anni, - rispose. E Derossi disse a mezza voce: - Ci dica qualche cosa.
Il maestro s'andò a sedere a tavolino.
Coretti disse forte: - L'istituto dei ciechi è in via Nizza.
- Voi dite ciechi, ciechi, - disse il maestro, - così, come direste malati e poveri o che so io. Ma capite bene il significato di quella parola? Pensateci un poco. Ciechi! Non veder nulla, mai! Non distinguere il giorno dalla notte, non veder né il cielo né il sole né i propri parenti, nulla di tutto quello che s'ha intorno e che si tocca; essere immersi in una oscurità perpetua, e come sepolti nelle viscere della terra! Provate un poco a chiudere gli occhi e a pensare di dover rimanere per sempre così: subito vi prende un affanno, un terrore, vi pare che vi sarebbe impossibile di resistere, che vi mettereste a gridare, che impazzireste o morireste. Eppure... poveri ragazzi, quando s'entra per la prima volta nell'Istituto dei ciechi, durante la ricreazione, a sentirli suonar violini e flauti da tutte le parti, e parlar forte e ridere, salendo e scendendo le scale a passi lesti, e girando liberamente per i corridoi e pei dormitori, non si direbbe mai che son quegli sventurati che sono. Bisogna osservarli bene. C'è dei giovani di sedici o diciott'anni, robusti e allegri, che portano la cecità con una certa disinvoltura, con una certa baldanza quasi; ma si capisce dall'espressione risentita e fiera dei visi, che debbono aver sofferto tremendamente prima di rassegnarsi a quella sventura. Ce n'è altri, dei visi pallidi e dolci, in cui si vede una grande rassegnazione; ma triste, e si capisce che qualche volta, in segreto, debbono piangere ancora. Ah! figliuoli miei. Pensate che alcuni di essi hanno perduto la vista in pochi giorni, che altri l'han perduta dopo anni di martirio, e molte operazioni chirurgiche terribili, e che molti son nati così, nati in una notte che non ebbe mai alba per loro, entrati nel mondo come in una tomba immensa, e che non sanno come sia fatto il volto umano! Immaginate quanto debbono aver sofferto e quanto debbono soffrire quando pensano così, confusamente, alla differenza tremenda che passa fra loro e quelli che ci vedono, e domandano a sé medesimi: - Perché questa differenza se non abbiamo alcuna colpa? - Io che son stato vari anni fra loro, quando mi ricordo quella classe, tutti quegli occhi suggellati per sempre, tutte quelle pupille senza sguardo e senza vita, e poi guardo voi altri... mi pare impossibile che non siate tutti felici. Pensate: ci sono circa ventisei mila ciechi in Italia! Ventisei mila persone che non vedono luce, capite; un esercito che c'impiegherebbe quattro ore a sfilare sotto le nostre finestre!
Il maestro tacque; non si sentiva un alito nella scuola. Derossi domandò se era vero che i ciechi hanno il tatto più fino di noi.
Il maestro disse: - È vero. Tutti gli altri sensi si raffinano in loro, appunto perché, dovendo supplire fra tutti a quello della vista, sono più e meglio esercitati di quello che non siano da chi ci vede. La mattina, nei dormitori, l'uno domanda all'altro: - C'è il sole? - e chi è più lesto a vestirsi scappa subito nel cortile ad agitar le mani per aria, per sentire se c'è il tepore del sole, e corre a dar la buona notizia: - C'è il sole! - Dalla voce d'una persona si fanno un'idea della statura; noi giudichiamo l'animo d'un uomo dall'occhio, essi dalla voce; ricordano le intonazioni e gli accenti per anni. S'accorgono se in una stanza c'è più d'una persona, anche se una sola parla, e le altre restano immobili. Al tatto s'accorgono se un cucchiaio è poco o molto pulito. Le bimbe distinguono la lana tinta da quella di color naturale. Passando a due a due per le strade, riconoscono quasi tutte le botteghe all'odore, anche quelle in cui noi non sentiamo odori. Tirano la trottola, e a sentire il ronzìo che fa girando, vanno diritti a pigliarla senza sbagliare. Fanno correre il cerchio, giocano ai birilli, saltano con la funicella, fabbricano casette coi sassi, colgono le viole come se le vedessero, fanno stuoie e canestrini intrecciando paglia di vari colori, speditamente e bene; tanto hanno il tatto esercitato! Il tatto è la loro vista, è uno dei più grandi piaceri per loro quello di toccare, di stringere, d'indovinare la forma delle cose tastandole. È commovente vederli, quando li conducono al museo industriale, dove li lascian toccare quello che vogliono, veder con che festa si gettano sui corpi geometrici, sui modellini di case, sugli strumenti, con che gioia palpano, stropicciano, rivoltano fra le mani tutte le cose, per vedere come son fatte. Essi dicono vedere!
Garoffi interruppe il maestro per domandargli se era vero che i ragazzi ciechi imparano a far di conto meglio degli altri.
Il maestro rispose: - È vero. Imparano a far di conto e a leggere. Hanno dei libri fatti apposta, coi caratteri rilevati; ci passano le dita sopra, riconoscon le lettere, e dicon le parole; leggono corrente. E bisogna vedere, poveretti, come arrossiscono quando commettono uno sbaglio. E scrivono pure, senza inchiostro. Scrivono sur una carta spessa e dura con un punteruolo di metallo che fa tanti punticini incavati e aggrappati secondo un alfabeto speciale; i quali punticini riescono in rilievo sul rovescio della carta per modo che voltando il foglio e strisciando le dita su quei rilievi, essi possono leggere quello che hanno scritto, ed anche la scrittura d'altri, e così fanno delle composizioni, e si scrivono delle lettere fra loro. Nella stessa maniera scrivono i numeri e fanno i calcoli. E calcolano a mente con una facilità incredibile, non essendo divagati dalla vista delle cose, come siamo noi. E se vedeste come sono appassionati per sentir leggere, come stanno attenti, come ricordano tutto, come discutono fra loro, anche i piccoli, di cose di storia e di lingua, seduti quattro o cinque sulla stessa panca, senza voltarsi l'un verso l'altro, e conversando il primo col terzo, il secondo col quarto, ad alta voce e tutti insieme, senza perdere una sola parola, da tanto che han l'orecchio acuto e pronto! E danno più importanza di voi altri agli esami, ve lo assicuro, e s'affezionano di più ai loro maestri. Riconoscono il maestro al passo e all'odore; s'accorgono se è di buono o cattivo umore, se sta bene o male, nient'altro che dal suono d'una sua parola; vogliono che il maestro li tocchi, quando gli incoraggia e li loda, e gli palpan le mani e le braccia per esprimergli la loro gratitudine. E si voglion bene anche fra loro, sono buoni compagni. Nel tempo della ricreazione sono quasi sempre insieme quei soliti. Nella sezione delle ragazze, per esempio, formano tanti gruppi, secondo lo strumento che suonano, le violiniste, le pianiste, le suonatrici di flauto, e non si scompagnano mai. Quando hanno posto affetto a uno, è difficile che se ne stacchino. Trovano un gran conforto nell'amicizia. Si giudicano rettamente, fra loro. Hanno un concetto chiaro e profondo del bene e del male. Nessuno s'esalta come loro al racconto d'un'azione generosa o d'un fatto grande.
Votini domandò se suonano bene.
- Amano la musica ardentemente, - rispose il maestro. - È la loro gioia, è la loro vita la musica. Dei ciechi bambini, appena entrati nell'Istituto, son capaci di star tre ore immobili in piedi a sentir sonare. Imparano facilmente, suonano con passione. Quando il maestro dice a uno che non ha disposizione alla musica, quegli ne prova un grande dolore, ma si mette a studiare disperatamente. Ah! se udiste la musica là dentro se li vedeste quando suonano colla fronte alta col sorriso sulle labbra, accesi nel viso, tremanti dalla commozione, estatici quasi ad ascoltar quell'armonia che rispandono nell'oscurità infinita che li circonda, come sentireste che è una consolazione divina la musica! E giubilano, brillano di felicità quando un maestro dice loro: - Tu diventerai un artista. - Per essi il primo nella musica, quello che riesce meglio di tutti al pianoforte o al violino, è come un re; lo amano, lo venerano. Se nasce un litigio fra due di loro, vanno da lui; se due amici si guastano, è lui che li riconcilia. I più piccini, a cui egli insegna a sonare, lo tengono come un padre. Prima d'andare a dormire, vanno tutti a dargli la buona notte. E parlano continuamente di musica. Sono già a letto, la sera tardi, quasi tutti stanchi dallo studio e dal lavoro, e mezzo insonniti; e ancora discorrono a bassa voce di opere, di maestri, di strumenti, d'orchestre. Ed è un castigo così grande per essi l'esser privati della lettura o della lezione di musica, ne soffrono tanto dolore, che non s'ha quasi mai il coraggio di castigarli in quel modo. Quello che la luce è per i nostri occhi, la musica è per il loro cuore.
Derossi domandò se non si poteva andarli a vedere.
- Si può, - rispose il maestro; - ma voi, ragazzi, non ci dovete andare per ora. Ci andrete più tardi, quando sarete in grado di capire tutta la grandezza di quella sventura, e di sentire tutta la pietà che essa merita. È uno spettacolo triste, figliuoli. Voi vedete là qualche volta dei ragazzi seduti di contro a una finestra spalancata, a godere l'aria fresca, col viso immobile, che par che guardino la grande pianura verde e le belle montagne azzurre che vedete voi...; e a pensare che non vedon nulla, che non vedranno mai nulla di tutta quella immensa bellezza, vi si stringe l'anima come se fossero diventati ciechi in quel punto. E ancora i ciechi nati, che non avendo mai visto il mondo, non rimpiangono nulla, perché hanno l'immagine d'alcuna cosa, fanno meno compassione. Ma c'è dei ragazzi ciechi da pochi mesi, che si ricordano ancora di tutto, che comprendono bene tutto quello che han perduto, e questi hanno di più il dolore di sentirsi oscurare nella mente, un poco ogni giorno, le immagini più care, di sentirsi come morire nella memoria le persone più amate. Uno di questi ragazzi mi diceva un giorno con una tristezza inesprimibile: - Vorrei ancora aver la vista d'una volta, appena un momento, per rivedere il viso della mamma, che non lo ricordo più - E quando la mamma va a trovarli, le mettono le mani sul viso, la toccano bene dalla fronte al mento e alle orecchie, per sentir com'è fatta, e quasi non si persuadono di non poterla vedere, e la chiamano per nome molte volte come per pregarla che si lasci, che si faccia vedere una volta. Quanti escono di là piangendo, anche uomini di cuor duro! E quando s'esce, ci pare un'eccezione la nostra, un privilegio quasi non meritato di veder la gente, le case, il cielo. Oh! non c'è nessuno di voi, ne son certo, che uscendo di là non sarebbe disposto a privarsi d'un po' della propria vista per darne un barlume almeno a tutti quei poveri fanciulli, per i quali il sole non ha luce e la madre non ha viso!
Il maestro malato
25, sabato
Ieri sera, uscendo dalla scuola, andai a visitare il mio maestro malato. Dal troppo lavorare s'è ammalato. Cinque ore di lezione al giorno, poi un'ora di ginnastica, poi altre due ore di scuola serale, che vuol dire dormir poco, mangiare di scappata e sfiatarsi dalla mattina alla sera: s'è rovinata la salute. Così dice mia madre. Mia madre m'aspettò sotto il portone, io salii solo, e incontrai per le scale il maestro della barbaccia nera, - Coatti, - quello che spaventa tutti e non punisce nessuno, egli mi guardò con gli occhi larghi e fece la voce del leone, per celia, ma senza ridere. Io ridevo ancora tirando il campanello, al quarto piano; ma rimasi male subito, quando la serva mi fece entrare in una povera camera, mezz'oscura, dove era coricato il mio maestro. Era in un piccolo letto di ferro, aveva la barba lunga. Si mise una mano alla fronte, per vederci meglio, ed esclamò con la sua voce affettuosa: - Oh Enrico! - Io m'avvicinai al letto, egli mi pose una mano sulla spalla, e disse: - Bravo, figliuolo. Hai fatto bene a venir a trovare il tuo povero maestro. Son ridotto a mal partito, come vedi, caro il mio Enrico. E come va la scuola? come vanno i compagni? Tutto bene, eh? anche senza di me. Ne fate di meno benissimo, è vero? del vostro vecchio maestro. - Io volevo dir di no; egli m'interruppe: - Via, via, lo so che non mi volete male. - E mise un sospiro. Io guardavo certe fotografie attaccate alla parete. - Vedi? - egli mi disse. - Son tutti ragazzi che m'han dato i loro ritratti, da più di vent'anni in qua. Dei buoni ragazzi, son le mie memorie quelle. Quando morirò, l'ultima occhiata la darò lì, a tutti quei monelli, fra cui ho passata la vita. Mi darai il ritratto tu pure, non è vero, quando avrai finito le elementari? Poi prese un'arancia sul tavolino da notte e me la mise in mano. - Non ho altro da darti, - disse, - è un regalo da malato. - Io lo guardavo e avevo il cuor triste, non so perché. - Bada eh... - riprese a dire - io spero di cavarmela; ma se non guarissi più... vedi di fortificarti nell'aritmetica, che è il tuo debole; fa' uno sforzo! non si tratta che d'un primo sforzo perché, alle volte, non è mancanza di attitudine, è un preconcetto, è come chi dicesse una fissazione. - Ma intanto respirava forte, si vedeva che soffriva. - Ho una febbraccia, - sospirò, - son mezz'andato. Mi raccomando, dunque. Battere sull'aritmetica, sui problemi. Non riesce alla prima? Si riposa un po' e poi si ritenta. Non riesce ancora? Un altro po' di riposo e poi daccapo. E avanti, ma tranquillamente, senza affannarsi, senza montarsi la testa. Va'. Saluta la mamma. E non rifar più le scale, ci rivedremo alla scuola. E se non ci rivedremo, ricordati qualche volta del tuo maestro di terza, che t'ha voluto bene. - A quelle parole mi venne da piangere. - China la testa, - egli mi disse. Io chinai la testa sul cappezzale; egli mi baciò sui capelli. Poi mi disse: - Va', - e voltò il viso verso il muro. E io volai giù per le scale perché avevo bisogno d'abbracciar mia madre.
La strada
25, sabato
Io t'osservavo dalla finestra, questa sera, quando tornavi da casa del maestro, tu hai urtato una donna. Bada meglio a come cammini per la strada. Anche lì ci sono dei doveri. Se misuri i tuoi passi e i tuoi gesti in una casa privata, perché non dovresti far lo stesso nella strada, che è la casa di tutti? Ricordati, Enrico. Tutte le volte che incontri un vecchio cadente, un povero, un donna con un bimbo in braccio, uno storpio con le stampelle, un uomo curvo sotto un carico, una famiglia vestita a lutto, cedile il passo con rispetto: noi dobbiamo rispettare la vecchiaia, la miseria, l'amor materno, l'infermità, la fatica, la morte.
