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Lui non ha mai saputo come Cousin Jerry avesse previsto tutto quel che è poi successo. Non ha mai capito perché se ne andasse in giro col passaporto sempre in tasca, quasi fosse già pronto a spiccare il grande salto. Di una sola cosa è certo, che se gliel’avesse chiesto, il vecchio Jerry avrebbe richiamato in superficie la migliore delle sue espressioni strafottenti, detto una frase da mezzo adulto, tipo: «Se stavi attento, Ermanno, capivi tutto anche tu».
Un giovedì dell’aprile 1984. Pomeriggio.
Parcheggiano le vespe con frenata sghemba giusto sotto casa della sbarba Occhi-blu.
Chiudono la catena, così, per sicurezza. Può sempre esserci qualche malintenzionato che scorrazza nei paraggi, anche qui nei quartieri dei ray-ban a goccia, delle televisioni a colori e delle altissime fedeltà superstereo.
Ermanno guarda con ammirazione bambinesca Cousin Jerry, sorta di monumento vivente alla vita dispari, ne imita i movimenti.
Ci sono strade larghe e silenziose, qui tra le case basse. Il vialetto è rosa per i petali di pesco, il sole tramontante cade sui muri di Nizza con una luce gentile e fresca, una luce che fino a sei o sette anni prima bastava a riempire Ermanno di fiducia: tornava silenzioso dalle english lessons o dal campetto di calcio; le giornate s’allungavano e il secondo pomeriggio era di luce dolce, d’aria primaverile. Contava i giorni che mancavano alle vacanze di pasqua o alla fine della scuola, pensava alle interrogazioni, alle bimbe che avrebbe voluto avere sotto. Il pensiero stesso che un giorno, certo non lontanissimo, avrebbe veramente goduto di una donna, gettava addosso la più grande inquietudine: si sentiva il ritratto vivente dell’artista da cucciolo, predestinato a piaceri rari e raffinati. Altrimenti, pensava a cosa ci sarebbe stato per cena - magari polpette in umido o involtini messicani grondanti di formaggio fuso - e stava bene con le sue cabale, allegro, quindicenne, così.
Il vialetto è rosa per i petali di pesco, Ermanno è sul sventrato andante, Cousin Jerry mobile e a suo agio con dentro un videoclip. Dlen-dlen, dice il campanello.
La sbarba Occhi-blu s’affaccia verificatrice dalla finestra, riconosce i due, cinguetta cia-ao, belli.
Sorride, Occhi-blu, resta a guardarli quell’attimo troppo, con aria - ah, yes! - invitante.
Ermanno pensa che magari la sbarba desidera proprio lui, oppure vuole Cousin, o forse li vuole tutti e due, esaltata da un carosello di proiezioni mentali femminili, una sorta di Jules e Jim porno, probabilmente.
Nel salire le scale, Ermanno accusa la sambuca; ha più sbilanciamenti, s’appoggia al muro intonacato di bianco. Chissà cos’ha in mente Cousin Jerry, pensa. Ha l’impressione di trovarsi dentro uno di quei momenti meravigliosi in cui non vuoi essere tu a scegliere e c’è solo la consapevolezza che qualunque cosa accada cavalcherai volentieri la situazione. Che questa visita si trasformi in un chiacchierata piena di allusioni osé, una serie noiosa c aneddoti interminabili o un altro massacro, per lui fa li stesso. Una volta, quand’era solo uno sbarbo-fiordilatte credeva che la massima libertà fosse poter scegliere in ogni circostanza. Poi ha capito che il vero benessere è appaltare la propria vita a registi capaci di emozionarti. Registi per il sesso, registi per lo sconvolgimento, registi per cene lievi e dopocena indimenticabili. E
da quando il lampeggiante Cousin Jerry è tornato in città a fine settembre, ha trovato un regista globale di cui si fida ciecamente.
La sbarba Occhi-blu li accoglie coi baci sulle guance, li fa entrare nel suo appartamento da fuorisede ricca: «Come state, bellissimi?» dice.
Offre hashish nepalese regalato da qualche trentenne probabilmente simpaticissimo ma un po’ invadente, offre tè al mandarino, offre loquacità di terza mano. I due drughi cugini accettano tutto questo seduti imperiali sul divano, anche quando la sbarba mette sul piatto 2
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dello stereo On the road again. Di nuovo sulla strada, si fanno quarantacinque giri in compagnia degli argentei Rockets.
Ermanno e Cousin Jerry rollano all’unisono due joint col nepalese più famoso del mondo.
Mezz’ora dopo, i cugini se ne stanno morbidi sul divano, e Occhi-blu sbaglia le parole, e ride sconnessa e un po’ colpevole. Occhi-blu vuole strafare, fa la ricercata, mette sul piatto i Weather Report, racconta aneddoti pretenziosi e improbabili sui Weather medesimi, certe feste dopo concerto in cui quel fulminato del bassista Jaco P. andava giù di…
«… Non ci hai mica i fratelli Righeira?» la interrompe Ermanno.
«I fratelli Righeira! Quei due mostri!… » ghigna Occhi-blu ridente e fuggitiva, radicalchic.
Poi, come se avesse intuito un trabocchetto, allunga un piccolo colpo di gomito, complice e adeguativo, a Cousin Jerry. Il Cousin si mantiene serissimo: «Guarda che a livello estero, tipo Spagna o Deutschland-Brd, sono dei numeri uno. La verità è che qui non ci rendiamo conto.
Siamo annebbiati dalla vicinanza» , dice. Poi dice: «E non sono ignoranti come credi tu. La gente ignorante, pensa che i Righeira siano ignoranti. Invece sono grandi, nella loro semplicità. Pensa a un pezzo come Vamos a la playa… Non è mica facilissimo da inventare.
Ha una sua struttura di rimandi pressoché esoterica, versetti bilingue in italiano e spagnolo…»
Dice: «Pensa a parole come “Legioni di mutanti combattono sui surf”… La verità è che i fratelli Righeira sono messaggeri dell’apocalisse. Pensaci, se ti capita».
La sbarba Occhi-blu quasi quasi arrossisce. Poi, si scopre che guardatela, il passerotto! - ha tenuto nascosto il quarantacinque giri di No tengo dinero.
Ermanno e Cousin Jerry cominciano a ballare. Fichissimi. Molto compresi nel ruolo di pipistrelli from the outer space appena appena fuori di testa.
La sbarba batte le ciglia pesanti, sgrana gli occhioni: credeva i cugini affezionati alla musica aspra e se li ritrova a ballare come picchiatelli in villeggiatura a Fregene o Saint-Tropez. Si sente giustificata, adesso. Inizia a scuotersi, la troia.
Non è proprio che Occhi-blu stia tecnicamente ballando: si molleggia sulle gambe, scuote il culo, piega la testa all’indietro con aria lasciva, fa saltare le tette su e giù. E su. E giù. A Ermanno ricorda curiosamente una donna che gode cavalcando un uomo. Ma sì, sì, è chiaro:
tiene le cosce bene aperte per prenderlo tutto dentro… No tengo dinero. No tiene ritegno.
