Ha forse ventidue anni, e il profilo di certe puttane giovani, brave a farsi guardare per le cose che ti promettono con la bocca.

«Cosa si mangia, papi?» chiedo io.

«Fettina al limone», dice Gualtiero Claypool, ex collaudatore d’automobili Bugatti.

«E il cappone?» chiedo io, deluso come sono delusi, a volte, certi personaggi minori nei film. «E le altre buone cose che si mangiano a natale?»

«La cena in grande stile è stata ieri, figliolo», mi dice il vecchio. «La sera della vigilia. Oggi io e Hanalise siamo stati a pranzo al Relais des artistes… ci hanno portato un potage delicatissimo… pensa che avevo prenotato anche per te… credevo saresti arrivato ieri per pranzo, figurati cosa avevo capito…» La voce di mio padre non ha nessuna increspatura ironica. Nemmanco si ricordava esattamente i nostri accordi, il vecchio Claypool. Nemmanco si è accorto che sono a tavola insieme a lui con un giorno e mezzo di ritardo. «Va be’», dice mio padre. «Ieri sera abbiamo aspettato fino alle dieci, prima di uscire, poi Hanalise ha 46

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pensato: “ti pare che Ermanno non passa il natale con la ragazza… avrai capito male, e lui arriverà domani”.» Mio padre scuote la testa, guarda Hanalise con occhi un po’ fosforescenti.

Dice: «Lei è una persona intelligentissima». Poi, cerca di convincermi che sono cresciuto e ho una luce adulta negli occhi, intelligente la mia parte anch’io. È loquace in una maniera già sottilmente ubriaca, gentile e acquosa. Va avanti una mezz’oretta con le stronzate sugli anni felici, il passato che ritorna, il presente che in determinate occasioni profuma un poco di nostalgia. Versa da bere a Hanalise e le spiega di quando mi portava a passeggio sulle spalle, il modo che avevo io di ridere e tenermi stretto. Viene fuori un aneddoto sul giorno in cui ha sentito il bisogno di regalarmi il mio primo pallone di cuoio. «Abbiamo fatto delle partitelle insieme», dice. «Il calcio ti piace sempre, sì?»

Il suo figliolo narcolettico fa cenno di sì con la testa, due volte. «Mi piacciono l’odore dell’erba e il bianco perfetto delle righe, babbo.» Ma questo non glielo dico.

Mentre mastico con calma la mia scaloppina al limone, lui mi lancia pochi sguardi strani, non capisci se più accondiscendenti o complici. Alla fine mi viene in mente che il vecchio avrebbe piacere se io finissi a letto con Hanalise. Forse, da ex collaudatore d’automobili, vorrebbe che anch’io facessi un giro e poi lo rendessi partecipe della mia stima. E io, cosa potrei dire? Congratulazioni, babbo, questo natale ti scopi una brava ragazza contadina?

A un certo punto, davanti a un bicchiere d’amaro squisito, forse distillato da dei monaci avignonesi, lui mi va un pochino giù con la testa, stropiccia un occhio. Dice:

«Ma io mi sento un momentino stanco». Guarda la giovane contadina e poi guarda me. «Voi due restate pure», dice. «Hanalise ti mostrerà la camera, figliolo. Ci sono gli asciugamani puliti, sopra il cuscino. Domani parleremo con molta più calma, vuoi?»

Hanalise si alza per baciarlo sulla guancia, augurargli la buonanotte, sfiorarlo con una carezza lieve da puttana. Lui sorride, sfila via il tovagliolo con una forma di eleganza superstite, mi dice: «Non fate tanto tardi, voi due», ed è già lontano da me e dalla sua troia di fine anno come un ombra pigra che affronti scricchiolando le scale con passo dispari.

E allora resto a guardare un minuto pure questa Hanalise, guardare qualcosa di lei fisicamente. Finisci di bere il tuo amaro squisito, ne versi un secondo, e mentre non dici una parola ti viene in mente che fare conversazione con le troie prima di andarci a letto è uno degli equivoci più disperanti che possano riguardare un uomo, poiché in quei cinque minuti di luoghi comuni ti si concentrano in bocca tutti i sensi di colpa, le incertezze, le spavalderie inutili e la povera merda che ciascuno di noi ha nel suo zaino. Così, mandi giù un altro sorso e ti dici che aveva ragione, il vecchio Miller, quando gridava ai quattro venti che le troie non son mica donne, ché loro son troie e basta. Va be’, nemmeno alle altre donne importa niente di quel che dite, il senso è questo, ché loro cercano solo di valutare più informazioni possibili su di voi: se vi fate rispettare, se siete simpatici, quanto agio avete in tasca e quanto in banca; se siete degni di passare una serata in società, se potete domesticamente rilassarvi su una sedia a dondolo bevendo un bicchierino, vestiti come un fottuto marito capace di garanzie. Cercano di capire se danneggerete o no gli equilibri di cartoncino con le loro amiche, se sarete abbastanza bravi a prenotare tavoli ai ristoranti, se farete il muso le sere che non desidereranno la vostra superba intimità, se le farete sentire colpevoli, oppure le esplorerete piano, finché non saranno loro a supplicarvi per un po’ di sesso forte da raccontare alla parrucchiera, o all’amica del cuore.

Alle troie, invece, importa solo di due cose: il tempo e i dinari, pagare in modo anticipato e non farla mai troppo lunga.

Hanalise, in ogni caso, deve essere già stata ricompensata profumatamente: ora deve succhiare e offrirsi e fare finta di godere per la settimana del natale, e poco le cambierebbe se a letto insieme con lei ci fosse il vecchio Claypool o questo teppista di città che le siede accanto.

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Sei troppo stanco e ubriaco per fornire delle spiegazioni. Ti lasci guidare da questa cagna tua coetanea fino alla stanza con il letto a una piazza e mezzo. «Ti tengo compagnia altri cinque minuti», dice lei. «Tuo padre non si arrabbia.»

«Oh, non esitare», le dici. «Parliamone giusto cinque minuti», le dici.

Cercare di addormentarsi con le troie nel letto, è un’altra attività particolarmente sciagurata, carica di difficoltà impreviste. La troia, abituata a letti diversi e corpi diversi, si addormenta subito, e voi restate come uno scemo a fissare i particolari nella penombra: la sveglia sulle due e sedici, il disegno a matita di Picasso con la cornice d’alluminio, i vestiti di Hanalise scomposti sulla sedia optical, e la assurda vita di Gualtiero Claypool, ansioso di godimenti da adulto come un puttaniere che si avvicina agli ultimi.

Hanalise ha un filo sottile di saliva che le esce dall’angolo della bocca. Sono le tre e quaranta. Fino a un momento fa sognavi di correre con Alberto Camerini lungo un’autostrada californiana, e adesso sta proprio suonando il campanello.

Un presentimento mostruoso ti fionda alla porta con indosso solo i calzoni del pigiama e le ciabatte scozzesi di tuo padre: sei o non sei amico di certe persone che potrebbero scampanellare senza problemi a quest’ora? Ti trovi o no all’unico indirizzo di Aix-en-Provence che queste certe persone conoscono?

Non hai ancora finito di aprire del tutto, che gli occhi notturni di Cousin Jerry sono a un palmo dai tuoi occhi.

Lui entra, intirizzito, dice in fretta: «Scusa scusa scusa cugino, ma non sapevo che cos’altro fare». Ha i capelli lucidi di brina, la faccia rossa per il freddo fuori. Dice: « Io mi dovrei riparare un momentino, credo».

«Cazzo succede», gli dici. «Eh, Cousin?» Non sai tanto bene cosa pensare, e immerso nel vuoto che hai nel cervello apri l’alogena a stelo per metà, scruti l’espressione del Cousin, lo inviti a sedere accanto a te sul divano. «Eh, amigo?» gli dici. «Cosa accade?»

«Accade che un paio di persone sono un po’ nella merda, attualmente», dice lui. Sfila via il giubbotto imperlato d’acqua, tira su dal naso, dice: «Il vecchio Dietrich e Raimundo, intendo».

«Sì», dici tu. «Cosa accade?»

«Noialtri si voleva solo bere un po’ di spumante e nient’altro», dice Cousin Jerry. Adesso gli viene anche un po’ da ridere. Rabbrividisce di freddo e gli arriva in superficie il ghigno specifico, da cattivello.

«Io vi capisco», dici tu.

«Va be’, un’oretta fa ci è venuta sete e non sapevamo tanto bene come abbeverarci. Ma l’hai visto che cazzo di posto?» dice il Cousin. «Puta madre! Non è una città, è un ricovero per pensionati…»

«Assolutamente», dici tu. C’è qualcosa, nelle zone meno frequentate del tuo cervello, che sta cominciando a ghignare insieme al Cousin. «Sto ridendo interiormente, Cousin. Puoi sentire la mia anima, in questo momento?»

«Posso sentire che avremmo bisogno dell’aiuto dello zio», dice lui.

«Ti ascolto con tutto me stesso.»

« Il fatto è che siccome in questo lurido luogo alle due di notte non c’è nessun localino disposto ad accogliere i viandanti, noi abbiamo cercato di farci ospitare un po’ a forza. Sai, con un badile. Si era lì con un badile davanti alla saracinesca sprangata e le sante vedove Clicquot che chiamavano da dentro: «Apriteci!» dicevano. «Vogliamo stare solo con voi!…»

Puoi immaginarti Dietrich, la forza commossa con cui cercava di soccorrerle, quelle sante vedove. A un certo punto ha detto pure: «Liberiamo le vedove, le sposiamo, e poi vi faccio dei gran caffè. Fidatevi, so di cosa parlo!» Deve aver svegliato tutto il quartiere», dice il Cousin.

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«E anche le vedove, sai? Così, in coro, che gridavano tutta la loro disperazione per essere state abbandonate a quel modo…»

«Mi rendo conto, Cousin…»

«Quando ho visto la macchina che arrivava a fari spenti, gliel’ho pur detto a quei due disperati che bisognava levare le tende subito. Cazzo, io li ho avvertiti», dice il Cousin massaggiandosi il naso con il palmo. «‘Fanculo», dice.

«Cazzo», dico io.

«Eh, lo so quanto te», dice il Cousin. «Fatto sta che Dietrich e Raimundo erano troppo ubriachi, capisci? Gli sfuggivano i dettagli. A un certo punto scorgo il cazzo di lampeggiante spento e capisco tutto, mi rendo conto che non è la macchina di qualche pensionato sulla via del ritorno, e glielo grido, agli altri, e poi corro via dietro l’angolo del condominio, mi proietto dietro una siepe, mi acquatto tra la neve, teso e immobile come un giaguaro.»

«Miti vedo, Cousin «, gli dici. È come se stessi galleggiando in mezzo alla scena coi tuoi mostri fratelli. Lo sai come è corso via Raimundo, tutto storto e indebolito. Riesci a vederlo.

«Oh, non c’è stato niente da fare», dice il Cousin.

«Raimundo l’hanno preso in pochi metri, ché correva tutto storto, ubriaco com’era. La cosa più divertente è che Dietrich non ha neanche cercato di scappare. Polemizzava con gli sbirri, il matto. Diceva che in fin dei conti noialtri si voleva liberare delle vedove, non scassinare un locale. Figuratevi, gli diceva. Ci ho un bar anch’io, giù a Nizza. Deve aver preso anche delle gran sberle, intanto che lo invitavano a salire in macchina insieme a Raimundo.»

«Poveri», dici tu. «E che voialtri siete troppo generosi con le vedove. Lo sai, Cousin.»

«Chiaro», dice lui. Ridacchia, intasato di moccio com’è. «Comunque, appena lo zio si sveglia bisogna proprio andare a riprenderli.»

«Cl aro. Ci penso io col vecchio», dici. «Gli spiego tutto io, domattina.»

«Tanto lo zio, in un posto piccolo del genere, un aggancio ce l’ha di sicuro, no?»

«Il vecchio?» dici. «Ma lui ci sguazza, fra gli agganci!»

«Tanto meglio così», dice il Cousin. «‘Fanculo. Meglio così.» Ha preso del gran freddo e gli si chiudono le palpebre. Parla col moccio su per il naso. A un certo punto dice: «E una coperta, fratello, ce l’abbiamo?»

Alle undici del mattino, il ventisei dicembre, ci troviamo seduti tra gli specchi di una sala da tè per adulti e pensionati pretenziosi. Il vecchio Claypool fuma multifilter, ordina uova al prosciutto, caffè, acque gasate per il suo figliolo e i due ex prigionieri amici del figliolo. Dietrich e Raimundo sono stati condannati a pagare una multa, allontanati da Aix-en-Provence col foglio di via. «Signor Claypool», ha detto a mio padre il commissario, con quella certa intonazione da professore supplente e comprensivo. «Sarebbe il caso che questi giovanotti tornassero a Nizza in giornata, ché hanno già un bel fascicolo, creda: atti di vandalismo, risse da stadio, violenza, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale.»

Mi sa che mio padre ce li ha veramente, gli agganci in questura, ché il commissario non ha menzionato i precedenti più imbarazzanti. Per esempio, un paio di vecchie storie di Raimundo relative a grammi e bilance di precisione.

«Dove cavolo sarebbe la macchina, amigos», domando io.

«Non lo so», dice Dietrich, in un modo talmente trionfante che sembra sia appena andato benissimo alla recita scolastica; succhia un caffè al pernod sotto lo sguardo compiaciuto di mio padre.

«Bisognerebbe ricostruire gli ultimi eventi di iernotte», suggerisce Raimundo - un fiore violaceo tutt’intorno all’occhio. «Più che altro, dov’è finito Jerry?» dice. «Le chiavi della macchina le ha lui.»

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«Il Cousin è rimasto a casa», dico io. «Non poteva mica presentarsi in questura dopo che se l’era data a gambe davanti agli sbirri.» Penso che il Cousin se la starà spassando con Hanalise, chiusi in casa da soli.

Le starà parlando di Federico Garcia Lorca, immagino.

Ordino un secondo caffè nero e la tiro un po’ per le lunghe, ché sono uno sportivo e voglio lasciargli il suo tempo.

Il ventisei dicembre, alle cinque di pomeriggio, stiamo per congedarci da mio padre e Hanalise, ognuno col suo assegnino in tasca.

«Siete proprio una banda, voialtri ragazzi», dice Gualtiero Claypool. «Mi pare di tornare indietro di trent’anni! « Fa un sorriso da ex, credo, alla fine compiaciuto d’aver pagato quel che c’era da pagare per la saracinesca, dato garanzie al commissario che Dietrich e Raimundo non metteranno più piede ad Aix-en-Provence per il resto della vita.

Vorrei essere già a Nizza, io. Non la sopporto questa sceneggiata da famiglia felice.

Mio padre parla con Jerry, soprattutto, è contento di poter chiedere cose al figliolo scapestrato di suo fratello Gionata.

«Ho vissuto più che altro in Inghilterra», dice il Cousin. «Per motivi di studio. Anzi, studio e lavoro, zio. Lavoro nei campi la mattina e scuola d’inglese il pomeriggio», dice.

«Sul serio», chiede mio padre. A stento riesce a trattenere l’entusiasmo.

«Ermanno, invece», confida il vecchio, «ha mica tanta voglia, di lavorare. S’è intestardito a voler fare l’università… « Il vecchio mi lancia uno sguardo colmo di bonomia, allunga una carezza sulla guancia come se per lui fossi sempre il ragazzino calciatore di dieci anni fa. «Mi ha preso filosofia, questo ragazzo», dice Gualtiero Claypool. «Ma cosa ci vai a dire, un domani, con la laurea in filosofia?» Poi, rivolto al Cousin, dice: «Stagli un po’ dietro tu, Jerry, ché sei più maturo». Stringe mani a destra e sinistra, piccole pacche sulla schiena. Hanalise manda baci e ride in modo cordiale. Con affetto. Stretta al braccio di chi la paga.

Stiamo per avviarci verso l’ingresso, e all’improvviso Raimundo e Dietrich fanno gli occhi buoni, regalano a mio padre una cosina, ché hanno avuto l’ottima idea di sottrarre un rémy-martin, in quel certo bar pretenzioso, mentre il vecchio e il suo loden verde erano impegnati a saldare il conto. «Questo è solo un pensierino per lei», dice Dietrich. «Ma non è niente, rispetto a quel che ha fatto nei nostri confronti.» Così, mio padre si commuove, un poco.

Dice: «Ah, non dovevate, ragazzi…» e i suoi occhi brillano, per un istante, d’un luccichio che non gli conosco.

«Ehi», mi strattona il Cousin.

Io lo guardo senza capire. «Sì?» gli dico.

«Perché non vieni su in camera a vedere la sacra sindone», mi sussurra, intanto che il vecchio Claypool s’interessa alle vite dei miei due amici, alle loro prospettive e al futuro della nazione in generale.

Il Cousin e io arrampichiamo le scale, agili nei nostri passi di giaguari in fuga; un istante più tardi, Jerry è nella stanza con me che mi mostra il prodigio: mentre il vecchio Claypool e io eravamo impegnati a liberare la coppia di teppisti dalle cure dei signori agenti, lui ha passato dei bei momenti spingendo sui quarti posteriori di Hanalise. « Be’, grazie tante, cugino», mi dice, indicando il miracolo oltre la testiera del letto.

