Capitolo nove
Schloss Siegel, 2010
Anna aveva due possibilità, nessuna delle quali la convinceva. La prima era chiamare Max e chiedergli se ricordava la posizione esatta dell’anello. La seconda era scalzare tutte le travi del pavimento della stanza. Di certo non poteva telefonare a suo nonno, perché in quel momento stava dormendo. Anna si maledisse per la milionesima volta per non essere riuscita a estorcergli maggiori dettagli sul nascondiglio dell’anello. E per l’opzione due… la casa non era sua e non poteva distruggerla. Per sollevare il pavimento ci sarebbero volute ore di lavoro. Lei non ne sarebbe stata in grado e molto probabilmente neanche Wil.
Gli operai avevano tolto il linoleum, ispezionato il pavimento e informato Wil e Anna che non c’era nessun problema. Ora che se n’erano andati, Wil stava frugando in uno scatolone di cartone che aveva portato con sé.
«Okay, Anna», annunciò, «è ora di fare le cose per bene».
Anna lo guardò. «Davvero?», chiese senza riuscire a reprimere il sorriso. Era molto divertente osservare l’espressione perplessa di Wil mentre studiava gli attrezzi uno per uno. Anna si morse un labbro per non ridere.
«Li ho chiesti in prestito a un amico», spiegò lui.
«Ingegnoso».
Wil prese dei guanti protettivi, una mazza e una scatoletta nera.
«È uno scanner», spiegò, impressionato.
«Cosa dobbiamo scannerizzare?»
«Lo passiamo sul pavimento e localizziamo tubi e fili elettrici, naturalmente». Sogghignò.
«Certo. Domanda stupida».
Lui brandì la mazza. «Poi usiamo questa».
«Senz’altro».
«E il piede di porco», aggiunse Wil, prendendone uno dallo scatolone.
«Be’, mi sembra che tu sappia il fatto tuo». Le labbra di Anna fremettero.
Lui la fissò. «Non sono del tutto incompetente».
Lei rise. «Ma certo che no, uomo di fatica. Da dove iniziamo?»
«Io posso essere il braccio, Anna. La mente devi mettercela tu».
Ma Anna non aveva idee. Osservò le assi, totalmente prive di segni particolari.
«Bene», disse alla fine. «Mi sembra evidente che Max non abbia segato in due una trave, quindi deve aver nascosto l’anello nel punto più facilmente raggiungibile».
«Brillante», esclamò Wil. «Ecco perché ti ho portata». Si appoggiò al davanzale, incorniciato dai bizzarri ritagli di giornale che tappavano i vetri. La lama di luce faceva risaltare i suoi bei lineamenti.
«Quindi», proseguì Anna, cercando di ignorare la sua posa. Wil non era lì solo per ammaliarla e divertirla, no? Dovevano lavorare. Si mise a camminare con gli occhi fissi a terra. «Dovremmo iniziare dalle assi più corte. Vedi», disse, fermandosi in mezzo alla stanza. «Certe sono lunghe la metà delle altre. Max potrebbe aver scelto una di quelle».
«Sì, e poi al centro doveva esserci un tappeto. Iniziamo dai lati della stanza».
Wil fece passare lo scanner sull’asse corta più vicina a lui. L’apparecchio non emise alcun suono.
«Bene, penso che si possa procedere. Anche se è un vero peccato schiodare questo bel parquet», disse Anna. «Un’ultima cosa».
Wil si fermò, col piede di porco già infilato nella fessura. «Solo una?», chiese, con un’occhiata maliziosa.
Lei raggiunse la finestra. Cosa sarebbe successo se avessero trovato l’anello? Magari Max sarebbe stato soddisfatto, ma i problemi del villaggio sarebbero rimasti esattamente come prima. Non riusciva a rassegnarsi al declino del palazzo. Ma cosa poteva fare?
«Dimmi», insistette lui.
«Forse è il fatto che Max sia in ospedale. Rende tutto più difficile», disse Anna tra sé e sé. «Inizia pure, scusa se ti ho fermato».
«No, dimmelo, avanti».
Lei scosse la testa.
«Cosa c’è?».