Ogni volta che vedi una persona a cui arriva addosso una carrozza, tiralo via, se è un fanciullo, avvertilo, se è un uomo; domanda sempre che cos'ha al bambino che piange, raccogli il bastone al vecchio che l'ha lasciato cadere. Se due fanciulli rissano, dividili, se son due uomini allontànati, non assistere allo spettacolo della violenza brutale, che offende e indurisce il cuore. E quando passa un uomo legato fra due guardie, non aggiungere la tua alla curiosità crudele della folla: egli può essere un innocente. Cessa di parlar col tuo compagno e di sorridere quando incontri una lettiga d'ospedale, che porta forse un moribondo, o un convoglio mortuario, ché ne potrebbe uscir uno domani di casa tua. Guarda con riverenza tutti quei ragazzi degli istituti che passano a due a due: i cechi, i muti, i rachitici, gli orfani, i fanciulli abbandonati: pensa che è la sventura e la carità umana che passa. Fingi sempre di non vedere chi ha una deformità ripugnante o ridicola. Spegni sempre ogni fiammifero acceso che tu trovi sui tuoi passi, che potrebbe costar la vita a qualcuno. Rispondi sempre con gentilezza al passeggiero che ti domanda la via. Non guardar nessuno ridendo, non correre senza bisogno, non gridare. Rispetta la strada. L'educazione d'un popolo si giudica innanzi tutto dal contegno ch'egli tien per la strada. Dove troverai la villania per le strade, troverai la villania nelle case. E studiale, le strade, studia la città dove vivi; se domani tu ne fossi sbalestrato lontano, saresti lieto d'averla presente bene alla memoria, di poterla ripercorrere tutta col pensiero, - la tua città, la tua piccola patria, - quella che è stata per tanti anni il tuo mondo, - dove hai fatto i primi passi al fianco di tua madre, provato le prime commozioni, aperto la mente alle prime idee, trovato i primi amici. Essa è stata una madre per te: t'ha istruito, dilettato, protetto. Studiala nelle sue strade e nella sua gente, - ed amala, - e quando la senti ingiuriare, difendila.
TUO PADRE
MARZO
Le scuole serali
2, giovedì
Mio padre mi condusse ieri a vedere le scuole serali della nostra sezione Baretti, che eran già tutte illuminate, e gli operai cominciavano ad entrare. Arrivando, trovammo il Direttore e i maestri in gran collera perché poco prima era stato rotto da una sassata il vetro d'una finestra: il bidello, saltato fuori, aveva acciuffato un ragazzo che passava; ma allora s'era presentato Stardi, che sta di casa in faccia alla scuola, e aveva detto: - Non è costui, ho visto coi miei occhi: è Franti che ha tirato, e m'ha detto: - Guai se tu parli! - ma io non ho paura. E il Direttore disse che Franti sarà scacciato per sempre. Intanto badava agli operai che entravano a due a tre insieme, e n'eran già entrati più di duecento. Non avevo mai visto come è bella una scuola serale! C'eran dei ragazzi da dodici anni in su, e degli uomini con la barba, che tornavano dal lavoro, portando libri e quaderni; c'eran dei falegnami, dei fochisti con la faccia nera, dei muratori con le mani bianche di calcina, dei garzoni fornai coi capelli infarinati e si sentiva odor di vernice, di coiami, di pece, d'olio, odori di tutti i mestieri. Entrò anche una squadra d'operai d'artiglieria vestiti da soldati, condotti da un caporale. S'infilavano tutti lesti nei banchi, levavan l'assicella di sotto, dove noi mettiamo i piedi, e subito chinavan la testa sul lavoro. Alcuni andavan dai maestri a chieder spiegazioni coi quaderni aperti. Vidi quel maestro giovane e ben vestito - "l'avvocatino" - che aveva tre o quattro operai intorno al tavolino, e faceva delle correzioni con la penna; e anche quello zoppo, il quale rideva con un tintore che gli aveva portato un quaderno tutto conciato di tintura rossa e turchina. C'era pure il mio maestro, guarito, che domani tornerà alla scuola. Le porte delle classi erano aperte. Rimasi meravigliato, quando cominciarono le lezioni, a vedere come tutti stavano attenti, con gli occhi fissi. Eppure la più parte, diceva il Direttore, per non arrivar troppo tardi, non eran nemmeno passati a casa a mangiare un boccone di cena, e avevano fame. I piccoli, però, dopo mezz'ora di scuola cascavan dal sonno, qualcuno anche s'addormentava col capo sul banco; e il maestro lo svegliava, stuzzicandogli un orecchio con la penna. Ma i grandi no, stavano svegli, con la bocca aperta, a sentir la lezione, senza batter palpebra; e mi faceva specie veder nei nostri banchi tutti quei barboni. Salimmo anche al piano di sopra, e io corsi alla porta della mia classe, e vidi al mio posto un uomo con due grandi baffi e una mano fasciata, che forse s'era fatto male attorno a una macchina; eppure s'ingegnava di scrivere, adagio adagio. Ma quel che mi piacque di più fu di vedere al posto del muratorino, proprio nello stesso banco e nello stesso cantuccio, suo padre, quel muratore grande come un gigante, che se ne stava là stretto aggomitolato, col mento sui pugni e gli occhi sul libro, attento che non rifiatava. E non fu mica un caso, è lui proprio che la prima sera che venne alla scuola disse al Direttore: - Signor Direttore, mi faccia il piacere di mettermi al posto del mio muso di lepre; - perché sempre chiama il suo figliuolo a quel modo... Mio padre mi trattenne là fino alla fine, e vedemmo nella strada molte donne coi bambini in collo che aspettavano i mariti, e all'uscita facevano il cambio: gli operai pigliavano in braccio i bambini, le donne si facevan dare i libri e i quaderni, e andavano a casa così. La strada fu per qualche momento piena di gente e di rumore. Poi tutto tacque e non vedemmo più che la figura lunga e stanca del Direttore che s'allontanava.
La lotta
5, domenica
Era da aspettarsela: Franti, cacciato dal Direttore volle vendicarsi, e aspettò Stardi a una cantonata, dopo l'uscita della scuola, quand'egli passa con sua sorella, che va a prendere ogni giorno a un istituto di via Dora Grossa. Mia sorella Silvia, uscendo dalla sua sezione, vide tutto e tornò a casa piena di spavento. Ecco quello che accadde. Franti, col suo berretto di tela cerata schiacciato sur un orecchio, corse in punta di piedi dietro di Stardi, e per provocarlo, diede una strappata alla treccia di sua sorella, una strappata così forte che quasi la gittò in terra riversa. La ragazzina mise un grido, suo fratello si voltò. Franti, che è molto più alto e più forte di Stardi pensava: - O non rifiaterà, o gli darò le croste. - Ma Stardi non stette a pensare, e così piccolo e tozzo com'è, si lanciò d'un salto su quel grandiglione, e cominciò a mescergli fior di pugni. Non ce ne poteva però, e ne toccava più di quel che ne desse. Nella strada non c'eran che ragazze, nessuno poteva separarli. Franti lo buttò in terra; ma quegli su subito, e addosso daccapo, e Franti picchia come sur un uscio: in un momento gli strappò mezz'orecchia, gli ammaccò un occhio, gli fece uscir sangue dal naso. Ma Stardi duro; ruggiva: - M'ammazzerai, ma te la fò pagare. - E Franti giù, calci e ceffoni, e Stardi sotto, a capate e a pedate. Una donna gridò dalla finestra: - Bravo il piccolo! - Altre dicevano: - È un ragazzo che difende sua sorella. - Coraggio! Dagliele sode. - E gridavano a Franti: - Prepotente, vigliaccone. - Ma Franti pure s'era inferocito, fece gambetta, Stardi cadde, ed egli addosso: - Arrenditi! - No! - Arrenditi! - No! - e d'un guizzo Stardi si rimise in piedi, avvinghiò Franti alla vita e con uno sforzo furioso lo stramazzò sul selciato e gli cascò con un ginocchio sul petto. - Ah! l'infame che ha il coltello! - gridò un uomo accorrendo per disarmare Franti. Ma già Stardi, fuori di sé, gli aveva afferrato il braccio con due mani e dato al pugno un tal morso, che il coltello gli era cascato, e la mano gli sanguinava. Altri intanto erano accorsi, li divisero, li rialzarono; Franti se la dette a gambe, malconcio; e Stardi rimase là, graffiato in viso, con l'occhio pesto, - ma vincitore, - accanto alla sorella che piangeva, mentre alcune ragazze raccoglievano i libri e i quaderni sparpagliati per la strada. - Bravo il piccolo, - dicevano intorno, - che ha difeso sua sorella! - Ma Stardi, che si dava più pensiero del suo zaino che della sua vittoria, si mise subito a esaminare uno per uno i libri e i quaderni, se non c'era nulla di mancante o di guasto, li ripulì con la manica, guardò il pennino, rimise a posto ogni cosa, e poi, tranquillo e serio come sempre, disse a sua sorella: - Andiamo presto, che ci ho un problema di quattro operazioni.
I parenti dei ragazzi
Lunedì, 6
Questa mattina c'era il grosso Stardi padre a aspettare il figliuolo, per paura che incontrasse Franti un'altra volta, ma Franti dicono che non verrà più perché lo metteranno all'Ergastolo. C'eran molti parenti questa mattina. C'era fra gli altri il rivenditore di legna, il padre di Coretti, tutto il ritratto del suo figliuolo, svelto, allegro, coi suoi baffetti aguzzi e un nastrino di due colori all'occhiello della giacchetta. Io li conosco già quasi tutti i parenti dei ragazzi, a vederli sempre lì. C'è una nonna curva, con la cuffia bianca, che piova o nevichi o tempesti, viene quattro volte al giorno a accompagnare e a prendere un suo nipotino di prima superiore, e gli leva il cappotto, glie lo infila, gli accomoda la cravatta, lo spolvera, lo riliscia, gli guarda i quaderni: si capisce che non ha altro pensiero, che non vede nulla di più bello al mondo. Anche viene spesso il capitano d'artiglieria, padre di Robetti, quello delle stampelle, che salvò un bimbo dall'omnibus; e siccome tutti i compagni del suo figliuolo, passandogli davanti, gli fanno una carezza, egli a tutti rende la carezza o il saluto, non c'è caso che ne scordi uno, su tutti si china, e quanto più son poveri e vestiti male, e più pare contento, e li ringrazia. Alle volte, pure, si vedono delle cose tristi: un signore che non veniva più da un mese perché gli era morto un figliuolo, e mandava a prender l'altro dalla fantesca, tornando ieri per la prima volta, e rivedendo la classe, i compagni del suo piccino morto, andò in un canto e ruppe in singhiozzi con tutt'e due le mani sul viso, e il Direttore lo pigliò per un braccio e lo condusse nel suo ufficio. Ci son dei padri e delle madri che conoscono per nome tutti i compagni dei loro figliuoli. Ci son delle ragazze della scuola vicina, degli scolari del ginnasio che vengono a aspettare i fratelli. C'è un signore vecchio, che era colonnello, e che quando un ragazzo lascia cascare un quaderno o una penna in mezzo alla strada, glie la raccoglie. Si vedono anche delle signore ben vestite che discorrono delle cose della scuola con le altre, che hanno il fazzoletto in capo e la cesta al braccio, e dicono: - Ah! è stato terribile questa volta il problema! - C'era una lezione di grammatica che non finiva più questa mattina! - E quando c'è un malato in una classe, tutte lo sanno; quando un malato sta meglio, tutte si rallegrano. E appunto questa mattina c'erano otto o dieci, signore e operai, che stavano attorno alla madre di Crossi, l'erbivendola, a domandarle notizie d'un povero bimbo della classe di mio fratello, che sta di casa nel suo cortile, ed è in pericolo di vita. Pare che li faccia tutti eguali e tutti amici la scuola.
Il numero 78
8, mercoledì
Vidi una scena commovente ieri sera. Eran vari giorni che l'erbivendola, ogni volta che passava accanto a Derossi, lo guardava, lo guardava con una espressione di grande affetto; perché Derossi, dopo che ha fatto quella scoperta del calamaio e del prigioniero numero 78, ha preso a benvolere il suo figliuolo Crossi, quello dei capelli rossi e del braccio morto, e l'aiuta a fare il lavoro in iscuola, gli suggerisce le risposte, gli dà carta pennini, lapis: insomma, gli fa come a un fratello, quasi per compensarlo di quella disgrazia di suo padre, che gli è toccata, e ch'egli non sa. Eran vari giorni che l'erbivendola guardava Derossi, e pareva gli volesse lasciar gli occhi addosso, perché è una buona donna, che vive tutta per il suo ragazzo; e Derossi che glie l'aiuta e gli fa far bella figura, Derossi che è un signore e il primo della scuola, le pare un re, un santo a lei. Lo guardava sempre e pareva che volesse dirgli qualcosa, e si vergognasse. Ma ieri mattina, finalmente, si fece coraggio e lo fermò davanti a un portone e gli disse: - Scusi tanto lei, signorino, che è così buono, che vuol tanto bene al mio figlio, mi faccia la grazia d'accettare questo piccolo ricordo d'una povera mamma; - e tirò fuori dalla cesta degli erbaggi una scatoletta di cartoncino bianco e dorato. Derossi arrossì tutto, e rifiutò, dicendo risolutamente: - La dia al suo figliuolo; io non accetto nulla. - La donna rimase mortificata e domandò scusa, balbettando: - Non pensavo mica d'offenderlo... non sono che caramelle. - Ma Derossi ridisse di no, scrollando il capo. - E allora, timidamente, essa levò dalla cesta un mazzetto di ravanelli, e disse: - Accetti almeno questi che son freschi, da portarli alla sua mamma. - Derossi sorrise, e rispose: - No, grazie, non voglio nulla; farò sempre quello che posso per Crossi, ma non posso accettar nulla; grazie lo stesso. - Ma non è mica offeso? - domandò la donna, ansiosamente. Derossi le disse no, no, sorridendo, e se ne andò, mentre essa esclamava tutta contenta: - Oh che buon ragazzo! Non ho mai visto un bravo e bel ragazzo così! - E pareva finita. Ma eccoti la sera alle quattro, che invece della mamma di Crossi, s'avvicina il padre, con quel viso smorto e malinconico. Fermò Derossi, e dal modo come lo guardò capii subito ch'egli sospettava che Derossi conoscesse il suo segreto; lo guardò fisso e gli disse con voce triste e affettuosa: - Lei vuol bene al mio figliuolo... Perché gli vuole così bene? - Derossi si fece color di fuoco nel viso. Egli avrebbe voluto rispondere: - Gli voglio bene perché è stato disgraziato; perché anche voi, suo padre, siete stato più disgraziato che colpevole, e avete espiato nobilmente il vostro delitto, e siete un uomo di cuore. - Ma gli mancò l'animo di dirlo perché, in fondo, egli provava ancora timore, e quasi ribrezzo davanti a quell'uomo che aveva sparso il sangue d'un altro, ed era stato sei anni in prigione. Ma quegli indovinò tutto, e abbassando la voce, disse nell'orecchio a Derossi, quasi tremando: - Vuoi bene al figliuolo; ma non vuoi mica male... non disprezzi mica il padre, non è vero? - Ah no! no! Tutto al contrario! - esclamò Derossi Con uno slancio dell'anima. E allora l'uomo fece un atto impetuoso come per mettergli un braccio intorno al collo; ma non osò, e invece gli prese con due dita uno dei riccioli biondi, lo allungò e lo lasciò andare; poi si mise la mano sulla bocca e si baciò la palma guardando Derossi con gli occhi umidi, come per dirgli che quel bacio era per lui. Poi prese il figliuolo per mano e se n'andò a passi lesti.