Il sudore di Hanalise ha proprio ombreggiato l’intonaco, sopra la testiera; puoi vederle distintamente, quelle due mani aperte, tutte e dieci le belle dita poggiate contro il muro. Le lenzuola sono affondate sotto il peso delle ginocchia, schiacciate contro il materasso in due piccoli avvallamenti stropicciati: chi ha più di diciott’anni può immaginare il resto.

«Bravo, Cousin», gli dico. «Hai fatto proprio bene.»

Lui picchietta il fondo del pacchetto, fa uscire un paio di meravigliose per rifarci la bocca.

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«Alla buona sorte», dico io, aspirando la prima boccata silenziosa di fronte al letto sconvolto.

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Venti gennaio, 1984.

Le luci violente del locale fotografano i Nabat sul palco. Mentre qualcuno applaude, volano attraverso la sala un paio di bottiglie euforiche, vanno a frantumarsi dalle parti della batteria.

Steno, cantante e idolo della scena oï! cittadina, scambia qualche battuta fuori microfono con i ragazzi delle prime file.

Non appena attaccano Scenderemo nelle strade i kids del pubblico si scuotono, iniziano a pogare, qualcuno cade a terra. È come se un’onda di energia separasse Ermanno dal Cousin e gli altri amici, come se all’improvviso si trovasse intorno solo gomiti in movimento pesante e fred perry sudate e luce secca di fari che cala dal soffitto. Puoi sentire una sorta di ruggito di sottofondo, un urlo che bolle sotto il pavimento. Anche Ermanno comincia a pogare, con il suo assetto a baricentro basso e spallate laterali, praticamente senza salti, ché si può anche restarci secchi come quell’altro sconosciuto lì sotto in giubba jeans: il poveretto si protegge come può tra i piedi che saltano e calciano, finché qualcuno non gli scivola sopra, e poi qualcun altro, e in breve è come una piccola isola di corpi aggrovigliati nel caos totale del pogo, mentre le spinte e i contraccolpi fanno sembrare il locale invaso da un magma di teste rasate e giacche di pelle e mezze creste colorate.

Quando Ermanno sente che non c’è più flato da spendere, si abbassa e carica come un toro verso il fondo del locale per riguadagnare il bancone, trovare di nuovo gli amici. Gli arriva un colpo secco in faccia, una testata o un gomito, forse, ma ormai lui può toccare il bancone. È

fuori dal groviglio di bretelle, anfibi e braghe da lavoro, respira di nuovo.

«Una birra», ansima rivolto al barista. «Se no ci lascio le penne.» Il pacchetto non è ridotto benissimo, ma insomma, una meravigliosa si riesce a rimediarla.

Cousin Jerry e Raimundo gli arrivano incontro con delle bibite in pugno.

«Ehi, ma fai schifo», dice Raimundo.

«Che cosa cazzo?» chiede Ermanno. Lo odia, alle volte.

«Grondi sangue», spiega il Cousin, facendo ardere una meravigliosa sullo zippo.

Ermanno si tocca la faccia e capisce che quella sensazione di bagnato non è solo sudore.

«‘Fanculo!… Devo essermi rotto il naso», dice.

Il Cousin sfila via un fazzoletto di tasca, dice: «Fammi vedere».

«Cazzo», dice Dietrich. «Non ti si può lasciar solo un minuto…»

Jerry stringe il naso di Ermanno con due dita, fa piccoli movimenti cauti d’ispezione. «Non sembra rotto», dice. Gli affida il fazzoletto, dice: «Premilo forte. Gira la testa indietro».

Ermanno guarda la sala capovolta, percepisce il flotto dolce che scende giù per la gola.

Potrebbe anche vomitare, dopo tutto. Poi si accorge che lo stronzetto Raimundo sta ghignando. «Senti, testa di cazzo», gli dice, col fazzoletto che nasconde la sua faccia per metà. «Lo sai che se c’eri tu, là in mezzo, ti rovinavano. Lo sai, vero?» Adesso sente il sangue rifluire alla testa, impazzisce un po’. «Lo capisci che morivi calpestato, con quei muscoletti da ginnastica aerobica di merda.»

Raimundo sta già sfilando di tre quarti, sembra pronto a offrire la guardia.

«Puoi provare a colpirmi», dice Ermanno, senza smettere di stringere al naso il fazzoletto.

«Così dopo ti spiego un paio di cose.»

Fanno un po’ ridere, questi due pazzi, visti da fuori. Fanno anche un po’ paura.

«Cosa siete diventati?» dice Cousin Jerry. «Forse due mongoli?»

Allora Raimundo sorride, allenta la guardia, tira via un colpetto amichevole contro la spalla di Ermanno: «Stavamo solo scherzando», dice.

«Dài, ferito», dice Cousin Jerry. «Bevi la birra e torniamo al tavolo, ché Dietrich ci deve spiegare il piano.»

Così, attraversano la sala come tre narcotrafficanti giovani del cartello di Nizza, vanno a sedersi di fianco a Dietrich e alla sua bottiglia, e le ragazze un po’ deprivate che ascoltano il 52

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concerto non possono far altro che guardarli, quei quattro fiammeggianti, ognuno attento alle parole e ai gesti degli altri.

Be’, pare che il vecchio Dietrich abbia ordito una rapina.

Sarebbe in un ristorante cinese.

Un po’ di soldi, facili facili.

Non sarà come la storia delle vedove, no?

Col cazzo, ho fatto persino gli appostamenti, zio cantante.

Dietrich, tu sei suonato.

Col cazzo. Io ho fatto gli appostamenti, ti dico.

Gesù Cristo, non ci si crede.

«All’una e tre quarti di domani», sdottora il vecchio Dietrich, con la bottiglia in pugno. «Il nostro obiettivo», dice un po’ torpido e del tutto compenetrato nella parte, «è frequentato da studenti e impiegati, per lo più. Si chiama Giardino del drago, e il sottoscritto ha già pensato all’arsenale…»

«Hai già pensato all’arsenale», considera Ermanno. «Non è che sei un po’ fuori, no?»

«Col cazzo», risponde Dietrich. «Tanto per cominciare, io sarò armato con una calibro trentotto. Ho già previsto tutti i dettagli, vi dico. E anche voialtri tre amici sarete armati quanto me.»

«Tu sei fuori», dice Ermanno.

«Un uomo che per quattro settimane non ha pensato ad altro che mettervi in pugno delle pistole al vetriolo non può essere fuori. Può solo starci con la testa. «

«Pistola al vetriolo, dici.»

«Eh, sì, caro Raimundo. Al vetriolo. Con gli ugelli modificati. A spruzzo. Una cosa nuova e mai vista. Tranquilli, regiz, il vostro Dietrich ha montato un bel condotto d’alluminio dentro il sistemino a pompa. Le pistole le ho comprate in cartoleria, e in apparenza sono dei normali giocattoli ad acqua, ma con la cazzo di supermodifica si sono trasformate in qualcosa di micidiale.»

«Vaffanculo.»

«No, vaffanculo tu, amico. So di cosa parlo, ti giuro.»

Così, vengon fuori i movimenti studiati a tavolino, il posto dove lasciare le vespe, i tempi dell’azione, la fuga strasicura dalla porta principale. In meno di tre minuti. Con la sola preoccupazione, dopo, di dover contare i soldi guadagnati tanto in fretta.

Il Cousin e Raimundo seguono attentamente ogni 5illaba del pazzo, scivolano dentro quei discorsi come lontre giovani nel flusso, dense e agili nel precipitare inesorabile della caduta.

«Allora», chiede Dietrich, «che mi dite, regiz?»

Si crede uno stratega, lo capisci, e per qualche strano giro del destino la sua strategia ha toccato il cuore dei più mostri.

«Si può fare», dice il Cousin, e nel suo tono c’è qualcosa di talmente definitivo, che la musica tarchiata dei vecchi Nabat viene spinta a una distanza siderale dal loro tavolo, mentre arrivano in superficie le immagini senza nome di Ermanno e Raimundo che smanettano i vespini incontro a una gloria decisiva.

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«Tu cosa dici, Ermanno?» domanda Cousin Jerry.

Ermanno guarda Raimundo, guarda Dietrich, poi guarda lui. Dice: «Lo mettiamo a ferro e fuoco, quel cazzo di ristorante. Certo, regiz», dice. «Certo.»

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Ventuno gennaio, 1984.

Dodici ore più tardi due vespe special stanno scendendo a piena velocità lungo il viale principale in mezz’ombra, ben ventilato. Pochi passanti sfaccendati muovono lungo i marciapiedi nell’atmosfera semicaraibica d’ora di pranzo.

Ermanno guida molto perplesso. La vespa scoda nelle curve, per via del peso sbilanciato di Dietrich, appostato dietro lui sulla sella di dalmata.

Dio Dio Dio, che stronzata, pensa Ermanno… Questo ciccione ubriaco di Dietrich che progetta l’assalto…

È un delirio, certo, ma già che c’è dentro - riflette mentre l’aria tiepida gl’investe il viso - è cosa buona starsene calmini, vero? e vedere di far filare tutto liscio. Deve girare come un motore nuovo, si dice. Ben lubrificato. Deve astrarre, non pensare. In fin dei conti, è solo uno dei quattro idioti che sta per rapinare un ristorante cinese; è solo il bassista d’un quartetto molto azzardato: niente assoli, niente scazzi, riflette. Gli si chiede soltanto una prestazione onesta.

Tra qualche minuto sarà tutto finito, comunque vada.

Guida via la vespa chiuso nella perplessità che non vuol saperne di andarsene e pensa che si tratta della stessa tensione positiva che gli mettevano addosso gli esami ai vecchi tempi della scuola. Ora entro e faccio tutto quello che devo fare, si dice; comunque vada, finirà in fretta, si dice.

Raimundo, Jerry e il sacchetto dei passamontagna viaggiano a canaglia sulla seconda vespa, messa a disposizione da un certo amico delinquente del Cousin. E un buon ferro, con su il centodue, la marmitta aperta; viaggia che è un piacere. Raimundo e Jerry stanno venti metri avanti e aprono la strada. Raimundo s’è fatto un paio di righe, nel corso della mattinata: è bello tirato, ma è un rischio, anche; Ermanno e Jerry si son limitati a un giro di aperitivi rilassanti, invece, mentre il vecchio Dietrich è misteriosamente sobrio, restituito a nuova vita.

La prima vespa rallenta, infila una laterale, diminuisce di giri. Poi, Ermanno sente un colpo profondo allo stomaco, capisce che il posto è quello, vede confusamente l’insegna, la porta da finta pagoda. E come se una polpetta ghiacciata gli risalisse su fino in gola. Può sentire le tempie che iniziano a martellare, adesso.

«È tutto chiaro», dice il Cousin. Riesce a darti tranquillità, con la voce bassa e caldissima che ha: «Tre minuti, ragazzi. Tre minuti e vaffanculo. Tre minuti e questi revolver giocattolo vi si sciolgono in mano. Tre minuti e siamo di nuovo su queste cazzo di vespe!… ‘Fanculo», sprona il Cousin. «Avanti!»

Raimundo agita la pistola da cartoleria, rosa trasparente, urla isterico: «Cinesi del cazzo, stiamo arrivando!» e dal passamontagna spuntano solo gli occhi pallati per la boliviana più amata nel mondo.

Stanno muovendo di corsa, ora.

Stanno muovendo alla carica.

Raimundo si slancia contro le porte a soffietto come fossero un vetro da sfondare. Vola dentro, travolge un cameriere ragazzino, lo fa finire a terra, cinese e indifeso com’è. Grida:

«Bastardi, è una rapina!» Poi grida: «Siamo le Brigate rosse, bastardi! È come un film!… Fate come fosse un film!…»

Ci sono due cinesi, di fronte al bancone, e la cassiera sulla sinistra. La sala grande a sinistra e la saletta a destra, anche: all’improvviso, è tutto molto ma molto chiaro.

Raimundo colpisce il cinese ragazzino sdraiato nel lago di riso al curry, wanton e salsa alla soia. Lo massacra di calci stringendo in pugno la pistola giocattolo. Gli occhi allibiti della cassiera, i clienti strappati alle loro conversazioni di costume: il Cousin corre attraverso il corridoio, va a chiudere la via d’uscita dei bagni, piomba nella sala grande di sinistra.

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« Rapidi» , ammonisce. «Da questa parte! Non fate gli stronzi e non succede niente! Basta seguire le istruzioni», grida. Concentra i clienti contro i tavoli d’angolo; è abbastanza convincente.

Anche Ermanno sa bene la sua parte: deve controllare la saletta privata, a destra dell’ingresso. Così, quando entra questo magnifico ventenne con la faccia mascherata dal passamontagna, i quattro studenti restano allibiti. Solo quattro merdosi diciottenni, pensa Ermanno. Nessun altro. «Stronzetti», dice. «Buoni, buoni. Tra un minuto è tutto finito.»

Spiana la pistola verde acquamarina contro l’allegra tavolata: li odia, quelli che vanno al ristorante con lo zainetto.

Dietrich pianta la bocca dura della trentotto in mezzo alle gran tette cinesi della cassiera.

«Adesso, troia», dice, «apri la cassa con molta calma, tira fuori tutti i soldi senza gesti bruschi e infilali in questa busta! «

La cassiera cinese fissa gli occhi gelidi dell’incappucciato Dietrich e inizia a piangere; prima piano, poi in modo disperato, immobile in se stessa, scossa da un tremore verticale che le fa andare su e giù le spalle.

Dietrich le cala il calcio della pistola con tutta la forza che ha nel braccio, rovina la faccia di porcellana, s’infila dietro il bancone: «Come Cristo s’apre, ‘sta cassa di merda?» grida.

«Avanti avanti avanti! apri ‘sta cazzo di cassa! «

La maschera di sangue non sembra in grado di collaborare, però, e i due cinesi giovani dietro al bancone sono perfettamente identici e pettinati come Adriano Panatta: accennano un movimento stronzo qualsiasi e si ritrovano subito sotto il tiro di Raimundo.

«Ammazzali, questi bastardi!» gli urla Dietrich. «Aprigli la testa a metà! Che capiscano che non si scherza! «

Raimundo solleva di peso il camerierino quindicenne, gli artiglia la gola, grida attorno: «Lo vedete il vostro fratellino? Lo volete ancora intero o vi fate prendere dal panico? Tenete le mani dietro la testa, facce di cazzo!» Stringe la presa, e c’è un rivolo di saliva che gli cola sul colletto della camicia da due soldi: il camerierino quindicenne sta per soffocare, ma i due inebetiti ancora non capiscono. «Dieeetro la teeestaaa! « grida Raimundo, raddoppiando la presa.

«… Merda, ecco! Ecco! S’è aperta! « fa Dietrich, e c’è la cassiera sanguinante che forse cerca di difendere i guadagni della giornata; si lascia cadere a peso morto su Dietrich, lui le sfascia le dentature col calcio della pistola, la spedisce stesa per terra.

Il Cousin, del tutto sereno, tiene una specie di impiegata sui trent’anni sotto tiro: i signori clienti sembrano intenzionati a collaborare, lasciano cadere rapidamente i portafogli nel sacchetto che lui gli apre davanti, mentre Dietrich fa razzia dell’incasso e infila tutte le banconote nelle tasche del giubbetto.

Poi, uno dei due diciottenni tenuti sotto controllo da Ermanno nella saletta deve avere un eccesso di vitalità, oppure vuole impressionare le due ragazze o chissà quale altra idea idiota gli frulla in testa. Si alza lentamente in piedi, con assetto da bagnino giustiziere, dice: «Cazzo vuoi fare con una pistola ad acqua?» Prova a uscire da dietro il tavolo, tocca la spalla all’amico, una specie di tonto, come a dire: «Alzati che lo stronchiamo», poi fissa Ermanno negli occhi da finto terrorista e rapinatore senza causa.

Questi non hanno mica capito, pensa Ermanno: «Cicciobello non fare cazzate di cui poi ti penti», dice, ma visto che Cicciobello proprio non si sa trattenere e anzi, fa per saltargli addosso, lui preme forte sul grilletto. La pistola verde acquamarina piscia il vetriolo sulla faccia e sulle mani: Cicciobello lancia un urlo lancinante, come un maiale giovane nelle mani del norcino; finisce a terra, gorgoglia qualcosa di incomprensibile: «V’avevo detto o no di fidarvi del vostro assistente sociale?» dice Ermanno. «Adesso il vostro amico eroe sta piangendo! Lo vedete che sta piangendo?» Si sente euforico, ora. «Gradite uno schizzetto anche voi?» chiede con voce impostata sopra i mezzi gemiti di Cicciobello. Una delle 56

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femmine piange, l’altra è come paralizzata dal disastro, mentre l’amico, integro e tonto com’è, non sa cosa fare e cantilena con voce assente: «Oddio, Dio, Dio…»

Poi, c’è un primo colpo che manda in frantumi il posacenere che sta sul bancone: era per Raimundo, e lui resta fotografato, immobile, investito dalle schegge di vetro. Il cuoco cinese ha i baffi e il revolver in pugno. Dev’essere uscito dalle cucine, alle spalle dei gemelli Panatta.

Sembra convinto, mira dritto alla testa del furioso in passamontagna che gli ha danneggiato il figlioletto apprendista cameriere. Dietrich non gli lascia il secondo colpo: il proiettile calibro trentotto fila dritto verso il cuoco pistolero, gli entra nello zigomo, gli schianta il cervello, lo sdraia definitivo.

« Merda», dice Raimundo.

Jerry abbandona la sala col sacchetto del maltolto in pugno, capisce subito cos’è successo:

«Puta madre», dice.