Loro la puntano un po’ nei movimenti della danza. Occhi-blu sa benissimo che la stanno scrutando. Riesce a sentirli gli sguardi lenti dei due cugini che la leccano sul pancino, blandiscono il segreto dell’ano, s’attaccano a succhiare i bottoni del seno. Le piace. Il nepalese più famoso del mondo la rende leggera, sente di potersi concedere più del solito.
Quando finisce No tengo dinero, Ermanno apre una bottiglia di vino strano recuperata su una mensola, mentre la sbarba Occhi-blu mette sul piatto del giradischi altre musiche da z ballo.
Bevono a canna, adesso. Si sbrodolano anche un po’. Ridono.
Cousin Jerry ricomincia a muoversi, traversato da qualche altissima tensione. Ermanno sfila il maglione da marinaio baleniere, resta con la maglietta Specials comprata quand’era giovane, tipo sei mesi prima. Occhi-blu guarda senza capire, magari sta per fare una domanda.
Ermanno la fa bere ancora, e ancora. Sorride, intanto che guarda Occhi-blu da molto vicino; sorride e abbassa lo sguardo. Far l’amore giù al faro ti amo davvero ti amo lo giuro…
Forse, è lui che vuole. Da come le ragazze mi guardano negli occhi, ripete spesso Ermanno nei bar che frequenta, sono in grado di capire a cosa son predisposte: se si lasciano lavorare il culo, se vogliono sentirsi sussurrare sconcezze, quanto gli piace succhiare, e, non trascurabile, se bevono felici la sborra oppure corrono in bagno a sputare oppure la ripassano in bocca all’uomo. Le postfemministe del cazzo.
A Ermanno piace scoprire cosa desiderano le ragazze, ma molto più gli gusta vedere come restano deluse e spaesate ogni volta che si disintegra l’orizzonte in cui questi desideri vengono espressi. Come quando si picchia il pugno sul tavolo del monopoli per vedere che 3
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faccia fa il titolare degli hotel su viale dei giardini. Gli gusta, a Ermanno, la ragazza stupita, la ragazza in posizione di scomoda, la ragazza imbarazzata. Eh. Spettacolo sempre suggestivo, mettere in imbarazzo una fica per cui la sicurezza ha il suono tacchettante dello shopping in centro con le amiche, del tè earl grey e dire cazzate tipo qui in città mi annoio di brutto.
Cousin Jerry balla e plana, Cousin Jerry balla e impenna. Quando la fronte gronda di sudore, lui siede a rollare un nuovo joint. Ganja. A offuscare i pensieri, evidenziare le sensazioni.
Ermanno e Occhi-blu stanno ballando, ancora.
A Ermanno piace guardare Occhi-blu ridere e piegarsi e scuotersi cercando di mantenere una dirittura, senza sbracare troppo. Pagherebbe, pur di sapere cosa sta pensando, lei, esattamente, sotto la superficie dei movimenti resi liberi dal fumo e dal vino. Perché lei sa cosa stanno immaginando, i due cugini. Se lo vede come un film, cosa le vorrebbero fare. Mica nata ieri, Occhi-blu. Proprio per un cazzo. Ci ha diciannove anni, lei…
«Forse non è prudente restare qui da sola a casa con questi due spappolati… Forse devo fingere un impegno per mandarli via… Sto bene al centro di questa situazione… Ma perché mandarli via, poi… In realtà mi prende benissimo, star qui a farli eccitare un poco… Potrei telefonare a Palpebrabella oppure Cosciotta, starcene tutti e quattro qui a casa… Fare cena…
Fare altri due spini… Fare un poco le puttane… Altrimenti potrei non chiamare nessuna e restare da sola, a stranirmi, sentire l’eccitazione che hanno addosso… Non voglio smettere, ancora per un poco. Magari telefono tra un quarto d’ora, venti minuti, sì sì sì, ecco…»
Forse è proprio così che spensiera Occhi-blu, adesso.
Tira dal sigarino arrotolato nella carta di riso, solleva il mento e lascia uscire il fumo denso senza smettere di guardarli. Sorride accaldata. Ride.
«Che verra schifosa», pensa Ermanno. «Che verra schifosa» , ma lo pensa senza scomporsi.
Lui e il Cousin non sono gente che si scompone: sanno dominarsi e financo essere cortesi.
Quando vogliono.
Poi, il rumore di un tuono copre la musica per pochi istanti, e Occhi-blu dice: «Oddio, corro a chiudere le finestre, se no mi piove in casa». Ecco, si ritrovano rintanati nell’appartamento da fuorisede ricca, sigillato come quando fuori piove. Ermanno rolla un doppio joint a baffo col nepalese omaggiato dal trentenne ignoto. Quando Occhi-blu rientra nella stanza, i cugini le offrono il prodigio; lei stringe tra le labbra il filtro centrale, e loro accendono con gli zippo, ciascuno alle estremità. Occhi-blu succhia dai due joint contemporaneamente. Fa un paio di tiri lunghi, tossisce, ancora un tiro, poi passa il baffo a Ermanno.
Occhi-blu è già sconvolta in modo definitivo, lo capisci.
Occhi-blu cammina al giradischi, mette su altra musica. Cammina storta, la sbarba disinibita. Vuole ballare ancora un po’ nella stanza, le piace mostrarsi, le piace eccitare, le piace essere sola con Ermanno e Cousin Jerry, due animali da visita pomeridiana usciti da un raccontino del signor Burgess.
Chissà se è normale, eccitarsi cosi. Quasi quasi scrive alla psicologa di qualche settimanale femminile. Cousin Jerry succhia dal baffo come il più sensuale fumatore d’hashish di tutti i tempi, l’occhio semichiuso. Tutto l’aroma delle tiepide vallate nepalesi si spande tra le pareti di casa, satura l’ambiente.
Ermanno se li vede, i pensieri della bimba, squadrati come mattoncini lego: «Adesso mi lascio un po’ andare», pensa. «Vada come vada. Dopo mi faccio una doccia, mi pulisco da tutta questa situazione. Poi telefono a Palpebrabella e le spiego che resta qui a dormire.» «Sei matta», dirà Palpebrabella. E poi dirà: «Vacci piano, con quei due». I cari consigli da migliore amica. Ma Occhi-blu è indipendente, Occhi-blu sa come gira il mondo, Occhi-blu ha polso da vendere… Occhi-blu è un coniglietto da sventrare…
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Cousin Jerry raccoglie dal tavolo le paglie, ne sfila una meravigliosa dal pacchetto. Anche Ermanno accende una meravigliosa, scherma la fiamma con la mano. In the midnight hour she wants more more more, sta cantando dal marantz il ragazzo Billy Idol, e Occhi-blu balla balla balla, sempre più scoperta.
«Tra un poco ci cade stesa per terra… Forse è il momento… Tempo di finire la paglia…»
Pensa qualcosa del genere, Cousin Jerry, e segretamente ha già deciso. Così se la guarda ancora un po’, mentre lei balla un’ultima volta.
Adesso Occhi-blu ha capito: non sta dirigendo nessun gioco a tre. Ci sono soltanto due giocatori: Ermanno e Cousin Jerry. Tecnicamente, nulla dipende da lei. Infatti, cominciano a succedere cose che non si aspettava… Sul serio… Loro non ce la vogliono Palpebrabella, in mezzo ai coglioni.