Un piccolo morto
13, lunedì
Il bimbo che sta nel cortile dell'erbivendola, quello della prima superiore, compagno di mio fratello, è morto. La maestra Delcati venne sabato sera, tutta afflitta, a dar la notizia al maestro; e subito Garrone e Coretti si offersero di aiutare a portar la cassa. Era un bravo ragazzino, aveva guadagnato la medaglia la settimana scorsa; voleva bene a mio fratello, e gli aveva regalato un salvadanaio rotto, mia madre lo carezzava sempre, quando lo incontrava. Portava un berretto con due strisce di panno rosso. Suo padre è facchino alla strada ferrata. Ieri sera, domenica, alle quattro e mezzo siano andati a casa sua, per far l'accompagnamento alla chiesa. Stanno al pian terreno. Nel cortile c'eran già molti ragazzi della prima superiore, con le loro madri, e con le candele; cinque o sei maestre, alcuni vicini. La maestra della penna rossa e la Delcati erano entrate dietro, e le vedevamo da una finestra aperta, che piangevano: si sentiva la mamma del bimbo che singhiozzava forte. Due signore, madri di due compagni di scuola del morto, avevano portato due ghirlande di fiori. Alle cinque in punto ci mettemmo in cammino. Andava innanzi un ragazzo che portava la croce, poi un prete, poi la cassa, una cassa piccola piccola, povero bimbo! coperta d'un panno nero, e c'erano strette intorno le ghirlande di fiori delle due signore. Al panno nero, da una parte, ci avevano attaccato la medaglia, e tre menzioni onorevoli, che il ragazzino s'era guadagnate lungo l'anno. Portavan la cassa Garrone, Coretti e due ragazzi del cortile. Dietro la cassa veniva prima la Delcati, che piangeva come se il morticino fosse suo; dietro di lei le altre maestre; e dietro alle maestre, i ragazzi, alcuni fra i quali molto piccoli, che avevan dei mazzetti di viole in una mano, e guardavano il feretro, stupiti, dando l'altra mano alle madri, che portavan le candele per loro. Sentii uno che diceva: - E adesso non verrà più alla scuola? - Quando la cassa uscì dal cortile, si sentì un grido disperato dalla finestra: era la mamma del bimbo, ma subito la fecero rientrar nelle stanze. Arrivati nella strada, incontrammo i ragazzi d'un collegio, che passavano in doppia fila, e visto il feretro con la medaglia e le maestre, si levaron tutti il berretto. Povero piccino, egli se n'andò a dormire per sempre con la sua medaglia. Non lo vedremo mai più il suo berrettino rosso. Stava bene; in quattro giorni morì. L'ultimo si sforzò ancora di levarsi per fare il suo lavorino di nomenclatura, e volle tener la sua medaglia sul letto, per paura che glie la pigliassero. Nessuno te la piglierà più, povero ragazzo! Addio, addio. Ci ricorderemo sempre di te alla Sezione Baretti. Dormi in pace, bambino.
La vigilia del 14 marzo
Oggi è stata una giornata più allegra di ieri. Tredici marzo! Vigilia della distribuzione dei premi al teatro Vittorio Emanuele, la festa grande e bella di tutti gli anni. Ma questa volta non sono più presi a caso i ragazzi che debbono andar sul palcoscenico a presentar gli attestati dei premi ai signori che li distribuiscono. Il Direttore venne questa mattina al finis, e disse: - Ragazzi, una bella notizia. - Poi chiamò: - Coraci! - il calabrese. Il calabrese s'alzò. - Vuoi essere di quelli che portano gli attestati dei premi alle Autorità, domani al teatro? - Il calabrese rispose di sì. - Sta bene, - disse il Direttore; - così ci sarà anche un rappresentante della Calabria. E sarà una bella cosa. Il municipio, quest'anno, ha voluto che i dieci o dodici ragazzi che porgono i premi siano ragazzi di tutte le parti d'Italia, presi nelle varie sezioni delle scuole pubbliche. Abbiamo venti sezioni con cinque succursali: settemila alunni: in un numero così grande non si stentò a trovare un ragazzo per ciascuna regione italiana. Si trovarono nella sezione Torquato Tasso due rappresentanti delle isole: un sardo e un siciliano, la scuola Boncompagni diede un piccolo fiorentino, figliuolo d'uno scultore in legno; c'era un romano, nativo di Roma, nella sezione Tommaseo, veneti, lombardi, romagnoli se ne trovarono parecchi; un napoletano ce lo dà la sezione Monviso, figliuolo d'un ufficiale; noi diamo un genovese e un calabrese, te, Coraci. Col piemontese, saranno dodici. È bello, non vi pare? Saranno i vostri fratelli di tutte le parti d'Italia che vi daranno i premi. Badate: compariranno sul palcoscenico tutti e dodici insieme. Accoglieteli con un grande applauso. Sono ragazzi; ma rappresentano il paese come se fossero uomini: una piccola bandiera tricolore è simbolo dell'Italia altrettanto che una grande bandiera, non è vero? Applauditeli calorosamente, dunque. Fate vedere che anche i vostri piccoli cuori s'accendono, che anche le vostre anime di dieci anni s'esaltano dinanzi alla santa immagine della patria. - Ciò detto, se n'andò, e il maestro disse sorridendo: - Dunque, Coraci, tu sei il deputato della Calabria. - E allora tutti batterono le mani, ridendo, e quando fummo nella strada, circondarono Coraci, lo presero per le gambe, lo levaron su, e cominciarono a portarlo in trionfo, gridando: - Viva il deputato della Calabria! - così, per chiasso, s'intende, ma non mica per ischerno, tutt'altro, anzi per fargli festa, di cuore, ché è un ragazzo che piace a tutti; ed egli sorrideva. E lo portaron così fino alla cantonata dove s'imbatterono in un signore con la barba nera, che si mise a ridere. Il calabrese disse: - È mio padre. - E allora i ragazzi gli misero il figliuolo tra le braccia e scapparono da tutte le parti.
La distribuzione dei premi
14, marzo
Verso le due il teatro grandissimo era affollato; platea, galleria, palchetti, palcoscenico, tutto pieno gremito, migliaia di visi, ragazzi, signore, maestri, operai, donne del popolo, bambini era un agitarsi di teste e di mani, un tremolio di penne, di nastri e di riccioli, un mormorio fitto e festoso, che metteva allegrezza. Il teatro era tutto addobbato a festoni di panno rosso, bianco e verde. Nella platea avevan fatto due scalette: una a destra, per la quale i premiati dovevan salire sul palcoscenico; l'altra a sinistra, per cui dovevan discendere, dopo aver ricevuto il premio. Sul davanti del palco c'era una fila di seggioloni rossi, e dalla spalliera di quel di mezzo pendevano due coroncine d'alloro; in fondo al palco, un trofeo di bandiere; da una parte un tavolino verde, con su tutti gli attestati di premio legati coi nastrini tricolori. La banda musicale stava in platea, sotto il palco; i maestri e le maestre riempivano tutta una metà della prima galleria, che era stata riservata a loro; i banchi e le corsie della platea erano stipati di centinaia di ragazzi, che dovevan cantare, e avevan la musica scritta tra le mani. In fondo e tutto intorno si vedevano andare e venire maestri e maestre che mettevano in fila i premiati, e c'era pieno di parenti che davan loro l'ultima ravviata ai capelli e l'ultimo tocco alle cravattine.
Appena entrato coi miei nel palchetto, vidi in un palchetto di fronte la maestrina della penna rossa, che rideva, con le sue belle pozzette nelle guancie, e con lei la maestra di mio fratello, e la "monachina" tutta vestita di nero, e la mia buona maestra di prima superiore; ma così pallida, poveretta e tossiva così forte, che si sentiva da una parte all'altra del teatro. In platea trovai subito quel caro faccione di Garrone e il piccolo capo biondo di Nelli, che stava stretto contro la sua spalla. Un po' più in là vidi Garoffi, col suo naso a becco di civetta, che si dava un gran moto per raccogliere gli elenchi stampati dei premiandi, e n'aveva già un grosso fascio, per farne qualche suo traffico... che sapremo domani. Vicino alla porta c'era il venditor di legna con sua moglie, vestiti a festa, insieme al loro ragazzo, che ha un terzo premio di seconda: rimasi stupito a non vedergli più il berretto di pel di gatto e la maglia color cioccolata: questa volta era vestito come un signorino. In una galleria vidi per un momento Votini, con un gran colletto di trina; poi disparve. C'era in un palchetto del proscenio, pieno di gente, il capitano d'artiglieria, il padre di Robetti, quello delle stampelle, che salvò un bambino dall'omnibus.
Allo scoccar delle due la banda sonò, e salirono nello stesso tempo per la scaletta di destra il sindaco, il prefetto, l'assessore, il provveditore, e molti altri signori, tutti vestiti di nero, che s'andarono a sedere sui seggioloni rossi, sul davanti del palcoscenico. La banda cessò di suonare. S'avanzò il Direttore delle scuole di canto con una bacchetta in mano. A un suo cenno, tutti i ragazzi della platea s'alzarono in piedi; a un altro cenno, cominciarono a cantare. Erano settecento che cantavano una canzone bellissima, settecento voci di ragazzi che cantano insieme, com'è bello! Tutti ascoltavano, immobili: era un canto dolce, limpido, lento, che pareva un canto di chiesa. Quando tacquero, tutti applaudirono: poi tutti zitti. La distribuzione dei premi stava per cominciare. Già s'era fatto innanzi sul palco il mio piccolo maestro di seconda, col suo capo rosso e i suoi occhi vispi, che doveva leggere i nomi dei premiati. S'aspettava che entrassero i dodici ragazzi per porgere gli attestati. I giornali l'avevan già detto che sarebbero stati ragazzi di tutte le provincie d'Italia. Tutti lo sapevano e li aspettavano, guardando curiosamente dalla parte donde dovevano entrare, anche il sindaco, e gli altri signori, e il teatro intero taceva...
Tutt'a un tratto arrivarono di corsa fin sul proscenio, e rimasero schierati lì, tutti e dodici, sorridenti. Tutto il teatro, tremila persone, saltaron su, d'un colpo, prorompendo in un applauso che parve uno scoppio di tuono. I ragazzi restarono un momento come sconcertati. - Ecco l'Italia! - disse una voce sul palco. Riconobbi subito Coraci, il calabrese, vestito di nero, come sempre. Un signore del municipio, ch'era con noi, e li conosceva tutti, li indicava a mia madre: - Quel piccolo biondo è il rappresentante di Venezia. Il romano è quello alto e ricciuto. - Ce n'eran due o tre vestiti da signori; gli altri eran figliuoli d'operai, ma tutti messi bene e puliti. Il fiorentino, ch'era il più piccolo, aveva una sciarpa azzurra intorno alla vita. Passarono tutti davanti al sindaco, che li baciò in fronte uno per uno, mentre un signore accanto a lui gli diceva piano e sorridendo i nomi delle città: - Firenze, Napoli, Bologna, Palermo... - e a ognuno che passava, tutto il teatro batteva le mani. Poi corsero tutti al tavolino verde a pigliar gli attestati, il maestro cominciò a leggere l'elenco, dicendo le sezioni, le classi e i nomi, e i premiandi principiarono a salire e a sfilare.
Erano appena saliti i primi, quando si sentì di dietro alle scene una musica leggiera leggiera di violini, che non cessò più per tutta la durata dello sfilamento, un'aria gentile e sempre eguale, che pareva un mormorìo di molte voci sommesse, le voci di tutte le madri e di tutti i maestri e le maestre, che tutti insieme dessero dei consigli e pregassero e facessero dei rimproveri amorevoli. E intanto i premiati passavano l'un dopo l'altro davanti a quei signori seduti, che porgevano gli attestati, e a ciascuno dicevano una parola o facevano una carezza. Dalla platea e dalle gallerie i ragazzi applaudivano ogni volta che passava uno molto piccolo, o uno che dai vestiti paresse povero, e anche quelli che avevano delle gran capigliature ricciolute o eran vestiti di rosso o di bianco. Ne passavano di quelli di prima superiore che arrivati là, si confondevano e non sapevano più dove voltarsi, e tutto il teatro rideva. Ne passò uno alto tre palmi, con un gran nodo di nastro rosa sulla schiena, che a mala pena camminava, e incespicò nel tappeto, cadde, il Prefetto lo rimise in piedi, e tutti risero e batteron le mani. Un altro ruzzolò giù per la scaletta, ridiscendendo in platea; si sentiron delle grida; ma non s'era fatto male. Ne passaron d'ogni sorta, dei visi di birichini, dei visi di spaventati, di quelli rossi in viso come ciliegie, dei piccini buffi, che ridevano in faccia a tutti quanti, e appena ridiscesi in platea erano acchiappati dai babbi e dalle mamme che se li portavano via. Quando venne la volta della nostra sezione, allora sì che mi divertii! Passarono molti che conoscevo. Passò Coretti, vestito di nuovo da capo a piedi, col suo bel sorriso allegro, che mostrava tutti i denti bianchi: eppure chi sa quanti miriagrammi di legna aveva già portati la mattina! Il sindaco, nel dargli l'attestato, gli domandò che cos'era un segno rosso che aveva sulla fronte, e intanto gli teneva una mano sopra una spalla: io cercai in platea suo padre e sua madre, e vidi che ridevano, coprendosi la bocca con una mano. Poi passò Derossi, tutto vestito di turchino, coi bottoni luccicanti, con tutti quei riccioli d'oro, svelto, disinvolto, con la fronte alta, così bello, così simpatico, che gli avrei mandato un bacio, e tutti quei signori gli vollero parlare e stringer le mani. Poi il maestro gridò: - Giulio Robetti! - e si vide venire innanzi il figliuolo del capitano d'artiglieria, con le stampelle. Centinaia di ragazzi sapevano il fatto, la voce si sparse in un attimo scoppiò una salva d'applausi e di grida che fece tremare il teatro, gli uomini s'alzarono in piedi, le signore si misero a sventolare i fazzoletti, e il povero ragazzo si fermò in mezzo al palcoscenico, sbalordito e tremante... Il Sindaco lo tirò a sé, gli diede il premio e un bacio, e staccata dalla spalliera del seggiolone la coroncina d'alloro che v'era appesa, glie la infilò nella traversina d'una stampella... Poi lo accompagnò fino al palchetto del proscenio, dov'era il capitano suo padre, e questi lo sollevò di peso e lo mise dentro, in mezzo a un gridìo di bravo e d'evviva. E intanto continuava quella musica leggiera e gentile di violini, e i ragazzi seguitavano a passare: quelli della Sezione della Consolata, quasi tutti figli di mercatini; quelli della Sezione di Vanchiglia, figliuoli d'operai; quelli della Sezione Boncompagni, di cui molti son figliuoli di contadini; quelli della scuola Raineri, che fu l'ultima. Appena finito, i settecento ragazzi della platea cantarono un'altra canzone bellissima, poi parlò il Sindaco, e dopo di lui l'assessore, che terminò il suo discorso dicendo ai ragazzi: - ...Ma non uscite di qui senza mandare un saluto a quelli che faticano tanto per voi, che hanno consacrato a voi tutte le forze della loro intelligenza e del loro cuore, che vivono e muoiono per voi. Eccoli là! - E segnò la galleria dei maestri. E allora dalle gallerie, dai palchi, dalla platea tutti i ragazzi s'alzarono e tesero le braccia gridando verso le maestre e i maestri, i quali risposero agitando le mani, i cappelli, i fazzoletti, tutti ritti in piedi e commossi. Dopo di che la banda sonò ancora una volta e il pubblico mandò un ultimo saluto fragoroso ai dodici ragazzi di tutte le provincie d'Italia, che si presentarono al proscenio schierati, con le mani intrecciate, sotto una pioggia di mazzetti di fiori.