«Cazzo fate?» grida Ermanno dalla saletta.

«Mi volevano ammazzare, questi bastardi!» strepita Raimundo, in pieno furore vichingo.

«Ma io vi devasto, cinesi di merda! « e gli zampilli di vetriolo arrivano dritti sulle facce senza espressione dei due gemelli.

Quelli urlano. Lo capisci che si sono fatti molto male, ma a Raimundo sembra che stiano sorridendo.

Poi, un pazzo in cravatta tenta di fuggire dalla sala. Sfugge a Jerry, e Raimundo gli schizza il resto del vetriolo sulla giacca, sul collo, ma non basta a fermarlo.

È Dietrich a spararlo in mezzo alle scapole, mentre quello allunga le mani verso la porta.

Cade in ginocchio, come. Raimundo la vede da vicino, l’espressione che ha questo lavoratore prima di chiudere gli occhi e finire faccia a terra.

«Cazzo sta succedendo?» urla Ermanno. Visto che nessuno gli risponde, tra gli schianti e le urla va giù di testa: preme il grilletto due tre quattro volte: una ragazza si porta le mani alla faccia, scivola giù scomposta, trascina con sé la tovaglia in un precipitare di piatti e singhiozzi disperanti.

Lui corre via nell’atrio, adesso.

«Via da qui, subito!» dice il Cousin, ma Raimundo sembra completamente impazzito: si butta oltre il bancone, raccoglie il revolver del cuoco, punta i gemelli danneggiati e li punisce uno dopo l’altro, due revolverate alla nuca, come cuccioli nati male. «Stronzi!» grida. «Perché cazzo non avete ubbidito!…»

Il Cousin afferra Dietrich per una spalla, gli passa il sacchetto pieno di portafogli. La busta con l’incasso è già infilata nella giacca. Parla senza ammettere repliche, nocchiero impassibile d’una scialuppa in estremo pericolo: « Fuori di qui, cazzo! Adesso! » Strappa via la trentotto dalle mani di Dietrich. «Raimundo, cazzo!» intima poi, ma quello sta già sventagliando l’artiglieria sulla porta della sala dove sono concentrati i clienti, ebbro come lo showman che presenterà la fine dei tempi.

Ermanno si strappa il passamontagna, si lancia in strada con Dietrich: la vespa la vespa la vespa! pensa. Saltarci sopra e volare via.

Dietro le spalle sente ancora un paio di colpi.

«Merda! Merda!» strilla Ermanno. «Perché cazzo non escono!…» Calcia per mettere in moto, Dietrich fa volare via il cappuccio da scalatore di ghiacciai, salta dietro, sudato fradicio.

«Ci pensa Jerry a Raimundo!» grida Dietrich, guardando indietro. «Leviamoci di qui!

leviamoci di qui, noi!»

Così, la vespa verde di Ermanno schizza in mezzo alla strada, e loro due volano bassi, stringendo il sacchetto tra i due corpi, il cuore a campana.

Un minuto più tardi, da delinquente sosia dell’attore Matt Dillon, Raimundo s’è trasformato in un babbuino che ha una gran paura di morire, stretto al Cousin come non ci fosse nessun’altra possibilità.

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Le sirene sono vicine, adesso.

Ci si salva il culo solo perché Jerry ha il colpo di genio d’infilare le stradine medioevali del centro, troppo strette per una sbirromobile. Alle loro spalle ci dev’essere una guardia che spara un colpo in aria, e lo schiocco trafigge per un istante la frenata della sbirromobile. Due pazzi a volto coperto fanno lo slalom fra i piccoli banchetti del mercato, lanciati a settanta all’ora attraverso una folla urlante di casalinghe e pensionati intenti alla spesa quotidiana.

Jerry apre il gas a manetta, tira e basta, con una ghigna terribile dipinta in faccia.

Basterebbe un vecchio troppo lento o incapace di schivare, e la partita sarebbe finita: tre idioti sdraiati a terra e una vespa sfasciata. Ma stanno scappando dalla madama, non possono chiedere per favore fate largo o agitare un fazzoletto bianco.

Raimundo ha la mascella incastrata dall’emozione, lo stomaco trasformato in un blocco di ghiaccio.

Schizzano via sulla sinistra, e la vespa scoda contro un paracarro di porfido, il bandone laterale che s’accartoccia come carta in fiamme. Cousin Jerry inclina di fianco per non perdere l’equilibrio, la vespa vibra via, scodinzola in ripresa.

Raimundo è trafitto da un pensiero che vien su dalle scuole elementari, quando s’andava a rubare rusticani dagli alberi del contadino e poi si fuggiva perché quello sparava ai furfanti bambini con la doppietta caricata a sale grosso: stringe il revolver strappato al cinese, si stringe a Jerry per non precipitare dalla vespa fiammeggiante.

In fondo alla strettoia c’è la salvezza, si direbbe, una strada più grande e rumorosa di traffico, capace di proteggere. A bloccarla, una iena di guardia municipale con la scacciacani spianata, avvertito non si sa da chi. Ai lati corrono i portoni rifugiati di gente terrorizzata o appiattita contro i muri. Dritto di fronte, questo merdoso che urla:

«Fermi o sparo! Fermi o sparo!» e si vede che ha più paura del dovuto.

Venti metri e gli entrano in testa con la vespa e tutto.

Forse si chiama Mario, la guardia.

Forse, spera di fermarli.

Forse vorrebbe essere a casa con la moglie ormai imprugnita e i figli mongoli a raccontare il primo atto d’eroismo della sua povera vita sovrappeso.

Fermare due vespisti in passamontagna.

Mario si vede già a casa, i figli mangiatori di bocconcini surgelati finalmente fieri del padre sbirro municipale.

Scuote la scacciacani, il vecchio Mario, con una ghigna leggermente timorosa, pero.

La vespa è a dieci metri, a cinque; quando Raimundo esplode il primo colpo la guardia vola piallata a terra.

Il secondo colpo parte mentre gli sfilano accanto: Mario ha un sussulto che sembra la pubblicità d’un materasso a molle: è steso definitivamente sul cemento, fulminato dalle due revolverate.

Mario, che sciocco.

Poi, Raimundo e Cousin Jerry lanciano via i cappucci, affondano nel traffico.

Salvi, nel cuore del cuore del disastro.

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Splende il sole anche d’inverno.

Splende il sole anche d’inverno, pallido e indefinito come un alone di sperma sulle lenzuola faticose d’un quattordicenne, e illumina in maniera insoddisfacente le facce di noi malnati che ce ne stiamo qui sotto. A volte il mio povero cervello gruviero è risucchiato nello spazio dalle vibrazioni interstellari ummagumma, ma non mi sembra il più grave dei mali.

Viviamo da sempre per le stesse strade del quartiere immobile che a miglior diritto dei nostri rispettivi parenti, non altrettanto amorevoli, potrebbe sul serio vantarsi di averci partorito e fatto crescere. La rete di strade e cortili ha saputo proteggerci meglio di una madre, mentre come cuccioli di Pavlov guatavamo i grandi per imparare le frasi e i modi che ci si aspettano da un uomo.

Da cuccioli ci accasciavamo in mezzo ai cortili ciottolati del nostro quartiere-pancia e facevamo gli scambi di figurine: i dipinti adesivi dei posti più strambi del mondo come Mauna Kea o Krakatoa o le vedute esotiche e vulcaniche; i patacchini dei pantaloni americani e dei gruppi musicali moderni, ma soprattutto quelli dei calciatori mondiali: arrivavi a pagare tre tarchiati Gerd Mùller e uno scudetto prismatico del Benfica per un solo José Franz Altamirano, tanto avevi gli occhi e i muscoli esili delle gambe esaltati dal magnifico capitano della Dynamo Nizza.

Da cuccioli tiravamo i calci di rigore col pallone supertele. La porta, era disegnata sul muro a vernice bianca col beneplacito del solenne papà di Dietrich. E il suo apporto tecnico, anche: da soli avevamo provato più volte, ma quella veniva tutta storta, ché a parare lì in mezzo invece di portiere bellissimo e ragno nero ci si sarebbe immaginati giusto uno storpio dell’istituto degli infelici. Poi, bontà immensa e grida altisuono di ringraziamento da parte di noi cuccioli, il genitore ci introdusse ai miracoli del filo a piombo, indispensabile per disegnare dritti i pali.

Da cuccioli, facevamo i granpremi sui bicicli, e io ero sempre dietro perché più piccolo d’età, e perché non sapevo star su, senza le rotelline laterali. Però non riuscivano mai a doppiarmi, tranne quando mi prese l’asma e si dovette chiamare l’ambulanza dal telefono a parete del bar che all’epoca frequentavamo per elemosinare acqua o comprare una spuma.

Accasciato sul manubrio, fragile come una foglia, non riuscivo a respirare, ma memore della disavventura londinese del Dorando Pietri imparata sulla Storia delle olimpiadi a fumetti, sputavo insulti smozzicati e catarri, mi avvinghiavo al manubrio se qualcuno cercava di fermarmi, ché al traguardo dovevo arrivarci a ogni costo.

Un paio d’infermieri bianchi e arancioni mi presero in ambulanza caricando anche il biciclo da cui non volevo separarmi, e questa mi parve una delicatezza degna di amanti del ciclismo che conoscono le debolezze dei grandissimi campioni: collassai sereno, come non mi è più capitato nell’abbandonare momentaneamente il grande circo della consapevolezza. Ero certo di essere in buone mani, e la settimana in ospedale fu come una gratuita vacanza fuori stagione.

Da cuccioli si facevano le guerre: potevamo sprangarci con le assi delle cassette di frutta sfondate, opportunamente incollate insieme col vinavil a tre o quattro, in modo da formare listelli di un certo peso che lasciavano bei souvenir paonazzi sulle nostre gambe e schiene costolose; si rissava a sberle, pugni e calcioni; ci si sparava cerbottanate semimortali per via degli aghi e chiodini rugginiti nascosti nelle pallottole di stucco. «Smettetela, ché una volta a fare questo gioco c’è un ragazzino che s’è cavato un occhio!» Questo dicevano le nonne, ma ovviamente non gli dava retta nessuno.

Le strade sghembe del quartiere ci hanno visti anche più grandi e meno animali da cortile, studenti ginocchiuti delle medie inferiori trottare verso scuola frustati dalla tempesta ormonale, asimmetrici, sghembi, bastardi in tutto.

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Ghenghe di dodicenni coi calzoni lisi, ci s’incamminava verso lezioni dimenticate già l’indomani, staffilate a tradimento con la riga da ottanta centimetri, nuove passioni musicali o cinematografiche, talora pensieri a un qualche livello d’astrazione.

Concetti lubrici e curiosissimi ci spingevano a più riprese nel devastato bagno della scuola, viziosi, affondando la mano in tasca già lungo il corridoio.

E poi c’era il «ditalino», un concetto cardine delle stagioni segajuole: una donna si dimena un dito su per la fica, più o meno. Praticamente, una sega interiore. Molto, molto eccitante.

Solo che invece di schizzare fuori la sborra, molto più modestamente la donna gocciola fuori una particolare guazza trasparente che odora fortissimo di miele. Godono moltissimo, a farsi i ditalini. Quasi più che a scopare. Ottimo, così quando mi trovo con una sbarba non c’è bisogno che mi arrischi a far cose di cui non son pratico. Se li fanno sdraiate a gambe aperte, ma le più porche si mettono a pecorina e si toccano da sotto. No!… Impossibile!… Dicono:

«Godo!» Non ci credo!… Se non sai un cazzo non è mica colpa mia, ringrazia che t’insegno.

A pecorina però no. Giuro: non in molte, però. Ah, ecco!… Però a volte, quando non ci sono maschi, lo fanno anche in gruppo. No!… Me lo ha detto mia cugina. Ah!… E una volta due amiche di mia cugina se lo sono fatte a vicenda. No-o, a vicenda no! Parola, amico. Ciozza!

No, verità! Bagnate come non so cosa! No-o!… E intanto si davano delle lingue. No-o~… A vicenda, sdraiate sul letto! Io muoio!…

I ditalini. Se li farà sicuramente la giovenca Boulimia Birkin, capitana della squadretta di pallavolo, ormai donna con tutti i suoi odori a soli dodici anni. Se li farà tirando su la gonna blu con le pieghe e abbassando le calzette e le mutandine rosa che fa vedere a tutti in cambio di una girella, ma il vero tormento è se i ditalini se li fa anche quell’incipiente fichetta aristocratica di Emma Peel, magari poggiata di schiena alla porta del bagno, proprio come faccio io quando mi agito la proboscide. E penserà a chi, per godere di più? Magari proprio a me che faccio kilometri e kilometri su e giù per la vecchia proboscide? A me che godo? A me che sbrodolo? Sarebbe una cosa esaltante e stupenda-ah!…

E via, a pulirsi con la carta igienica, far ritorno in classe rintronati di brutto con le gambe molli…

Il primo di noi ad avere in qualche modo una fidanzatina fu Raimundo Bianco, che durante l’intervallo baciava, con la lingua proiettata fuori dalla bocca, una certa Ester Czerniatinsky, contadinella maggiorata di un anno più grande, capelli castani e occhi verdi, attualmente brillante cassiera nella latteria di Place de l’unité. Ester scriveva sul diario che lui somigliava a un qualche attor giovane americano, e un sabato pomeriggio Raimundo mi confessò che lei gli aveva perfino chiesto di far l’amore. E io dissi: Perché no? E lui disse: Perché non la amo, è solo una storia così, di passaggio.

Sarebbe trascorso ancora qualche tempo, prima che uno di noi lupi giovani riuscisse nel miracolo molto adulto di godere d’una ragazza. Per intanto, furono stagioni strane e nuove, come le sigarette turche fumate di nascosto nel semibuio dei giardini pubblici, come le schegge di consapevolezza che ci venivano ogni giorno del nostro incerto status di entità in movimento nello spazio e rotanti su se stesse eccetera. Per il calcolo della nostra posizione astrale rispetto a un osservatore fisso, erano richiesti già allora calcoli tolemaici complicatissimi, ma d’altronde - questo ci era chiaro benché fossimo minorenni sciancati dall’adolescenza - quella degli osservatori fissi era una gran panzana. Un po’ come quella dei valori.

Erano solo bambocci incapaci di difendersi, professoresse e adulti a sostenere i grandi sistemi aerei dei valori, che a parte tutto tiravano fuori per sostenere opinioni privatissime, dettate da passioni molto terrene. Ad esempio, Non Mi Rubate La Merenda, sentenziava corsivo il malcapitato con gli occhiali, Perché Rubare È Male. Intascavamo comunque il buondì, poi eventualmente indagavamo, e magari si veniva a sapere che erano stati i genitori a 60

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consigliargli quelle certe frasi, e il fine era non vederselo tornare a casa in lacrime e non dovergli comprare un altro buondì. Oppure gliel’avevano detto i preti del catechismo, che intanto a messa raccoglievano i soldi e poi ci andavano al ristorante. Oppure gliel’avevano suggerito i compagni, furbissime linci, speranzosi di poterselo intascare loro, il buondì motta, invece che farcelo mangiare a noi warriors.

Certi sostenevano di fare cose per il bene di qualcun altro o perché credevano in un’idea: era un fatto che appariva paradossale e curiosissimo persino a noi tre sbarbi: c’ero io, nella mia inquietante presenza, poi Raimundo teppistello rubacuori, e infine il panzuto Dietrich, capace di stapparti le bottiglie di birra coi denti. A quattordici anni eravamo già una temibile squadra di disertori liceali, personaggi misteriosi e inquieti su cui si raccontavano leggende notevolissime con tanto di spargimenti di sangue, sciabolate alle guardie, molestie di gruppo, evasioni, genitori morti di crepacuore. I miei, per altro, godevano di discreta salute. Mio padre impapponiva vieppiù nel buen retiro di Aix-en-Provence, dove aveva rapito anche l’amico Felipe, col collare antipulci e la vecchia cuccia che io avevo dipinto di giallo. Mamma, meno bucolica, si accontentava di guardare Canzonissima seduta sullo stesso divano del convivente Alfio Ancona. Era felice di sposarsi di nuovo, trasformarsi nella moglie d’un grossista di tessuti.

Non a caso, nei cinema all’aperto Turismo e Arena Africa ci si ritrovava invariabilmente in ultima fila a tifare per i Cattivi, molto più coinvolgenti, moderni e poetici di quei bambocci dei Buoni, che magari alla fine vincevano ma sempre grazie a colpi di fortuna o materializzazioni ex machina che a quel punto, grazie…

E poi, c’era il magico Tognaz, il maestro di chiunque e di tutti noi.

Il suo nome veniva costantemente sussurrato, nel buio della sala, e il vero finale di Supertognazzi Contro Miguel Bosé, in tre o quattro lo si conosceva: l’anemico eroe delle nostre bamboleggianti coetanee finiva grattugiato nel canyon cinquecento metri sotto la ghigna trionfante dell’Ugo Tognazzi.

Solo che i bastardi ce l’avevano tagliato, quel finale, deciso che era anticommerciale. Così, era stato ingaggiato un regista gradito al Vaticano, verso la fine delle riprese, un prezzolato dell’happy end: in quel finale del cazzo, Supertognazzi veniva artificiosamente sconfitto. Tre o quattro di noi lo sapevano con esattezza cartesiana, questo. Ed era proprio il secondo finale, che i bastardi facevan girare nei cinema.