Anna osservò il giardino abbandonato. «È tutto così sbagliato. Lo Schloss non può restare così per sempre. Presto non sarà solo un posto abbandonato, sarà...».
«Una rovina», disse lui sottovoce.
Lei annuì. «Non è ancora troppo tardi per salvarlo, ma tra qualche anno lo sarà. E tra qualche anno mio nonno non ci sarà più, quindi...».
«Va bene». Wil posò il piede di porco. «Primo: so che è doloroso, ma ti consiglio di non sprecare altro tempo a cercare di salvare il passato, perché non c’è niente da fare. Mio nonno ha già tentato tutto il possibile e ha fallito. Ne è rimasto distrutto, e non voglio che accada la stessa cosa anche a te».
Anna sospirò. «Non credo che riuscirò a sopportarlo».
«Anna», disse Wil. «Perché non cerchiamo questo anello e basta? Se vuoi più tardi parleremo dello Schloss, ma… devi essere realistica».
Anna si strinse le braccia intorno al corpo. Cosa poteva rispondere? Realistica era il suo secondo nome. Cosa le era preso? Lei accettava le cose come stavano, niente di più, poi continuava a fare il suo lavoro. Come mai ora era così agitata? Non era certo quello il primo colpo doloroso che la vita le infliggeva.
«Non lo so», balbettò. «Mi sono solo lasciata prendere troppo».
Wil la guardò poi abbassò gli occhi sul pavimento. Fece leva col piede di porco e l’asse si sollevò facilmente. Anna si avvicinò e si chinò a guardare la polvere sotto il pavimento. Allora accadde qualcosa di strano: per qualche motivo un altro pensiero, un’altra sensazione ancora più forte la colpì.
Quella era stata la stanza di Max.
Quanti segreti, quanti ricordi giacevano li sotto nella polvere? Quante volte negli ultimi settant’anni Max aveva chiuso gli occhi sognando quella stessa stanza? Non sarebbe più tornato, non l’avrebbe più rivista. Aveva perso l’ultima occasione. La vita che aveva vissuto era stata ben diversa da quella che aveva immaginato. Eppure aveva scelto di non tornare. Era stato lui a decidere. Perché? Quali erano davvero i suoi rimpianti?
Com’era scomparsa in fretta la sua vita di un tempo. Eppure lo Schloss era ancora lì, scolpito nella storia, testimone silenzioso degli eventi. Quale ragione poteva esserci per costringere Max a voltare le spalle a tutto e a tutti? Cos’era accaduto realmente, e perché?
«Stai bene?»
«Certo», rispose Anna, tornando a concentrarsi sulla stanza.
«Credo che dovremmo andare avanti». Wil scelse un’altra asse e iniziò a passare lo scanner sul pavimento.
Dopo aver ripetuto la stessa operazione parecchie volte, Wil si arrese e si sedette sui talloni, aspettando che lei gli dicesse cosa fare. Di una cosa Anna era sicura: non voleva andarsene senza quell’anello. Eppure non voleva nemmeno sprecare il tempo prezioso di Wil.
«Non posso rubarti tutto il giorno», disse. La voce le uscì più bassa del previsto e sembrò aleggiare per un momento nello spazio vuoto. Il silenzio, l’immobilità… quel palazzo sembrava risucchiare ogni cosa. Il passato e i sentimenti di chi un tempo era stato lì lo infestavano come fantasmi.
Era per via della foresta che lo circondava? Era per via dell’abbandono che si sentiva qualcosa di strano sfrigolare nell’aria?
Anna sapeva che il vecchio palazzo era in attesa e aveva l’inquietante sensazione che aspettasse proprio lei.
«Non preoccuparti del tempo», disse Wil scuotendo la testa. «Andiamo avanti».
Lei annuì. «Va bene. Ti ringrazio».
«Di niente, sono nel mio elemento». Wil sorrise, riprese lo scanner e ben presto furono a metà della stanza. Avevano creato un metodo: lui sollevava un’asse e lei controllava sotto, cercando possibili nascondigli.
