Capitolo quattordici
Parigi, 1939
Gli alberi che orlavano i sentieri del cimitero di Montmartre avevano i rami nudi. Isabelle distolse gli occhi dalle tombe abbandonate che erano lì fin dall’apertura del cimitero nel 1825. I suoi pensieri correvano verso domande inevitabili. Chi erano le persone sepolte laggiù? Com’erano state le loro vite? Eppure c’era solo una persona che contava davvero per lei: Marthe. L’unica costante della sua vita se n’era andata per sempre.
Sua nonna non aveva lottato per vivere. Non si era opposta alla lenta decadenza che l’aveva indebolita, non si era lamentata della polmonite che le aveva deteriorato il petto, costringendola a tossire tutte le notti. Isabelle era stata seduta al suo capezzale durante le lunghe ore fredde, le aveva asciugato la fronte e stretto la mano bollente, ma non avrebbe saputo cosa fare senza Camille. Il silenzioso senso pratico della giovane cameriera, la sua rassegnazione, erano benedizioni che avevano insegnato a Isabelle che non si poteva controllare ogni cosa.
Quando Isabelle aveva bisogno di silenzio, Camille non parlava. La presenza quieta della cameriera era stata un balsamo per il suo dolore all’idea di perdere la nonna.
Camille teneva in ordine l’appartamento e già quello era un grande aiuto. Spolverava con cura tutte le preziose cose di Marthe, lucidava l’argenteria e manteneva le porcellane pulite e splendenti. Non si era mai lamentata per il duro lavoro né aveva chiesto di essere pagata di più per le sue lunghe ore di impegno.
Dal canto suo Isabelle aveva fatto in modo che la ragazza avesse qualche serata libera. Sapeva che Camille aveva delle amiche tra le sue compagne della scuola per segretarie, e sapeva anche che aveva rinunciato a una carriera migliore di quella di domestica solo per la fedeltà verso Marthe e lei.
Quando Marthe aveva chiuso gli occhi per l’ultima volta, aveva ringraziato Isabelle. L’aveva ringraziata per aver portato gioia e conforto alla sua vecchiaia, per aver ridato la vita all’appartamento di Rue Blanche.
La settimana seguente Virginia aveva dovuto tornare a Boston. Con il nazismo che estendeva i suoi tentacoli in tutta Europa, i suoi genitori avevano insistito per farla rientrare in America. Isabelle aveva accettato anche quel colpo con rassegnazione. Aveva capito che nel mondo esistevano forze ben più potenti delle illusioni di gioventù.
E ora Isabelle era in piedi davanti alla tomba di sua nonna e leggeva le iscrizioni sulla lapide, cercando di calmare il vortice di pensieri che la tormentava senza sosta in quel periodo. Dove sarebbe andata? Che ne sarebbe stato di lei?
L’ultima lettera di Max era ancora sul suo comodino. Era lì da tre mesi ormai. Come tutte le altre, era arrivata richiusa con un nastro adesivo che non cercava neanche di nascondere gli inconfondibili tagli diagonali sulla busta.
Max era stato a Siegel per pochi giorni di licenza in agosto e, tra le altre cose, le aveva scritto dei laghi e dei boschi intorno allo Schloss dove navigava e passeggiava. Isabelle rileggeva le sue parole ancora e ancora, immaginando tutto con gli occhi della mente: la foresta, il casotto nascosto tra gli alberi, il lago e tutto il resto.
Max le aveva scritto anche che suo padre era stato richiamato alle armi. Ora la Germania era in guerra con la Polonia e Isabelle non aveva idea di dove si trovasse Max o suo padre. Le truppe tedesche avevano invaso la Polonia in settembre mettendo in fuga il nemico e facendo molti prigionieri. Varsavia era stata bombardata, stretta nell’assedio e infine conquistata.
Isabelle non aveva avuto più notizie di Max dopo che lui era stato chiamato nuovamente e ora c’erano due pensieri che le impedivano di dormire: il terrore che fosse morto o che lo sarebbe stato a breve, e la domanda a cui non riusciva a trovare risposta: qual era il senso di quella guerra?
Isabelle tolse qualche filo d’erba secca dalla tomba di sua nonna.
Tutto sembrava così privo di significato. Il potere? Il denaro? La conquista? A cosa servivano tutte quelle cose? Erano davvero più importanti della libertà, della tolleranza e del rispetto?