Le lacrime di noi ragazzi straripavano, mentre Supertognazzi precipitava, in un lunghissimo piano sequenza, per almeno tre minuti di volo. Il Più Grande Di Tutti, si sfracellava nella tenebra del canyon, mentre l’horrido Bosè intonava quella sua sigla di merda che diceva

«Tutti noi bravi ragazzi, tutti noi che siamo a pezzi».

Invece, il vero finale del film era che Supertognazzi risorgeva dall’abisso, definitivo e terminatore: eccolo, che splendeva poderoso nel suo costume circense, demoliva il rivale in una bufera di cazzotti alla Nino Benvenuti, vagoni di ghisa e sediate su quella faccia di cazzo spagnoleggiante.

Avremmo dato, io credo, la vita di qualche parente acquisito, purché ci mostrassero almeno una volta il vero finale, il pessimo Bosè umiliato alla grandissima, preso a proletari ceffoni dal vecchio Tognaz.

L’inferno che non si sarebbe scatenato in quel cinema!

Seggiole volanti! scarpe lanciate contro lo schermo! una gran pioggia di sputi sul proiezionista!

Purtroppo, non accadde mai.

Un venerdì pomeriggio, ricordo, ci spingemmo in una sala d’essai, sperando in una scelta illuminata del gestore, ma si restò delusi.

Supertognazzi perdeva invariabilmente in tutte le puntate della saga, con una coerenza inspiegabile, capace di far dubitare dell’esistenza di Dio nel mondo del cinema: segato a metà 61

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in Supertognazzi Contro Il Mago Tony Binarelli; rimpicciolito fino alle dimensioni di un soldatino di piombo in Supertognazzi Contro Le Gemelle Kessler; ridotto alla cecità e all’impotenza in Supertognazzi Contro Jocelyn; esiliato in un’isoletta del Pacifico al termine di Supertognazzi Contro Sammy Barbot; ergastolano senza speranza nell’amaro epilogo di Supertognazzi Contro Giuliano Gemma; addirittura crocefisso sul Golgota nell’ultimo apocalittico lungometraggio della serie, Supertognazzi Contro La Civiltà Occidentale.

Era decisamente troppo.

Era il nostro eroe, lui. Gli delegavamo tutte le nostre speranze. Io non so se si possono far crescere dei bambini in questo modo asimmetrico: mai una soddisfazione, mai una bella pompata d’autostima…

La rivincita di Supertognazzi la sognavamo di notte nei lettucci in disordine, tutelati dal poster di Johann Cruyff; la propiziavamo, durante il giorno, con una vita da bandoleri minorenni, rubando formaggi e biscotti doria, fiondando di sassi le macchine in corsa nascosti fra i cespugli, bastonando senza requie gli aspiranti Miguel Bosè in carne e ossa - i giustamente simpatici, giustamente intelligenti, giustamente studiosi, giustamente carini, giustamente dinamici…

Ma vaffanculo! gli gridavamo, giustamente.

Passarono, inconsapevolmente molnariane e sandiniste, le stagioni dell’infanzia e dell’adolescenza.

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Ventiquattro gennaio, 1984.

Quel rumore come di piccole tagliole che scattano a vuoto, sono i denti di Ermanno che battono per conto loro, sordi agli impulsi del sistema nervoso centrale. Il piede balbetta e sbaglia, rischia continuamente di premere sul freno. Le dita sono arpioni sulle manopole zigrinate della vespa. Il motore sbanca al massimo dei giri, produce sinistre vibrazioni. La vespetta con la sella di dalmata ha un tappo di plastica nera al posto del tachimetro, ma lui non ha bisogno di lancette per sapere la velocità. Lo conosce bene, il suo puledro: quando è lanciato in pianura, senza ostacoli come adesso, è capace di tenere gli ottanta. Ci sono strade, in altri quartieri, molto più larghe, veloci e pericolose. Comunque, il lungomare degli inglesi resta il passeggio più celebre di Nizza, ed è inutile tentare di sminuirne l’effetto scenografico facendo notare che sono appena le sette del mattino, il cielo lattiginoso, i passanti pochi e disillusi. Le ondate mediterranee sono sbarbe ansiose: più tardi si daranno senza risparmio.

Più tardi, quando si saranno riprese dalle pastiglie pel dolce sonno.

La vespetta verde corre sull’asfalto freddo, fra alberghi come colate di catrame e palmeti allegri d’herpes. Il vostro vespista Claypool, adesso, ha dentro sé solo il vento gelato che spazza la tundra siberiana, labbra come una specie d’infezione nera sulla maschera da sconvolto.

In giro, c’è già qualche operoso che si dispone alle fermate del bus: pensionati nei cappotti semoventi beige o fumodilondra, gente che si lamenta del sussidio, della salute ormai deteriorata.

Si agita, ora, l’Ermanno semicongelato. Sotto gli occhialoni eccentrici da aviatore, regalo di Cousin Jerry, ci sono pupille dilatate a canaglia sull’iride castana, spalancate a raccogliere risposte che difficilmente troverà lungo la via di casa, anche se lui si ostina ad allungare la strada per seguire il boulevard panoramico.

«Merda, mi sono partiti di nuovo i parafacciali», pensa lui, smandibolante per pura alchimia nervosa, e spera solo di non incappare in semafori rossi, pattuglie di sbirri curiosi di sapere come ha trascorso la notte, ché è incapace di concentrarsi e tutte le energie sono per ricordare la via del ritorno.

A casa, con il siamese Pentothal e l’amico Raimundo, ecco dove vorrebbe essere. Pentothal e Rairnundo dormienti, possibly.

A casa, col telefono staccato e la stereofonia muta, per una volta. Ché sente davvero il bisogno di riposare, lui, ventun anni, drugo professionista e teorico della penombra a tempo perso.

Se fosse già terminato, questo esasperante ritorno verso la sua stanzetta, si toglierebbe i calciostivali londinesi, sfilerebbe i pantaloni di velluto e siederebbe sul bordo del letto…

Sedersi sull’orlo del letto disordinato e bere acqua fredda per spegnere l’arsura, fissare un poco il muro.

Fissare un poco il muro e smascherare le imperfezioni dell’intonaco, le macchioline e i piccoli segni d’umidità e le vaghe crepe, e pensare per un po’ a nient’altro.

Certo, pensare un po’ a nient’altro e farsi cullare, lasciar disperdere l’anfetamina, infine, riassorbita dal corpo insieme agli aneddoti scalmanati della notte.

E poi, eventualmente, provare a dormire.

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Ventinove gennaio, 1984.

Quando riprendo conoscenza, galleggio nel disordine di sempre. Lo stomaco brucia, ho gli occhi ancora gonfi di sconvolgimento, e poi ci sono troppe nitidezze che mi scompigliano la stanza: pezzi di cartine, meravigliose tracheotomizzate, pacchetti in decostruzione…

Il primo pensiero è per i soldi guadagnati al Giardino del drago; già finiti, durati giusto il tempo di togliersi qualche capriccio, ché sono una donna anch’io e ho pur diritto a sentirmi bella e gratificata: qualche grammo di bolivia propiziato da Raimundo pantaloni neri fiorucci per damerini ascoltatori di Bowie, felpa grigia da allenamento con scritta Syracuse University e ben tre vinili mancanti dei fratelli Ramones, incluso il capolavoro Rocket to Russia. Sono avanzati appena gli spiccioli per riparare la frizione dello special verde e comprare una meravigliosa stecca contrabbandata di marlboro leggere.

Come abbia speso la sua parte Cousin Jerry, non sa nessuno. E stato qualche notte fuori città, e crederei a qualunque versione, compreso l’improvviso e insopprimibile desiderio di visitare Disneyland.

Raimundo e Dietrich hanno speso tutto in obbligazioni boliviane, champagne e scopate, una settantadue ore no-stop di smandibolamcnti belluini. L’avevo già detto, a Raimundo, che non voglio troie in giro per casa. Per le sbarbine intraprendenti universitarie sconvolte, adulte conquistate dal fascino caramelloso dello spacciatore, non c’è il minimo problema, Raimundo può portarsi a casa Claypool chi vuole. Le uniche donne che non voglio vedere in giro, gliel’ho chiarito in un centinaio di occasioni, sono le spadaccine e le professioniste.

Raimundo è uso frequentare le troie ogni volta che avanzano un paio di banconote pesanti, e tratta le spadaccine solo se si fanno da poco tempo: di solito sono ancora al liceo, angeli splendidi illuminati dal flash, gli occhi sognanti, il corpo morbido e integro, non ancora devastato dalla voglia di buco, dallo schifo chimico con cui viene tagliata la monnezza.

Ogni tanto ci si beve un caffè al bar del Volpe, si sfoglia insieme il giornale, e salta fuori un gran calvario di overdosi in cronaca locale. Alle volte, Raimundo indica una qualche tristissima foto segnaletica, dice ghignando: «Questa l’ho scopata due anni fa, faceva la scuola d’arte, andavamo sempre a prendere il cappuccino alla pasticceria Arlequin»; oppure:

«Questa era la ragazza del Benko. Una sera me l’ha succhiato, ma non era brava, ché ti faceva sentire i denti. Sono stato veramente troppo sfigato… Tempo un anno, e non ne aveva più nemmeno uno»; oppure: «Questa te la ricordi anche tu, Ermanno! Era la piscialetto che ci ha portato il gelato la notte dopo aver dormito qui. Cazzo, non me la sono nemmanco scopata… Mi sa che adesso non se ne fa più niente»; poi, mostro come nessuno, finisce il caffè e accende una sigaretta pescata a caso nel pacchetto di lucky strike.

Penso che la monnezza sia una suggestione molto vicina, anche se personalmente è la sostanza che ho usato meno in assoluto e le mie vene sono vergini. Capisco come sia una suggestione legata alla stessa ansia che ci spinge a sconvolgerci ogni volta che capita, tutti i giorni per tutto il giorno. Non voglio piantarmi un quartino di brown nel braccio, ma non riesco a considerare chi si fa in vena come qualcosa di diverso e inconcepibile.

Raimundo, invece, nel suo delirio di velocità da cocaina, si considera biologicamente diverso. Sterilizzato. Finalmente ottimo: lui tratta i tossici da eroina come una razza inferiore, da colonizzare, cui rifilare i peggio pacchi. Gente da usare al più presto, prima che si dissolva o scompaia.

Raimundo è in quella fase della dipendenza in cui considera la bamba come un medicinale necessario, da assumersi per sicurezza una volta in più. Fa il pusher di erbaggi e resine, e quel che ricava lo versa tutto nelle mani di un pusher di coca che gli usa le stesse angherie, gli stessi ritardi e scremature che lui riserva ai suoi clienti. Questo contrappasso, di per sé prevedibile, spinge Raimundo e la sua avidità sulla cattiva strada delle scorte: 64

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non appena si trova del contante per le mani forma una cifra tonda che nel suo ciervello monomaniaco significa dieci grammi, quindici grammi, venti grammi, e allora telefona al pusher, gli chiede con tono vago se per caso si possono vedere al bar del Volpe, magari entro mezz’ora. Se per un imprevisto l’uomo non si trova o l’ordinazione ritarda un paio di giorni, Raimundo dà fuori di matto.

Gli sale un’ansia da paura, e lui spende a velocità atomica tutti i soldi che ha variamente risparmiato. Li spende nell’altra passione della sua vita, e cioè invitare a casa delle donne che si facciano pagare proprio mentre il vostro affezionato è stanco e ha zero voglia di trovarsi sconosciute in fregola che girano nude per il corridoio. Tipo sbarbe di buona famiglia con qualche vizietto e l’idea insana che avere Raimundo sia in certo modo uno status symbol di cui vantarsi con le amiche. Tipo massaggiatrici biondastre con un bambino piccolo sulle spalle e studi interrotti dopo la maturità, persone legate a una generica idea di pacifismo naif alla Lennon. Sono per lo più incredibili, queste ragazze madri coll’ambizione di arrotondare.

Cercano sempre di stabilire un’atmosfera d’amicizia nella speranza che alla fine non le facciate bere. Invece Raimundo, già schizzato per la medicina colombiana che scarseggia, è preso dalla smania di potenza, e alla fine le fa bere eccome. «Se no i soldi te li scordi», dice, tanto per far vedere quanto si è fatto turlupinare da tutto il trip dell’amicizia e della solidarietà. Dopo dice anche frasi da sotto-sviluppato, tipo: «Bevi, troia», oppure: «Manda giù tutto, puttana», o addirittura: «Ti innaffio la gola, amore», mentre il vostro affezionato, nella stanza di fianco, fuma un joint dietro l’altro con la speranza di prendere sonno, nonostante quella rumba esagerata.

Raimundo le costringe a bere tutto quel che c’è e poi frequenta altre donne ancora, tipo fuorisede scontente dell’assegno mensile o fidanzate curiose di qualche barba-gianni del quartiere. Se non vogliono farsi pagare direttamente, lui insiste perché accettino almeno un regalo, che sceglie più o meno costoso a seconda di quanto valuta le grazie della fortunata.

Voleva regalare la sua vespa a una modella magrina solo perché in passato ha preso un po di cazzi vip, immaginatevi la situazione.

Forse, solo così si sente autorizzato nella sua condotta. Si sa solo che certe liceali un po’

perverse vengono da Raimundo apposta per soddisfare un desiderio di abbrutimento, espiare certi complessi di colpa relativi alla droga e all’appartenenza alla crema della crema cittadina. Vengono a farsi trattare da mignotte perché pensano di meritarlo, le mignotte. Più chiaro di così, voglio dire.

Fatto sta che a Raimundo, spesso, non bastano più i soldi per la scorta, si pente per i doni che ha dispensato, e intanto rievoca gli intensi godimenti di quelle giornate selvatiche.

Comunque, le scopate non lo allontanano dalla bamba, semplicemente perché il suo pusher li conosce, i pazzi come lui, e alla fine gli lascia prendere a credito anche delle grammature preoccupanti.

Così, Raimundo vive più veloce di qualunque altro essere umano, per quanto frenetico possa essere. Dorme una notte ogni due o tre ed è terrorizzato dai debiti, dall’eventualità di essere accoltellato per qualche inadempienza un po grave.

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Quindici febbraio, 1984.

Ermanno scruta attorno, annusa l’aria, poi Cousin Jerry spacca il bioccasterzo e scivolano entrambi via nella notte - ombre sul giaguaro cinquanta special appena liberato dalla gabbia, lanciati fosforescenti verso il gin tonic della staffa, verso il pub del Basco.

«Domani c’è da fare del gran superlavoro», dice il Cousin, guidando a schiodo per le strade vuote.

Alle undici del mattino seguente, Ermanno ascolta sull’Inno-Hit una canzone famosa intitolata Quante deviazioni hai?, mentre tira un paio di piste in compagnia di Raimundo.

Non fanno colazione, nessuno dei due ha fame, e sono, anzi, tesi e infiammabili.

Inaugurano il giaguaro, girano per strade secondarie, prendono confidenza con le prestazioni, attaccano una pensionata di ritorno dal supermercato: la donna anziana scivola sul marciapiede, cercando di proteggere la borsetta; più tardi, una casalinga a passeggio nel parco fa brutti incontri - i due scippatori s’allontanano a bordo d’una vespa color argento che risulterà rubata: il ragazzo seduto dietro, nell’identikit somiglia in modo sorprendente all’attore americano Matt Dillon; una vespa color argento viene segnalata all’ora di pranzo davanti a una paninoteca dalle parti della stazione. A bordo c’è Dietrich, adesso, e il motore è acceso, mentre Cousin Jerry esce di corsa dalla paninoteca col passamontagna calato: sale dietro al volo, ché Dietrich sta già mollando la frizione. Venti minuti dopo, Dietrich è di nuovo dietro al bancone del bar, al lavoro, e nessuno ha notato la sua breve assenza. Cousin Jerry, intanto, fila via sulla vespa color argento in direzione di piazza Federico Nietzsche.

Verso le sei del pomeriggio, il giaguaro chiude la sua avventura malavitosa davanti a un negozio di alimentari:

Raimundo perde la pazienza, tira una rasoiata veloce alla commessa dai capelli tinti; la trascina per il pavimento, intanto che quella urla e cerca di tamponare la sua guancia aperta con le mani. Poi, Raimundo picchia forte sulla cassa finché non riesce a forzarla, toglie via un paio di banconote importanti e degli spicci, sventola la lama davanti al commesso giovane che vorrebbe sbarrargli l’uscita.

Può alzare il passamontagna, volare via con Ermanno alla volta dell’Arlequin, ché hanno i soldi per brindare, loro.

Più tardi, verso l’ora di cena, è proprio Ermanno ad abbandonare il giaguaro in una stradella del quartiere bordata di tigli: se ne va a piedi verso il pub con l’idea di aiutare il Basco a sistemare le panche, disporre i posacenere sui tavoli, bere un paio di birre da soli quando la gente non c’è ancora. Fare un joint, magari.

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Ventiquattro febbraio, 1984.

Raimundo porta mezzo chilo di libanese rosso a un cert Youri, vecchia conoscenza da stadio.

Arriva di gran furia al bar degli Scacchi, ché vuol consegnare rapidamiente, rapidamiente filare altrove coi soldi ben arrotolati negli stivali di pitone.

«Mi sa tanto che non se ne fa un cazzo, vecchio», gli dice tuttavia questo Youri. È molto assorbito a bere un caffè col pernod, lui, ché mica ce l’ha il coraggio di parlare a Raimundo guardandolo negli occhi.

«In che senso ti sa che non ne facciamo un cazzo?»