«Tanto non ti può rispondere, adesso», dice Ermanno.
«Perché, vi ha detto che usciva?» chiede Occhi-blu. Le vedi il piccolo lampo indietro negli occhi, già preoccupata di ricordare il numero di Cosciotta.
«No, non usciva. È proprio che non può rispondere al telefono», taglia via Cousin Jerry.
Gesti sentiti dire, immaginati sottovoce, le diventano reali intorno, le diventano reali addosso… La musica è molto alta, adesso, è un urlo ribelle. La ragazza che balla ne vuole ancora, ancora, ancora… Riesci a vederlo, il ragazzo Billy Idol che si scatena sul palco come un cattivo animale…
Adesso c’è Ermanno che ne ha abbastanza di sentire quegli inutili strilli, quelle povere mezze frasi copiate dagli sceneggiati, tipo vi prego, non ci vedo più, oddio oddio cosa mi avete fatto… «Stai zitta! » dice. La colpisce forte con la testa. Le rompe il naso finora mai toccato da nessuno, senza smettere di muoversi dentro.
Gli fa troppo strano, vedere Occhi-blu così schifosa, sporca, piangente, senza un briciolo di dignità. Vederla a quel modo gli fa crescere la furia. Viene voglia di accanirsi, ecco cosa. Fino a quando Occhi-blu se ne stava rigida e piena di paura, ancora riconoscibile, Ermanno aveva un po’ di rispetto. Su uno straccio di ragazza ormai danneggiata, è spinto a fare di più. Per punirla di essere a brandelli, come. Avrebbe voluto godere con calma del suo stupore, e prenderla mentre era più riconoscibile, identica alla ragazza gentile e silenziosa che la sera prima fumava sigarette muratti alla festa del mercoledì. E invece, adesso lei è compromessa e già alienata, diversa in modo irreparabile. Per questo Ermanno la prende con più rabbia. La danneggio, questa mezza troia, la punisco, ché mi si è guastata subito. Ovvio.
È che a Ermanno gli piacciono le ragazze sofisticate, ecco tutto. Le ragazze che hanno stile.
E questa stronza non sa neanche cosa sia non dico lo stile, no, è che non sa neanche dove sta di casa la dignità. Prima fa la posseduta, danza, briga, ti dice cia-ao bellissimi. Dopo, quando ha avuto quel che cercava con tanta insistenza, piange e butta sangue.
Cousin Jerry esce dal bagno, accende una nuova meravigliosa, la prima da quando la vita della sbarba Occhi-blu è così cambiata.
Ermanno finisce quel che c’è da finire. Geme, piantato immobile: vuoi sentire tutto quanto si può, dentro un coniglietto del genere. Poi le si abbandona contro, come l’amante fiacco che si allontana sulla spiaggia nella pubblicità dei profilattici.
«Ghhi… zsxi…» balbetta Occhi-blu, tra le lacrime.
«Cosa?» chiede Ermanno con un filo di voce.
Cousin Jerry soffia fuori il fumo e ghigna: «Ha detto dai, esci» .
«Stai calma, adesso», cerca di contenersi Ermanno. Le blocca la testa. La obbliga a guardarlo negli occhi. «Guardami, pezzo di troia», dice.
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Occhi-blu trema troppo. Dal naso le piscia sangue. «Ti prego», frigna, «non ci riesco».
E allora Ermanno scatta per conto suo, le ringhia addosso: « Mi spieghi una cosa, una cosa sola? Mi spieghi perché non stai ai patti? Ti ricordi che avevi promesso, vero? Me lo dici cosa avevi promesso? Se non ti ricordi te lo dico io: avevi promesso che non urlavi. E allora perché cazzo urli, pezzo di troia?»
Cousin Jerry non dice una parola. Finisce di fumare la sua meravigliosa seduto sul divano, senza espressioni. Molte donne lo troverebbero bello, di una bellezza storta e profondissima, irregolare come i desideri più nascosti, inconfessabili anche alle amiche del cuore: «Lasciala perdere, non serve a niente», sussurra.
«Ti posso fare», dice Cousin Jerry, «una proposta seria? Vestiti», dice, «e vieni con noi.»
«Tu lo capisci, vero?» dice Ermanno. «Tu lo sai che non ti possiamo lasciare qui… Non sarebbe per niente igienico.»
Occhi-blu guarda da dietro le lacrime. A suo modo è talmente devastata che non sente più niente. Non sembra infelice.
«Riprenditi…» dice Cousin Jerry. «Giuro che non abbiamo un minuto di più per stare qui a guardarti. A parte», dice, «che come spettacolo non è il massimo… Forse è meglio se stai lucida, prima che succeda qualcosa che non vuoi…» E poi, lui, cambia tono. Sembra un giovane allenatore benevolo che parla con la ragazzina indisciplinata della squadra dopo la fine degli allenamenti. «Senti», dice. «Mi rendo conto che in questo momento hai dei problemi e ti senti sporca e umiliata eccetera, ma ti chiedo lo stesso di concentrarti. Voglio soltanto una parola. Se dici “sì”, bene. Se dici qualunque altra cosa, se stai zitta, se ti metti a piangere, se fai gli occhi dell’allocco, è come se dicessi “no”. Ascoltami bene», dice, piano, il Cousin.
«Ascoltami bene», e dalla voce si capisce che non ha più voglia di essere gentile. «La domanda è questa: pensi di farcela a rialzarti, vestirti e venire via con noi?»
Per un po’ si sente solo la musica dell’Idolo, unica cosa forte e pulita in quel salotto devastato e puzzante di fumo.
Poi, Occhi-blu muove la testa, apre la bocca. Forse non ha capito la posta che è effettivamente sul piatto, oppure proprio non ce la fa più.
«Cosa… Cosa mi avete fatto?» piagnucola.
Ermanno è confuso, non può credere che una persona ferita non riesca a pronunciare un “sì”
per salvarsi da sciagure molto più definitive. «È incredibile la mancanza di resistenza di queste ragazzine», pensa.
Cousin Jerry le si inginocchia di fianco, s’allunga a baciarla. Fa cenno a Ermanno di lasciare la stanza e richiudere la porta. È giusto, in fondo voleva diventare la sua fidanzata.
Praticamente non si lamentava, mentre la fotteva Cousin Jerry. Ha pianto solo quando le ha infilato il tovagliolo in bocca per non farla urlare, praticamente. Con lui, invece. Ci è anche rimasto un po’ male, ecco…
Ermanno resta solo a camminare avanti e indietro sul parquet del corridoio. Fissa un manifesto dei Talking Heads appeso a una porta. Si chiede se i nuovi proprietari verranno a conoscenza di quel che è successo. Be’ sì, dai giornali, chiaro. Figurarsi se i giornali non parlano di una diciannovenne massacrata in un appartamento col parquet. Quando i nuovi proprietari inviteranno gli amici a cena, forse ne parleranno… Mentre bevono l’amaro, un po’
imbarazzati. Ed eccitati, anche, segretamente. Ermanno si chiede se verranno ad abitare lì dei bambini, caso mai. Gli stanno abbastanza simpatici, i bambini.