Qualche settimana dopo, rientrando da una passeggiata per le vie di Parigi, Isabelle aveva trovato un’altra lettera ad attenderla. Le passeggiate e le commissioni la aiutavano a tenere i piedi per terra, il semplice atto di camminare per la città sembrava essere l’unica attività in grado di darle conforto in quei giorni. Quando trovò la lettera, corse in camera sua e si sdraiò sul letto per bere ogni parola.
Max scriveva che suo padre era in un campo di addestramento militare. Anche il nonno era stato richiamato: gli era stata offerta la posizione di colonnello. E i prigionieri polacchi avevano iniziato ad arrivare a Siegel, per svolgere i lavori che prima avevano fatto i contadini tedeschi.
Tutte le automobili erano state requisite: la lussuosa sei posti del padre di Max era finita nelle mani dell’esercito e anche la macchina di Max. Perfino i cavalli erano stati prelevati dai soldati e il carburante per i trattori era pesantemente razionato.
Tutti i giovani di Siegel erano stati costretti ad arruolarsi, che fossero amici di Adolf Hitler o meno.
La madre di Max lavorava per la Croce Rossa e gestiva riunioni, ispezioni e comizi per le truppe. Nadja stava seguendo un corso come responsabile delle evacuazioni in caso di bombardamento. Ormai Schloss Siegel era gestita dall’esercito, che aveva spodestato sia Max che suo padre.
In Germania tutti erano stati costretti a tornare a cavalli e biciclette. Il cibo era razionato e il denaro finiva tutto nel buco nero dello sforzo bellico: niente pane, burro, margarina, latte, formaggio, zucchero, uova, marmellata, farina, fagioli, carne, caffè e perfino sapone.
Lo Schloss aveva incrementato la produzione di frutta e verdura per cercare di integrare l’alimentazione della gente. Per ottenere le razioni di cibo bisognava mostrare la tessera annonaria, da cui venivano scalati i punti corrispondenti alle razioni prelevate. Tutti i beni di lusso erano scomparsi dalla circolazione e non ne venivano più prodotti. Niente cioccolato e dolci. Anche scarpe e vestiti avevano fatto la stessa fine. Praticamente tutte le fabbriche erano state riconvertite per usi militari e la manodopera era il bene più scarso in assoluto. Erano le donne a mandare avanti ogni attività, dall’agricoltura all’industria.
Hitler ormai era fuori controllo.
Max però voleva anche sapere come stava Isabelle. Le ripeteva che sarebbe tornato a prenderla, un giorno. Un giorno non troppo lontano, sperava. Una volta finito quell’incubo, scriveva, l’avrebbe portata con lui a Siegel per sempre.
Dopo aver letto la lettera tre volte, assaporando ogni parola, Isabelle la infilò nella tasca di uno dei suoi cappotti invernali e tornò in salotto.
La radio ormai era diventata l’oggetto più importante della stanza. Ogni giorno si sedeva con Camille ad ascoltare il bollettino di guerra, sentendosi disperatamente impotente e inutile, e costantemente terrorizzata per Max.
Non riusciva a immaginare tutti i giovanotti che aveva conosciuto durante quel Natale a Siegel impegnati in battaglia, settimana dopo settimana, mese dopo mese, fino all’arrivo del nuovo anno.
Nell’estate del 1940 un cargo tedesco superò un cordone militare britannico nelle acque neutrali della Norvegia. La marina inglese reagì affondandolo, uccidendo un buon numero di marinai tedeschi. Quando ascoltava quelle notizie di piccole vittorie Camille si voltava a guardare Isabelle speranzosa, mentre la voce sterile e professionale continuava a parlare alla radio. Isabelle fingeva di sorridere alla cameriera, ma in realtà aveva la nausea.
Alla fine il bollettino di guerra diventò una vera e propria dipendenza. Per tutto il giorno non faceva altro che ascoltare ogni straccio di informazione possibile sull’esercito tedesco. Cosa sperava di sentire? L’annuncio quotidiano che un singolo uomo, Max, era salvo? Voleva che la voce incorporea della radio le assicurasse che sarebbe tornato sano e salvo da lei?
Quando arrivò giugno, però, Isabelle si rese conto che avrebbe dovuto abbandonare Parigi il prima possibile.
Berlino, 2010
Wil tornò nella vecchia Berlino Ovest, fermandosi al primo semaforo di Kurfüstendamm. Sembrava pensieroso.