Litigio
20, lunedì
Eppure, no, non fu per invidia ch'egli abbia avuto il premio ed io no, che mi bisticciai con Coretti questa mattina. Non fu per invidia. Ma ebbi torto. Il maestro l'aveva messo accanto a me, io scrivevo sul mio quaderno di calligrafia: egli mi urtò col gomito e mi fece fare uno sgorbio e macchiare anche il racconto mensile, Sangue romagnolo, che dovevo copiare per il "muratorino" che è malato. Io m'arrabbiai e gli dissi una parolaccia. Egli mi rispose sorridendo: - Non l'ho fatto apposta. - Avrei dovuto credergli perché lo conosco; ma mi spiacque che sorridesse, e pensai: - Oh! adesso che ha avuto il premio, sarà montato in superbia! - e poco dopo, per vendicarmi, gli diedi un urtone che gli fece sciupare la pagina. Allora, tutto rosso dalla rabbia: - Tu sì che l'hai fatto apposta! - mi disse, e alzò la mano, - il maestro vide, - la ritirò. Ma soggiunse: - T'aspetto fuori! - Io rimasi male, la rabbia mi sbollì, mi pentii. No, Coretti non poteva averlo fatto apposta. È buono, pensai. Mi ricordai di quando l'avevo visto in casa sua, come lavorava, come assisteva sua madre malata, e poi che festa gli avevo fatto in casa mia, e come era piaciuto a mio padre. Quanto avrei dato per non avergli detto quella parola, per non avergli fatto quella villania! E pensavo al consiglio che m'avrebbe dato mio padre.
- Hai torto? - Sì. - E allora domandagli scusa. - Ma questo io non osavo di farlo, avevo vergogna d'umiliarmi. Lo guardavo di sott'occhio, vedevo la sua maglia scucita alla spalla, forse perché aveva portato troppe legna, e sentivo che gli volevo bene, e mi dicevo: - Coraggio! - ma la parola - scusami - mi restava nella gola. Egli mi guardava di traverso, di tanto in tanto, e mi pareva più addolorato che arrabbiato. Ma allora anch'io lo guardavo bieco, per mostrargli che non avevo paura. Egli mi ripeté: - Ci rivedremo fuori! - Ed io: - Ci rivedremo fuori! - Ma pensavo a quello che mio padre m'aveva detto una volta: - Se hai torto difenditi; ma non battere! - Ed io dicevo tra me: - mi difenderò, ma non batterò. - Ma ero scontento, triste, non sentivo più il maestro. Infine, arrivò il momento d'uscire. Quando fui solo nella strada, vidi ch'egli mi seguitava. Mi fermai, e lo aspettai con la riga in mano. Egli s'avvicinò, io alzai la riga. - No, Enrico, - disse egli, col suo buon sorriso, facendo in là la riga con la mano, - torniamo amici come prima. - Io rimasi stupito un momento, e poi sentii come una mano che mi desse uno spintone nelle spalle, e mi trovai tra le sue braccia. Egli mi baciò e disse: - Mai più baruffe tra di noi, non è vero? - Mai più! mai più! - risposi. E ci separammo, contenti. Ma quando arrivai a casa e raccontai tutto a mio padre, credendo di fargli piacere, egli si rabbruscò e disse: - Dovevi esser tu il primo a tendergli la mano, poiché avevi torto. - Poi soggiunse: - Non dovevi alzar la riga sopra un compagno migliore di te, sopra il figliuolo d'un soldato! - E strappatami la riga di mano, la fece in due pezzi e la sbatté nel muro.
Mia sorella
24, venerdì
Perché, Enrico, dopo che nostro padre t'aveva già rimproverato d'esserti portato male con Coretti, hai fatto ancora quello sgarbo a me? Tu non immagini la pena che n'ho provata. Non sai che quand'eri bambino ti stavo per ore e ore accanto alla culla, invece di divertirmi con le mie compagne, e che quand'eri malato scendevo da letto ogni notte per sentire se ti bruciava la fronte? Non lo sai, tu che offendi tua sorella, che se una sventura tremenda ci colpisse, ti farei da madre io, e ti vorrei bene come a un figliuolo? Non sai che quando nostro padre e nostra madre non ai saranno più, sarò io la tua migliore amica, la sola con cui potrai parlare dei nostri morti e della tua infanzia, e che se ci fosse bisogno lavorerei per te, Enrico, per guadagnarti il pane e farti studiare, e che ti amerò sempre quando sarai grande, che ti seguirò col mio pensiero quando andrai lontano, sempre, perché siamo cresciuti insieme e abbiamo lo stesso sangue? O Enrico, stanne pur sicuro, quando sarai un uomo, se t'accadrà una disgrazia, se sarai solo, sta pur sicuro che mi cercherai, che verrai da me a dirmi: - Silvia, sorella, lasciami stare con te, parliamo di quando eravamo felici, ti ricordi? parliamo di nostra madre, della nostra casa, di quei bei giorni tanto lontani. - O Enrico, tu troverai sempre tua sorella con le braccia aperte. Sì, caro Enrico, e perdonami anche il rimprovero che ti faccio ora. Io non mi ricorderò di alcun torto tuo, e se anche tu mi dessi altri dispiaceri, che m'importa? Tu sarai sempre mio fratello lo stesso, io non mi ricorderò mai d'altro che d'averti tenuto in braccio bambino, d'aver amato padre e madre con te, d'averti visto crescere, d'essere stata per tanti anni la tua più fida compagna. Ma tu scrivimi una buona parola sopra questo stesso quaderno e io ripasserò a leggerla prima di sera. Intanto, per mostrarti che non sono in collera con te, vedendo che eri stanco, ho copiato per te il racconto mensile Sangue romagnolo, che tu dovevi copiare per il muratorino malato: cercalo nel cassetto di sinistra del tuo tavolino. L'ho scritto tutto questa notte mentre dormivi. Scrivimi una buona parola, Enrico, te ne prego.
TUA SORELLA SILVIA
Non sono degno di baciarti le mani.
ENRICO
Sangue romagnolo
Racconto mensile
Quella sera la casa di Ferruccio era più quieta del solito. Il padre, che teneva una piccola bottega di merciaiolo, era andato a Forlì a far delle compere, e sua moglie l'aveva accompagnato con Luigina, una bimba, per portarla da un medico, che doveva operarle un occhio malato; e non dovevano ritornare che la mattina dopo. Mancava poco alla mezzanotte. La donna che veniva a far dei servizi di giorno se n'era andata sull'imbrunire. In casa non rimaneva che la nonna, paralitica delle gambe, e Ferruccio, un ragazzo di tredici anni. Era una casetta col solo piano terreno, posta sullo stradone, a un tiro di fucile da un villaggio, poco lontano da Forlì, città di Romagna; e non aveva accanto che una casa disabitata, rovinata due mesi innanzi da un incendio, sulla quale si vedeva ancora l'insegna d'un'osteria. Dietro la casetta c'era un piccolo orto circondato da una siepe, sul quale dava una porticina rustica; la porta della bottega, che serviva anche da porta di casa, s'apriva sullo stradone. Tutt'intorno si stendeva la campagna solitaria, vasti campi lavorati, piantati di gelsi.
Mancava poco alla mezzanotte, pioveva, tirava vento. Ferruccio e la nonna, ancora levati, stavano nella stanza da mangiare, tra la quale e l'orto c'era uno stanzino ingombro di mobili vecchi. Ferruccio non era rientrato in casa che alle undici, dopo una scappata di molte ore, e la nonna l'aveva aspettato a occhi aperti, piena d'ansietà, inchiodata sopra un largo seggiolone a bracciuoli, sul quale soleva passar tutta la giornata, e spesso anche l'intera notte, poiché un'oppressione di respiro non la lasciava star coricata.
Pioveva e il vento sbatteva la pioggia contro le vetrate: la notte era oscurissima. Ferruccio era rientrato stanco, infangato, con la giacchetta lacera, e col livido d'una sassata sulla fronte; aveva fatto la sassaiola coi compagni, eran venuti alle mani, secondo il solito; e per giunta aveva giocato e perduto tutti i suoi soldi, e lasciato il berretto in un fosso.
Benché la cucina non fosse rischiarata che da una piccola lucerna a olio, posta sull'angolo d'un tavolo, accanto al seggiolone, pure la povera nonna aveva visto subito in che stato miserando si trovava il nipote, e in parte aveva indovinato, in parte gli aveva fatto confessare le sue scapestrerie.
Essa amava con tutta l'anima quel ragazzo. Quando seppe ogni cosa, si mise a piangere.
- Ah! no, - disse poi, dopo un lungo silenzio; - tu non hai cuore per la tua povera nonna. Non hai cuore a profittare in codesto modo dell'assenza di tuo padre e di tua madre per darmi dei dolori. Tutto il giorno m'hai lasciata sola! Non hai avuto un po' di compassione. Bada, Ferruccio! Tu ti metti per una cattiva strada che ti condurrà a una triste fine. Ne ho visti degli altri cominciar come te e andar a finir male. Si comincia a scappar di casa, a attaccar lite cogli altri ragazzi, a perdere i soldi; poi, a poco a poco, dalle sassate si passa alle coltellate, dal gioco agli altri vizi, e dai vizi... al furto.
Ferruccio stava a ascoltare, ritto a tre passi di distanza, appoggiato a una dispensa, col mento sul petto, con le sopracciglia aggrottate, ancora tutto caldo dell'ira della rissa. Aveva una ciocca di bei capelli castagni a traverso alla fronte e gli occhi azzurri immobili.
- Dal gioco al furto, - ripeté la nonna, continuando a piangere. - Pensaci, Ferruccio. Pensa a quel malanno qui del paese, a quel Vito Mozzoni, che ora è in città a fare il vagabondo; che a ventiquattr'anni è stato due volte in prigione, e ha fatto morir di crepacuore quella povera donna di sua madre, che io conoscevo, e suo padre è fuggito in Svizzera per disperazione. Pensa a quel tristo soggetto, che tuo padre si vergogna di rendergli il saluto, sempre in giro con dei scellerati peggio di lui, fino al giorno che cascherà in galera. Ebbene, io l'ho conosciuto ragazzo, ha cominciato come te. Pensa che ridurrai tuo padre e tua madre a far la stessa fine dei suoi.
Ferruccio taceva. Egli non era mica tristo di cuore, tutt'altro; la sua scapestrataggine derivava piuttosto da sovrabbondanza di vita e d'audacia che da mal animo; e suo padre l'aveva avvezzato male appunto per questo, che ritenendolo capace, in fondo, dei sentimenti più belli, ed anche, messo a una prova, d'un'azione forte e generosa gli lasciava la briglia sul collo e aspettava che mettesse giudizio da sé. Buono era, piuttosto che tristo; ma caparbio, e difficile molto, anche quando aveva il cuore stretto dal pentimento, a lasciarsi sfuggire dalla bocca quelle buone parole che ci fanno perdonare: - Sì, ho torto, non lo farò più, te lo prometto, perdonami. - Aveva l'anima piena di tenerezza alle volte; ma l'orgoglio non la lasciava uscire.
- Ah Ferruccio! - continuò la nonna, vedendolo così muto.
- Non una parola di pentimento mi dici! Tu vedi in che stato mi trovo ridotta, che mi potrebbero sotterrare. Non dovresti aver cuore di farmi soffrire, di far piangere la mamma della tua mamma, così vecchia, vicina al suo ultimo giorno; la tua povera nonna, che t'ha sempre voluto tanto bene; che ti cullava per notti e notti intere quand'eri bimbo di pochi mesi, e che non mangiava per baloccarti, tu non lo sai! Io dicevo sempre:
- Questo sarà la mia consolazione! - E ora tu mi fai morire! Io darei volentieri questo po' di vita che mi resta, per vederti tornar buono, obbediente come a quei giorni... quando ti conducevo al Santuario, ti ricordi, Ferruccio? che mi empivi le tasche di sassolini e d'erbe, e io ti riportavo a casa in braccio, addormentato? Allora volevi bene alla tua povera nonna. E ora che sono paralitica e che avrei bisogno della tua affezione come dell'aria per respirare, perché non ho più altro al mondo, povera donna mezza morta che sono, Dio mio!...
Ferruccio stava per lanciarsi verso la nonna, vinto dalla commozione, quando gli parve di sentire un rumor leggiero, uno scricchiolìo nello stanzino accanto, quello che dava sull'orto. Ma non capì se fossero le imposte scosse dal vento, o altro.
Tese l'orecchio.
La pioggia scrosciava.
Il rumore si ripeté. La nonna lo sentì pure.
- Cos'è? - domandò la nonna dopo un momento, turbata.
- La pioggia, - mormorò il ragazzo.
- Dunque, Ferruccio, - disse la vecchia, asciugandosi gli occhi, - me lo prometti che sarai buono, che non farai mai più piangere la tua povera nonna...
Un nuovo rumor leggiero la interruppe.
- Ma non mi pare la pioggia! - esclamò, impallidendo - ... va' a vedere!
Ma soggiunse subito: - No, resta qui! - e afferrò Ferruccio per la mano.
Rimasero tutti e due col respiro sospeso. Non sentivan che il rumore dell'acqua.
Poi tutti e due ebbero un brivido.