C’è il rumore di un sasso che cozza contro il legno.
Occhi-blu esce di scena con un gemito fievole fievole, da coniglia mortificata.
Ancora.
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Per sicurezza. È importante la sicurezza, quando si parla di ragazze. La vivono proprio come un puntiglio, alle volte. Per ragioni storiche, chiaro.
Ermanno ha voglia di un caffè.
Cousin Jerry esce dalla stanza, un poco pallido. Dice: «Andiamo, siamo qui da un sacco di tempo».
«Ho bisogno di un caffè», dice Ermanno.
«Un caffè», dice Cousin Jerry. «Va bene.»
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Ventisette settembre, 1983. Pomeriggio.
Cousin Jerry è tornato in città a fine settembre, ed è stato chiaro da subito che stava iniziando qualcosa di fumettistico e definitivo. Io non avevo sue notizie da cinque anni.
Capelli biondi a spinacio, basette da rockeur fallito, sguardo ultraterreno. Giacchetta in peluche turchese odorosa di ganja, pantaloni scozzesi e anfibi color ciliegia tenuti assieme a forza di nastro isolante: gli è bastato scendere dal taxi che era già il mio eroe preferito.
«Ciao, Ermanno», mi ha detto, come ci fossimo lasciati la sera prima in birreria.
E subito, da veri personaggi frosci di Jean Genet ci siamo abbracciati forte, baciati sulle guance ispide di barba giovane, vicino agli angoli della bocca.
Abbiamo ricominciato tutto da capo bevendo due caffè a testa, su in casa.
Jerry Claypool, the Cousin, ramo bizarre di una dinastia folgorante e folgorata quale appunto siamo noi Claypool, veniva a passare il natale in città quando eravamo scoiattoli sui sei-sette anni. Mamma era ancora una bella donna dedita ai barbiturici, sposata con il prestante Gualtiero Claypool, collaudatore delle esclusive auto Bugatti nonché padre del vostro affezionato.
Il vostro affezionato viveva in una arieggiata villetta nizzarda con papà e mamma e Felipe il cane, destinato a seguire le tracce del signor Gualtiero, dopo il divorzio. Le festività natalizie rappresentavano indubbiamente uno dei periodi più punk rock dell’anno, allietato dalla visita dei fratelli di mio padre con famiglie al seguito. La pattuglia più colorita era senz’altro quella composta da zio Gionata; biscazziere professionista, le tette tonde di zia Sylvia e il piccolo Jerry, magnifico esemplare di disadattato infantile e negus della tribù rotante dei cuginetti Claypool.
La settimana da natale a capodanno scorreva a due differenti livelli. I grandi bivaccavano al secondo piano tra bevute di liquori, mitologici scambi di mogli, interminabili partite a concia, scopetta e sbarazzino. Noi scoiattoli-iene, invece, ci barricavamo nella sala del piano terra, che trasformavamo in fortino sotto la guida autorevole di Cousin Jerry. Costruita un’impalcatura di sedie, si stendevano coperte a formare il tetto; poi, sotto l’improvvisata tendopoli ammucchiavamo i sacchi a pelo in cui avremmo trascorso una settimana, giovani ussari dispersi in territorio ostile dopo la disfatta della Beresina. Isolate in un angolo le cu-ginette, noi maschi sedevamo in cerchio attorno al totem della nostra tribù, un coniglietto di pezza trafitto dalle posate, e lì, nel semibuio, si discutevano i piani. Nella più avvolgente atmosfera che un bambino di sette anni possa sognare.
I genitori di Cousin Jerry e i miei si sono separati quasi contemporaneamente, come se papà e zio Gionata dovessero rispettare una sorta di patto disonesto tra fratelli. Io e il Cousin ci siamo visti sempre più raramente. Erano gli anni montessoriani in cui si inizia ad avere qualche bagliore di consapevolezza, tipo fine dell’infanzia. Dal Cousin arrivavano notizie frammentarie. Viveva con una mamma rancorosa e abbandonata (proprio come me); cresceva in scaltrezza e impazienza (proprio come me); raggiungeva risultati scolastici tendenti alla catastrofe (proprio come me); e proprio come me si dibatteva in un’eterna inquietudine alla ricerca di attività interessanti al di là del solito cinema e pallonate a porta unica con gli amici.
Ogni tanto, nell’appartamentino di piazza Nietzsche in cui mi ero trasferito con mamma dopo il divorzio, arrivavano lettere bislacche, chiuse con la puntatrice. Il Cousin, non più negus dei cuginetti Claypool ma variopinto dodicenne dai pugni in tasca, mi raccontava con ortografia approssimativa gli episodi salienti della sua formazione. Più che aneddoti erano una serie di ricette per afferrare in modo adulto e professionale il sapore pieno della cosiddetta vita. Per parte mia, mi affrettavo a emulare le imprese autorevoli del Cousin senza pentirmene mai.
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Forse, sono stato l’unico esemplare al mondo avviato per corrispondenza alle delizie del sesso, solitario e non solo, all’ubriachezza giovanile, alle ineffabili emozioni della piccola delinquenza…
Cousin Jerry scomparve nel nulla quando avevo circa diciassette anni. Mi arrivò un’ultima lettera in cui annunciava che sarebbe partito in giro per l’Europa. In quegli anni di tanta monnezza sparata in vena, non erano pochi i ragazzi che abbandonavano la casa e si lanciavano incontro all’avventura con uno zaino e un rotolo magro di contante nascosto nelle scarpe.
Poi, cinque anni senza avere una sola notizia dell’esistenza di Cousin Jerry, ed eccolo arrivare come ci fossimo salutati la sera prima. È buffo, no?
La madre del vostro affezionato si era trasferita definitivamente altrove in compagnia dell’obeso Alfio Ancona, grossista di tessuti in grado di fornire tutte le sicurezze cui può aspirare una donna ormai intiepidita. Oltre al bourbon e i doppi misti al tennis club, intendo.
Quanto a me, come già detto vivevo, ormai da un paio d’anni, nell’appartamentino di piazza Federico Nietzsche insieme all’amico d’infanzia Raimundo Blanco, naturale compagno di peripezie e stonature, e Cousin Jerry si sarebbe installato da noi in attesa di una sistemazione più consona al suo ruolo di eroe giovanile finalmente tornato in città. Pronto a riprendere in mano il sentimento del comando.
«Ho portato qualche souvenir dritto dritto da Amsterdam, mi dice Cousin Jerry. « Non ci si vede da un po’, ma ho immaginato ti avrebbe fatto piacere. Non mi dire che il cuginetto si sconvolge di brutto…»
«Quanto basta, Cousin», dico io. «Quanto basta per aggiungere un’aura di poesia a questo presente meraviglioso, con un certo riguardo per il lato affaristico della stona… E il souvenir, quando lo infiliamo sotto la lingua?»
«Anche stasera. Se domattina non hai impegni troppo concettuali…»
«Perché no, Cousin. Perché no. Anche Raimundo sarà contento della sorpresa. Piacciono anche a lui i souvenir dall’Olanda. Dovrebbe tornare proprio oggi, così facciamo un incontro al vertice.»