«Hai programmi per stasera?», chiese alla fine, voltandosi verso di lei.
Anna espirò. Bene, aveva dei programmi? No? Stranamente il jet-lag non era più un problema.
Alzò le spalle. «Farò una passeggiata in città».
«Vorresti venire a casa mia?».
Anna si morse il labbro.
«Ho invitato degli amici a cena», specificò lui.
Il traffico ricominciò a scorrere lentamente.
«Potrebbe essere divertente conoscere altri tedeschi», continuò lui in tono leggero. Ormai erano vicini all’hotel di Anna.
L’idea era carina. «Certo. Grazie, mi piacerebbe», rispose.
«Allora passerò a prenderti verso le otto. Non sarà niente di formale».
Lei annuì e si voltò a guardarlo. Era costretta a farlo per salutare, anche se guardarlo negli occhi era diventato leggermente imbarazzante. I sentimenti che si erano risvegliati sulla riva del lago si stavano trasformando in qualcosa di diverso, sempre più forte ogni minuto che passava con lui. Wil era un uomo gentile, elegante, l’ascoltava, la faceva divertire e la aiutava col passato della sua famiglia. Non c’era niente di più. Tutto quello che le passava per la testa dipendeva solo dal fatto che non incontrava un uomo simile da molto, molto tempo.
«Perfetto», gli rispose. «Grazie».
Wil sembrò divertito. «Grazie a te», disse. «E tra l’altro, Ingrid ci incontrerà domani alle dieci a Schloss Beringer. Ha affittato una stanza privata per poter parlare in pace. Una scelta interessante, devo dire».
«Oh», commentò Anna. «È sempre così teatrale?»
«No comment», disse lui col solito sorriso malizioso.
Anna sorrise a sua volta e scese dall’auto.
* * *
Anna finì di prepararsi appena prima delle otto. Aveva scelto un paio di jeans, un maglione nero a collo alto e una sciarpa. Indossò qualcuno dei suoi bracciali preferiti, infilò i jeans negli stivali neri e lasciò i lunghi capelli sciolti. Uno spruzzo di Van Cleef & Arpels First ed era pronta.
Si era preparata in modo efficiente, concentrandosi solo sugli aspetti pratici. Non aveva senso farsi illusioni su quello che poteva succedere, anche se sotto la doccia si era concessa di fantasticare un po’. Alla fine aveva scacciato ogni pensiero indesiderato e si era data una bella strigliata da sola in ascensore.
Wil aveva cinque minuti di ritardo.
«Scusami», le disse, comparendo come una specie di bellissimo dio greco.
«Non c’è problema», sorrise Anna. «Sono solo cinque minuti».
«Odio arrivare in ritardo». Wil sorrise e si chinò a baciarla sulla guancia.
Quindi era una cosa amichevole. Se avesse voluto qualcosa di diverso, non l’avrebbe baciata sulla guancia, rifletté Anna. Poi si rimproverò di nuovo. Cosa le veniva in mente? Con ogni probabilità, tra gli ospiti della cena ci sarebbe stata anche una fidanzata.
«Anna?», disse Wil. «Sembri su un altro pianeta. Sei molto tenera e non voglio interromperti, ma gli altri arriveranno tra meno di mezz’ora, quindi...».
«Scusami». Anna scosse la testa. Doveva rimettersi in riga. Era tanto che non si trovava in compagnia di un uomo che le era bastato poco per perdere la testa.
No, non aveva perso la testa. Si colpì la fronte col palmo della mano.
«Anna!». Wil ormai stava ridendo. «Devo farti fare un giro in ospedale o hai solo bisogno di un bel bicchiere di vino tedesco?».
O di un uomo tedesco, pensò Anna.
«Pensavo a Siegel», disse lei, seguendolo oltre le porte scorrevoli dell’hotel. La macchina era parcheggiata dietro l’angolo.
«Mmh», fece lui. «Se ti va stasera puoi pensare anche ad altro. Ma se invece preferisci parlarne, per me va bene comunque».
Appena saliti in macchina, mentre lui guidava verso casa, Anna guardò fuori dal finestrino. Era su quello che doveva concentrarsi. Nel giro di pochi minuti, Wil si inoltrò dentro Berlino Ovest e imboccò la strada di casa sua. Anna rimase a bocca aperta.