Il tempo volò. Il sole sembrò essersi spostato all’improvviso, e loro se ne resero conto solo quando le ombre si allungarono sul pavimento. Anna ormai era così coinvolta e concentrata da aver dimenticato tutto il resto. Per fortuna anche Wil sembrava altrettanto determinato. Non si era lamentato del tempo perso e non aveva sottolineato il fatto che o l’anello era nascosto così bene che non l’avrebbero mai ritrovato o qualcuno l’aveva già trovato e portato via.
Solo alle quattro del pomeriggio lui si fermò e si sedette sul pavimento. «Anna...», mormorò.
Lei era china sull’ultima asse rimossa. Era stata sul punto di rimetterla a posto, quando le era sembrato di vedere qualcosa. Aveva iniziato a scavare nella sporcizia. Aveva sperato di sentire qualcosa sotto le dita, magari una scatolina, ma di nuovo si era ritrovata stringere solo polvere.
Alzò gli occhi su Wil quando sentì la sua voce, poi lo raggiunse senza parlare.
«Guarda tu stessa», disse, spostandosi in modo che lei potesse guardare nell’ultimo punto scoperto.
Era lì. La scatolina di velluto che un tempo doveva essere stata blu scuro, ormai scolorita e sudicia per il tempo passato. La stoffa era lacerata e lasciava scoperto il legno sbiadito ma ancora solido.
Anna allungò le dita. La sua mano era ferma, ma il resto del corpo tremava per un’emozione che non riguardava lei, ma suo nonno Max e la donna che aveva amato.
Schloss Siegel, Natale 1934
La mattina di Santo Stefano Max e Isabelle si stavano servendo da soli la colazione dai vassoi d’argento.
«Che programmi hai per oggi?», le chiese lui.
«Oggi? Be’, penso di essere libera», rispose lei allegramente.
«Cos’è successo ieri sera?».
Max era così vicino che Isabelle avrebbe potuto posargli la testa sulla spalla. Non poteva dirgli la verità sulla fastidiosa conversazione avuta con Nadja. «Troppe emozioni, temo», mentì.
Lui rimase in silenzio. Isabelle capì che non ci era cascato, ma poi lui cambiò argomento. «Mi sono reso conto di essere stato troppo preso dai miei problemi in questi giorni. Mi dispiace».
«Oh, non essere sciocco», rise Isabelle. «Qui sono veramente felice».
«Vorrei portarti a fare un giro in slitta stamattina. Solo tu e io. Ti andrebbe?».
Isabelle si sentì come se lui le avesse proposto di volare in Costa Azzurra per un cocktail. «Sì, mi andrebbe», disse, senza nascondere il sorriso.
Un’ora più tardi, dopo che la cameriera la ebbe aiutata a indossare le “zampe di elefante”, Isabelle si aggrappò al braccio di Max e scese i gradini dell’ingresso per raggiungere la slitta che li aspettava. Fuori c’era silenzio e il sole era così limpido da far scintillare la neve del giardino.
Quando Isabelle fu a bordo, avvolta negli strati di coperte e guanti caldi, al sicuro accanto a Max, si sentì tranquilla come non le capitava da giorni. Il bianco paesaggio gelato non era solo silenzioso, ma anche confortante.
Max le fece fare un giro del parco, intorno al lago ghiacciato con la barchetta ormeggiata al molo, oltre l’orangerie fino alla foresta, lungo il sentiero che d’estate Max percorreva a piedi o a cavallo.
In quel bosco non era difficile immaginare fate ed elfi che facevano capolino tra gli alberi.
Max rise quando Isabelle glielo disse. «Sei davvero spassosa».
«Di sicuro non sono la prima persona a pensare una cosa del genere».
«No, hai ragione». Fermò la slitta in una radura. «Voglio mostrarti una cosa», disse. Le offrì il braccio per aiutarla a scendere e fecero qualche passo verso la foresta.
Inoltrandosi tra gli alberi, Isabelle vide qualcosa che dal sentiero non si notava: una graziosa e minuscola casetta che sbucava fuori dalla neve, con una torretta rotonda e appuntita e una porticina curva col battente nero e lucido.
«Oh, non posso crederci», esclamò Isabelle toccando le pietre chiare della costruzione con la mano guantata. «Adesso siamo davvero in una fiaba dei fratelli Grimm».