«Ma dài! Torno al vecchio nido e mi ritrovo in una specie di fumeria… Adesso cugino ho capito perché la zia ti ha mollato e si è cercata un altro posto letto…»
«Una storia molto triste. La povera donna aveva un figlio nullafacente, ultras e drogato. Ha fatto un gesto tragico, se ne è andata a vivere con un ciccione grossista di tessuti. Un dramma della follia familiare. Esasperata, era. Ha anche scritto al sindaco. Chi cazzo credeva di essere, madre coraggio? Alla fine, qui in casa ci abbiamo trasferito gli uffici di una società. Io sono il presidente unico, e l’amico Raimundo è l’altro presidente unico. Fatturiamo a gogo.»
«Che genere di società, cuginetto? « chiede Jerry, soffiando fuori un po’ del fumo denso aspirato dalla bottiglia.
« Dico per dire. Si smazzano un po’ di grammi, così, tanto per provvedere alle necessita…»
«Grammi?» ghigna Cousin Jerry.
«Va be’, grammi, etti, tanto per intenderci… Per esempio, c’è una certa pizzeria, in centro…
Se io e Raimundo non facessimo queste storiacce qui, dovremmo lavorare come camerieri o sguatteri, magari proprio in quella pizzeria: ti trattano di merda e guadagni poco. Invece, vendiamo la ganja al padrone del ristorante, a quel maraglio di suo figlio e ai camerieri… Non si permettono una parola di troppo, noi facciamo un poco più di soldi e zero fatica. Sai cos’è la fatica in queste storie, no? È tutta nelle cervella… dominare le paranoie e coordinare gli impegni. Questo è un lavoro per veri intellettuali tarchiati.»
Adesso Ermanno chiude le labbra intorno al collo della bottiglia, respira forte. Il fumo lussureggiante dei tre joint piantati a istrice nella plastica gli scende giù per la gola, nei 9
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polmoni, colpisce forte. Ermanno tossisce, cagnolino asmatico: «Aff, aff, aff! Aff, aff, aff!
Aff, aff aff!»
«Praticamente, un mostro…» commenta Cousin Jerry, per l’occasione moralista.
Cousin Jerry si è piazzato in camera mia; piuttosto spaziosa, per la verità, e illuminata nelle ore mattutine dal sole che investe piazza Federico Nietzsche. Abbiamo disposto il suo letto parallelo al mio, addossato al muro opposto, in modo da lasciare uno spazio libero al centro della stanza. Ho vagamente riassettato tutto l’ambiente per non sfigurare con lui, ma entro una settimana il tappeto centrale tornerà invisibile sotto i giornali aperti, le cassette senza custodia, i calzini sporchi e i posacenere più belli di Nizza, che è facile trovare nella mia stanza.
Entrando in camera, vi trovate il letto di Cousin Jerry sulla sinistra, il mio sulla destra, il tappeto in mezzo, e di fronte, proprio davanti alla finestra, illuminato dal raggio divino, il tavolo di studio, con due sedie uguali, e il siamese Pentothal - servito e riverito come ai tempi dei faraoni - raggomitolato nella cesta. Se uno vede la camera adesso pensa di essere tipo in un collegio. O a casa di un ascoltatore degli Style Council. Io no, grazie. Sono ancora troppo legato ai Jam.
Il mio letto è incassato in un armadio pieno di vestiti. I poster ve li potete immaginare da voi, tipiche mitologie a metà tra lo squat londinese e la birreria. Ho incorniciato la prima pagina del Male con Ugo Tognazzi capo delle Br, e dietro alla testa ho un superstereo Inno-Hit che è l’oggetto più costoso di tutta la casa.
Ho aiutato Cousin Jerry a installarsi, ci siamo dati appuntamento per la serata. Aspettiamo che arrivi Raimundo e poi ci mettiamo tranquilli a rollare ganja, mentre si scioglie in bocca la magnitudine del souvenir di Amsterdam, e riposano nel cassetto gli altri francobolli rari che Cousin Jerry ha portato dal paese dei tulipani.
Il Cousin vuole che gli faccia da guida nei baretti facinorosi. Io sono curioso di sapere cosa gli è successo negli ultimi cinque anni.
Sono uscito in vespa senza una meta precisa.
Ho comprato da un tale una sella biposto a pelle di dalmata, così si sta in due, comodi e maragli, sulla mia special verde inglese, brava a schiodare a pieni giri lungo tutte le preferenziali della città sotto gli occhi orzajuoli delle guardie municipali.
Volo lungo il sublime rettilineo dell’avenue Martin Heidegger, le colline laggiù in fondo, solide pendici delle tarchiatissime alpi marittime. Il semaforo resta provvidenzialmente verde: slalom arditissimo tra due ciclisti, che dedico a Marco Lucchinelli, con tutta la simpatia, Ermanno Claypool. Autobus superato sulla sinistra, mentre dall’altra parte se ne arriva una cinquantenne con motoretta gialla. La classica cinquantenne con motoretta gialla. Foulard in testa, belle calze di plexiglas color carne, il culone sfondo poggiato sulla punta della sella.
Potrebbe essere l’amante del macellaio rionale. Non ha studiato, ma a volte il buon senso vale più della cultura, dicono. Io non saprei, personalmente guardo i film di Tognazzi, quando si degnano di passarli alle tele. E quando la vedo, questa classica amante del macellaio piena di esperienze minimaliste e buon senso, m’immagino già crash frontali molto coreografici, schianto secco di lamiere, ruote che mordono l’aria, gran legnata, e il vostro affezionato se ne vola attraverso lo spazio urbano, digrignante Nembo Kid. La cinquantenne gorgoglia le ultime parole, che tutti dimenticano in fretta, e perde definitivamente conoscenza, sdraiata sull’asfalto, povera donna, il collo spezzato. Peccato. Davvero. A me andrebbe, ovviamente, molto meglio. In virtù della forte tempra me la cavo con un giorno di ospedale e qualche medicazione molto virile tipo al braccio, mica il collare o altre apparecchiature poco dignitose: potrei addirittura chiedere i miliardi all’assicurazione perché con il braccio rotto non riesco più a pugnalarmi come si deve quando leggo Zora.
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Ufficio d’igiene a destra: l’estate scorsa ci sono stato tre giorni di fila a inghiottire la pillola antitifica davanti all’infermiera, annoiatissima. Così sono riuscito a diventare un pidocchioso vicebarman stagionale a Saint-Tropez, il mio primo e sicuramente ultimo lavoro serio. Serio, poi. Diciamo il primo e unico lavoro di cui mia madre potrebbe vantarsi in una fantomatica conversazione con le amiche. Mamma è infatti legata a vecchi cliché e si ostina a non considerarmi un giovane imprenditore quale sono. Penso che risponda «studente universitario», nel caso qualcuno le chieda cosa combina il giovane Ermanno. Per chi ci crede, io sono iscritto a filosofia.