«Una volta qui era tutta campagna», spiegò Wil rallentando un po’.
Le case erano deliziose e avevano tutte giardini impeccabili. I fari della macchina illuminavano alberi ben potati e antichi edifici eleganti.
«Quello che mi piace di casa mia» disse Wil, «è che era la residenza di città dei miei trisavoli».
«Davvero?»
«Sì, l’hanno costruita loro, ma è stata venduta dopo la guerra. Qualche anno fa stavo cercando casa. Mio nonno era appena morto e da piccolo mi portava sempre in questa strada per mostrarmi la casa. Mi aveva raccontato di tutti i suoi ricordi d’infanzia. Venivano sempre in città per la stagione invernale dei concerti. Era il periodo dell’anno in cui i ristoranti e i teatri si riempivano di eventi mondani».
«Dev’essere stato stupendo», disse Anna.
«Per loro lo era». Wil strinse le labbra. «Così ho cercato i proprietari e ho fatto un’offerta equa...».
«Il resto è immaginabile». Anna aprì la cintura di sicurezza appena la macchina si fermò. Prese la borsa.
Wil la guardò incuriosita. «Sai, mi sei sembrata quasi europea. Se non ti conoscessi già, direi di aver sentito un leggero accento».
«Impossibile», disse Anna. Ora si sentiva leggermente irritata, chissà perché. Negli ultimi tempi stentava a riconoscersi.
Il giardino di Wil era in ombra, ma il vialetto curvo era ben illuminato fino alla porta d’ingresso. Il prato era punteggiato di grandi alberi.
Anna osservò la casa. Era in stile liberty, con finestre finemente decorate, e aveva un’aria rilassata e accogliente. All’esterno c’erano aiuole fiorite e la facciata era parzialmente ricoperta da rose rampicanti.
Wil aprì la porta nera e lucida e si fece da parte per farla entrare. Le piastrelle bianche e nere della veranda proseguivano anche nell’ingresso e una scala curva portava al piano superiore.
In un certo senso era grandiosa ma anche accogliente. Wil la accompagnò in un salotto intimo con il parquet lucido e tappeti orientali. Sotto la finestra c’era un pianoforte e un paio di divani fronteggiavano il camino, dove il fuoco scoppiettava allegramente.
«Un bicchiere di vino?», propose Wil. «Mettiti comoda».
Anna si sedette su uno dei divani. Sentiva Wil che apriva armadietti in cucina. A giudicare dal profumo, stava cucinando qualcosa di delizioso.
Quando tornò con due bicchieri, Anna commentò: «Casa tua è splendida. È molto da te».
«Interessante. Cosa sarebbe da me?», le chiese lui porgendole il bicchiere.
«Oh, non intendevo niente in particolare».
Qualcuno suonò alla porta.
«Scusami», disse lui.
Anna sentì una rapida conversazione in tedesco proveniente dall’ingresso. Poi ogni tensione si dissipò, quando una bambina sui sei anni entrò correndo in salotto. Era in pigiama e corse subito da Anna sedendosi sul divano accanto a lei.
«Io sono Sasha», disse in inglese, guardandola con due occhioni color cioccolato.
«Io invece sono Anna», rispose lei sorridendo.
La bambina le porse un libro. «Posso leggere un po’ di questo prima di andare a letto», spiegò. «Vuoi leggermelo tu? A casa parliamo inglese e tedesco e mamma e papà mi hanno detto che potevo fare pratica con te».
Anna prese il libro e iniziò a leggere. La storia era così avvincente che non notò Wil e altre quattro persone entrare nella stanza. Finita la fiaba, Anna alzò gli occhi. Sasha le si era accomodata in braccio e Wil la guardava sorridendo. Se avesse dovuto descrivere la sua espressione, Anna l’avrebbe definita affettuosa. Si sentì riscaldata dal suo sguardo. Ma probabilmente non voleva dire niente.
«Anna, ti presento i miei amici. Petra, Andreas, Eva e Stephan».
Un’ora più tardi Anna si sentiva già come se avesse conosciuto tutti da anni. Parlavano inglese per gentilezza nei suoi confronti. Petra era bruna, attraente e aveva un senso della moda che affascinava Anna. Certe donne sanno come indossare una sciarpa e Petra era una di loro. Ad Anna sarebbe piaciuto molto vedere casa sua. Il suo compagno, Andreas, era uno dei più vecchi amici di Wil era tanto biondo quanto lei era scura e intrigante. Erano ovviamente in perfetta complicità ed erano un ottima compagnia per una cena. L’altra coppia, i genitori di Sasha, era composta da Eva e Stephan. Erano molto affettuosi con la bambina. Prima di andare a letto, Sasha era rimasta per buona parte della serata in braccio al padre.