«Nel senso che i ragazzi non sono riusciti a metter insieme i soldi.»

«Che stronzate mi vieni a raccontare, Youri?» chiede Raimundo. «I soldi li avevate già la settimana scorsa, è il libanese che non era ancora arrivato. Sbaglio o eravamo d’accordo che ci si vedeva dopo il weekend? Sbaglio, o oggi è proprio lunedì?» taglia dritto Raimundo.

Non è uno sbarbo che tira i pacchi, questo Youri anzi. È un mezzo ras, uno che impera su tutta la monnezza e la maraglieria del bar degli Scacchi. Così, a Raimundo gli comincia a puzzare parecchio, questa storia, e potrebb anche agitarsi, nervoso com’è. «Ascolta», dice. «

Io non ho voglia di insistere, ma tu lo capisci che mi sono dovuto sbattere, vero?… Sì, lo capisci. E allora mi spieghi che cazzo ci faccio, adesso? Vado fuori dalle scuole medie a chiedere se gli sbarbi vogliono degli etti di libanese?»

«Guarda, vecchio», gli dice il tipo chiamato Youri. «Io non so cosa dirti. Sabato il Cinghiale ha trovato una superbazza di ganja e i soldi li abbiamo messi lì. Ecco tutto», dice.

«Ma allora sei stronzo… Voglio dire, non potevi almeno avvertirmi?» Raimundo alza la voce, ora. Dice: «Lo capisci che mi evitavo un casino di sbattimenti tipo venire qua in vespa con il mattone sotto la sella…»

Il tipo chiamato Youri termina di bere il caffè al pernod, e quando solleva gli occhi sembra un cazzo di sbirro, un insegnante. « Senti, vecchio», dice. «Okay, tu vendi, è vero, e lo fai a un certo prezzo. Se qualcun altro vende a un prezzo più basso, perché cavolo dovrei regalare dei soldi a te e ai tuoi amici pistoleri?»

Se Raimundo non fosse Raimundo, probabilmente questo stronzo avrebbe già smesso di prenderlo in considerazione.

«Ma cosa cazzo dici, Youri? Ti rendi conto? Intanto qui non c’è nessuno che vende. C’è solo uno sfigato che ha chiesto un favore, e un altro tipo tanto idiota che si è sbattuto per farglielo. E poi, per curiosità, si può sapere chi sarebbero i miei amici pistoleri, eh?» La colombiana gli risale rapida fino al cervello: forse, si dice, non dovrei perdere il controllo in questo buco di culo di bar. Cosa ci mettiamo a fare, litighiamo coi tossici? diamo retta ai desperados?

«Lo sai quanto me chi sono i pistoleri, vecchio. Lo sai, lo sai, lo sai. Sono gli stessi stronzi che fanno una strage in un ristorante per non rubare un cazzo e ci scatenano addosso tutta la madama della città», dice il tipo chiamato Youri. Ha gli occhi rimpiccioliti, è arrabbiato e ha paura. Ha paura e guarda attorno. «Soddisfatto?» dice.

«Eh? Chi cazzo sei, amico», urla Raimundo, «l’ambasciatore della malavita? Da dove mi parli, eh?»

«L’hai capito che il primo che legano per questa storia si canta tutto all’ispettore?» dice il tipo chiamato Youri. «Vuoi capirlo che voialtri puzzate troppo di merda, ormai?»

Due zombi richiamati alla vita dal mezzo alterco, attraversano la sala fino al bancone.

Vogliono portare soccorso al loro capo spirituale: « Ehi», dicono. «Youri. Tutto a posto?»

Raimundo riconosce il più alto dei due, quello che nei paraggi chiamano il Cinghiale. L’altro ha le croste sul collo e i begli occhi da spade. Due così non possono farti male, possono farti schifo.

«Youri», insistono. «Eh, Youri?»

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«Si, tutto a posto», gli dice il capo spirituale. «Il nostro amico frocio adesso va via.»

«Ma io mica mi ci faccio insultare, dai desperados…» dice, piano, Raimundo. Fa il gesto di spostarsi dal banco, fa di no con la testa, dice: «Tu così non mi ci parli». Calcia via uno sgabello, dice: «Hai capito, tossico di merda?» Si slancia in avanti, afferra il tipo chiamato Youri per il bavero, lo strattona, livido di rabbia, lo colpisce sotto il mento con un destro cattivo. Quello finisce seduto, e il Cinghiale e il mostro con le croste sul collo provano a caricare, coi pugni, coi calci. Due così non possono farti male, possono farti schifo.

Il Cinghiale manda fuori un paio di pugni deboli, dice: «Io sono la morte, e te, a casa, non ci torni». Il mostro con le croste sul collo allunga le mani anche lui, tira i suoi calci torpidi.

Vuoi rompere un bicchiere, vuoi fare una mattanza, crede di essere in un film. Si taglia la mano da solo, inorridisce alla vista del suo stesso sangue. Dice:

«Questo disgraziato m’ha fatto male, Youri. Io perdo sangue, Youri».

Raimundo colpisce il Cinghiale una volta sola, lo stordisce sotto l’orecchio, corre via. E poi è già subito fuori, agile nelle gambe agili, che mette in moto e fila rapido, lontano dieci metri dalla sedia che il tipo chiamato Youri gli lancia contro.

C’è stata, certo, una stagione in cui anche noi eravamo inutilmente felici per le scene facili che ti spuntavano intorno, entusiasti per i baci sulle guance, gli inviti a bere una cosa, gli sguardi abbronzati e golosi di voglie sui vestiti di lino estivi. Scandalosamente a nostro agio a bordo dei nostri motori, con dietro le ragazze naziste, ironici e amari, consapevoli di un’eleganza innata e nervosa. Autoreferenziali e superbamente cattivelli, forse.

La nostra gara era sembrare intellettuali e malavitosi, artisti e scopatori. Avevamo i vespini, noi, le tecniche e i nascondigli. Quando conoscevi una ragazza, mica le dicevi che ti piacevano i gattini. Le parlavi dell’aria e del fuoco, di come si diventa ciò che si è. Coi giubbetti dei Ramones, i capelli spettinati, le meravigliose disponibili in tasca.

Poi, ci parve di capire meglio. Prendemmo luce da una luce nuova. Sapemmo con certezza, contagiandoci l’un l’altro, che le regole erano il modo di vivere dei lavoratori, e che noi, invece, eravamo uomini.

Sapemmo con certezza, contagiandoci l’un l’altro, che se volevi pulirti la bocca dal gusto schifoso di quell’aperitivo dovevi abbattere delle cose, bruciare i libri, massacrare gli invitati, poiché il nostro dolore era in ogni cosa, nei vestiti rancidi delle amichette, in quel certo faticare fra lenzuola sconosciute, nel rumore modificato della tua vespa che attraversa le mattine di novembre.

Pensavi di essere vittima di un’ingiustizia originale. «C’è un ordine che premia i più ubbidienti», diceva Cousin Jerry, « ma noi siamo stati chiamati a partecipare a un’altra festa.» E visto che gli ubbidienti erano difesi, con la forza, dagli sbirri, Cousin Jerry si sentiva pienamente in diritto a usare la forza anche lui. «È una sfida a chi si fa male prima, e noi saremo gli ultimi a cadere.» Così, ognuno di noi avrebbe combattuto per riportare a casa quel che ci avevano sottratto: i dischi della nuova onda, i giri veloci, le ragazze con la pelle liscia che non hanno bisogno di difendersi, quando ti parlano.

Cousin Jerry lo sapeva da prima di chiunque, tutto questo, e allora si teneva in forma, pronto a spiccare il salto.

E poi, eri stordito di nuovo: cento giorni di seguito a combattere il mal di testa coi caffè, il nervosismo con le resine della mezzaluna fertile, la bassa tensione con le piste sudamericane, la noia con le meravigliose nate in Virginia, l’inutile lucidità degli altri col nostro disordine viziato.

Il Cinghiale sente la testa pesante, ma la sua anima non è mai stata così leggera. Ascolta il cervello vuoto. Sente Youri scherzare con gli altri, ridere delle malattie veneree: è un po’ il 68

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loro capo spirituale, lui; sa sempre di cosa si può parlare, anche le volte in cui non apre bocca.

Così, il Cinghiale svanente pensa a godersi un’oretta di pace da siringa, seduto a prendere il fresco davanti al bar degli Scacchi, lui e la sua vita lenta di ragazzo che lavora da finto operaio, una camera disordinata a casa di mamma, qualche debito in giro, una love story da stazione senza troppa dignità.

E sono appena le nove e quaranta di sera.

Gli altri si sono cambiati, per il dopo cena. Stanno decidendo come muoversi in vista della nottata.

Sente gli amici che dicono: «Potremmo andare al Ciak, o fare ricognizione a Marsiglia».

Poi, c’è qualcuno che gli offre un joint d’erba da succhiare, la cattiva musica che esce fuori dal bar in modo torpido.

Lo squalo gira l’ultima curva a luci spente, a bassa velocità. Cousin Jerry ferma con calma, spegne il motore davanti al bar degli Scacchi. Ermanno ha già in mano il gancio dell’antifurto, ne percepisce il senso potente dentro il palmo.

Il primo suono disastroso, la prima grossa cascata di frammenti, proviene dalla vetrina di destra che adesso non esiste più.

Il Cinghiale apre gli occhi, danneggiato di schegge com’è. Pensa che gli è caduto il joint:

«Dio cane», dice. Non riesce tanto bene a mettere a fuoco la situazione. Nessuno lo bada, e Jerry, Dietrich e Raimundo sono fuori dallo squalo anche loro.

Ermanno attacca la vetrina di sinistra, deve colpire col gancio dell’antifurto due volte, per farla esplodere in modo definitivo.

Si sentono meglio le voci, adesso, le urla dei desperados che abbandonano i bicchierini e le carte da gioco sui tavoli.

«Dio povero», dice il Cinghiale, la testa che becca piano in ricaduta. Intravede l’ombra densa di Dietrich, in mezzo allo schianto della seconda vetrina, e forse è lui che grida:

«Adesso cosa fate, amici! uscite fuori a giocare o veniamo dentro noi?»

Vanno dentro loro. Subito. Solo quando riconosce Raimundo, il Cinghiale capisce da che direttrice sta arrivando la tempesta.

Allora scatta in piedi, imbarbonito nei suoi scatti da tossico. Dice: «Youri?…» e Dietrich e Cousin Jerry sono già in visita all’interno. Si sente la voce del baffo tarchiato proprietario del bar che urla da dietro il banco: «Non sono armato! non sono armato!» e le catenate alla cieca di Dietrich fanno immediatamente il vuoto intorno.

Ermanno schianta la cimbali di mazzate, colpisce col rovescio a due mani che gli ha insegnato in televisionc Bjorn Borg.

Il baffo tarchiato scarta di fianco, tira su le mani, insiste che lui non è armato. Nessuno lo bada.

Il mostro con le croste sul collo vorrebbe afferrare uno sgabello, vorrebbe difendersi, lui: la fibbiata di Cousin Jerry gli apre la fronte per mezzo palmo, lo sdraia giù lungo sul pavimento.

Anche il Cinghiale è riuscito a barcollare all’interno, ora. Dice: «Youri». Dice: «La pistola, Youri», ma il capo spirituale l’ha già vista, la lama di Raimundo che gli deve dire una cosa, e poiché ha capito tutto il programma, è corso a chiudersi in bagno, mentre i suoi amici sbandano sotto la poesia nietzschiana delle mazzate.

Cousin Jerry schianta gli specchi, le mensole di bottiglie dietro il banco. Poi smette di sporgersi, capovolge un paio di tavoli, urla: «Vi piace, questo? Siamo amici, noi?» e attacca una faccia pustolosa di ladro d’autoradio, la colpisce con la sua violenza consapevole.

Anche Dietrich colpisce, ribalta un flipper, fa esplodere il pannello segnapunti con un colpo corto di catena.

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Raimundo lo sa, dov’è Youri. Sa dove andarlo a cercare con la lama. «È chiuso in bagno!»

grida indietro ai suoi amici, prima che il Cinghiale tenti di afferrarlo alle spalle. «Io ti cavo gli occhi», riesce a soffiargli sul collo quel povero disperato, prima che la lama di Raimundo gli trafigga una coscia, lo costringa a cadere come un sacco di stracci. Anche Raimundo cade di schiena, sbilanciato dalla presa testarda del Cinghiale. Perde il coltello, e il Cinghiale è talmente anestetizzato che riesce a non mollarla, la presa. «Io ti cavo gli occhi», gorgoglia.

«Fighetto di merda», dice.

Il calcio di Dietrich gli devasta una tempia, ma il Cinghiale non rinuncia, anche se è chiaro che sta per morire.

«Youri», chiama piano, per l’ultima volta. «Aiuto, fratello.»

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Due marzo, 1984.

Ermanno sta facendo navigare la paperella portasapone Jane da una sponda all’altra della vasca. Lascia che l’acqua tiepida gli ristori le gambe, la pancia, mentre ascolta All tomorrow parties dei Velvet alla radio e pensa a tutte le feste dei giorni a venire. E in momenti rilassati del genere, che gli tornano su le fantasie infantili di essere qualcun altro. Per esempio, adesso sta pensando che gli piacerebbe essere negro. O armeno. Avere una qualche patente per l’inquietudine e il disordine che si porta in giro al guinzaglio. Poi gli viene in mente che potrebbe essere un perseguitato politico. Un esule. Uno che si mantiene facendo lavoretti qualsiasi, oppure suonando il sassofono in bar stranieri, in quartetti stranieri, dentro notti rallentate di sifilide e pernod.

Segue con lo sguardo la fedele paperella Jane che porta a termine la traversata e subito la costringe a ripartire. Forse dovrebbe provare a massaggiarsi la schiena col guanto di crine, o finire di bere l’heineken in lattina, e non fumare la venticinquesima meravigliosa della giornata, e non slumare il poster di Lory Del Santo e farsi venire in mente delle cose.

Allunga una mano per abbassare il volume della radio, urla qualcosa a Raimundo e Cousin Jerry di là. Vorrebbe parlargli, ai suoi amici, provare a spiegargli in che senso ci sono cento milioni di cinesi che gli stanno dando la caccia per vendicare i fratelli uccisi.

«Jerry», chiama. «Raimundo.» Percepisce l’odore verde degli aperitivi, dice: «Non è che vi avanza qualche cosa, di là».

Spegne la venticinquesima meravigliosa della giornata sulla schiena della fedele Jane.

La paperella si sbilancia, ma non fino al punto di rovesciarsi.

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Undici aprile, 1984.

Dopo una giornata di meditazione e riposo trascorsa interamente al bar, Ermanno e Cousin Jerry, stonati duri come sono, trascinano i cervelli sbiaditi alla festa del mercoledì, appuntamento settimanale imprescindibile per la fauna contadina e spaziale della città intera.

La festa si svolge in un ristorante tipico nizzardo, lasagne e carrello dei bolliti, che il mercoledì sera dovrebbe stare chiuso per turno, e così dentro ci fanno i baccanali moderni.

Dentro, persi nelle musiche della nuova onda, puoi trovare i presenzialisti dediti allo sci d’acqua e ai vernissaggi, e artisti piuttosto celebri che parlano come tossicomani. Alla festa del mercoledì puoi trovare anche tossicomani piuttosto celebri che parlano come artisti, sbarbe del Dams, tante bibite e le altre attrazioni tipiche delle feste nizzarde nell’anno delle olimpiadi di Los Angeles.

C’è persino la fila, fuori, e Cousin Jerry che cerca di calmare Ermanno. Quel ragazzo si innervosisce per qualsiasi scemenza, da qualche tempo a questa parte. A un certo punto lo deve trattenere per un braccio, ché lui urla: «Cosa cazzo avete da guardare?» a un gruppetto di radicalchic. urla anche «Bastardi!» e «Io vi piscio nel culo, a voi!» e già fa l’atto di sfilarsi la cinghia dei pantaloni seminando panico sincero.

«Non ve la prendete», risponde Cousin Jerry alla perplessità sottratta dei radicalchic. «È

che il mio amico ci ha un po’ di agorafobia.» Con quella voce roca da blues man riesce a far tornare una certa pace nel capannello di forzati del mercoledì. Poi, il Cousin ci inizia addirittura a chiacchierare, con quei mostri, ché nelle loro file ha individuato una certa sosia di Nastassia Kinski e ha l’impressione di averla già vista altrove.

Le farebbe volentieri delle sorprese, il Cousin. Da dietro, magari.

Cousin Jerry svaria il discorso, e pensa già a un additivo che strutturi l’effetto dell’alcool in una qualche bufera.

«Plegine?» chiede, con voce da cameriere rivierasco.

«Mezzo», concede Ermanno.

«Dài, cuginetto», dice il Cousin. «Non essere avaro», dice.

«Che cazzo c’entra l’avarizia, scusa? È che se ne mangio uno intero mi scende domattina alle cinque», dice Ermanno.

«Non essere avaro con te stesso», dice. «Non meriti tutte queste mortificazioni. Mi sembri una casalinga triste», e schioda dalla confezione due pastiglie bianche cariche di argomenti.

Le passa a Ermanno. Ne libera altre due, se le scucchiaia in bocca.

«Va be’», concede Ermanno. Si sente stanco in modo invincibile, alle volte. Esasperato, quasi. Dice: «La volontà non è il mio forte». Sente sulla lingua quel sapore amaro, e mentre inghiotte i due plegine la calca si smuove avanti. Li fanno entrare nel ristorante, già pieno di personaggi e colonne sonore e atteggiamenti da festa del mercoledì.