All'uno e all'altra era parso di sentire uno stropiccìo di piedi nello stanzino.
- Chi c'è? - domandò il ragazzo, raccogliendo il fiato a fatica.
Nessuno rispose.
- Chi c'è? - ridomandò Ferruccio, agghiacciato dalla paura.
Ma aveva appena pronunciato quelle parole, che tutt'e due gettarono un grido di terrore. Due uomini erano balzati nella stanza; l'uno afferrò il ragazzo e gli cacciò una mano sulla bocca; l'altro strinse la vecchia alla gola; il primo disse: - Zitto, se non vuoi morire! - il secondo: - Taci! - e levò un coltello. L'uno e l'altro avevano una pezzuola scura sul viso, con due buchi davanti agli occhi.
Per un momento non si sentì altro che il respiro affannoso di tutti e quattro e lo scrosciar della pioggia; la vecchia metteva dei rantoli fitti, e aveva gli occhi fuor del capo.
Quello che teneva il ragazzo, gli disse nell'orecchio: - Dove tiene i danari tuo padre?
Il ragazzo rispose con un fil di voce, battendo i denti: - Di là... nell'armadio.
- Vieni con me, - disse l'uomo.
E lo trascinò nello stanzino, tenendolo stretto alla gola. Là c'era una lanterna cieca, sul pavimento.
- Dov'è l'armadio? - domandò.
Il ragazzo, soffocato, accennò l'armadio.
Allora, per esser sicuro del ragazzo, l'uomo lo gittò in ginocchio, davanti all'armadio, e serrandogli forte il collo fra le proprie gambe, in modo da poterlo strozzare se urlava, e tenendo il coltello fra i denti e la lanterna da una mano, cavò di tasca con l'altra un ferro accuminato, lo ficcò nella serratura, frugò, ruppe, spalancò i battenti, rimescolò in furia ogni cosa, s'empì le tasche, richiuse, tornò ad aprire, rifrugò: poi riafferrò il ragazzo alla strozza, e lo risospinse di là, dove l'altro teneva ancora agguantata la vecchia, convulsa, col capo arrovesciato e la bocca aperta.
Costui domandò a bassa voce: - Trovato?
Il compagno rispose: - Trovato.
E soggiunse: - Guarda all'uscio.
Quello che teneva la vecchia corse alla porta dell'orto a vedere se c'era nessuno, e disse dallo stanzino, con una voce che parve un fischio: - Vieni.
Quello che era rimasto, e che teneva ancora Ferruccio mostrò il coltello al ragazzo e alla vecchia che riapriva gli occhi, e disse: - Non una voce, o torno indietro e vi sgozzo!
E li fisso un momento tutti e due.
In quel punto si sentì lontano, per lo stradone, un canto di molte voci.
Il ladro voltò rapidamente il capo verso l'uscio, e in quel moto violento gli cadde la pezzuola dal viso.
La vecchia gettò un urlo: - Mozzoni!
- Maledetta! - ruggì il ladro, riconosciuto. - Devi morire!
E si avventò a coltello alzato contro la vecchia, che svenne sull'atto.
L'assassino menò il colpo.
Ma con un movimento rapidissimo, gettando un grido disperato, Ferruccio s'era lanciato sulla nonna, e l'aveva coperta col proprio corpo.
L'assassino fuggì urtando il tavolo e rovesciando il lume, che si spense.
Il ragazzo scivolò lentamente di sopra alla nonna, e cadde in ginocchio, e rimase in quell'atteggiamento, con le braccia intorno alla vita di lei e il capo sul suo seno.
Qualche momento passò; era buio fitto; il canto dei contadini s'andava allontanando per la campagna. La vecchia rinvenne.
- Ferruccio! - chiamò con voce appena intelligibile, battendo i denti.
- Nonna, - rispose il ragazzo.
La vecchia fece uno sforzo per parlare; ma il terrore le paralizzava la lingua.
Stette un pezzo in silenzio, tremando violentemente. Poi riuscì a domandare:
- Non ci son più?
- No.
- Non m'hanno uccisa, - mormorò la vecchia con voce soffocata.
- No... siete salva, - disse Ferruccio, con voce fioca. - Siete salva, cara nonna. Hanno portato via dei denari. Ma il babbo... aveva preso quasi tutto con sé.
La nonna mise un respiro.
- Nonna, - disse Ferruccio, sempre in ginocchio, stringendola alla vita, - cara nonna... mi volete bene, non è vero?
- Oh Ferruccio! povero figliuol mio! - rispose quella, mettendogli le mani sul capo, - che spavento devi aver avuto! Oh Signore Iddio misericordioso! Accendi un po' di lume... No, restiamo al buio, ho ancora paura.
- Nonna, - riprese il ragazzo, - io v'ho sempre dato dei dispiaceri...
- No, Ferruccio, non dir queste cose; io non ci penso più, ho scordato tutto, ti voglio tanto bene!
- V'ho sempre dato dei dispiaceri, - continuò Ferruccio, a stento, con la voce tremola; - ma... vi ho sempre voluto bene. Mi perdonate?... Perdonatemi, nonna
- Sì, figliuolo, ti perdono, ti perdono con tutto il cuore. Pensa un po' se non ti perdono. Levati d'in ginocchio, bambino mio. Non ti sgriderò mai più. Sei buono, sei tanto buono! Accendiamo il lume. Facciamoci un po' di coraggio. Alzati, Ferruccio.
- Grazie, nonna, - disse il ragazzo, con la voce sempre più debole. - Ora... sono contento. Vi ricorderete di me, nonna... non è vero? vi ricorderete sempre di me... del vostro Ferruccio.
- Ferruccio mio! - esclamò la nonna, stupita e inquieta, mettendogli le mani sulle spalle e chinando il capo, come per guardarlo nel viso.
- Ricordatevi di me, - mormorò ancora il ragazzo con una voce che pareva un soffio. - Date un bacio a mia madre... a mio padre... a Luigina... Addio, nonna...
- In nome del cielo, cos'hai! - gridò la vecchia palpando affannosamente il capo del ragazzo che le si era abbandonato sulle ginocchia; e poi con quanta voce avea in gola disperatamente: - Ferruccio! Ferruccio! Ferruccio! Bambino mio! Amor mio! Angeli del paradiso, aiutatemi!
Ma Ferruccio non rispose più. Il piccolo eroe, il salvatore della madre di sua madre, colpito d'una coltellata nel dorso, aveva reso la bella e ardita anima a Dio.
Il muratorino moribondo
18, martedì
Il povero muratorino è malato grave; il maestro ci disse d'andarlo a vedere, e combinammo d'andarci insieme Garrone, Derossi ed io. Stardi pure sarebbe venuto, ma siccome il maestro ci diede per lavoro la descrizione del Monumento a Cavour, egli ci disse che doveva andar a vedere il monumento, per far la descrizione più esatta. Così per prova invitammo anche quel gonfionaccio di Nobis, che ci rispose: - No, - senz'altro. Votini pure si scusò, forse per paura di macchiarsi il vestito di calcina. Ci andammo all'uscita delle quattro. Pioveva a catinelle. Per la strada Garrone si fermò e disse con la bocca piena di pane: - Cosa si compera? - e faceva sonare due soldi nella tasca. Mettemmo due soldi ciascuno e comperammo tre arancie grosse. Salimmo alla soffitta. Davanti all'uscio Derossi si levò la medaglia e se la mise in tasca: gli domandai perché: - Non so, rispose, - per non aver l'aria... mi par più delicato entrare senza medaglia. - Picchiammo, ci aperse il padre, quell'omone che pare un gigante: aveva la faccia stravolta che pareva spaventato. - Chi siete? - domandò. - Garrone rispose: - Siamo compagni di scuola d'Antonio, che gli portiamo tre arancie. - Ah! povero Tonino, - esclamò il muratore scotendo il capo, - ho paura che non le mangerà più le vostre arancie! - e si asciugò gli occhi col rovescio della mano. Ci fece andar avanti: entrammo in una camera a tetto, dove vedemmo il "muratorino" che dormiva in un piccolo letto di ferro: sua madre stava abbandonata sul letto col viso nelle mani, e si voltò appena a guardarci: da una parte pendevan dei pennelli, un piccone e un crivello da calcina; sui piedi del malato era distesa la giacchetta del muratore, bianca di gesso. Il povero ragazzo era smagrito, bianco bianco, col naso affilato, e respirava corto. O caro Tonino, tanto buono e allegro, piccolo compagno mio, come mi fece pena, quanto avrei dato per rivedergli fare il muso di lepre, povero muratorino! Garrone gli mise un'arancia sul cuscino, accanto al viso: l'odore lo svegliò, la pigliò subito, ma poi la lasciò andare, e guardò fisso Garrone. - Son io, - disse questi, - Garrone: mi conosci? - Egli fece un sorriso che si vide appena, e levò a stento dal letto la sua mano corta e la porse a Garrone, che la prese fra le sue e vi appoggiò sopra la guancia dicendo: - Coraggio, coraggio, muratorino; tu guarirai presto e tornerai alla scuola e il maestro ti metterà vicino a me, sei contento? - Ma il muratorino non rispose. La madre scoppiò in singhiozzi: - Oh il mio povero Tonino! il mio povero Tonino! Così bravo e buono, e Dio che ce lo vuol prendere! - Chétati! - le gridò il muratore, disperato, - chetati per amor di Dio, o perdo la testa! - Poi disse a noi affannosamente: - Andate, andate, ragazzi; grazie; andate; che volete far qui? Grazie; andatevene a casa. - Il ragazzo aveva richiuso gli occhi e pareva morto. - Ha bisogno di qualche servizio? - domandò Garrone. - No, buon figliuolo, grazie, rispose il muratore; - andatevene a casa. - E così dicendo ci spinse sul pianerottolo e richiuse l'uscio. Ma non eravamo a metà delle scale, che lo sentimmo gridare: - Garrone! Garrone! - Risalimmo in fretta tutti e tre. - Garrone! - gridò il muratore col viso mutato, - t'ha chiamato per nome, due giorni che non parlava, t'ha chiamato due volte, vuole te, vieni subito. Ah santo Iddio, se fosse un buon segno! - A rivederci, - disse Garrone a noi, - io rimango, - e si lanciò in casa col padre. Derossi aveva gli occhi pieni di lacrime. Io gli dissi: - Piangi per il muratorino? Egli ha parlato, guarirà. - Lo credo, - rispose Derossi; - ma non pensavo a lui... Pensavo com'è buono, che anima bella è Garrone!
Il conte Cavour
29, mercoledì
È la descrizione del monumento al conte Cavour che tu devi fare. Puoi farla. Ma chi sia stato il conte Cavour non lo puoi capire per ora. Per ora sappi questo soltanto. egli fu per molti anni il primo ministro del Piemonte, è lui che mandò l'esercito piemontese in Crimea a rialzare con la vittoria della Cernaia la nostra gloria militare caduta con la sconfitta di Novara; è lui che fece calare dalle Alpi centocinquantamila Francesi a cacciar gli Austriaci dalla Lombardia, è lui che governò l'Italia nel periodo più solenne della nostra rivoluzione, che diede in quegli anni il più potente impulso alla santa impresa dell'unificazione della patria, lui con l'ingegno luminoso, con la costanza invincibile, con l'operosità più che umana. Molti generali passarono ore terribili sul campo di battaglia; ma egli ne passò di più terribili nel suo gabinetto quando l'enorme opera sua poteva rovinare di momento in momento come un fragile edifizio a un crollo di terremoto, ore, notti di lotta e d'angoscia passò, da uscirne con la ragione stravolta o con la morte nel cuore. E fu questo gigantesco e tempestoso lavoro che gli accorciò di vent'anni la vita. Eppure, divorato dalla febbre che lo doveva gettar nella fossa, egli lottava ancora disperatamente con la malattia, per far qualche cosa per il suo paese. - È strano, diceva con dolore dal suo letto di morte, - non so più leggere, non posso più leggere. - Mentre gli cavavan sangue e la febbre aumentava, pensava alla sua patria, diceva imperiosamente: - Guaritemi, la mia mente s'oscura, ho bisogno di tutte le mie facoltà per trattare dei gravi affari. - Quando era già ridotto agli estremi, e tutta la città s'agitava, e il Re stava al suo capezzale, egli diceva con affanno. - Ho molte cose da dirvi, Sire, molte cose da farvi vedere; ma son malato, non posso, non posso; - e si desolava. E sempre il suo pensiero febbrile rivolava allo Stato, alle nuove provincie italiane che s'erano unite a noi; alle tante cose che rimanevan da farsi. Quando lo prese il delirio. - Educate l'infanzia, - esclamava fra gli aneliti, - educate l'infanzia e la gioventù... governate con la libertà. - Il delirio cresceva, la morte gli era sopra, ed egli invocava con parole ardenti il generale Garibaldi, col quale aveva avuto dei dissensi, e Venezia e Roma che non erano ancor libere, aveva delle vaste visioni dell'avvenire d'Italia e d'Europa, sognava un'invasione straniera, domandava dove fossero i corpi dell'esercito e i generali, trepidava ancora per noi, per il suo popolo. Il suo grande dolore, capisci, non era di sentirsi mancare la vita, era di vedersi sfuggire la patria, che aveva ancora bisogno di lui, e per la quale aveva logorato in pochi anni le forze smisurate del suo miracoloso organismo. Morì col grido della battaglia nella gola, e la sua morte fu grande come la sua vita. Ora pensa un poco, Enrico, che cosa è il nostro lavoro, che pure ci pesa tanto, che cosa sono i nostri dolori, la nostra morte stessa, a confronto delle fatiche, degli affanni formidabili, delle agonie tremende di quegli uomini; a cui pesa un mondo sul cuore! Pensa a questo, figliuolo, quando passi davanti a quell'immagine di marmo, e dille: - Gloria! - in cuor tuo.