Appena fu pronto, Wil organizzò tutto alla perfezione. Era in ottima forma. Il vino scorreva, la conversazione era rilassata e divertente, e il padrone di casa aveva preparato un’eccellente pasta al ragù, accompagnata da insalata e pane rustico.
«Si dedica completamente al lavoro», disse Eva, mentre Wil si trovava in cucina con gli altri due uomini. «Molte donne ucciderebbero pur di uscire con lui, ma la carriera viene prima di tutto. E di tutti».
Anna non rispose.
Petra ridacchiò. «Qualche anno fa ha avuto una storia a singhiozzo, ma nessuno dei due era veramente preso. Quando lei si è trasferita a Monaco, Wil è rimasto qui».
«Credo che alla fine fosse solo una situazione di convenienza», commentò Eva.
Anna fece di sì con la testa. Da cosa si stava proteggendo Wil? Forse il suo lavoro era un’assicurazione contro danni collaterali di altro genere? O semplicemente non aveva ancora conosciuto la donna giusta? Stava per dire qualcosa quando Wil ricomparve sulla porta.
«Se volete favorire, il caffè è servito in salotto», annunciò.
«Certo», rispose Eva alzandosi.
Anna notò che le due donne si scambiarono un’occhiata. Wil aveva sentito la loro conversazione? Per favore, no.
Il fuoco faceva danzare le luci sulle pareti della stanza, sui volti delle persone, mentre gli ospiti raccontavano episodi del periodo in cui erano tutti insieme all’università. Anna si ritrovò accoccolata nell’angolo di uno dei divani di Wil, bevendo un ottimo caffè e sperando che la serata non finisse mai.
Era felice di aver conosciuto nuove persone con cui si sentiva completamente a suo agio. Quando gli altri si alzarono per andare a casa, Anna si rese conto che erano anni che non passava una serata del genere. Tra il lavoro e le cure per Max, si era completamente dimenticata come godersi la vita.
Una volta salutati gli amici, Wil si appoggiò allo stipite della porta. L’aria mite della sera soffiava dal giardino.
«Vuoi fare una passeggiata con me, Anna?», le chiese all’improvviso.
«Una passeggiata?»
«C’è una cosa che vorrei farti vedere».
Anna era tentata. Il quartiere era bellissimo. Era difficile conciliare quelle vie senza tempo con il passato disturbante e divisivo di Berlino. Anna sapeva che nell’estrema parte est c’erano file e file di casermoni comunisti.
«Credo che ti farà bene vederlo», disse Wil, posandole il cappotto sulle spalle.
Qualche minuto dopo, si fermarono davanti a un cancello di ferro battuto. Oltre si vedeva un giardino buio, ma Anna seguì con gli occhi il vialetto lastricato fino a scorgere una casa sontuosa. Il tetto era molto spiovente con una serie di abbaini tra le tegole.
Un labrador ringhiò verso il cancello.
Wil rimase in silenzio. Anna si girò a guardarlo.
«Ho pensato che dovevi vederla», spiegò lui. «Venivano qui sempre. La tua trisavola dava dei balli meravigliosi, a quanto pare».
Anna fece qualche passo verso i cancelli per cercare di scorgere il più possibile, ogni dettaglio.
«I proprietari attuali hanno quattro figli e l’hanno tenuta molto bene. Potrei presentarteli se ti va, ne sarebbero molto felici. È di nuovo una casa felice, ora».
«Mi fa piacere», mormorò Anna, poi rimase a guardare ancora un po’. La casa sembrava esattamente come avrebbe dovuto essere.
Wil fece per toccarla, poi ritrasse la mano.
«Inizia a fare freddo», disse. «Dovrei riportarti in albergo».
Lei annuì. Si era appena ricordata cosa l’aspettava il giorno seguente. Avrebbe dovuto parlare con sua cugina. Scoprire cos’era successo. Poi avrebbe dovuto cercare un modo per sistemare ogni cosa.