«La costruì mio nonno», spiegò Max. «Per mia nonna, che amava follemente. Lei era inglese. Si erano incontrati a Parigi».
«Oh», mormorò Isabelle, guardandolo negli occhi.
«La portò qui l’estate seguente», continuò Max accarezzandole la guancia morbida. «E le chiese di sposarlo, subito, senza ulteriori indugi».
E senza Hitler, pensò Isabelle. Poi si sforzò di cancellare quel pensiero come se non fosse reale. Non voleva che lo fosse. Voleva che Hitler fosse un brutto sogno e il suo amore per Max la realtà.
Max si chinò a baciarla, così teneramente che Isabelle pensò che sarebbe morta se lui si fosse fermato.
«Ora dobbiamo rientrare», disse Max dopo qualche attimo, senza rompere l’incantesimo.
Isabelle aveva ancora il delizioso viaggio di ritorno con lui sulla slitta. La giornata non era finita e neanche la settimana.
«La cuoca avrà già suonato il gong del pranzo», disse Max, calzandole meglio il cappello di pelliccia per coprirle le orecchie. «Si offende a morte se qualcuno fa tardi», aggiunse.
«Mi sembra giusto». Isabelle sorrise. «Non facciamola aspettare».
«In realtà vorrei poterlo fare», mormorò lui, ma poi le prese la mano per aiutarla a risalire sulla slitta. «Vorrei che avessimo più tempo per stare insieme», aggiunse.
«Be’, per qualche giorno ancora nessuno di noi andrà da nessuna parte», ribatté Isabelle accomodandosi sul sedile.
Mentre si sedeva sulla slitta, sul viso di Max passò l’ombra contorta di un grosso ramo. Poi però l’ombra scomparve e per tutto il viaggio di ritorno lungo un vecchio sentiero che si snodava nella foresta silenziosa, tra alberi immobili e ghiaccio, tornò la luce.
* * *
Due giorni dopo Isabelle scese dall’auto di Max, a Berlino. Nella sua vita a Parigi la ragazza era stata invitata a più balli di quanti potesse ricordare, eppure si era sempre sentita un’estranea. Nessuna di quelle feste era stata memorabile. Invece quella sera, nel lussuoso Hotel Adlon, la scena era ben diversa. Isabelle si sentiva ancora più elettrizzata perchè era con Max, che le aveva detto che l’Adlon era uno degli alberghi più famosi d’Europa.
Indossava un vestito di seta chiara, aderente sul corpetto e lungo fino ai piedi. Quando sfilò la pelliccia, Max le posò una mano sulla schiena. Non si era mai sentita così viva prima di allora.
Gli invitati erano dignitari e giornalisti stranieri, che chiacchieravano e camminavano in un salone grandioso pieno di fiori e dorature. Tutti sembravano perfettamente a loro agio e incredibilmente sofisticati. Per la prima volta Isabelle capì come doveva essersi sentita sua nonna la prima volta che era stata ammessa nell’alta società di Parigi: tollerata, ma non riconosciuta del tutto.
Max partecipava come rappresentante della sua famiglia. Otto Albrecht era stato invitato in quanto maggior possidente di Prussia, ma aveva ceduto il posto al figlio.
Più tardi, durante la festa, Max si ritrovò coinvolto in una discussione con un giornalista americano molto interessato alle sue opinioni sul futuro della famiglia Albrecht in un paese governato da Hitler. Max teneva la mano di Isabelle mentre lei chiacchierava in francese con l’uomo alla sua sinistra, un affascinate corrispondente svizzero. Prima di sedersi a cena al tavolo da duecento posti, la ragazza aveva ballato con lui.
Eppure, poco tempo dopo, il cuore di Isabelle sprofondò fino alle scarpette di satin rosa. Solo quando vide Max parlare con un uomo in divisa iniziò a intuire cosa stava per succedere. Lui sembrava molto interessato alle parole del nazista. Isabelle cercò di incontrare il suo sguardo, ma Max distolse gli occhi in fretta. Alla fine i due uomini si strinsero la mano e Max disse si sarebbe arruolato il mattino dopo.