TUO PADRE
APRILE
Primavera
1, sabato
Primo d'aprile! Tre soli mesi ancora. Questa è stata una delle più belle mattinate dell'anno. Io ero contento, nella scuola, perché Coretti m'aveva detto d'andar dopo domani a veder arrivare il Re, insieme con suo padre che lo conosce; e perché mia madre m'avea promesso di condurmi lo stesso giorno a visitar l'Asilo infantile di Corso Valdocco. Anche ero contento perché il "muratorino" sta meglio, e perché ieri sera, passando, il maestro disse a mio padre: - Va bene, va bene. - E poi era una bella mattinata di primavera. Dalle finestre della scuola si vedeva il cielo azzurro, gli alberi del giardino tutti coperti di germogli, e le finestre delle case spalancate, colle cassette e i vasi già verdeggianti. Il maestro non rideva, perché non ride mai, ma era di buon umore, tanto che non gli appariva quasi più quella ruga diritta in mezzo alla fronte; e spiegava un problema sulla lavagna, celiando. E si vedeva che provava piacere a respirar l'aria del giardino che veniva per le finestre aperte, piena d'un buon odor fresco di terra e di foglie, che faceva pensare alle passeggiate in campagna. Mentre egli spiegava, si sentiva in una strada vicina un fabbro ferraio che batteva sull'incudine, e nella casa di faccia una donna che cantava per addormentare il bambino: lontano, nella caserma della Cernaia, suonavano le trombe. Tutti parevano contenti, persino Stardi. A un certo momento il fabbro si mise a picchiar più forte, la donna a cantar più alto. Il maestro s'interruppe e prestò l'orecchio. Poi disse lentamente guardando per la finestra: - Il cielo che sorride, una madre che canta, un galantuomo che lavora, dei ragazzi che studiano... ecco delle cose belle. - Quando uscimmo dalla classe, vedemmo che anche tutti gli altri erano allegri; tutti camminavano in fila pestando i piedi forte e canticchiando, come alla vigilia d'una vacanza di quattro giorni; le maestre scherzavano; quella della penna rossa saltellava dietro i suoi bimbi come una scolaretta; i parenti dei ragazzi discorrevano fra loro ridendo, e la madre di Crossi, l'erbaiola, ci aveva nelle ceste tanti mazzi di violette, che empivano di profumo tutto il camerone. Io non sentii mai tanta contentezza come questa mattina a veder mia madre che mi aspettava nella strada. E glielo dissi andandole incontro: - Sono contento: cos'è mai che mi fa così contento questa mattina? - E mia madre mi rispose sorridendo che era la bella stagione e la buona coscienza.
Re Umberto
3, lunedì
Alle dieci in punto mio padre vide dalla finestra Coretti, il rivenditore di legna, e il figliuolo, che m'aspettavano sulla piazza, e mi disse: - Eccoli, Enrico; va' a vedere il tuo re.
Io andai giù lesto come un razzo. Padre e figliuolo erano anche più vispi del solito e non mi parve mai che si somigliassero tanto l'uno all'altro come questa mattina: il padre aveva alla giacchetta la medaglia al valore in mezzo alle due commemorative, e i baffetti arricciati e aguzzi come due spilli.
Ci mettemmo subito in cammino verso la stazione della strada ferrata, dove il re doveva arrivare alle dieci e mezzo. Coretti padre fumava la pipa e si fregava le mani. - Sapete, - diceva - che non l'ho più visto dalla guerra del sessantasei? La bagatella di quindici anni e sei mesi. Prima tre anni in Francia, poi a Mondovì; e qui che l'avrei potuto vedere, non s'è mai dato il maledetto caso che mi trovassi in città quando egli veniva. Quando si dice le combinazioni.
Egli chiamava il re: - Umberto - come un camerata. - Umberto comandava la 16a divisione, Umberto aveva ventidue anni e tanti giorni, Umberto montava a cavallo così e così.
- Quindici anni! - diceva forte, allungando il passo. - Ho proprio desiderio di rivederlo. L'ho lasciato principe, lo rivedo re. E anch'io ho cambiato: son passato da soldato a rivenditor di legna. - E rideva.
Il figliuolo gli domandò: - Se vi vedesse, vi riconoscerebbe?
Egli si mise a ridere.
- Tu sei matto, - rispose. - Ci vorrebbe altro. Lui, Umberto, era uno solo; noi eravamo come le mosche. E poi sì che ci stette a guardare uno per uno.
Sboccammo sul corso Vittorio Emanuele; c'era molta gente che s'avviava alla stazione. Passava una compagnia d'Alpini, con le trombe. Passarono due carabinieri a cavallo, di galoppo. Era un sereno che smagliava.
- Sì! - esclamò Coretti padre, animandosi; - mi fa proprio piacere di rivederlo, il mio generale di divisione. Ah! come sono invecchiato presto! Mi pare l'altro giorno che avevo lo zaino sulle spalle e il fucile tra le mani in mezzo a quel tramestio, la mattina del 24 giugno, quando s'era per venire ai ferri. Umberto andava e veniva coi suoi ufficiali, mentre tonava il cannone, lontano; e tutti lo guardavano e dicevano: - Purché non ci sia una palla anche per lui! - Ero a mille miglia dal pensare che di lì a poco me gli sarei trovato tanto vicino, davanti alle lance degli ulani austriaci; ma proprio a quattro passi l'un dall'altro, figliuoli. Era una bella giornata, il cielo come uno specchio, ma un caldo! Vediamo se si può entrare.
Eravamo arrivati alla stazione; c'era una gran folla, carrozze, guardie, carabinieri, società con bandiere. La banda d'un reggimento suonava. Coretti padre tentò di entrare sotto il porticato; ma gli fu impedito. Allora pensò di cacciarsi in prima fila nella folla che facea ala all'uscita, e aprendosi il passo coi gomiti, riuscì a spingere innanzi anche noi. Ma la folla, ondeggiando, ci sbalzava un po' di qua e un po' di là. Il venditor di legna adocchiava il primo pilastro del porticato, dove le guardie non lasciavano stare nessuno. - Venite con me, - disse a un tratto, e tirandoci per le mani, attraversò in due salti lo spazio vuoto e s'andò a piantar là, con le spalle al muro.
Accorse subito un brigadiere di Polizia e gli disse:
- Qui non si può stare.
- Son del quarto battaglione del '49, - rispose Coretti, toccandosi la medaglia.
Il brigadiere lo guardò e disse: - Restate.
- Ma se lo dico io! - esclamò Coretti trionfante; - è una parola magica quel quarto del quarantanove! Non ho diritto di vederlo un po' a mio comodo il mio generale, io che son stato nel quadrato! Se l'ho visto da vicino allora, mi par giusto di vederlo da vicino adesso. E dico generale! È stato mio comandante di battaglione, per una buona mezz'ora, perché in quei momenti lo comandava lui il battaglione, mentre c'era in mezzo, e non il maggiore Ubrich, sagrestia!
Intanto si vedeva nel salone dell'arrivo e fuori un gran rimescolio di signori e d'ufficiali, e davanti alla porta si schieravano le carrozze, coi servitori vestiti di rosso.
Coretti domandò a suo padre se il principe Umberto aveva la sciabola in mano quand'era nel quadrato.
- Avrà ben avuto la sciabola in mano, - rispose, - per parare una lanciata, che poteva toccare a lui come a un altro. Ah! i demoni scatenati! Ci vennero addosso come l'ira di Dio, ci vennero. Giravano tra i gruppi, i quadrati, i cannoni, che parevan mulinati da un uragano, sfondando ogni cosa. Era una confusione di cavalleggeri d'Alessandria, di lancieri di Foggia, di fanteria, di ulani, di bersaglieri, un inferno che non se ne capiva più niente. Io intesi gridare: - Altezza! Altezza! - vidi venir le lancie calate, scaricammo i fucili, un nuvolo di polvere nascose tutto... Poi la polvere si diradò... La terra era coperta di cavalli e di ulani feriti e morti. Io mi voltai indietro, e vidi in mezzo a noi Umberto, a cavallo, che guardava intorno, tranquillo, con l'aria di domandare: - C'è nessuno graffiato dei miei ragazzi? - E noi gli gridammo: - Evviva! - sulla faccia, come matti. Sacro Dio che momento!... Ecco il treno che arriva.
La banda suonò, gli ufficiali accorsero, la folla s'alzò in punta di piedi.
- Eh, non esce mica subito, - disse una guardia; - ora gli fanno un discorso.
Coretti padre non stava più nella pelle. - Ah! quando ci penso, - disse, - io lo vedo sempre là. Sta bene tra i colerosi e i terremoti e che so altro: anche là è stato bravo; ma io l'ho sempre in mente come l'ho visto allora, in mezzo a noi, con quella faccia tranquilla. E son sicuro che se ne ricorda anche lui del quarto del '49, anche adesso che è re, e che gli farebbe piacere di averci una volta a tavola tutti insieme, quelli che s'è visto intorno in quei momenti. Adesso ci ha generali e signoroni e galloni; allora non ci aveva che dei poveri soldati. Se ci potessi un po' barattare quattro parole, a quattr'occhi! Il nostro generale di ventidue anni, il nostro principe, che era affidato alle nostre baionette... Quindici anni che non lo vedo... Il nostro Umberto, va'. Ah! questa musica mi rimescola il sangue, parola d'onore.
Uno scoppio di grida l'interruppe, migliaia di cappelli s'alzarono in aria, quattro signori vestiti di nero salirono nella prima carrozza
- È lui! - gridò Coretti, e rimase come incantato.
Poi disse piano: - Madonna mia, come s'è fatto grigio! - Tutti e tre ci scoprimmo il capo: la carrozza veniva innanzi lentamente, in mezzo alla folla che gridava e agitava i cappelli. Io guardai Coretti padre. Mi parve un altro: pareva diventato più alto, serio, un po' pallido, ritto appiccicato contro il pilastro.
La carrozza arrivò davanti a noi, a un passo dal pilastro.
- Evviva! - gridarono molte voci. - Evviva! - gridò Coretti, dopo gli altri.
Il re lo guardò in viso e arrestò un momento lo sguardo sulle tre medaglie.
Allora Coretti perdé la testa e urlò: - Quarto battaglione del quarantanove!
Il re, che s'era già voltato da un'altra parte, si rivoltò verso di noi, e fissando Coretti negli occhi, stese la mano fuor della carrozza.
Coretti fece un salto avanti e gliela strinse. La carrozza passò, la folla irruppe e ci divise, perdemmo di vista Coretti padre. Ma fu un momento. Subito lo ritrovammo, ansante, con gli occhi umidi, che chiamava per nome il figliuolo, tenendo la mano in alto. Il figliuolo si slanciò verso di lui, ed egli gridò: - Qua, piccino, che ho ancora calda la mano! - e gli passò la mano intorno al viso, dicendo: - Questa è una carezza del re.
E rimase lì come trasognato, con gli occhi fissi sulla carrozza lontana, sorridendo, con la pipa tra le mani, in mezzo a un gruppo di curiosi che lo guardavano. - È uno del quadrato del '49, - dicevano. - È un soldato che conosce il re. - È il re che l'ha riconosciuto. - È lui che gli ha teso la mano. - Ha dato una supplica al re, - disse uno più forte.
- No, - rispose Coretti, voltandosi bruscamente; - non gli ho dato nessuna supplica, io. Un'altra cosa gli darei, se me la domandasse...
Tutti lo guardarono.
Ed egli disse semplicemente: - Il mio sangue.
L'asilo infantile
4, martedì
Mia madre, come m'aveva promesso, mi condusse ieri dopo colazione all'asilo infantile di Corso Valdocco, per raccomandare alla direttrice una sorella piccola di Precossi. Io non avevo mai visto un asilo. Quanto mi divertirono! Duecento c'erano tra bimbi e bimbe, così piccoli, che i nostri della prima inferiore sono uomini appetto a quelli. Arrivammo appunto che entravano in fila nel refettorio, dove erano due tavole lunghissime con tante buche rotonde, e in ogni buca una scodella nera, piena di riso e fagioli, e un cucchiaio di stagno accanto. Entrando alcuni piantavano un melo, e restavan lì sul pavimento, fin che accorrevan le maestre a tirarli su. Molti si fermavano davanti a una scodella, credendo che fosse quello il loro posto, e ingollavano subito una cucchiaiata, quando arrivava una maestra e diceva: - Avanti! - e quelli avanti tre o quattro passi e giù un'altra cucchiaiata, e avanti ancora, fin che arrivavano al proprio posto, dopo aver beccato a scrocco una mezza minestrina. Finalmente, a furia di spingere, di gridare: - Sbrigatevi! Sbrigatevi! - li misero in ordine tutti, e cominciarono la preghiera. Ma tutti quelli delle file di dentro, i quali per pregare dovevan voltar la schiena alla scodella, torcevano il capo indietro per tenerla d'occhio, che nessuno ci pescasse, e poi pregavano così, con le mani giunte e con gli occhi al cielo, ma col cuore alla pappa. Poi si misero a mangiare. Ah che ameno spettacolo! Uno mangiava con due cucchiai, l'altro s'ingozzava con le mani, molti levavano i fagioli un per uno e se li ficcavano in tasca; altri invece li rinvoltavano stretti nel grembiulino e ci picchiavan su, per far la pasta. Ce n'erano anche che non mangiavano per veder volar le mosche, e alcuni tossivano e spandevano una pioggia di riso tutto intorno. Un pollaio, pareva. Ma era grazioso. Facevano una bella figura le due file delle bambine, tutte coi capelli legati sul cocuzzolo con tanti nastrini rossi, verdi, azzurri. Una maestra domandò a una fila di otto bambine: - Dove nasce il riso? Tutte otto spalancaron la bocca piena di minestra, e risposero tutte insieme cantando: - Na-sce nel-l'ac-qua, - Poi la maestra comandò: - Le mani in alto! - E allora fu bello vedere scattar su tutti quei braccini, che mesi fa erano ancor nelle fascie, e agitarsi tutte quelle mani piccole, che parevan tante farfalle bianche e rosate.
Poi andarono alla ricreazione; ma prima presero tutti i loro panierini con dentro la colazione, che erano appesi ai muri. Uscirono nel giardino e si sparpagliarono, tirando fuori le loro provvigioni: pane, prune cotte, un pezzettino di formaggio, un ovo sodo, delle mele piccole, una pugnata di ceci lessi, un'ala di pollo. In un momento tutto il giardino fu coperto di bricioline come se ci avessero sparso del becchime per uno stormo d'uccelli. Mangiavano in tutte le più strane maniere, come i conigli, i topi, i gatti, rosicchiando, leccando, succhiando. C'era un bimbo che si teneva appuntato un grissino sul petto e lo andava ungendo con una nespola, come se lustrasse una sciabola. Delle bambine spiaccicavano nel pugno delle formaggiole molli, che colavano fra le dita, come latte, e filavan giù dentro alle maniche; ed esse non se n'accorgevano mica. Correvano e s'inseguivano con le mele e i panini attaccati ai denti, come i cani. Ne vidi tre che scavavano con un fuscello dentro a un ovo sodo credendo di scoprirvi dei tesori, e lo spandean mezzo per terra, e poi lo raccoglievano briciolo per briciolo, con grande pazienza, come se fossero perle. E a quelli che avevan qualcosa di straordinario, c'erano intorno otto o dieci col capo chino a guardar nel paniere, come avrebber guardato la luna nel pozzo. Ci saranno stati venti intorno a un batuffoletto alto così, che aveva in mano un cartoccino di zucchero, tutti a fargli cerimonie per aver il permesso d'intingere il pane, e lui a certi lo dava, ed ad altri, pregato bene, non imprestava che il dito da succhiare.