Sulla strada di casa, Wil parlò quando Anna aveva voglia di parlare, e tacque quando lei taceva. Forse aveva capito non solo che Anna doveva per forza scoprire la verità sul passato della sua famiglia e sul futuro di Siegel, ma anche che non avrebbe potuto tornare alla sua vita senza prima aver fatto tutto ciò che era in suo potere per raggiungere quell’obiettivo.
Arrivati a casa di lui, si fermarono un momento sul vialetto. Anna cercò di concentrarsi sui dettagli, sul giardino, sulle luci del patio. Su tutto tranne che su di lui.
Dopo qualche secondo sentì il tintinnio delle chiavi della macchina e non seppe se la cosa le facesse piacere o meno. Seguì Wil verso l’auto ed entrambi salirono a bordo in silenzio. Tuttavia Anna era sempre più consapevole delle cose non dette che restavano sospese tra di loro ogni volta che si incontravano. Si sentiva tesa e nervosa, ma non era in grado di dire nulla.
Guardò fuori dal finestrino i profili delle case antiche. Non erano più illuminate, quindi restavano solo ombre.
Mentre Wil guidava, i pensieri di Anna corsero al futuro. La presenza di lui, silenziosa al suo fianco, era nello stesso tempo un balsamo e una miccia innescata. Sapeva bene di non aver mai provato nulla del genere per nessuno, prima di allora. Non aveva mai trovato nessuno così… perfetto. O forse la sua era solo vulnerabilità, il desiderio di rimpiazzare Max?
Wil accostò davanti all’hotel e scese ad aprirle la portiera prima che Anna potesse mettere in ordine le idee. Scese dall’auto. Lui rimase fermo vicino alla portiera aperta.
Anna lo guardò e vide qualcosa scintillare nei suoi occhi. Qualcosa che per qualche ragione le diede una speranza che non provava da anni. Allora sorrise, in modo imprevedibile perfino per se stessa.
Wil le posò una mano sul braccio.
«Domani sarò qui alle 9», le disse in tono intimo. «Ti aspetterò nella hall, anche se non ho idea di dove riuscirò a parcheggiare».
«Grazie», disse Anna. I dettagli pratici le facevano bene, ma stranamente era più concentrata sulle sensazioni che sui fatti, cosa che per lei era insolita. Non voleva rompere l’incantesimo. Non voleva che finisse. Ad essere del tutto onesta con se stessa, Anna voleva che invece qualcosa iniziasse.
* * *
La mattina successiva, mentre andavano a Schloss Beringer, Anna si rese conto di iniziare a conoscere bene il paesaggio fisico intorno a Berlino, e di essere sempre più consapevole delle emozioni che le suscitava. I boschi, i pascoli soffici, i villaggi addormentati, un misterioso Schloss qui e là, immerso nelle storie sepolte del contorto passato della Germania, il tutto avvolto in una strana atmosfera sospesa, come una specie di dolore fisico, un bisogno profondo che Anna non sapeva esprimere.
Anna capiva perfettamente perché Ingrid non volesse incontrarla a Siegel, quello era chiaro. Ma perché Schloss Beringer? Forse Ingrid voleva dimostrare che Schloss Siegel non doveva essere risorto come l’antica dimora della famiglia di Wil. Oppure, peggio ancora, intendeva annunciare che aveva piani simili per Siegel?
Entrarono nel vialetto curvo e si diressero al parcheggio, pieno di lussuose macchine europee ancora luccicanti di rugiada mattutina.
Per Wil quegli ospiti erano degli intrusi nella sua vecchia casa di famiglia? Anna pensò che ognuno affrontava il passato a modo suo. Max aveva finto che non esistesse praticamente fino alla fine della sua vita: era la strada che aveva scelto. Probabilmente la sua confessione nelle ultime settimane era stata una sorta di grido di aiuto o, se non altro, il riconoscimento del fatto che Anna avesse il diritto di sapere.
Era chiaro che anche Wil soffriva profondamente per il destino di Schloss Beringer e per gli sforzi inutili di suo nonno. Forse la risposta era che il passato in realtà non se ne andava mai. Il vecchio Brandeburgo e la Prussia avrebbero sempre gettato la loro ombra su Berlino come fantasmi di antenati, di cui restavano tracce nella magnificenza degli edifici barocchi, nelle foreste fruscianti, nelle pianure velate di foschia, nei palazzi da fiaba, nella sua gente e nella sua storia.