All’improvviso Isabelle sentì freddo ed ebbe voglia di tornare a casa.
* * *
Il mattino seguente la servitù si schierò nel vialetto per salutare il padroncino in partenza. Isabelle avrebbe voluto stringerlo disperatamente tra le braccia, ma non poteva mostrare le sue emozioni davanti a tutti. Trattenne le lacrime con tutte le sue forze.
Mentre tornavano a casa in macchina, nelle prime ore del mattino dopo la festa, Max le aveva rivelato che Hitler intendeva riportare il servizio militare obbligatorio. Si vociferava già di un esercito di coscritti, quindi molto probabilmente sarebbe stato chiamato alle armi in ogni caso.
Max aveva parlato con i suoi genitori. Loro gli avevano ricordato che era suo dovere arruolarsi subito, che sapevano che Max non li avrebbe delusi e che non avrebbe mancato di fare la cosa giusta per il futuro della Germania, della famiglia, del villaggio, della loro prosperità e del loro stile di vita. Soprattutto lo avevano convinto che il paese doveva essere protetto. Max avrebbe fatto ciò che avevano fatto molte generazioni di antenati prima di lui, incluso il padre che aveva combattuto nell’ultima guerra.
In quel momento, mentre il figlio partiva, il grande proprietario terriero Otto Albrecht rimase in silenzio. Elsa invece posò la mano sulla spalla di Max, si alzò in punta di piedi e lo baciò sulla guancia giovane e morbida.
Quando arrivò il momento di salutare formalmente Isabelle, Max non si dilungò. L’aveva già fermata sulle scale dopo colazione e in quel momento si erano abbracciati. Isabelle aveva passato una notte insonne, eppure quando si era guardata allo specchio dopo aver salutato Max, i suoi occhi erano spalancati e terribilmente svegli.
Max si chinò a baciarla sulla guancia. La ragazza aspirò il profumo familiare del suo dopobarba, lo tenne vicino a sé ancora per un attimo e chiuse gli occhi.
«Spero di rivederti presto, mia cara», le disse lui.
Per l’ultima volta Isabelle gli prese la mano e gli accarezzò il palmo tiepido con le punte delle dita. Annuì. Non trovava le parole giuste. Perché era così difficile separarsi da lui? Non c’era una risposta sensata a quella domanda. Non sapeva perché lo amasse, né che cosa sarebbe successo in seguito, né se l’avrebbe rivisto ancora.
Berlino, 2010
Wil accostò davanti all’hotel di Anna. Il viaggio di ritorno da Siegel era stato rapido. Anna stringeva il minuscolo cofanetto al sicuro tra le sue dita. Wil si era sforzato di parlare del più e del meno ma le cose non dette pendevano su di loro come la lampadina fulminata nell’ingresso principale di Schloss Siegel. Se si fosse accesa avrebbe illuminato molti dettagli: le crepe nella loro conversazione, la polvere mai rimossa, tutte le cose sospese che restavano tali ogni volta che si incontravano.
I turisti entravano e uscivano dalle porte scorrevoli di vetro con le loro cartine spiegate in mano.
«Dunque hai trovato ciò che stavi cercando», disse Wil, abbassando la voce mentre spegneva il motore della macchina. Fece una breve pausa. «Anna, so che vorresti parlare dello Schloss, ma ti suggerisco di lasciar perdere. Torna alla tua vita e dimentica il passato».
«Non posso farlo». Non avrebbe mai immaginato di prendere tanto a cuore le sorti di un vecchio palazzo. Di solito non era affatto sentimentale, anzi le persone la accusavano di essere troppo pratica. Ma se si fosse limitata a tornare, restituire l’anello a Max e andare avanti avrebbe solo mentito a se stessa su quello che davvero desiderava.
Wil sembrava sorridere con gli occhi. «Torna da tuo nonno. Hai una vita vera a San Francisco, non gettare tutto alle ortiche per inseguire fantasmi. Non puoi cambiare nulla qui in Germania».