Il negozio di dischi Barclay a sinistra, i gufi della polizia municipale di guardia sul buon svolgimento del passeggio, i marinai in libera uscita strafatti d’aqua velva, una quantità di persone che soffocano alla fermata degli autobus. Rallento, scalo in terza, scalo in seconda, affronto un poco su di giri il micidiale attraversamento alla fine dell’avenue Martin Heidegger. «Passo o non passo?» mi chiedo. «Passo o non passo? Passo o non passo? Passo!»
dico; spavento le signore oneste che camminano sulle zebre pedonali.
La vespetta verde, un po’ amareggiata, ritrova le sue motivazioni infilandosi su per il budello di pavé, il vecchio mercato degli ortaggi resta indietro, i pietroni sconnessi affondano al centro della via, c’è della ghiaia pericolosa all’altezza del negozio d’abbigliamento Delirium. La banca, Budda gigantesco, se ne sta li seduta con tutti i soldi dentro la pancia, il semaforo è arancione, l’autobus svolta lento sulla destra. Faccio urlare il motore, quando la stradina medioevale comincia a pendere in leggera discesa. Riesco a vedermi solo in parte, nello specchietto, ma mi pare di essere olfattivamente magnifico, la fred perry blu portata a pelo su tutti i miei odori giovanili, e poi il maglione bianco alla naftalina, i pantaloni di velluto impregnati con l’odore del bar alle undici di mattina, il cranio pieno di fumo bianco, denso, profumato di tranquillità:
“Che eleganza disperata, da superstite», mi dico, mentre il vento mi piove in faccia da tutti i lati. L’umore segue i giri della ventola, e la condensa di inquietudine si disperde coi chilometri, messa in fuga dal pensiero del joint solitario che potrò fumare in qualche spiazzo dei colli, imminente, irreperibile a me stesso e agli altri.
Il sole si schianta sulla strada, seminascosto dietro la cattedrale di santa Recuperata. Poi, c’è il vecchio liceo, vecchio liceo… Come farai senza di me, e Raimundo, e Dietrich, noi della leggendaria classe ‘62: più nessuno a fumare furtivamente vermicelli di nero pakistano nei bagni; più nessuno a camminare pistolero per i corridoi. E poi volo col magone oltre la discoteca giovanile Bonsoir les liberteens, ultimo e definitivo monumento cittadino prima di arrampicare con decisione per i colli nizzardi, via dalla battaglia di furiose perfezioni del centro.
Innesto la terza, salgo né veloce né lento, traversato dall’aria. Perché un poco la amo, alla fine, questa fica fredda di città.
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Ventisette settembre, 1983. Sera.
Raimundo non torna ancora in città, ché preferisce attendere i frutti di un’importante trattativa d’erba e hashish organizzata con uno zigano in quel di Barcellona. Questo almeno è ciò che annuncia, in codice, al telefono.
«Bene-bene», dice Ermanno. «Ti aspettiamo nei prossimi giorni.»
Un’ora dopo la telefonata di Raimundo, i cartoni vuoti delle pizze non significano più niente, e così le posate sporche, i portacenere debordanti di filtri e striscioline di carta di riso e meravigliose 1OO’s sventrate. Quasi tutto perde senso e anche l’intero appartamento di piazza Federico Nietzsche si fa curiosamente incongruo. Accompagnato dalle suite isteriche dei Devo - il miglior gruppo di sempre proveniente da Akron, Ohio - inizia lo show definitivo dell’ego in giostra.
Ci sono cose, in quei due cervelli cugini, che esplodono come minuscoli soli. Per accelerazione e compressione.
A un certo punto puoi cominciare a dubitare che la superficie dei muri sia così liscia, e di colore uniforme. Lo vedi come si sbalzano le pennellate, adesso. Ermanno glielo aveva detto, a Dietrich: «Se non sei capace di tinteggiare i muri, non c’è problema. Faccio da solo», e ora che il disastro è così evidente non si sa bene come comportarsi.
A un certo punto l’orologio sveglia comincia a perdere colpi, salta determinati orari e si sofferma, in modo insensato e a lungo, sulle ventitré e trentuno.
Poi, c’è il fumo che sale dalla meravigliosa, denso di buona volontà, fino al soffitto. Riesce a toccarlo, volitivo com’è. E subito espande. In acqua. In macchia magica di umidità. Prende a stillare, lacrimare. Le gocce che filtrano dalla macchia di umidità ricadono frenate e intelligenti sulle mani, sulla testa di Ermanno, sulla musica dei Devo che stagna come un gas pesante sul pavimento.
A un certo punto, la lampada a soffitto inizia a sfrigolare. Devi allontanarti se non vuoi che i lampi solidi di luce ti feriscano gli occhi. Il bulbo di vetro ardente ammorbidisce, fonde, si stacca dal lampadario come panna dal cono. E adesso puoi tenere gli occhi molto aperti finché ti pare: sei completamente solo nel cuore più silenzioso dell’universo.
All’interno della scatola cranica di Ermanno c’è solo un prato all’inglese e Johnson Righeira che salta di gioia. La colonna di fumo alle sue spalle ha la sagoma definitiva del fungo di Nagasaki. johnson Righeira corre sul prato nella luce tenue delle sei di pomeriggio. Le superpotenze hanno esagerato ancora una volta, con le anfetamine. Qualcuno, alla fine, si è fatto prendere la mano e ha premuto il più celebre dei bottoni. Qualche burocrate di una delle due tribù. O un adolescente appassionato di war games. Be’, oramai nessuno verrà più a tirargli le orecchie. O forse sono stati i tirapiedi di Khomeini. O, più probabile, quei gran matti dei cinesi. Nostradamus è sempre stato fin troppo chiaro sul ruolo dei cinesi in rapporto alla fine del mondo. Tutti lì a dire: «Va là, impossibile, sono un miliardo di simpatici cinesi, buoni come il pane, dormono m sessanta in una stanza, ma dimmi tu, non l’hai letto quando era il momento Cion cion blu del signor Carpi? Passano la vita a fabbricare ghiacciuoli all’arancio, pensa». Ma adesso che il bottone è stato premuto, dovranno pur rendersi conto.
Ermanno l’aveva detto più di una volta, al bar: «Regiz, impariamo a diffidare dei cinesi».
Fatto sta che Ermanno si sente a disagio. «Jerry», dice al Cousin, che oramai è inchiodato al divano da tagliole invisibili e non può far altro che gonfiare le vene del collo e digrignare i 12
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denti, impegnato in una lotta muta. «Jerry», dice. «I gialli l’hanno fatta grossa.» Dice Jerry soffiando disperatamente: «Jerry, Jerry, aiutami. Jerry, non ce la faccio da solo. Jerry, mi si ferma il cuore».
Ermanno osserva lucidamente che il cugino sparge saliva all’intorno. Wow. Cousin Jerry sta flippando.