Il passato e Schloss Siegel costringevano Anna a ritornare sempre allo stesso punto. Non era il pensiero ordinato e lineare con cui aveva sempre condotto la sua vita. Si sentiva fuori dal suo elemento. Era snervante, ma una parte di lei voleva aggrapparcisi con entrambe le mani.
«Dimmi una cosa», chiese mentre Wil spegneva il motore. Lui continuò a guardare avanti a sé. «Come fai a fare i conti col passato, Wil?».
Anna vide un sorriso prendere forma sul suo viso. «Cosa intendi dire?»
«La storia della tua famiglia, della Germania, la perdita, la guerra, tutto quanto».
Lui tacque.
«Cosa porti con te? Cosa lasci indietro?», chiese Anna.
Wil estrasse la chiave dell’auto e la rigirò tra le dita. «Ci sono i ricordi, e poi ci sono le storie. Ma credo che dipenda dal modo in cui decidi di guardarle. Ammetto di essermi concentrato solamente sul futuro. Il lavoro mi ha tenuto occupato e l’esperienza di mio nonno non è stata affatto incoraggiante». Si voltò verso di lei. «Ma incontrando te molte cose sono cambiate».
«Spero in meglio», sussurrò Anna. Nella sua stessa voce sentì qualcosa di stranamente nuovo.
Lui non smise di guardarla negli occhi e Anna pensò a quanto sembrasse solido, affidabile, gentile e paziente. Eppure ora vedeva qualcos’altro, un dettaglio indefinibile che non riusciva a individuare chiaramente. Era durezza? No. Era forza.
«È ora di andare», disse lui, aprendo la portiera.
«Sto cercando di decifrarti», disse Anna, slacciando la cintura di sicurezza. Avvertì un’improvvisa tensione in Wil. «Niente paura», aggiunse scendendo. «Sono ancora in alto mare», mentì.
Lui la guardò e sorrise, poi abbassò gli occhi. «Okay. Bene».
Anna sorrise a sua volta. «Andiamo», esclamò. «Sarà un incontro...».
«Illuminante, spero», disse lui sogghignando.
«Esatto». Anna si girò. Le piaceva il suono delle scarpe sulla ghiaia. Aveva scelto di indossare un tailleur nero. Qualcosa le diceva che nell’incontro con Ingrid avrebbe dovuto sembrare molto forte.
Parigi, giugno 1940
I parigini stavano cercando di fuggire. Traffico, autobus e metropolitane: tutto era paralizzato. I negozi della città erano chiusi. Tutti i giornali riportavano la stessa verità irrevocabile.
La Francia era sull’orlo del collasso.
L’esercito era stato sbaragliato e la capitale bombardata.
Eppure Isabelle non voleva ancora lasciare casa sua. Che ne sarebbe stato, altrimenti, dei tesori di Marthe?
Nella sua mente stanca, le immagini dei recenti bombardamenti si ripetevano testardamente come un’interminabile pellicola. Edifici sventrati, fuoco, sirene, detriti, persone che correvano per strada oppure che restavano in silenzio paralizzate dallo shock. Queste immagini spaventose avevano costretto Isabelle a rinchiudersi nel posto più sicuro che conoscesse: casa sua. Ma fuori c’erano ancora donne e bambini senza tetto, accovacciati agli angoli delle strade.
La folla si muoveva nelle strade in branchi infelici. La guerra aveva disteso sulla città una coltre di polvere e nessuno sembrava avere la forza di opporsi. Eppure l’estate stava arrivando, ignara delle forze implacabili che presto avrebbero distrutto tutto ciò che Parigi era stata.
Quella sera la città avrebbe dovuto essere più bella che mai. Sarebbe stato il momento perfetto per passeggiare lungo la Senna o ballare nei locali come qualche anno prima. Un tempo i giovani della città avrebbero passato una serata come quella facendo esattamente ciò che i giovani dovrebbero fare: divertendosi e celebrando la vita.
Una famiglia passò sotto la finestra a cui Isabelle era affacciata. In mancanza di un carro si erano accontentati di un vecchio cavallo ossuto. Isabelle distolse gli occhi. Dove avrebbe dovuto fuggire? In città circolavano parecchie voci ed entro mezzanotte non ci sarebbe stato più nessun caffè aperto. Le SS avrebbero chiuso tutto. La Gestapo avrebbe indetto la legge marziale e dato la caccia sistematicamente a tutti i parigini. Nel terzo Reich bisognava sempre eseguire gli ordini.