«Sicuramente un déjà vu», riflette Ermanno, mentre peregrina per le sale affollate. Visto dal di fuori può anche sembrare un mezzo cadavere che va a passeggio, ma all’interno del cranio ci ha una bufera di pensieri che si rincorrono a perdifiato, cozzano l’uno contro l’altro, scivolano via vergognosi.

Adesso lui può vederli, mobili nello spirito guasto della festa, i nuovi mostri di questa Nizza anni ottanta. Quel che sono e quel che si apprestano a diventare. Lo capisce senza bisogno di leggere Nostradamus, quale straordinaria putrefazione è in arrivo, l’orrore del futuro che verrà: i videoartisti, i giovani scrittori, i new fumettisti, i mecenati di sinistra, i creativi, gli assistenti universitari, i produttori, gli importatori, i pusher, i consumatori, i travestiti. C’è pure quelli che non c’entrano un cazzo. E una festa del mercoledì e un’archeologia del futuro. C’è lo scrittore benestante Massimo Neppi, moralista e comico, che racconta fandonie a una ragazza insicura, probabilmente affascinata dalla sua calvizie 72

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incipiente. Ah, già, ci sono pure le ragazze insicure. Che cazzo di festa sarebbe, senza le ragazze insicure? Quelle che decidono di darsi una mossa poiché non hanno il fidanzato e si costringono a frequentare le mondanità. Insicure, però. Insicure del vestitino che hanno scelto, insicure se accettare il passaggio da gente che non si conosce, insicure se sdivanarsi d’alcool e correre il rischio della sfrenatezza o mantenersi vigili e restare ai margini dell’euforia. Quella alle prese col Neppi, ad esempio, è incerta se accettare l’invito ad andare a scambiarsi baci in collina, appena sussurrato dal benestante bar writer con spontaneità contadina.

«Giesù giesù», pensa Ermanno, provato dalla quantità di scenette tristi. Pressa con una meravigliosa l’impasto di tabacco marlboro e skunk di Amsterdam nel sigaro artigianale che si appresta a succhiare in solitaria.

«Oi, ciao», dice un mezzo adulto sconosciuto, cui Ermanno non risponde. Pensa sia uno scroccone che vuole usurpargli due tiri dalla canna.

«Non mi riconosci?» chiede il mezzo adulto coi capelli corti. Ha uno sguardo tanto cordiale che getta Ermanno nell’agitazione.

«Ma chi cazzo sei?» lo incoraggia.

«Il vernissaggio da Lodovica Tora, non ricordi?» dice il poveretto.

«Ah, sì.» In effetti il fantasma di uno scemo intravisto in un qualche passato si fa largo tra gli offuscatissimi pensieri di Ermanno. Non ricorda però a che categoria di scemi si ispiri questo tizio, che oramai lo fissa implorante. E non fa cenno di andarsene. Ermanno non ha idea di che cazzo voglia da lui, né ricorda di avergli mai parlato. Prova giusto una genuina avversione al ricordo di Lodovica Tora, all’idea che qualcuno possa usare come biglietto da visita il fatto di essere stato in quella casa, a quel vernissaggio.

«Ah, ti ricordi, allora. Bene, bene», e il mezzo adulto resta clamorosamente piantato lì, muto e immobile a due passi da Ermanno che vorrebbe solo accendersi il personale aperitivo giamaicano. Continua a fissarlo, denso di significati nascosti. Addirittura malizioso, si direbbe. Cinghiarlo? Andarsene? Fingere di svenire? Colpirlo con una bottiglia? Il plegine fa correre le ipotesi più varie su e giù per quel cervello urticato. Che questo mezzo adulto sia in realtà uno sbirro? Un ricchione? Uno sbirro ricchione?

«Senti, volevo chiederti se per caso non hai da vendere un po’ di quella delizia che fumavi da Lodovica Tora», e d’incanto tutta la situazione si srotola luminosa sotto gli occhi di Ermanno. Non è un pulotto, né un molestatore. È uno scemo normale, tout court.

«Se ti va bene, qui ho giusto dieci grammi», dice Ermanno, con un sospiro di sollievo. «È

charas indiano, mi è arrivato dal Tamil Nadu la settimana scorsa dentro una partita di legname pregiato. Il miglior charas dell’anno, parola e verità. Può interessare?»

«Oh, sì sì», si emoziona il mezzo adulto, «che culo sfrenato! Se viene dal Tamil Nadu nel legname pregiato può interessare eccome. Il charas lo vendeva anche un mio amico, la settimana scorsa, sai? Thierry Cantarella, quello che chiamano Zico. Lo conosci? Ci aveva la vespa imbottita, quel gran matto. La conosci la vespa di Zico? Quella nera coll’adesivo Cbgb. Lo conosci, Zico? L’amico di Jean-Marie Cuppini, tutta quella grega losca che vende delle cose al bar Rundstedt, quelli che la sera si trovano nell’officina di Leo Zacagno. Ci tengono anche delle cose, lì nell’officina, sotto i fustini del dixan. Sono proprio dei gran matti, quelli. Lo conosci Zacagno, non dico Leo, dico suo fratello, quel rockabilly che chiamano la Lisca, quello che taglia a sfogliatina, preciso come una bilancia elettronica?»

Ermanno è atterrito da quanto potrebbe cantare una testa di cazzo del genere, se mai si trovasse seduto in questura a bere il tè con i capi spirituali degli sbirri. Smandibola un attimo, adesso, poi sussurra un prezzo fiabesco, ché vuole toglierselo dai coglioni nel modo più rapido e definitivo. Il mezzo adulto si emoziona, ma non ha il coraggio di tirarsi indietro.

«Costa così tanto perché me lo sono fatto mandare nel legname pregiato», spiega Ermanno. Il 73

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mezzo adulto è conquistato. L’idea di trovarsi improvvisamente al centro del narcotraffico internazionale, quasi lo commuove. «Nel legname pregiato, poi. Geniale», dice.

Lo puoi vedere, quant’è felice mentre svuota il portafoglio, appoggia le banconote tremanti nella mano di Ermanno. Lui adesso fa un po’ di coreografia, dice: «Controlla che nessuno ci stia spiando», e mentre il mezzo adulto fa la sentinella, si sfila la meraviglia dallo stivale.

Lucido da scarpe cotto dentro a una formina per dolci insieme ai gioielli dimenticati dal siamese Pentothal nella cassetta della sabbia. L’ha tagliata e chiusa nel cellophane in maniera plausibile, quella puzzante meraviglia. Bisogna essere pronti a ogni evenienza, da queste parti. È con sguardo faustiano, che Ermanno passa la meraviglia in mano al mezzo adulto. «È

parecchio pesante», lo avverte. «Non azzardarti a farci due joint di fila o sei capovolto fino a domattina», dice Ermanno.

«Figurati», dice l’altro. «Non fumo mica per sconvolgermi. Preferisco fumare meno ma fumare bene. Mi piace godermele, le cose belle della vita.»

«Fai troppo bene», dice Ermanno. È diventato confidenziale, all’improvviso. Gli parla all’orecchio, adesso. «Anch’io la penso proprio come te.» E poi: «Perché non vai a fare un giro per la festa, adesso?»

«Sì, vado», sussurra il mezzo adulto, conquistato dalla segretezza delle operazioni, «ché i miei amici saranno preoccupati. Mi perdo sempre a chiacchierare con le persone più losche che trovo», dice il mezzo adulto. «Ti volevo chiedere un’ultima cosa. Non è che magari se ne trova ancora, in futuro? Magari mi lasci il tuo numero di telefono, e quando ho finito questo ti chiamo e ci mettiamo d’accordo.»

«Sì, certo», dice Ermanno, ritrovando l’assetto da battaglia. «Come no. Il numero di telefono. Certo. Perché non ti levi dai coglioni, adesso?»

«Be’, grazie lo stesso», sussurra il mezzo adulto prima di scomparire tra gli iceberg umani che cozzano negli spazi della festa. «Grazie ancora.» Lo puoi capire da come gli tremano le mani, che è dispiaciuto. Quando il mezzo adulto è scomparso, inghiottito dalla casbah del mercoledì sera, Ermanno accende il joint, succhia con gran soddisfazione, appena appena scosso dalla sorte sciagurata dell’umanità. Si sposta al bar, beve uno, due, tre gin tonic. Non ha voglia di parlare con nessuno, non saluta neanche Biancalancia che si muove isterica per le sale insieme a un rassicurante in maglione missoni color zuppa inglese. Si gira proprio dall’altra parte.

Poi, sul piccolo palco della festa sale Beppe Starnazza, vocalista degli Skiantos e propositivo opinionista nizzardo: «Questa è un’ideuzza così…» dice, «un’ipotesi formulata qualche anno fa insieme a mademoiselle Casadio… una proposta per modificare e rendere ancora più bella la nostra adorata città, la nostra piccola patria. Si tratterebbe semplicemente di aggiungere una terza torre alle due già note… Passo senza indugio alla lettura del documento: «Il progetto dovrebbe insinuarsi spiritosamente nella retorica delle immagini tipiche. Lo scopo è quello di provocare uno spiazzamento sensoriale, ottico soprattutto, quello di mettere seriamente in imbarazzo il passante, l’abitante della città e il suo distratto, scontato quasi, rapporto con la città stessa. Si tratterebbe di una modifica provvisoria degli scenari più suggestivi e anche più consumati. La torre potrebbe essere itinerante e quindi intervenire nottetempo anche nei paesaggi della periferia o spostarsi in altri contesti del centro cittadino…»»

«Oh, cuginetto, guarda chi ti ho portato», annuncia Cousin Jerry proveniente dai meandri della festa. «Lei è Palpebrabella», dice presentando la sosia di Nastassia Kinski. È la stessa biondina accompagnata dai radicalchic che Ermanno stava per aggredire fuori dalla festa. «E

lei è Occhi-blu», dice il Cousin mentre va a illustrare una seconda damigella, evidentemente gregaria per avvenenza, gusto, portamento.

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«Claypool dottor Ermanno, di Gualtiero e mamma Claypool, entomologo», ti presenti così.

Altrove, qualcuno ti potrebbe definire ubriaco.

«In cima alla torre», continua Starnazza, «potrebbe esserci un faro che proietta un fascio di luce verso il cielo, un faro adattabile agli eventuali spostamenti della sommità della torre, cosicché se anche la torre si affioscia, la luce si mantiene sempre proiettata verso l’alto, come una contraddizione…»

Palpebrabella, nonostante la somiglianza esaltante con la figlia di tanto padre, sembra essere una sbarba intrattabile, incline al pettegolezzo isterico con la damigella d’onore Occhi-blu: ha l’occhio fuggente e risentito, è fumatrice nevrotica e onanista; non lascia che altri gli porga la fiamma d’accendino, si soffia il fumo praticamente addosso, reclinando la testa sulla spalla.

Quando sente Palpebrabella pronunciare il discorsetto sui bisogni che hanno, le donne, di frivolezze e momenti anche un po’ teneri, Ermanno capisce in modo definitivo che la odia.

Nei modi, nelle compagnie, perfino nei pensieri, se è possibile qualcosa del genere. E una paranoia sottile che ti intrappola e ti spinge a danneggiare la persona che ti trovi di fronte, a giudicarla con dovizia di voci, a decretarne l’insufficienza e la perniciosità, a confermare che l’insetto merita veramente di essere schiacciato. La mente stuprata dal plegine scatena Ermanno Claypool in un delirio di qualità nuova e inaudita. Lo sente, in quale misura può essere anche lui quel certo giudice severo e solenne nel formulare le sentenze, il dio ebreo che conosceremo nell’ultimo giorno. Poi si compiace a parlare con Palpebrabella, che sta per essere punita e ancora non sa.

Cousin Jerry capirebbe, anzi, probabilmente sta già pensando a una punizione esemplare.

Neanche lui saprebbe rispondere se gli chiedessero: « In nome di cosa?» Forse direbbe che la risposta a queste violenze non è esattamente dentro di noi, direbbe che è un po’ spostata nspetto al nostro modo di guardare le cose. La paragonerebbe all’eccitazione che prende i lupi e le volpi quando si trovano nei pressi di un ovile o d’un pollaio. Non è strano che facciano scempio degli animali domestici, no? È la loro natura, no? E se qualcuno insinuasse:

«Ma voi non siete animali, siete uomini», probabilmente Cousin Jerry risponderebbe che è così, siamo abbastanza uomini, e rispetto ai lupi abbiamo in più gli strumenti della ragione, e questi strumenti ci danno ancora più forza. È usando la ragione che ti rendi conto di come il rispetto mai interrogato delle regole e la musica alla Cerrone servano a perpetuare stili di vita schifosi e tristi. È la ragione che insegna ad accoppare l’avversario prima che ti spenga per sempre, prima che ti impedisca di diventare ciò che, nel cuore del tuo cuore, sai di essere.

Palpebrabella accende la terza sigaretta consecutiva, un’infamia puzzante di aromi vegetali per arrosto. Ermanno, mentre lei è occupata a confidare i segretelli all’amica, tocca un braccio a Cousin Jerry. Fa un cenno con la testa, in attesa di un verdetto. Cousin Jerry non risponde subito.

«Strano», pensa Ermanno. Forse Cousin Jerry è stanco, ha bisogno di più tempo per decidere…

«Dalla cima della torre», continua lo Starnazza, «a orari stabiliti, potrebbe scendere della schiuma, una specie di lava/bava, che scivola giù e si stende nella strada sottostante.

Riprendendo il processo con una telecamera a distanza opportuna, magari il risultato del film potrebbe rivelarsi più animato dell’Empire di Andy Warhol. Note tecniche: l’altezza prevista è approssimativamente di sessantacinque metri, il giusto mezzo tra le due torri già esistenti.

Forse di gomma serigrafata simil-mattone con merli e piccole fessure…»

«Suonate qualche strumento, voi?» dice Palpebrabella al rallentatore.

«No», dice Cousin Jerry.

«Il piffero, da piccolo», dice Ermanno.

«Io suono le marimbas», spiega lei. «Sono molto interessata alle percussioni, specie le percussioni tribali… Penso che ci sia molto bisogno di ritmo, di questi tempi.»

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Nonostante il plegine ti velocizzi tutti i pensieri, non hai idea di che cazzo mai possa significare una frase così concepita.

«E a parte le marimbas?» chiede Cousin Jerry. «Non ti dicono niente opere come Solid pleasure degli Yello? O devo scomodarti la potenza fondativa dei Television, dei Talking Heads?»

«Ma no!» dice Palpebrabella. Quasi s’indigna, adesso. Indica l’amica Occhi-blu, la mette in imbarazzo. «A lei, piacciono i Talking Heads. A me la roba recente non m’interessa proprio.»

«Com’è possibile che non t’interessino i Cure, o i Devo, o i Public Image Limited?»

«Oh, i Public Image Limited! Proprio loro! Ne parlavo giusto l’altro giorno con Occhi-blu, ché piacciono molto a un nostro amico. Ti dico, secondo me sono musica minore, tarata.

Vedi, tutti questi gruppi new wave partono da presupposti minimali… E musica da tinello», dice Palpebrabella.

«Ah!» dice Cousin Jerry, «musica da tinello. Non ci avevo mai pensato.»

Sono Ermanno Claypool, sconvolto senza fiato desideroso di morte e scopate furiose nelle sale claustrofobiche del wednesday party, colonna sonora Simpaty for the Devil soliti gin tonic consuete deflagrazioni in testa.

Sono Friedrich Nietzsche, cervello divorato da anfetamine e resine e polveri e verzure piegato a metà nel cortile del sanatorio, colonna sonora Bela Lugosi is dead puzza di piscia che ristagna e malattia cattiva.

Sono il generale von Paulus, giro losco in vespa special per le rovine di questa Stalingrado sul punto di collassare circondata dall’armata rossa un ultimo joint in solitudine e meditazione la notte prima della resa, colonna sonora Helter skelter mentre i razzi katiuscia cadono a pioggia sui palazzi e sulle fabbriche.

Palpebrabella ha tette piccole e ben disegnate, strette una contro l’altra nel vestito max mara. Ermanno non l’aveva ancora notato, e quelle curvature gli richiamano alla mente Niente vergini in collegio, la prima volta in cui ha visto sullo schermo le agghiaccianti bellezze di Nastassia Kinski.

Cousin Jerry si accende una meravigliosa, dice: «A proposito, ho preso la mia decisione».

«Quale decisione?» chiede Palpebrabella. Poi sficheggia un poco: «Ma forse non mi riguarda. Scusate se vi molesto, magari mi faccio gli affari vostri…»

«Figurati», dice Cousin Jerry. «Nessun segreto. Il fatto è che dobbiamo stanziare una certa cifra per pagare la derattizzazione», spiega. «Stasera ci siamo accorti di avere i topi in cantina.»

Palpebrabella inhorridisce alla parola «topi», si porta la mano davanti alla bocca come certe attrici secondarie nei film di Frank Capra. Per un attimo Ermanno capisce da dove gli viene tutto quell’odio nei confronti di una sconosciuta: è come se lei non fosse una ragazza vera, ma i peggiori stereotipi femminili assemblati in un frankenstein osceno, e forse Ermanno non ha più pazienza, e forse Cousin Jerry non ha più voglia di fermarsi.