(Chi è quello sul divano? Chi? Il mio parente? Quale parente? Jerry. Cousin Jerry. Quello coi capelli a spinacio che smandibola sul divano… Strano, non è il solito… No, tu dici Raimundo, ma è in Ispagna… Torna domani… Questo è un altro personaggio… Altra categoria… È tornato in città oggi pomeriggio, il gran cugino… Ha l’aria di sapere il fatto suo… Perché usi espressioni così antiquate? Perché non ti fai i cazzoni tuoi, invece? Ma con chi parli? Io? Da solo, perché? E tu? Ah, da solo anch’io… Perfetto, no? I conti tornano, no? Tempo cinque sei ore e tutto si stabilizza come prima, no? Certo. Cos’è, hai paura di non riuscire più a scendere? Be’, in un certo senso è normale. Te la ricordi la prima volta? Sì, ma non mi va di parlarne adesso… Altre urgenze… I cinesi hanno sfondato la Maginot e puntano su Parigi senza incontrare la minima resistenza…)
Ermanno si tocca il petto nudo, la pelle frizzante di sudore, allunga la mano sui pantaloni lerci di velluto e padelle d’unto, ché non capisce più se li indossa o invece è nudo comé un verme nel fango. Si alza, succhia dal sigarato che gli passa Cousin Jerry, trema sulle gambe e non saprebbe dire neanche se fuma erba o hashish o tobacco muratti come nei film di Pozzetto.
Avanza alla finestra, si accascia sul davanzale alla ricerca di aria respirabile.
Nella notte le macchine scivolano sull’asfalto, perfette come veicoli playmobil. L’utilitaria piemontese è comodosa. L’utilitaria piemontese è sciccosa. L’utilitaria piemontese è costruita secondo criteri razionali.
(Aiuto. Chiedo ufficialmente aiuto. Mi inseguono tra i cespugli su auto comodose, mi braccano su auto sciccose. Non ce la posso fare da solo, su questa vespetta da settantacinque centimetri cubici. Meglio restare nascosti in casa con Cousin Jerry, ché pare personaggio piuttosto rassicurante e uso a queste deformazioni mostruose.) Arrivano gli amici pordenonesi del great complotto e alcuni altri personaggi scomodi, forse Alberto Camerini, forse la stessa Donatella Rettore. Sempre che si trovi un accordo con l’ufficio stampa, col management degli eroi anni ottanta. Diranno parole argute, sapranno spiegare la situazione, ma è chiaro che un solo uomo può farci uscire a testa alta da questo cul-de-sac, e il suo nome è sempre quello: Supertognazzi. Supertognazzi, sfolgorante d’italico savoir-faire. Recente protagonista de Il petomane. Splendido. Anche se la Melato non è esattamente Nastassia Kinski. Visto al cinema con Dietrich e due sbarbe così emancipate, ma così emancipate che le abbiamo abbandonate senza accompagnarle a casa, facili prede nella notte. Che capiscano lo spirito del commercio, caso mai, invece emanciparsi tanto.
E Supertognazzi che ci vuole, forse in cambio di Gil De Ponti più miliardi se ne può parlare, sempre che non siano più interessati a Francone Colomba. Una sottoscrizione popolare, ecco come rastrellare la somma necessaria. Una violenta campagna clandestina in chiave anticinese potrebbe preparare il terreno all’iniziativa.
Supertognazzi contro i cinesi.
Potrebbe essere lo slogan che esalta una volta per tutte la bottegaja popolazione di Nizza, potrebbe essere il ritornello che convince i professionisti democratici a mettere finalmente mano al portafoglio. Speriamo che tutto fili per il verso giusto, stavolta.
Cousin Jerry sente esplodere le mine di profondità attorno, è investito dalle schegge, giura a sant’Anna che se salverà la vita anche questa volta dedicherà l’intera esistenza a santificare il 13
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nome del vecchio Dio. Diverrà luterano. Lu-te-ra-no. Rigore, ci vuole, Max Weber e le fondazioni svizzere ne sanno qualcosa, basta con questo disordine un passo avanti e due indietro, speriamo che non trovino il doppio fondo, oh, no, è di nuovo l’alba, gli amori d stazione, non guardare mai gli agenti quando ti passano di fianco, mezz’ora di scavo ed è tutto sotto terra, in Marocco ti arrivano da dietro nell’ora d’aria, ti puntano la lama alla gola e dicono in francese allora me lo dai il culo adesso, oppure no? Basta. Basta, veramente.
Ermanno barcolla fino alla tazza del cesso con la fermissima intenzione di vomitare, anche come misura autopunitiva. Il solito specchio sembra mandare una luce violacea, il corpo della donna ignuda Lory Del Santo pare sciogliersi sotto il sole, colare giù oltre margini del poster.
Ermanno spruzza uno sputo catarroso di bile e gin tonic: «Non sono molto in forma», puntualizza quell’ego oramai frantumato in una stupefacente nidiata di gemelli.
Altra bile, che scroscia su una porzione di ceramica ancora pulita.
Ermanno si alza, poggia la fronte al muro, stringe con mano sudata la catenella dello scarico, gode della brezza che entra dalla finestra aperta. Nizza di notte, la piazzetta con il Federico Nietzsche bronzeo, i pipistrelli che giocano agli inseguimenti intorno ai lampioni e tra gli alberi. Poi, il cesso monta rapido verso la faccia di Ermanno, la catena sfugge di mano e schizza via come il palloncino di un bambino distratto, o forse, sono solo le gambe che cedono. Il panorama scatta in alto, insieme alla finestra. Adesso lo vedi da molto vicino quanta polvere c’è sugli elementi del termosifone, e, Dio santo, quello che goccia sulla mano è sangue.
«Jèèèrry!…» stridula Ermanno, per cercare soccorso nel Cousin, in altri mondi volteggiante.
Sviene, accasciato sulla ciambella del cesso, ed è su quel mezzo cadavere sanguinolento che Cousin Jerry prende a pisciare nel delirio dell’alba, il cervelletto folgorato dall’acido.
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La dolcezza che sentivo per Colombina.
La dolcezza che sentivo per Colombina era un amore sciocco. Lo sapevo da sempre che non avrebbe mai avuto vera confidenza nel vostro affezionato, rigoglio tropicale di devianze e pensiero negativo. Era furbetta e sedicenne, guardava dilato quando c’era qualche situazione che preferiva non fissare frontalmente, aveva seni piccoli e polpacci che avrei mangiato volentieri per mercnda. Si è fatta sverginare sotto ferragosto, uno o due anni fa, da un biondino senza argomenti. Ambedue in vacanza con la famiglia, tanto per dire lo sballo. La primavera scorsa, quando le situazioni erano più leggibili e aveva ancora senso ricordare i nomi delle ragazze, facevamo lunghe passeggiate in centro. Parlavamo di amici traditori e amiche traditrici, l’ultimo album di Siouxsie, le nuove marche di merendine, come ridipingere il vespone centoventicinque su cui lei arrivava ai nostri appuntamenti, il casco legato in rnezzo alle gambe. Non sono tante le ragazze che guidano il vespone centoventicinque, se ci pensate.
Erano quei giorni di primavera in cui l’aria spinge ai baci e il colore della città si fa rosa e giallo mentre il sole temporeggia volentieri sui tetti fino a tardi. Erano quei giorni dell’anno in cui le emozioni Si fissano meglio nel ricordo e si é come il siamese Pentothal, senza pace, in corsa da un posto all’altro, ansiosi di vedere e di fare, sicuri che nessun autunno toglierà più determinate voglie profondissime.