Intanto mia madre era venuta nel giardino e accarezzava ora l'uno ora l'altro. Molti le andavano intorno, anzi addosso, a chiederle un bacio col viso in su, come se guardassero a un terzo piano, aprendo e chiudendo la bocca, come per domandare la cioccia. Uno le offerse uno spicchio d'arancia morsicchiato, un altro una crostina di pane, una bimba le diede una foglia; un'altra bimba le mostrò con grande serietà la punta dell'indice dove, a guardar bene, si vedeva un gonfiettino microscopico, che s'era fatto il giorno prima toccando la fiammella della candela. Le mettevan sotto gli occhi, come grandi meraviglie, degl'insetti piccolissimi, che non so come facessero a vederli e a raccoglierli, dei mezzi tappi di sughero, dei bottoncini di camicia, dei fiorellini strappati dai vasi. Un bambino con la testa fasciata, che voleva esser sentito a ogni costo, le tartagliò non so che storia d'un capitombolo, che non se ne capì una parola; - un altro volle che mia madre si chinasse, e le disse nell'orecchio: - Mio padre fa le spazzole. - E in quel frattempo accadevano qua e là mille disgrazie, che facevano accorrere le maestre: bambine che piangevano perché non potevano disfare un nodo del fazzoletto, altre che si disputavano a unghiate e a strilli due semi di mela, un bimbo che era caduto bocconi sopra un panchettino rovesciato, e singhiozzava su quella rovina, senza potersi rialzare.
Prima d'andar via, mia madre ne prese in braccio tre o quattro, e allora accorsero da tutte le parti per farsi pigliare, coi visi tinti di torlo d'ovo e di sugo d'arancia, e chi a afferrarle le mani, chi a prenderle un dito per veder l'anello, l'uno a tirarle la catenella dell'orologio, l'altro a volerla acchiappare per le trecce. - Badi, - dicevano le maestre, - che le sciupan tutto il vestito. - Ma a mia madre non importava nulla del vestito, e continuò a baciarli, e quelli sempre più a serrarlesi addosso, i primi con le braccia tese come se volessero arrampicarsi, i lontani cercando di farsi innanzi tra la calca, e tutti gridando: - Addio! Addio! Addio! - infine le riuscì di scappar dal giardino. E allora corsero tutti a mettere il viso tra i ferri della cancellata, per vederla passare, e a cacciar le braccia fuori per salutarla, offrendo ancora tozzi di pane, bocconcini di nespola e croste di formaggio, e gridando tutti insieme: - Addio! Addio! Addio! Ritorna domani! Vieni un'altra volta! - Mia madre, scappando, fece ancora scorrere una mano su quelle cento manine tese, come sopra una ghirlanda di rose vive, e finalmente riuscì in salvo sulla strada, tutta coperta di briciole e di macchie, sgualcita e scarmigliata, con una mano piena di fiori e gli occhi gonfi di lacrime, contenta, come se fosse uscita da una festa. E si sentiva ancora il vocìo di dentro, come un gran pispigliare d'uccelli, che dicevano: - Addio! Addio! Vieni un'altra volta, madama!
Alla ginnastica
5, mercoledì
Il tempo continuando bellissimo, ci hanno fatto passare dalla ginnastica del camerone a quella degli attrezzi, in giardino. Garrone era ieri nell'ufficio del Direttore quando venne la madre di Nelli, quella signora bionda e vestita di nero, per far dispensare il figliuolo dai nuovi esercizi. Ogni parola le costava uno sforzo, e parlava tenendo una mano sul capo del suo ragazzo. - Egli non può... - disse al Direttore. Ma Nelli si mostrò così addolorato di essere escluso dagli attrezzi, d'aver quella umiliazione di più... - Vedrai, mamma, - diceva, - che farò come gli altri. - Sua madre lo guardava, in silenzio, con un'aria di pietà e di affetto. Poi osservò con esitazione: - Temo dei suoi compagni. - Voleva dire: - Temo che lo burlino. - Ma Nelli rispose: - Non mi fa nulla... e poi c'è Garrone. Mi basta che ci sia lui che non rida. - E allora lo lasciaron venire. Il maestro, quello della ferita al collo, che è stato con Garibaldi, ci condusse subito alle sbarre verticali, che sono alte molto, e bisognava arrampicarsi fino in cima, e mettersi ritti sull'asse trasversale. Derossi e Coretti andaron su come due bertucce; anche il piccolo Precossi salì svelto, benché impacciato da quel giacchettone che gli dà alle ginocchia, e per farlo ridere, mentre saliva tutti gli ripeteano il suo intercalare: - Scusami, scusami! - Stardi sbuffava, diventava rosso come un tacchino, stringeva i denti che pareva un cane arrabbiato; ma anche a costo di scoppiare sarebbe arrivato in cima, e ci arrivò infatti; e Nobis pure, e quando fu lassù prese un'impostatura da imperatore, ma Votini sdrucciolò due volte, nonostante il suo bel vestito nuovo a righette azzurre, fatto apposta per la ginnastica. Per salir più facile s'eran tutti impiastrati le mani di pece greca, colofonia, come la chiamano; e si sa che è quel trafficone di Garoffi che la provvede a tutti, in polvere, vendendola un soldo al cartoccio e guadagnandoci un tanto. Poi toccò a Garrone, che salì masticando pane, come se niente fosse, e credo che sarebbe stato capace di portar su un di noi sulle spalle, da tanto ch'è tarchiato e forte, quel toretto. Dopo Garrone, ecco Nelli. Appena lo videro attaccarsi alla sbarra con quelle mani lunghe e sottili molti cominciarono a ridere e a canzonare; ma Garrone incrociò le sue grosse braccia sul petto, e saettò intorno un'occhiata così espressiva, fece intender così chiaro che avrebbe allungato subito quattro briscole anche in presenza del maestro, che tutti smisero di ridere sul momento. Nelli cominciò a arrampicarsi stentava, poverino, faceva il viso pavonazzo, respirava forte, gli colava il sudore dalla fronte. Il maestro disse: - Vieni giù. - Ma egli no, si sforzava, s'ostinava: io m'aspettavo da un momento all'altro di vederlo ruzzolar giù mezzo morto. Povero Nelli! Pensavo se fossi stato come lui e m'avesse visto mia madre, come n'avrebbe sofferto, povera mia madre, e pensando a questo, gli volevo così bene a Nelli, avrei dato non so che perché riuscisse a salire, per poterlo sospinger io per di sotto, senz'esser veduto. Intanto Garrone, Derossi, Coretti dicevano: - Su, su, Nelli, forza, ancora un tratto, coraggio! - E Nelli fece ancora uno sforzo violento, mettendo un gemito, e si trovò a due palmi dall'asse. - Bravo! - gridarono gli altri. - Coraggio! Ancora una spinta! - Ed ecco Nelli afferrato all'asse. Tutti batteron le mani. - Bravo! - disse il maestro, - ma ora basta; scendi pure. - Ma Nelli volle salir fino in cima come gli altri, e dopo un po' di stento riuscì a mettere i gomiti sull'asse, poi le ginocchia, poi i piedi: infine si levò ritto, e ansando e sorridendo, ci guardò. Noi tornammo a batter le mani, e allora egli guardò nella strada. Io mi voltai da quella parte, e a traverso alle piante che copron la cancellata del giardino, vidi sua madre che passeggiava sul marciapiede, senz'osar di guardare. Nelli discese e tutti gli fecero festa: era eccitato, roseo, gli splendevan gli occhi, non pareva più quello. Poi, all'uscita, quando sua madre gli venne incontro e gli domandò un po' inquieta, abbracciandolo: - Ebbene, povero figliuolo, com'è andata? com'è andata? - tutti i compagni risposero insieme: - Ha fatto bene! - È salito come noi. - È forte, sa. - È lesto. - Fa tale e quale come gli altri. - Bisognò vederla, allora, la gioia di quella signora! Ci volle ringraziare e non poté, strinse la mano a tre o quattro, fece una carezza a Garrone, si portò via il figliuolo, e li vedemmo per un pezzo camminare in fretta, discorrendo e gestendo fra loro, tutti e due contenti, come non li avea mai visti nessuno.
Il maestro di mio padre
11, martedì
Che bella gita feci ieri con mio padre! Ecco come. Ieri l'altro, a desinare, leggendo il giornale, mio padre uscì tutt'a un tratto in una esclamazione di meraviglia. Poi disse: - E io che lo credevo morto da vent'anni! Sapete che è ancora vivo il mio primo maestro elementare, Vincenzo Crosetti, che ha ottantaquattro anni? Vedo qui che il Ministero gli ha dato la medaglia di benemerenza per sessant'anni d'insegnamento. Ses-san-t'an-ni, capite? E non son che due anni che ha smesso di far scuola. Povero Crosetti! Sta a un'ora di strada ferrata di qui, a Condove, nel paese della nostra antica giardiniera della villa di Chieri. - E soggiunse: - Enrico, noi andremo a vederlo. - E per tutta la sera non parlò più che di lui. Il nome del suo maestro elementare gli richiamava alla memoria mille cose di quand'era ragazzo, dei suoi primi compagni, della sua mamma morta. - Crosetti! - esclamava. - Aveva quarant'anni quando ero con lui. Mi pare ancor di vederlo. Un ometto già un po' curvo, cogli occhi chiari, col viso sempre sbarbato. Severo, ma di buone maniere, che ci voleva bene come un padre e non ce ne perdonava una. Era venuto su da contadino, a furia di studio e di privazioni. Un galantuomo. Mia madre gli era affezionata e mio padre lo trattava come un amico. Com'è andato a finire a Condove, da Torino? Non mi riconoscerà più, certamente. Non importa, io riconoscerò lui. Quarantaquattro anni son passati. Quarantaquattro anni, Enrico, andremo a vederlo domani.
E ieri mattina alle nove eravamo alla stazione della strada ferrata di Susa. Io avrei voluto che venisse anche Garrone; ma egli non poté perché ha la mamma malata. Era una bella giornata di primavera. Il treno correva fra i prati verdi e le siepi in fiore, e si sentiva un'aria odorosa. Mio padre era contento, e ogni tanto mi metteva un braccio intorno al collo, e mi parlava come a un amico, guardando la campagna. - Povero Crosetti! - diceva. - È lui il primo uomo che mi volle bene e che mi fece del bene dopo mio padre. Non li ho mai più dimenticati certi suoi buoni consigli, e anche certi rimproveri secchi, che mi facevan tornare a casa con la gola stretta. Aveva certe mani grosse e corte. Lo vedo ancora quando entrava nella scuola, che metteva la canna in un canto e appendeva il mantello all'attaccapanni, sempre con quello stesso gesto. E tutti i giorni il medesimo umore, sempre coscienzioso, pieno di buon volere e attento, come se ogni giorno facesse scuola per la prima volta. Lo ricordo come lo sentissi adesso quando mi gridava:
- Bottini, eh, Bottini! L'indice e il medio su quella penna! - Sarà molto cambiato, dopo quarantaquattro anni.
Appena arrivati a Condove, andammo a cercare la nostra antica giardiniera di Chieri, che ha una botteguccia, in un vicolo. La trovammo coi suoi ragazzi, ci fece molta festa, ci diede notizie di suo marito, che deve tornare dalla Grecia, dov'è a lavorare da tre anni, e della sua prima figliuola, che è nell'Istituto dei sordomuti a Torino. Poi c'insegnò la strada per andar dal maestro, che è conosciuto da tutti.
Uscimmo dal paese, e pigliammo per una viottola in salita, fiancheggiata di siepi fiorite.
Mio padre non parlava più, pareva tutto assorto nei suoi ricordi, e ogni tanto sorrideva e poi scoteva la testa.
All'improvviso si fermò, e disse: - Eccolo. Scommetto che è lui.
Veniva giù verso di noi, per la viottola, un vecchio piccolo, con la barba bianca, con un cappello largo, appoggiandosi a un bastone: strascicava i piedi e gli tremavan le mani.
- È lui, - ripeté mio padre, affrettando il passo.
Quando gli fummo vicini, ci fermammo. Il vecchio pure si fermò, e guardò mio padre. Aveva il viso ancora fresco, e gli occhi chiari e vivi.
- È lei - domandò mio padre, levandosi il cappello, - il maestro Vincenzo Crosetti?
Il vecchio pure si levò il cappello e rispose: - Son io, - con una voce un po' tremola, ma piena.
- Ebbene, - disse mio padre, pigliandogli una mano, - permetta a un suo antico scolaro di stringerle la mano e di domandarle come sta. Io son venuto da Torino per vederla.
Il vecchio lo guardò stupito. Poi disse: - Mi fa troppo onore... non so... Quando, mio scolaro? mi scusi. Il suo nome, per piacere.
Mio padre disse il suo nome, Alberto Bottini, e l'anno che era stato a scuola da lui, e dove; e soggiunse: - Lei non si ricorderà di me, è naturale. Ma io riconosco lei così bene!
Il maestro chinò il capo e guardò in terra, pensando, e mormorò due o tre volte il nome di mio padre; il quale, intanto, lo guardava con gli occhi fissi e sorridenti.
A un tratto il vecchio alzò il viso, con gli occhi spalancati, e disse lentamente: - Alberto Bottini? il figliuolo dell'ingegnere Bottini? quello che stava in piazza della Consolata?
- Quello, - rispose mio padre, tendendo le mani.
- Allora... - disse il vecchio, - mi permetta, caro signore, mi permetta, - e fattosi innanzi, abbracciò mio padre: la sua testa bianca gli arrivava appena alla spalla. Mio padre appoggiò la guancia sulla sua fronte.
- Abbiate la bontà di venir con me, - disse il maestro.
E senza parlare, si voltò e riprese il cammino verso casa sua. In pochi minuti arrivammo a un'aia, davanti a una piccola casa con due usci, intorno a uno dei quali c'era un po' di muro imbiancato.
Il maestro aperse il secondo, e ci fece entrare in una stanza. Eran quattro pareti bianche: in un canto un letto a cavalletti con una coperta a quadretti bianchi e turchini, in un altro un tavolino con una piccola libreria; quattro seggiole e una vecchia carta geografica inchiodata a una parete: si sentiva un buon odore di mele.
Sedemmo tutti e tre. Mio padre e il maestro si guardarono per qualche momento, in silenzio.
- Bottini! - esclamò poi il maestro, fissando gli occhi sul pavimento a mattoni, dove il sole faceva uno scacchiere. - Oh! mi ricordo bene. La sua signora madre era una così buona signora! Lei, il primo anno, è stato per un pezzo nel primo banco a sinistra, vicino alla finestra. Guardi un po' se mi ricordo. Vedo ancora la sua testa ricciuta. - Poi stette un po' pensando. - Era un ragazzo vivo, eh? molto. Il secondo anno è stato malato di crup. Mi ricordo quando lo riportarono alla scuola, dimagrato, ravvolto in uno scialle. Son passati quarant'anni, non è vero? È stato buono tanto a ricordarsi del suo povero maestro. E ne vennero degli altri, sa, gli anni addietro, a trovarmi qui, dei miei antichi scolari: un colonnello, dei sacerdoti, vari signori. - Domandò a mio padre qual'era la sua professione. Poi disse: - Mi rallegro, mi rallegro di cuore. La ringrazio. Ora poi era un pezzo che non vedevo più nessuno. E ho ben paura che lei sia l'ultimo, caro signore.