«Oppure la terza torre potrebbe essere costruita in simil-acciaio con caratteristiche da mezzo spaziale tipo cartoons giapponesi», dice Starnazza nei microfono. «Gonfiabile, con la base da riempire o svuotare d’acqua. Sarà necessaria una verifica tecnica. Grandi cuscinetti a sfera e tiranti elastici dovrebbero consentirne lo spostamento.»

O forse Palpebrabella è quella che si definirebbe una ragazza normale, colpevole come mille altre nelle sue opere, nei suoi giorni di amicizie liceali, amori estivi, speranze matrimoniali, testi di Baglioni e Rimmel sui diari segreti da amanuense tredicenne. Forse, sono i cugini che non ne possono più e hanno lanciato la controffensiva finale contro il resto del mondo.

«Ci vorranno tonnellate di elio», scandisce pensoso Beppe Starnazza. E poi ci sono gli applausi incondizionati del pubblico, la risata distratta di Palpebrabella.

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Ridi bocchinara, ridi, ridi, ridi, che nemmeno immagini cosa ti sta per succedere. Ridi, adesso, ché dopo ci sarà spazio soltanto per la paura e il dolore. E le umiliazioni, quelle vere, quelle che non hai subito neanche dal tuo ex fidanzato violento, lo stronzo da cui hai sopportato le peggio cose. Per amore, certo. Anche se Occhi-blu e le altre amiche ti sconsigliavano. Dicevano: «Vali di più, non stare a questi ricatti». Ma tu andavi avanti. Per amore, certo. Non devi mica giustificarti. Non smettere di ridere, bocchinara.

Muoviti nella festa, saluta, schiva, attacca discorso con i cicisbei radicalchic, soffia il fumo, mesci, giudica, fai pipì con le mutande a mezzo polpaccio mentre la tua amica Occhi-blu si perizia il mascara nello specchio. Evita, bacia, confida adesso quello che non hai mai detto a nessuno. Implodi di dialoghi e burlesche, attraversa gli spazi sicura del gradimento altrui per le tue coscine di pollo perfette, il sedere sodo che parla solo di ginnastica e diete, i capelli che porti in erboristeria a comprare sciampi biologici per lavaggi frequenti. Sentiti a tuo agio, bocchinara, in questa festa barocca del mercoledì sera millenovecentoottantaquattro in cui tutti sono i più creativi e i più darkeggianti e i più dannati, e non mancano né artisti frosci né arditi videorealizzatori né giovani pubblicitari col vizio nasale.

Abbiamo scelto te perché sei il doppio della bambina preferita di papà Klaus, quella che ci ha fatto godere solo in sogno. Abbiamo scelto te perché ci fa bruciante dispiacere vederti così uguale ai peggiori stereotipi: ricca, bellina da guardare, dinamica, saputella, un po’ stronza, segretamente piena di insicurezze e bisognosa di uomo forte per galoppargli a fianco nelle praterie balsamiche della vita. Così femmina. Così madonna e puttana. Così Palpebra-bella.

Ridi, bocchinara, ché sei così prevedibile e bisognosa di niente da sembrare la morte in persona.

Ridi bocchinara, che ci sei solo tu col tuo gin tonic in mano, a parlare a me e Jerry di letteratura e vestiti e città straniere in cui sentirsi libera e libertina: le mostre, i giapponesi, una pensione carina sui lungarni, gran bei posti anche poco conosciuti in cui si può stare molto bene:

Malindi, Mykonos, Montecarlo. Che qui in città si muore di noia, vero?

Quando esci con qualche spasimante adulto lo dici sempre, ci scommetto: «Non ho fatto in tempo a pettinarmi, scusa, sono una strega».

Ridi, bocchinara, ché il tuo seno perfetto è identico a quello di Nastassia, e invece le tue amiche non sono mica così desiderabili: a scuola, quando vi cambiavate per entrare in palestra, non dovevi nascondere celluliti o altre brutture, e stavi spogliata il più a lungo possibile a scherzare sui maschi e vantare orari di rientro allentati. Ma stanotte, paghi tutto quello che hai avuto in più. La Paupera G. e la Nuvelvàg Dupònt, nanismo e obesità, profilo pennellato da un facchino ubriaco, tette burrose, pelo superfluo, be’, probabilmente a loro non capiterà mai niente del genere. Manco ci sono venute, loro, a pavoneggiarsi alla festa del mercoledì sera. Eh, be’. Vorrà dire che invecchieranno.

La tua, invece, è una vita da sventrare senza rimpianti. Da piantarci dentro forchette e coltelli, squarciare l’imbottitura. Niente di personale, temo.

Ci ha aperto gli occhi, a me e Cousin Jerry, l’indifferenza con cui citi Bertolucci e Mario Schifano e quelle altre stronzate tipo le chitarre tricordi siberiane o i contrabbandieri macedoni. Perché a te il punk e la new wave fanno schifo, è chiaro. I vecchi quattro quarti in battere. Le nuove sonorità elettroniche. Che tristi banalità, vero?

Forse ho deciso di devastarti quando hai detto che i Publie Image Limited sono musica da tinello. «Musica da tinello», hai detto, proprio così. I grandissimi PIL. Te lo insegniamo noi il rispetto, bocchinara. Un vocalista della portata straziante e punk di John Lydon, la chitarra di Keith Levene, con tutto l’odore di saga londinese che si lascia alle spalle, e Jah Wobble, spaventapasseri tossico, al basso. Tanto per citare solo la formazione originaria, caro il mio faccino di cazzo.

Musica da tinello.

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Ti sei scavata la fossa, con quel «musica da tinello». Hai anche fatto ridere la tua amica Occhi-blu, quella che fuma nervosamente una muratti dopo l’altra. Hai detto che si tratta di suoni troppo banali, troppo vicini alla nostra cultura. Ti senti più vicina ai tempi dispari, hai detto. Era chiaro in ogni tua singola parola che stavi facendo la parte. Perché sulle mensole della tua stanza non ce le hai le cassette di George Benson, vero? Non hai mai ballato quegli scempi come Enola gay e Disco inferno, vero? Non hai mai baciato qualche buco di culo di fidanzato ascoltando Reality, impresentabile come Sophie Marceau?

Ma a noi piace immaginarti così, ti ci vediamo, occhiali con la montatura pesante e sciarpa da fricchettona, entrare in un negozietto buio di musica etnica, chiedere le ultime novità dalla Micronesia, oppure un buon nastro inciso da ugolatori indonesiani. Ti si immagina fin troppo bene, due sere a settimana al corso di marimbas con dei tipi troppo simpa, un po’ scoppiati, un po’ frustrati. Con uno di questi marimbisti, un adulto sposato, magari, avresti potuto inscenare una storia di affinità elettive ed extraconiugali, riscoprire e fare riscoprire precarietà adolescenziali, telefonare da una cabina a gettoni sotto la pioggia, scappare, fare le garette, fare i nascondigli, fare tana, fare all’amore nel pied-à-terre, sentirti il giovane animale in fuga malgré tout, vittima dell’amore ad ogni costo.

Avresti potuto affidare le tue confidenze all’amichetta Occhi-blu. Lo sai, vero, che insieme fate una bella coppia di frigide e fuoricorso con tutti i vostri accessori e calze e automobili e sigarette e biancheria e panoplie di gesti, modi di riempire lo spazio di una stanza, modi di camminare nervose, modi di rispondere al telefono, modi di sentirsi disperate, chiacchierare in treno o chiedere conferme o bere un caffè.

Ti saresti servita di tutto questo materiale danneggiato che noi due, io e il gran Cousin Jerry, si è deciso non deve esistere più. Abbiamo deciso di cancellare la tua vita, e te l’abbiamo annunciato parlando di cantine invase dai topi.

Ci dispiace soltanto non avere raccolto altri numeri di telefono. Ci dispiace per le altre case, gli altri ambienti in cui portare un po’ di disperazione e silenzio reverenziale. Ma non ci sono rimaste, le tue amiche radicalchic, in questo angolo urlante della festa. Perfino la tua amichetta Occhi-blu ha imparato a tacere, a un certo punto. Subito dopo averci lasciato indirizzo e numero di telefono. Giusto. Previdente, Occhi-blu. Ha fumato forse quarantacinque muratti in silenzio ittico. Magari non basterà per vivere, però almeno si è impegnata. Eri tu, Palpebrabella, non è uno sbaglio di ubriachi, sei rimasta tu a parlare, recitare per te stessa, mostrarci un campionario così triste e inutile che lo piangeranno solo altri insetti.

Comunque, se ti risparmiavi quell’apprezzamento irripetibile sui supremi Public Image Limited, magari ti saresti potuta sposare, un giorno. Avresti potuto avere dei figli, diventare procuratore legale, fare altre cacate offerte dalla slot-machine della vita. Le cazzo di marimbas le avresti poggiate vicino al caminetto della casa in montagna, così quando arrivano gli amici, dopo la cenetta e il pettegolezzo e gli straordinari distillati al ginepro, dopo si potrebbe suonare No woman no cry con una base ritmica all’altezza della situazione, poi, a fine serata si potrebbe anche dire: «Ragazzi, forse ho bevuto un bicchiere di troppo».

Perché la sicurezza è importante, quando una donna si avvicina ai trenta, le prime amiche si sono già sposate e sentirsi sola è un peso inconfessabile. Si inizia a dare retta un po’ a tutti, a curarsi con i fiori di bach.

Ridi, bocchinara, e ringraziaci ché abbiamo deciso di risparmiarti lo schifo peggiore: il tuo lurido futuro l’hai lasciato a questa cazzo di festa del mercoledì.

Cousin Jerry sta seduto sul petto della ragazza, le inchioda le braccia a terra, le copre la faccia con il lembo del vestito max mara. Ermanno spalanca le cosce di Palpebrabella, spinge per entrare dentro, ma la fica è ancora fredda, testarda come un ascensore bloccato. Ermanno infila dentro due dita, poi tre, tutta la mano fino al pollice. Palpebrabella urla: «Per favore, 78

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adesso fermatevi…» e: «Basta vi prego!» Il Cousin batte forte per terra quella testina bionda che non ama i Public Image Limited, come si fa con le trote appena pescate perché non facciano troppa rumba. Buona idea, portarla a fare un giro in collina. Niente di meglio che un giro in collina con due sconosciuti, dopo una festa così affollata. Giusto per riprendersi un attimo, fare un giro sulla citroen squalo, succhiare un paio di joint prima di infilarsi sotto le coperte.

«È come fottere Nastassia», dice Ermanno con voce tremante. Adesso entra facile, si scuote un po’ nel calduccio accogliente. Viene male, viene in fretta.

Palpebrabella è carponi, adesso. Ermanno le stringe la testa con le cosce, blocca le braccia in una chiave articolare vista molte volte alla televisione, nelle trasmissioni di catch col commento di Tony Fusaro e Cristina Piras. Cousin Jerry le gode in culo con affondi dolorosi.

«Mi piace», annuncia - la voce curvata dall’eccitazione - ma non è chiaro se Palpebrabella sia ancora in ascolto, danneggiata com’è.

Cousin Jerry solleva il corpo per la cotenna, Ermanno regge i quarti inferiori. La incastrano nel bagagliaio.

La notte è limpida e di venticello gradevole, ricorda le poesie del liceo sulle vaghe stelle dell’Orsa.

Cousin Jerry risale dal pendio, inzaccherato di polvere e fanghiglia e piccoli grumi d’erba.

Stava per scivolare anche lui nel burrone, è riuscito all’ultimo momento ad afferrare un cespuglio. «Prima che la ritrovino passerà un bel pezzo», dice. Poi Jerry tira fuori le meravigliose. «Fammi accendere», dice.

«Andiamo via da qui, dài», dice Ermanno.

«Cos’hai, paura degli spiriti? Una sigaretta non si nega a nessuno», dice Jerry.

Così fumano accovacciati tra i ciuffi d’erba cattiva, luridi di terriccio fino ai capelli.

«Musica da tinello», considera Ermanno. Si sporge sul bordo del burrone. «Testa di cazzo, ti è piaciuta la nostra musica da tinello? Ti è piaciuta, eh, bocchinara? Ti piacciono adesso i Public Image Limited? Perché non rispondi? Sei stanca? Hai staccato il telefono, gran pezzo di puttana? Non te la sarai presa, vero? Magari ti canto qualcosa, così smetti di tenerci il muso? Un pezzaccio romantico del ragazzo Billy, magari…» e attacca a ballare isterico sul bordo del burrone, inventandosi una chitarra e un microfono. «It’s a nice day for a white wedding.»

Cousin Jerry fuma lento, lo sguardo perso verso la città, giù in basso. «It’s a nice day to start again.» Sta per venire l’alba e lì sotto, ancora addormentata nei suoi letti pesanti, Nizza sogna.

E anche Occhi-blu, nel suo appartamento tranquillo da fuorisede ricca, è rannicchiata sotto le coperte, si stringe al cuscino.

Domani pomeriggio, forse, verranno a trovarla i due ragazzi conosciuti alla festa del mercoledì. Un po’ genere drugo, ma in fin dei conti le sono sembrati due ragazzi interessanti.

Se non ha capito male, l’amica Palpebrabella si è appartata con Ermanno, il più piccolo dei due, quello che ha vomitato appena usciti dalla festa. E per lei ci sarebbe Jerry, il biondo che ha vissuto a Parigi, Amsterdam, Londra.

Pensa già alle serate in doppia coppia, l’ambiziosa con gli occhi blu.

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Ventuno aprile, 1984.

Ermanno cammina sciolto davanti alla cattedrale di santa Recuperata, sotto un cielo azzurro che urla vecchie canzoni primaverili. Ha legato la vespa verde, e adesso passeggia in ozio, senza prestare attenzione alle facce della gente.

Una frotta di marmocchi gioca a calcio sul sagrato. Urlano: «Passa! passa!» e: «Cambia tutta!» Calciano un pallone di gomma gialla troppo leggero per mantenere le traiettorie. I portieri sono spesso ingannati dagli effetti spioventi dei tiri più lunghi, ed è abbastanza facile fare gol imprevedibili cannoneggiando da centrocampo.

I passanti percorrono la piazza lungo i bordi, per non intralciare i piccoli calciatori scamiciati che adesso discutono su un presunto calcio di rigore.

Ermanno pensa a Palpebrabella, alla ragazza Occhi-blu, a chi avrà pianto per loro. Un gruppo ristretto di amanti dei gattini, probabilmente. Pensa ai diciottenni eroici del Giardino del drago, a come è cambiata la loro vita, adesso che sono solo dei poveri stronzi sfigurati dal vetriolo.

E poi, un marmocchio con la camicia fuori dai pantaloni gli viene incontro: «Signore, vieni a farci il portiere?»dice.

«Come dici?» chiede Ermanno, riportato alla vita reale e primaverile, fatta anche di partite fra giovanissimi, con tutte le esigenze che si portano dietro.

«Signore, dicono che è rigore, e per noi non e vero… Allora, visto che non c’è l’arbitro, facciamo che è rigore difficile. A metà tra rigore e non rigore. Quando c’è rigore difficile deve stare in porta un grande.»

«Dài, signore, vieni!» dice con tutta la speranza del mondo un secondo calciatore grondante di sudore infantile.

«Va bene», dice Ermanno. «Proverò a pararvi il rigore difficile», dice. Entra di mezza corsa in quel Maracanà per giovanissimi accolto dagli applausi dei piccoli compagni di squadra.

«Perché lui?» protesta un ragazzino con la maglia della Dynamo Nizza, forse lo stesso che batterà il rigore.

«Perché l’ho deciso io che sono il capitano!» grida il piccoletto che ha appena ingaggiato Ermanno. Poi dice: «È l’unico grande che vedo da queste parti», e quando qualcuno gli indica il pensionato seduto su una panchina a leggere la cronaca, dice: «Ma non vedete che ha gli occhiali, lui là?»

Ermanno si sistema fra i due mucchietti di camicie e maglioni. Se tiene le braccia aperte, riesce a coprire quasi tutta la porta. Deve stare attento ai tiri passanti, piuttosto, ai rasoterra.

«Forza, magico portiere!» gli gridano.

«Dài Hector», si agitano gli avversari, «tira la bomba!» mentre il ragazzino coi colori della Dynamo posa la palla a tre metri dalla porta.

“Veramente vicina, pensa Ermanno. “E io non posso mica prendere gol, ché questi mi muoiono”, si dice, passando in rassegna gli occhi speranzosi dei compagni di squadra. Per impressionarli, sputa sulle mani e le batte forte, si bilancia sulle gambe. «Dài, Ermanno», si dice.

Hector fa per prendere la rincorsa.

Dài, Ermanno, pariamo almeno il rigore difficile.

Hector batte nervosamente la punta della kicker’s sul pavé, inclina in avanti come stesse cadendo a terra, poi parte al galoppo, mentre Ermanno si sente pronto a respingere qualunque maledizione del dio del calcio. Giocava a pallone con Dietrich e Raimundo, lui, non è mica un principiante. Vecchia scuola nizzarda, tempra da calciatore urbano.

Hector piomba sul pallone, si blocca un istante, calcia di punta piena.

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Di faccia! Ermanno ha respinto di faccia! Nel giubilo generale, la palla rimbalza lenta verso Hector. Adesso Ermanno non vede più niente, sente solo i compagni che gridano: «Vale la ribattuta! Attento, signore! Vale la ribattuta!»

Praticamente accecato, con l’intuito dell’ex calciatore da cortile, Ermanno si butta a gatto verso il pallone di gomma gialla proprio mentre il ragazzino con la maglia della Dynamo, sbilanciato di fianco, colpisce d’interno, verso il primo palo.