Anna rigirò il portagioie sbiadito tra le dita. Schiacciò il bottoncino argentato della chiusura e sollevò il coperchio per guardare l’anello adagiato sulla seta sfibrata.
Stranamente, l’anello era ancora in condizioni quasi perfette. Ovviamente si era ossidato col tempo, ma settant’anni di buio non ne avevano guastato la bellezza intrinseca. Era il simbolo di un sogno mai realizzato. Ma perché? Cos’era accaduto? Cosa aveva impedito a Max di stare con la donna che amava? Come mai ne parlava come del suo più grande rimpianto, mantenendo il segreto per settant’anni?
Wil tenne le mani sul volante, ma guardò l’anello. Il singolo diamante purissimo era incastonato in una fascetta d’oro decorata da incisioni Art déco.
«Sembra una fiaba al contrario», sussurrò Anna.
«Che cosa?», chiese Wil paziente.
«La storia di Max. per qualche motivo non ha potuto avere il suo lieto fine e si è ricreato una vita parallela nel Nuovo Mondo».
Per fortuna Wil non rise.
«Ora devo andare», disse Anna, chiudendo la scatolina di scatto e slacciando la cintura di sicurezza. «Grazie», aggiunse. «Max ne sarà incredibilmente felice».
«È stato un piacere», rispose Wil. «Diverso dai soliti casi. È stato interessante».
Quando Wil lo definì un “caso”, Anna si sentì improvvisamente abbattuta, ma fece finta di nulla. «Ti servirà un indirizzo per la fattura».
«Non essere ridicola».
Anna si girò a guardarlo.
I suoi occhi incontrarono quelli di lui e Wil si passò una mano sul mento ispido di barba. «Non posso chiederti una cosa del genere». Scosse la testa.
In quel momento, qualcosa dentro di lei scattò. Non poteva lasciare tutto così: doveva dire qualcosa, subito.
«Wil» iniziò, «non posso tornare a casa abbandonando Siegel in questo stato. Devo fare qualcosa. Non riuscirai a farmi cambiare idea».
«Sarebbe solo tempo buttato. Non arriverai da nessuna parte».
«So che tuo nonno ha tentato e fallito e ne ha sofferto molto. E lo capisco. Ma se rinuncio me ne pentirò per tutta la vita».
«Non servirà a nulla».
«Per strada ho pensato a un piano».
Lui scosse la testa, ma Anna vide i suoi lineamenti ammorbidirsi.
«Primo, bisogna scoprire cos’è successo, perché il castello e il villaggio sono in queste condizioni. Poi voglio parlare coi nuovi proprietari e cercare di convincerli a fare qualcosa. Non voglio comprare lo Schloss. Non voglio percorrere la strada di tuo nonno, ma lasciare il palazzo in rovina sarebbe un crimine».
«Ma tu non sei tedesca. Non vivi nemmeno qui. Come pensi di fare?»
«Sono tedesca per un quarto. E questo posto fa parte di me».
Wil si appoggiò al volante. «So che conosci già il ritornello, ma è impossibile per uno straniero capire cos’è successo qui. È tutto maledettamente complicato. Non puoi pensare di arrivare e...».
«Ma qualcuno deve farlo!».
«Ogni intervento da parte tua sarebbe letto come un’ingerenza. Lo Schloss ormai appartiene ad altri, è fuori dalla tua portata. Scusami se sono brutale, ma devi andare avanti. Rassegnati. Lascia perdere».
«Come mi sentirei se non tentassi nemmeno?».
Wil strinse le labbra. «Sei sicura di non essere un’avvocatessa sotto copertura? Ma alla fine la scelta è tua. Se proprio vuoi, puoi decidere di morire inseguendo un progetto pur sapendo che ti distruggerà. Come ho detto...».
«Come hai detto, posso scegliere. E la scelta è solo mia».
Wil alzò le sopracciglia.
«Innanzitutto voglio fare altre ricerche. Posso contare su di te, se dovessi avere bisogno di aiuto?».
Lui si appoggiò allo schienale. «Io ti ho avvisata».
Anna era irritata. Tuttavia aveva bisogno di Wil se davvero intendeva contattare i proprietari di Siegel.