E dov’era Max? Cosa ne pensava del giogo nazista che stava schiacciando l’Europa? I suoi genitori si aspettavano ancora che la pensasse come loro? Avevano cambiato idea, voltato la faccia dall’altra parte? Sicuramente, sicuramente… e poco prima Camille era corsa fuori di casa, dicendole che sarebbe tornata presto.
Isabelle sussultò, mentre un nuovo pensiero la colpì. E se fosse successo qualcosa a Camille?
Isabelle andò nello spogliatoio di Marthe e fece un respiro profondo. Chiuse gli occhi per un secondo, poi aprì un cassetto.
Per tutto il pomeriggio aveva girato per casa raccogliendo vestiti e preparandosi a sfollare. Ma dov’era finita Camille? Isabelle ne aveva parlato con lei, le aveva detto almeno due ore prima che sarebbero fuggite.
Isabelle tirò fuori la cassaforte di Marthe e la aprì con la chiave che aveva preso dal nascondiglio. Con determinazione professionale, prese tutti i magnifici gioielli di Marthe li infilò in due borse di seta i cui lunghi legacci sarebbero stati perfetti da appendere al collo suo e di Camille.
Senza fermarsi a osservare la loro lucente bellezza, Isabelle stipò le borse di diamanti, rubini, smeraldi e zaffiri regalati a Marthe nella sua giovinezza.
Quando sentì la chiave girare nella toppa, per il sollievo Isabelle quasi svenne sulla sedia imbottita nell’angolo dello spogliatoio. Il rumore dei passi efficienti di Camille risuonò nell’appartamento. La ragazza stava raggiungendo la sua stanza sopra la cucina.
Isabelle cercò di chiudere le cerniere delle borse, ma la stoffa sembrava rifiutarsi e minacciava di strapparsi dai dentini della lampo. Avrebbero dovuto tenere chiuse le borse con le mani.
Isabelle corse in camera sua per dare un’ultima occhiata. Stranamente aveva sentito il bisogno di lasciare tutto in ordine. Se i nazisti fossero entrati nella vecchia casa di Marthe, e l’avrebbero fatto, avrebbero trovato parecchio da saccheggiare.
Attraversò di nuovo lo spogliatoio, disse addio alla camera di Marthe senza voltarsi indietro. Tirò le tende e chiuse l’ultima persiana.
Tutto era silenzioso e immobile.
Isabelle andò in salotto. Era ora di andare, non aveva scelta. Lo struzzo impagliato di Marthe sembrava fissarla. Era stato un regalo molto strano, ma la nonna non aveva voluto separarsene, come da tutto il resto delle sue cose. In un ultimo guizzo impulsivo, Isabelle prese lo scialle appoggiato sulla sedia preferita di Marthe, quella dove si sedeva sempre per prendere il caffè, e lo drappeggiò sulla groppa del povero uccello impagliato. Diede un ultimo sguardo alla stanza, con uno strano dolore nel cuore e nel ventre, una sensazione che era cresciuta nelle ultime settimane.
Dalla cucina Camille la raggiunse in salotto, chiudendo la porta delle stanze della servitù con un leggero scatto. La ragazza aveva già preso la valigia e sembrava calma e determinata come sempre. «Dovremo lasciare la città a piedi», le disse.
Isabelle scosse la testa. «Di certo ci sarà un treno». All’improvviso la desolazione dell’abbandono fu rimpiazzata dall’angoscia della fuga.
«No, dobbiamo andare direttamente a Honfleur, poi a sud». Camille aggrottò la fronte.
Isabelle la fissò. Camille era intelligente e conosceva la vita pratica molto meglio di lei. Senza la cameriera, Isabelle sarebbe stata completamente persa.
«Conosco la strada, Mademoiselle», la rassicurò a bassa voce. Aveva raccolto i lunghi capelli neri in una coda, indossava un semplice vestito estivo e scarpe comode.
Isabelle annuì. Si sarebbe fidata di Camille.
Isabelle non si voltò quando chiuse a chiave la porta dell’appartamento. Non si voltò a guardare la vita che stava abbandonando, la vita che le era stata strappata via nel giro di pochi, spaventosi mesi.
Forse sarebbe tornata entro l’autunno. Chi poteva saperlo? Nessuno.