- Che dice mai! - esclamò mio padre. - Lei sta bene, è ancora vegeto. Non deve dir questo.
- Eh no, - rispose il maestro, - vede questo tremito? - e mostrò le mani. - Questo è un cattivo segno. Mi prese tre anni fa, quando facevo ancora scuola. Da principio non ci badai; credevo che sarebbe passato. Ma invece restò, e andò crescendo. Venne un giorno che non potei più scrivere. Ah! quel giorno, quella prima volta che feci uno sgorbio sul quaderno d'un mio scolaro, fu un colpo al cuore per me, caro signore. Tirai bene ancora avanti per un po' di tempo; ma poi non potei più. Dopo sessant'anni d'insegnamento dovetti dare un addio alla scuola, agli scolari, al lavoro. E fu dura, sa, fu dura. L'ultima volta che feci lezione mi accompagnarono tutti a casa, mi fecero festa; ma io ero triste, capivo che la mia vita era finita. Già l'anno prima avevo perso mia moglie e il mio figliuolo unico. Non restai che con due nipoti contadini. Ora vivo di qualche centinaio di lire di pensione. Non faccio più nulla; le giornate mi par che non finiscano mai. La mia sola occupazione, vede, è di sfogliare i miei vecchi libri di scuola, delle raccolte di giornali scolastici, qualche libro che mi hanno regalato. Ecco lì, - disse accennando la piccola libreria; - lì ci sono i miei ricordi, tutto il mio passato... Non mi resta altro al mondo.
Poi in tono improvvisamente allegro: - Io le voglio fare una sorpresa, caro signor Bottini.
S'alzò, e avvicinatosi al tavolino, aperse un cassetto lungo che conteneva molti piccoli pacchi tutti legati con un cordoncino, e su ciascuno c'era scritta una data di quattro cifre. Dopo aver cercato un poco. ne aperse uno, sfogliò molte carte, tirò fuori un foglio ingiallito e lo porse a mio padre. Era un suo lavoro di scuola di quarant'anni fa! C'era scritto in testa: Alberto Bottini. Dettato. 3 Aprile 1838. Mio padre riconobbe subito la sua grossa scrittura di ragazzo, e si mise a leggere, sorridendo. Ma a un tratto gli si inumidirono gli occhi. Io m'alzai, domandandogli che cos'aveva.
Egli mi passò un braccio intorno alla vita e stringendomi al suo fianco mi disse: - Guarda questo foglio. Vedi? Queste sono le correzioni della mia povera madre. Essa mi rinforzava sempre gli elle e i ti. E le ultime righe son tutte sue. Aveva imparato a imitare i miei caratteri, e quando io ero stanco e avevo sonno, terminava il lavoro per me. Santa madre mia!
E baciò la pagina.
- Ecco, - disse il maestro, mostrando gli altri pacchi, - le mie memorie. Ogni anno io ho messo da parte un lavoro di ciascuno dei miei scolari, e son tutti qui ordinati e numerati. Alle volte li sfoglio, così, e leggo una riga qua e una là, e mi tornano in mente mille cose, mi par di rivivere nel tempo andato. Quanti ne son passati, caro signore! Io chiudo gli occhi, e vedo visi dietro visi, classi dietro classi, centinaia e centinaia di ragazzi, che chi sa quanti sono già morti. Di molti mi ricordo bene. Mi ricordo bene dei più buoni e dei più cattivi, di quelli che m'han dato molte soddisfazioni e di quelli che m'han fatto passare dei momenti tristi; perché ci ho avuto anche dei serpenti, si sa, in un così gran numero! Ma oramai, lei capisce è come se fossi già nel mondo di là, e voglio bene a tutti egualmente.
Si rimise a sedere e prese una delle mie mani fra le sue.
- E di me, - domandò mio padre sorridendo, - non si ricorda nessuna monelleria?
- Di lei, signore? - rispose il vecchio, sorridendo pure. - No, per il momento. Ma questo non vuol mica dire che non me n'abbia fatte. Lei però aveva giudizio, era serio per l'età sua. Mi ricordo la grande affezione che le aveva la sua signora madre... Ma è stato ben buono, ben gentile a venirmi a trovare! Come ha potuto lasciare le sue occupazioni per venire da un povero vecchio maestro?
- Senta, signor Crosetti, - rispose mio padre, vivamente. - Io mi ricordo la prima volta che la mia povera madre m'accompagnò alla sua scuola. Era la prima volta che doveva separarsi da me per due ore, e lasciarmi fuori di casa, in altre mani che quelle di mio padre; nelle mani d'una persona sconosciuta, insomma. Per quella buona creatura la mia entrata nella scuola era come l'entrata nel mondo, la prima di una lunga serie di separazioni necessarie e dolorose: era la società che le strappava per la prima volta il figliuolo, per non renderglielo mai più tutto intero. Era commossa, ed io pure. Mi raccomandò a lei con la voce che le tremava, e poi, andandosene, mi salutò ancora per lo spiraglio dell'uscio, con gli occhi pieni di lacrime. E proprio in quel punto lei fece un atto con una mano, mettendosi l'altra sul petto come per dirle: "Signora, si fidi di me." Ebbene, quel suo atto, quel suo sguardo, da cui mi accorsi che lei aveva capito tutti i sentimenti, tutti i pensieri di mia madre, quello sguardo che voleva dire: "Coraggio!" quell'atto che era un'onesta promessa di protezione, d'affetto, d'indulgenza, io non l'ho mai scordato m'è rimasto scolpito nel cuore per sempre; ed è quel ricordo che m'ha fatto partir da Torino. Ed eccomi qui, dopo quarantaquattro anni, a dirle: Grazie, caro maestro.
Il maestro non rispose: mi accarezzava i capelli con la mano, e la sua mano tremava, tremava, mi saltava dai capelli sulla fronte, dalla fronte sulla spalla.
Intanto mio padre guardava quei muri nudi, quel povero letto, un pezzo di pane e un'ampollina d'olio ch'eran sulla finestra, e pareva che volesse dire: - Povero maestro, dopo sessant'anni di lavoro, è questo tutto il tuo premio?
Ma il buon vecchio era contento e ricominciò a parlare con vivacità della nostra famiglia, di altri maestri di quegli anni, e dei compagni di scuola di mio padre; il quale di alcuni si ricordava e di altri no, e l'uno dava all'altro delle notizie di questo e di quello; quando mio padre ruppe la conversazione per pregare il maestro di scendere in paese a far colazione con noi. Egli rispose con espansione: - La ringrazio, la ringrazio; - ma pareva incerto. Mio padre gli prese tutt'e due le mani e lo ripregò. - Ma come farò a mangiare, - disse il maestro - con queste povere mani che ballano in questa maniera? È una penitenza anche per gli altri! - Noi l'aiuteremo, maestro - disse mio padre. E allora accettò, tentennando il capo e sorridendo.
- Una bella giornata questa, - disse chiudendo l'uscio di fuori, - una bella giornata, caro signor Bottini! Le accerto che me ne ricorderò fin che avrò vita.
Mio padre diede il braccio al maestro, questi prese per mano me, e discendemmo per la viottola. Incontrammo due ragazzine scalze che conducevan le vacche, e un ragazzo che passò correndo, con un gran carico di paglia sulle spalle. Il maestro ci disse che eran due scolare e uno scolaro di seconda, che la mattina menavan le bestie a pasturare e lavoravan nei campi a piedi nudi, e la sera si mettevano le scarpe e andavano a scuola. Era quasi mezzogiorno. Non incontrammo nessun altro. In pochi minuti arrivammo all'albergo, ci sedemmo a una gran tavola, mettendo in mezzo il maestro, e cominciammo subito a far colazione. L'albergo era silenzioso come un convento. Il maestro era molto allegro, e la commozione gli accresceva il tremito; non poteva quasi mangiare. Ma mio padre gli tagliava la carne, gli rompeva il pane, gli metteva il sale nel tondo. Per bere bisognava che tenesse il bicchiere con due mani, e ancora gli batteva nei denti. Ma discorreva fitto, con calore, dei libri di lettura di quando era giovane, degli orari d'allora, degli elogi che gli avevan fatto i superiori, dei regolamenti di quest'ultimi anni, sempre con quel viso sereno, un poco più rosso di prima, e con una voce gaia, e il riso quasi d'un giovane. E mio padre lo guardava, lo guardava, con la stessa espressione con cui lo sorprendo qualche volta a guardar me, in casa, quando pensa e sorride da sé, col viso inclinato da una parte. Il maestro si lasciò andar del vino sul petto; mio padre s'alzò e lo ripulì col tovagliolo. - Ma no, signore, non permetto! - egli disse, e rideva. Diceva delle parole in latino. E in fine alzò il bicchiere, che gli ballava in mano, e disse serio serio: - Alla sua salute, dunque, caro signor ingegnere, ai suoi figliuoli, alla memoria della sua buona madre! - Alla vostra, mio buon maestro! - rispose mio padre, stringendogli la mano. E in fondo alla stanza c'era l'albergatore ed altri, che guardavano, e sorridevano in una maniera, come se fossero contenti di quella festa che si faceva al maestro del loro paese.
Alle due passate uscimmo e il maestro ci volle accompagnare alla stazione. Mio padre gli diede di nuovo il braccio ed egli mi riprese per la mano: io gli portai il bastone. La gente si soffermava a guardare, perché tutti lo conoscevano, alcuni lo salutavano. A un certo punto della strada sentimmo da una finestra molte voci di ragazzi, che leggevano insieme, compitando. Il vecchio si fermò e parve che si rattristasse.
- Ecco, caro signor Bottini, - disse, - quello che mi fa pena. È sentir la voce dei ragazzi nella scuola, e non esserci più, pensare che c'è un altro. L'ho sentita per sessant'anni questa musica, e ci avevo fatto il cuore... Ora son senza famiglia. Non ho più figliuoli.
- No, maestro, - gli disse mio padre, ripigliando il cammino, - lei ce n'ha ancora molti figliuoli, sparsi per il mondo, che si ricordano di lei, come io me ne son sempre ricordato.
- No, no, - rispose il maestro, con tristezza, - non ho più scuola, non ho più figliuoli. E senza figliuoli non vivrò più un pezzo. Ha da sonar presto la mia ora.
- Non lo dica, maestro, non lo pensi, - disse mio padre. - In ogni modo, lei ha fatto tanto bene! Ha impiegato la vita così nobilmente!
Il vecchio maestro inclinò un momento la testa bianca sopra la spalla di mio padre, e mi diede una stretta alla mano.
Eravamo entrati nella stazione. Il treno stava per partire.
- Addio, maestro! - disse mio padre, baciandolo sulle due guancie.
- Addio, grazie, addio, - rispose il maestro, prendendo con le sue mani tremanti una mano di mio padre, e stringendosela sul cuore.
Poi lo baciai io, e gli sentii il viso bagnato. Mio padre mi spinse nel vagone, e al momento di salire levò rapidamente il rozzo bastone di mano al maestro, e gli mise invece la sua bella canna col pomo d'argento e le sue iniziali, dicendogli: - La conservi per mia memoria.
Il vecchio tentò di renderla e di riprender la sua; ma mio padre era già dentro, e aveva richiuso lo sportello.
- Addio, mio buon maestro!
- Addio, figliuolo, - rispose il maestro, mentre il treno si moveva, - e Dio la benedica per la consolazione che ha portato a un povero vecchio.
- A rivederci! - gridò mio padre, con voce commossa.
Ma il maestro crollò il capo come per dire: - Non ci rivedremo più.
- Sì, sì, - ripeté mio padre, - a rivederci.
E quegli rispose alzando la mano tremola al cielo: - Lassù.
E disparve al nostro sguardo così, con la mano in alto.
Convalescenza
20, giovedì
Chi m'avrebbe detto quando tornavo così allegro da quella bella gita con mio padre che per dieci giorni non avrei più visto né campagna né cielo! Son stato molto malato, in pericolo di vita. Ho sentito mia madre singhiozzare, ho visto mio padre pallido pallido, che mi guardava fisso, e mia sorella Silvia e mio fratello che discorrevano a bassa voce, e il medico, con gli occhiali, che era ogni momento lì, e mi diceva delle cose che non capivo. Proprio, son stato a un punto dal dare un addio a tutti. Ah povera mia madre! Son passati almeno tre o quattro giorni di cui non mi ricordo quasi nulla, come se avessi fatto un sogno imbrogliato e oscuro. Mi sembra d'aver visto accanto al mio letto la mia buona maestra di prima superiore che si sforzava di soffocar la tosse col fazzoletto, per non disturbarmi; ricordo così in confuso il mio maestro che si chinò a baciarmi e mi punse un poco il viso con la barba; e ho visto passare come in una nebbia la testa rossa di Crossi, i riccioli biondi di Derossi, il calabrese vestito di nero, e Garrone che mi portò un mandarino con le foglie e scappò subito perché sua madre stava male. Poi mi destai come da un sonno lunghissimo, e capii che stavo meglio vedendo mio padre e mia madre che sorridevano, e sentendo Silvia che canterellava. Oh che triste sogno è stato! Poi ho cominciato a migliorare ogni giorno. È venuto il "muratorino" che m'ha rifatto ridere per la prima volta col suo muso lepre; e come lo fa bene ora che gli s'è allungato un po' il viso per la malattia, poveretto! È venuto Coretti, è venuto Garoffi a regalarmi due biglietti della sua nuova lotteria per "un temperino a cinque sorprese" che comprò da un rigattiere di via Bertola. Ieri poi, mentre dormivo, è venuto Precossi, e ha messo la guancia sopra la mia mano, senza svegliarmi, e come veniva dall'officina di suo padre col viso impolverato di carbone, mi lasciò l'impronta nera sulla manica, che mi ha fatto un gran piacere a vederla, quando mi sono svegliato. Come son diventati verdi gli alberi in questi pochi giorni! E che invidia mi fanno i ragazzi che vedo correre alla scuola coi loro libri, quando mio padre mi porta alla finestra! Ma fra poco ci tornerò io pure. Sono tanto impaziente di rivedere tutti quei ragazzi, il mio banco, il giardino, quelle strade; di sapere tutto quello che è accaduto in questo tempo; di rimettermi ai miei libri e ai miei quaderni, che mi pare un anno che non li vedo più! Povera mia madre, com'è dimagrata e impallidita. Povero padre mio, come ha l'aria stanca. E i miei buoni compagni, che son venuti a trovarmi e camminavano in punta di piedi e mi baciavano in fronte! Mi fa tristezza ora a pensare che un giorno ci separeremo. Con Derossi, con qualche altro, continueremo a far gli studi insieme, forse; ma tutti gli altri? Una volta finita la quarta, addio; non ci vedremo più; non li vedrò più accanto al mio letto quando sarò malato; Garrone, Precossi, Coretti, tanti bravi ragazzi, tanti buoni e cari compagni, mai più!
Gli amici operai
20, giovedì