Ermanno agguanta la palla a due mani, la stringe al petto, rotola a terra. Gli sono addosso in quattro, in sei, in otto, festanti. «Grande, signore! Grande! Un capolavoro! La ribattuta, poi!

Che non lo sapeva neanche, che c’era la ribattuta! Un genio! Un professionista! La nazionale, ci vuole!»

Ermanno stringe la palla sepolto dalla valanga di pantaloncini di velluto, camiciole sudate, tute pizzicanti, mani tenere di bambini: tutti a scompigliargli i capelli, a palpargli i bicipiti, a sculacciarlo per gioco.

«Dall’altra parte, Hector! Dall’altra parte! L’avevi disorientato!» si rammaricano gli amichetti del rigorista.

«È che avevo perso l’assetto», dice quello. «Cazzo di Budda, non si è visto?»

Ermanno si libera a fatica dall’entusiasmo dei compagni di squadra, saluta tutti, cammina lieto verso la vespa. La libera dalla catena, monta in sella, si gira un’ultima volta a guardare i piccoli calciatori bercianti. Il moccioso che lo ha ingaggiato saluta con la mano; sorride, mentre Ermanno suona il clacson e fa il segno della vittoria e parte veloce incontro al resto della giornata.

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Sei maggio, 1984.

Una sera di maggio, Dietrich rientra a casa con una bruttissima sensazione. Giurerebbe che due loschi con tagli di capelli antiquati lo hanno aspettato fuori dal bar, seguito su una giulietta color crema fino a quando non ha infilato le strade del quartiere, imboccato un paio di sensi vietati. Alla fine ha abbandonato la vespa in un cortile vicino a casa.

È tutto il giorno che ha la sensazione di essere seguito. I clienti del bar lo spiano. Fanno qualche domanda di troppo. Come non capisse che stanno cercando di raccogliere informazioni su di lui, sui delitti cui ha partecipato.

Dietrich adesso rolla un joint per calmarsi un poco. Una prelibatezza pakistana finisce lavorata a serpentello. Dietrich la sposa con un paio di martini dry e finalmente torna in sé.

Inizia a preparare il battuto di cipolla, taglia la pancetta per il sugo, stempera la panna con il passato di pomodoro; versa un terzo martini. Ascolta per quarantacinque giri Special agent man dei Gaznevada, spera che arrivino in fretta, i ragazzi. Li attende per cena. Scarta con grande soddisfazione il nuovo pacchetto di marlboro rosse. Versa il quarto martini, così, giusto per non starsene con le mani in mano mentre la cipolla soffrigge.

Alle otto e trenta, con puntualità teutonica, Raimundo sale le scale in compagnia di una vaschetta di gelato. «Ciao», dice.

«Oggi ho avuto un pessimo flash», sbuffa Dietrich, più grasso e affannato del solito, imbruttito dalla paura.

«Stai tranquillo, fratello», dice Raimundo. «Calmati e racconta.» Estrae un joint già rollato dal pacchetto di lucky strike, lo appoggia a Dietrich, incendia la punta con l’accendino bic.

Dietrich aspira a pieni polmoni, spera tanto che l’hashish scontorni un po’ l’ansia.

«Vuoi un martini?» chiede Raimundo; prepara un martini con oliva per sé, poi ne prepara uno con ghiaccio e senza oliva per l’amico, intanto che Dietrich cerca il pacchetto di marlboro rosse. Si sorprende, quando vede che non ne ha ancora fumata una.

Venti sigarette: «Raimundo, oggi mi sono svegliato pieno di paranoie. Lo so che magari sono stronzate, ma capisci anche tu che di danni ne abbiamo fatti parecchi, dal punto di vista dei questurini… «

Diciannove sigarette: « Insomma, è tutto il giorno che mi sembra di essere seguito».

Diciotto sigarette: «Perché cazzo Ermanno e Jerry non sono ancora qui? «

Diciassette sigarette: «E sì che gli ho detto alle Otto e mezza. Otto e mezza puntuali, gli ho detto. Dovevano anche portare l’ammazzacaffè, tipo del rhum «.

Sedici sigarette: «Voglio dire, lo so anch’io che è una paranoia classica, quella di essere seguiti, ma, cioè, quelli che arrestano li seguivano veramente, no? È che uno se ne accorge dopo, quando sanno tutto dite e sono pronti a catturarti».

Quindici sigarette: «Cioè, di solito chi pensa di essere seguito non è seguito davvero, e invece, chi non se ne accorge può comunque essere seguito. Di nascosto».

Quattordici sigarette: «Solo che qui salta fuori il mio genio: io sospetto. Non dico né che mi seguono, né che non mi seguono. Sto attento. Valuto gli indizi. Mi rilasso e preparo i piani per il contrattacco».

Tredici sigarette: «Sono le Otto e cinquantuno. Dove cazzo sono i cugini? Non è che ce li hanno già legati tutti e due?»

Dodici sigarette: «Sì, senza oliva, grazie. Sei un vero barman, Raimundo».

Undici sigarette: «Va be’, basta con le paranoie. Solo non capisco che cazzo stanno facendo Ermanno e Jerry. Io li chiamo».

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Sentono gli squilli mentre sono già sulla soglia. «Non rispondere, siamo in ritardo», dice Ermanno. Cousin Jerry barcolla al telefono: «Magari è proprio Dietrich», sussurra.

Dieci sigarette: «Stanno uscendo adesso… Jerry sembrava veramente sconvolto. Monnezza, mi sa. Il rhum comunque ce l’hanno. Sono qui in dieci minuti. Salo l’acqua e tra due minuti ci tuffo dentro un chilo di gramigna. Otto minuti esatti di cottura. I cugini arriveranno giusti giusti per aiutarci a scolare e unire la pasta al sugo imperiale dello zio Dietrich».

Nove sigarette: «Scusa, ma cosa te ne fotte delle paglie di riserva? Te ne do delle mie. Non metterti a fare il massimalista sulle lucky strike, adesso. Va be’, basta che non ti innervosisci».

Otto sigarette: « La tabaccheria in fondo alla strada, quella con le vetrine che danno sulla rotonda Stirner, è aperta anche di notte. Ci arrivi in mezzo minuto, fai prima se vai a piedi.

Anzi, comprami un pacchetto di marlboro rosse». La pasta è quasi pronta, ormai. «Mi sa che incroci i cugini per le scale», gli dice.

Dietrich girano un po’ i coglioni. Raimundo arriva tutto premuroso con il gelato e poi è talmente cafone da fargli scolare la gramigna da solo per andare a comprare le paglie di riserva. Troppa bamba nel cervello da sosia veloce di Matt Dillon, pensa Dietrich.

Il settimo martini senza oliva, aspettando che la pasta sia pronta.

Sette sigarette: «Ma porco dio, allora mi tocca veramente di scolare da solo».

Intanto, Ermanno ha una botta fragorosa nel cervello, e non gli riescono tanto bene i soliti automatismi. Quando la corriera carica di turisti gli taglia la strada per immettersi sulla rotonda, lui perde il controllo. Impiombato e colmo di spavento com’è, si fa stringere tra il marciapiede e la corriera che gli chiude la traiettoria. Non prova nemmeno a frenare, coll’unico guizzo evita a malapena la fiancata. Quando tocca il cordolo, la vespa s’impunta, salta senza grazia sul marciapiede: ci sono quattro o cinque passanti che scartano indietro, gridano qualcosa che lui non distingue.

Sei sigarette: «E porco dio, via con il sugo imperiale alla Dietrich, che tanto non gliene fotte un cazzo a nessuno se io preparo da mangiare o mi tiro una pugnetta «.

Cousin Jerry controlla rapidamente la vespa, Ermanno è già in piedi, un poco tremante, ma integro. «Si è solo un po’ spaventato», dice il Cousin, per rassicurare la gente attorno.

«Adesso andiamo da Dietrich, magari lascia qui la vespa, che ti carico sulla moto.»

«… Sì, un po’ d’acqua la bevo volentieri», pigola Ermanno, il palmo premuto contro l’anca.

Quint’ultima sigaretta, la riflessiva. Dietrich risponde al telefono, e sostiene che se Ermanno non si è spaccato a mezzo va tutto bene. Lui, comunque, li aspetta fra poco. «A fra poco», dice, mentre una tenebra d’ansia che non ha mai conosciuto prima riesce a togliergli il respiro.

Raimundo è a bordo di una giulietta color crema, seduto al posto del passeggero, concentrato e servile. E straziante vederlo così disponibile a tradire. Non è pentito, potresti capirlo dai gesti consapevoli, argomentati, con cui riesce a trattare la sua minuscola, personale resa separata. Raimundo non sa nulla di cos’è una guerra, così che la sua pace è forse l’atto più ingiusto che si possa immaginare in questo momento.

Lascia che il commissario, seduto alle sue spalle, gli porga la fiamma dell’accendino, gli trasmetta, nei modi della cattiva polizia, del sotterfugio, della compravendita, il sentimento della verità che lo riguarda. In certo modo t’incanta, coglierlo nelle identiche posture, negli stessi giri di frasi nervose con cui si è mostrato per mesi, per anni, ai suoi amici, gli stessi con cui è cresciuto nel quartiere-pancia, gli stessi che credevano di aiutarlo a combattere una 83

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guerra che non è mai stata la sua. Poiché non è un combattente, la sua resa separata non avrà diritto all’onore delle armi. Prenderà dei soldi, lui che è il traditore di tutti e ha piacere, adesso, che il commissario lo tratti come una specie di politico, un ravveduto, un ragazzo utilizzabile. Così, fornisce tutti i dettagli e i particolari di quel che resta da fare. Gli escono di bocca in modo nitido, non solo facile, partecipe. Dice: «Lei lo sa quanto me, commissario.

Quando si è ragazzi, è fatale, alle volte, commettere degli errori. Guardi, io nella vita desidero proprio delle altre cose, cose normali, creda. Lei lo sa, sono qui per dare una mano, alla fine.

Piuttosto che vederli plagiati a quel modo, i miei amici Claypool e Lassalle, ascolti, preferisco dargli la possibilità di difendersi in un processo. Del resto, lei lo sa chi è il vero delinquente, è scritto nei fascicoli, io non credo di dover pagare per le colpe del signor Jerry Claypool».

Dal semibuio dell’abitacolo vengono su i suoni attutiti, le voci elettriche e sovrapposte della radio di servizio, le comunicazioni attraverso le quali i difensori degli ubbidienti hanno fatto e continueranno a fare d’ogni centimetro quadrato della città di Nizza un luogo di conflitto.

«Ci resta poco tempo», dice il commissario, e la giulietta color crema comincia a muovere lenta lungo rue Bastogne. In lontananza puoi distinguere le luci brillanti di traffico e neon che illuminano la rotonda Stirner, l’ultimo snodo denso di gente e automobili nazionali prima della quiete di tigli e case basse del quartiere-pancia.

Quando la giulietta color crema arriva sotto casa di Dietrich, nell’addensamento di cellulari, volanti, luci azzurre che rischiarano a intermittenza il primo buio della sera e il sipario mobile dei tigli, per quanto si sforzi, Raimundo non riesce a distinguere né la vespa di Ermanno, né lo squalo, né la moto di Jerry. Allora sbianca in volto, aderisce di spalle allo schienale, dice:

«Oddio, no, no, aspettate!… « ma ha già capito che non fa più in tempo a fermarli.

E Dietrich spegne sotto il rubinetto del lavello la sua quart’ultima sigaretta, la superflua:

«Amici di merda, amici di merda, non gliene frega un cazzo, non glien’è mai fregato un cazzo!…» Poi, Dietrich accende la sua terz’ultima marlboro rossa per accompagnare i nuovi sorsi di martini. Sta coprendo gli inutili piatti fumanti, e il rumore dei passi cauti che risalgono le scale in questo momento, non può mica sentirlo.

La sua terz’ultima sigaretta è la profana: «Ma allora, dio vampiro, alla fine me li mangio da solo, gli spaghetti col sugo imperiale. Rottinculo di rottinculo di rottinculo!…»

Spaghetti. Marlboro. Martini senza oliva, mentre l’aermacchi di Jerry supera la rotonda Stirner in cauta frenata, ché i due Claypool riescono a distinguerlo dalla distanza, l’addensamento lampeggiante di volanti e cellulari che sta assediando la casa del signor Dietrich Lassalle.

Non hanno bisogno di dirsi niente; e l’aermacchi può scivolare lenta via dal puttanaio di gendarmi e mitragliette senza correre nessun rischio vero, abbracciati e difesi dal viavai di traffico della rotonda.

Il paesaggio nizzardo sfila via sui lati.

Il boulevard della stazione, che la notte ospita pazzi, tossici e puttane, scorre veloce tra insegne di bar e lavanderie. Ermanno sente che per un po’ non camminerà più per quelle strade facili: le vie storte del centro, e quelle del quartiere. Le conosce bene, le strade del quartiere. In tutte le stagioni. Escono dall’inverno spaccate dal ghiaccio, e piano si riempiono di petali, fino a quando non arriva il caldo buono che puoi respirare adesso.

Ermanno si aggrappa con lo sguardo a ogni manifesto pubblicitario, a ogni vetrina. La aermacchi modello harley davidson di Cousin Jerry ringhia magnificamente a ogni nuovo cambio di marcia. Ermanno avverte per la prima volta determinate urgenze, pensa a chi potrebbe salutare, se ci fosse ancora del tempo. Non si è mai sentito così compiutamente ragazzo come ora: all’improvviso, sa che lui non potrebbe salutare quasi nessuno, o forse, i clienti giovani del pub del Basco. Forse, loro saprebbero trovare le parole giuste per dire 84

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addio a un ragazzo che sta per andare via. Se solo ci fosse tempo, chiederebbe a Cousin Jerry di deviare fino all’insegna azzurra del pub, per stringere la mano al Basco, almeno, o bere un’ultima birra e farsi augurare la buena suerte nell’unico modo giusto possibile.

Sulla moto con Ermanno c’è tutto quello che resta della famiglia, degli amici, di tutte le illuminazioni decisive che ti è dato avere quando sei ragazzo.

Poi, l’aermacchi di Jerry si lascia alle spalle due adulte coi tacchi che vanno insieme a farsi periziare in centro, camminare impermeabili tra le vetrine, bere una cosa in un posto tranquillo e parlare, un poco, di niente.

«È l’unica cosa che mi dispiace lasciare qui», sussurra Cousin Jerry davanti alla stazione. Dà un colpetto a palmo aperto contro il serbatoio dell’aermacchi, e poi, lascia cadere le chiavi nella fogna, ché più nessuno potrà di nuovo tagliare l’aria della piccola patria correndo a bordo di quel puledro.

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Nove maggio, 1984.

All’ultima chiamata del volo Klm Amsterdam-Paramaribo Cousin Jerry non è ancora al check-in. «Vado a comprare un po’ di birre per il viaggio», ha detto.

I passeggeri si spostano verso il banco, esibiscono la carta d’imbarco, si avviano agli autobus. Ermanno si gira un’ultima volta, ma non sta arrivando nessuno. Gli vengono su un pacco di brutti pensieri, tipo gli sbirri, Cousin Jerry in manette e mai più eroe dei due mondi lanciato verso Paramaribo.

Oramai, è proprio il suo turno.

«Mister Ermanno Claypool?» chiede l’impiegata olandese, quando lui le arriva davanti.

«Ha letto il nome sulla carta d’imbarco, claro», pensa Ermanno. «Non devo diventare paranoico.» «Si?» dice.

L’impiegata lo guarda inclinando la testa, parla veloce in uno strano inglese privo di accenti.

Gli sembra di capire che quella signorina debba consegnargli un messaggio. «Do you know mister Labusta?» chiede.

Lui non capisce subito. Poi, riesce a distinguere le poche parole a pennarello che lo riguardano: «From Mr. Apri Labusta to Mr. Ermanno Claypool». I cognomi sono sottolineati, ché non ci siano errori. Ermanno sente salire dallo stomaco una piccola nausea da presagio, come se tutto gli fosse chiaro, all’improvviso.

Così, può leggere il biglietto all’interno, percorso dalla grafia sghemba di Cousin Jerry. È un biglietto di poche righe, capace di farlo sentire, per la prima volta in modo tanto nitido, del tutto solo. «Ermanno», ha scritto Jerry in quel biglietto, «per il momento ti devo salutare. Ho cambiato destinazione, all’ultimo minuto, visto che io a Paramaribo ci sono già stato. Sono certo ti troverai bene anche tu, in quei paraggi. Nel bagaglio a mano hai diecimila dollari in traveller’s chèques. Se non fai cazzate ci stai bello largo per qualche mese, il tempo di vedere come girano le cose, laggiù. In ogni caso, mi auguro che la destinazione ti piaccia ancora, perché fuori dal check-in c’è l’interpol coi cani. Vaya con dios, Ermanno, e chissà che noi due non ci si riveda, un giorno, a un matrimonio o a un funerale.»

Adesso, Ermanno sente le gambe troppo deboli, il cuore che batte a tamburo dentro il petto, il sudore capace di ghiacciare le tempie. Sa benissimo che fuori dal check-in non ci sono né poliziotti né cani, intanto che gli addetti olandesi dell’aeroporto lo invitano a salire sul pullman-giocattolo col resto dei passeggeri già proiettati, mentalmente, verso l’altro capo dell’oceano.

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