«Non ti servirà a niente cercare», ribatté lui, quasi allegramente. «Lo Schloss è intestato a un fondo di investimento il cui nome non significa nulla. E, se per caso te lo stessi chiedendo, io non ti dirò nulla».
«Capisco».
Anna sapeva che Wil non sarebbe rimasto a guardare qualcun altro buttare i suoi anni migliori facendo quello che aveva fatto suo nonno. Eppure, se fosse riuscita a portarlo dalla sua parte, Wil sarebbe stato di grande aiuto. Lui era esattamente l’uomo di cui aveva bisogno: parlava tedesco, conosceva la zona e la storia della sua famiglia e rappresentava i nuovi proprietari.
Anna posò la mano sulla maniglia della portiera.
«Anna», iniziò Wil.
«Ti sono molto grata per avermi aiutata». Anna decise di puntare sulla cortesia. «Sei stato davvero gentile». Gli porse la mano.
Wil sembrò trattenere un sorriso. «È stato un piacere», disse. «Nessun problema. Stammi bene e buon rientro a San Francisco».
Lei annuì e scese dalla macchina.
* * *
La prima cosa che Anna fece appena rientrata in albergo fu prendere il telefono e chiamare Max. Si sdraiò sul letto e aspettò di essere messa in linea, guardando fuori dalla finestra l’edificio di fronte, un altro nuovo blocco di uffici nella vecchia Berlino est.
«Oh, brava la mia ragazza!», esclamò Max quando Anna gli disse di aver trovato l’anello. Lei sorvolò sui dettagli. Gli disse solo come si era sentita entrando nella sua vecchia stanza e raccontò che la vista sul lago doveva essere la stessa di settant’anni prima.
«Ti ringrazio», disse il vecchio. «Davvero. Non hai idea di cosa significhi per me rivedere quell’anello...»
Tuttavia nella sua voce c’era una stanchezza abbastanza preoccupante. Anna decise di non impegnarlo ulteriormente raccontandogli dei suoi piani per indagare su Schloss Siegel.
«Nonno», gli disse, rendendosi conto che il vecchio era davvero esausto. «Ti dispiacerebbe se restassi ancora un po’ in Germania?».
Lui fece una risata debole. «Ne sarei felicissimo. Hai davvero bisogno di goderti una pausa dal lavoro».
«Grazie!». Anna avrebbe provato a fare più in fretta possibile.
«Qui si prendono cura di me in modo impeccabile», continuò Max, come se avesse visto gli ingranaggi girare nel cervello della nipote. «È il momento perfetto per fare una vacanza. Mi sei stata vicina per anni. Adesso sono in ospedale, perfettamente accudito e circondato da infermieri adorabili».
Aveva ragione. Se ce ne fosse stato bisogno, Anna avrebbe trovato facilmente un volo per tornare a casa.
Ma le sue ricerche non riguardavano solo il passato, ma anche il futuro, il patrimonio della sua famiglia, la bellezza e soprattutto le persone. Anna voleva trovare il modo per riportare il villaggio di Siegel alla vita. Era solo a un’ora di viaggio da una delle più vivaci capitali europee. Di sicuro si poteva fare qualcosa. Se avesse trovato degli investitori, qualcuno disposto ad affiancare i proprietari…
«Non mi dire che hai un progetto». La voce del nonno si intromise nei suoi ragionamenti.
Era sempre stato capace di leggere dentro di lei. «No, no», mentì Anna, alzandosi per raggiungere la scrivania moderna e stravagante. Aprì il computer portatile. «Vorrei solo visitare i dintorni, tutto qui. È un posto interessante».
Scese il silenzio. Anna pensò di non essere riuscita a ingannare il nonno. «Bene», disse lui alla fine. «Forse hai incontrato qualcuno...».
«Non essere ridicolo», tagliò corto lei, aprendo il motore di ricerca. «Sto benissimo così, grazie».
«Oh, tesoro...». La voce di Max si spense. Era davvero esausto. Anna aveva fatto bene a non affaticarlo con i suoi piani.
Avrebbe fatto tutto il possibile da sola. Ne avrebbe parlato a Max solo se avesse avuto qualche speranza concreta.