Con Colombina, il cui profilo mi ricordava una ragazza di Bruxelles conosciuta in campeggio qualche anno prima, bevevamo martini e cola sulla terrazza di un caffè, e avrei voluto essere meno nervoso, dirle dolcezze solo pensate, aspettarla sotto casa mentre rientrava da scuola o dalla piscina, invitarla a qualche concerto. Poi si è fidanzata con un pallavolista adulto, un ricco in risorse economiche e inflessioni dialettali: non sono più stato capace. In quel periodo, d’altronde, iniziavo a perdermi in altre storie ispirate direttamente a Jim Carroll e altri grandi appassionati di pallacanestro. Però Colombina la sogno ancora. Quel profumo di primavera e il ricordo delle nostre passeggiate, il suo camminarmi di fianco, le spalle liscissime sotto le bretelle sottili del vestito, mi tengono felice mentre dormo.
Ci stavo spesso, quand’ero piccolo, da nonna, e tutto mi sembrava solido e pensato apposta per proteggermi. Non avevo paura della casa grandissima, pensavo il labirinto di stanze come ottimi nascondigli in cui sfuggire a eventuali invasioni, mentre gli altri cuginetti Claypool, frequentatori più saltuari, li temevano come tana di malfattori. La terrazza sporgeva su un intrico di orti cittadini, e la ringhiera di ferro arrugginiva da molti anni prima che io avessi consapevolezza. In terrazza resisteva agli inverni il mio Fort Alamo di compensato e cartone.
Le quattro scatole impacchettate con gli elastici, che ancora annusavano di cuoio e calzoleria, erano rigorosamente destinate a nordisti, sudisti, indiani e cavbòj. La cuginetta amava i cavbòj, specie un determinato mandriano con cappello a bombetta e gambali in cuoio, dotato di stella sceriffa e due colt spianate, una per mano. Le bordate d’artiglieria degli assedianti erano colpi di cerbottana e mattoncini lego catapultati con il cucchiaio a scompaginare le difese dei mandriani. I miei sudisti conquistavano rapidamente il forte, issavo la gloriosa bandiera ribelle e passavo a giustiziare i prigionieri baffuti. Il mustacchio spiovente, infatti, era l’unico indice di un ruolo dirigenziale nell’esercito cavbòj. Quei punk ante litteram non ci avevano uno straccio di divisa. Se le sognavano, le casacche grige e i cappelli con la visiera, quei butteri! A volte consolavo in modo sommario la cugina piangente, raccontavo qualche facezia per distrarla, o la incoraggiavo a comportarsi da vero uomo, trattenere almeno i singhiozzi. Solitamente il generale sudista saliva sulla torretta di avvistamento e pronunciava alcune parole alle truppe in quad rate sul piazzale: «Figlioli, sono davvero fiero di voi», per esempio, era un classico incipit. Oppure, il generale prometteva alla soldataglia una bottiglia di vodka e un mare di gloria.
I cavbòj senza baffi potevano arruolarsi sottoponendosi a un tirocinio da miliziano sudista, oppure venivano abbandonati fuori dal forte, rapida preda di coioti e altre creature notturne. Mentre ad Alamo si procedeva ad assegnare i dormitori, lucidare i winchester, curare i feriti, razionare l’acqua e la carne secca (che immaginavo appetitosissima, e mai nella vita reale, nemmeno a quindici anni di distanza, ho gustato qualcosa di così saporito), noi si andava a merenda coi biscotti atene doria e il tè freddo. La cugina continuava a gocciolare lacrime inestinguibili per le torture, generalmente d’ispirazione mitologica, subite dal suo beniamino. Lo sceriffo, al solito, moriva squartato da due cavalli eguali e contrari come quelli che fanno la réclame ai pantaloni di mister lévi-strauss. Altre volte, allo sceriffo si ponevano quesiti insolubili. Di fronte al suo silenzio, tra le risate sudiste e gli strilli cugineschi, si procedeva a tagliare prima un piede, poi il naso, e via così; a tagliare il tagliabile fino al dissanguamento.
Talora nonna, con mano tipicamente campagnola, calava una cinquina sulle mie guance colpevoli, mentre piccoli premi venivano disposti ad allettare la cugina, inconsolabile come le vedove di certi eroi del passato.
Allora il cielo si ribaltava, la garrota della mortificazione chiudeva la gola. Se nonna fosse stata veramente buona, non avrebbe dovuto sgridarmi. Anzi. Avevamo combattuto ad armi pari, e non era certo colpa mia se i disorganizzati cavbòj avevano lasciato sguarnita l’entrata delle stalle. Non era certo colpa mia, se il vecchio Buck, sergente a vita nonostante i mille eroismi, aveva colto l’attimo per guidare la carica, prendere i cavbòj alle spalle mentre li tenevo occupati con l’artiglieria sul lato nord del forte. E che cazzo. Un premio, meritavo, una 15
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medaglia, altroché cinquina sulle guance! D’altronde, se i sudisti avessero vinto e la cugina non si fosse data a quello spettacolo deamicisiano, nessuno avrebbe sfiorato le mie guance di marzapane. La morale era che nonna mi puniva pubblicamente per compensare le lacrime della maldida assediata di Fort Alamo.
Io rimuginavo, la guancia paonazza. Davo fondo agli atene doria, validi, in altri contesti, anche per la gag del binocolo in virtù degli oblò allineati sul biscotto. La cugina, di avarizia dickensiana, stava ancora impegnando i dentini sulla filettatura in pasta frolla del primo atene, con l’aria compresa di chi ha finalmente avuto giustizia da questo stato assente.
Nonna, di spalle, procedeva a qualche mansione domestica tipo affettare vitello per l’arrosto. Il vostro affezionato, dopo aver controllato l’aderenza delle scarpe ginniche sul pavimento del tinello, si alzava delicatamente in piedi. Quando la cuginastra notava lo sguardo disfatto alla Carlo Pisacane tramutarsi nella ritornante ghigna sudista, oramai era troppo tardi. Appena il tempo per un gridolino di passerotto, forse un istante in cui nonna poteva accorgersi di qualcosa, ma il leggendario diretto del sergente Buck, celebrato in tutti i saloon dell’àidao, era già arrivato a destinazione, giusto sul grazioso nasino cavbòj.
Mentre la casa esplodeva in nuovi pianti, il vostro affezionato, equipaggiato soldini o canguro o tepa o lotto o su-perga o valsport, si dava a fuga precipitosa nel groviglio di corridoi inseguito da un anziana ma ancora scattante nonna armata di batticarne o trinciapolli, e, per l’occasione, prodiga di minacce vernacolari. L’intero inseguimento avveniva, più per il batticuore a martello che per calcolo atletico, in apnea. Ogni spigolo era valutato in anticipo, ogni porta sbattuta alle spalle per rallentare la vendicatrice pensionata. Spalancare l’uscio di casa, tuffarsi nella luce storta della tromba delle scale, era la salvezza definitiva.
Sbatteva con fragore vittorioso, l’ultimo portone, già puntato da nonna, che con falcate bersagliere volava attraverso la casa ma si dimostrava meno rapida nelle curve. Poi, rinfrancati e in esilio almeno fino a ora di cena, si scendeva nell’Amazzonia degli orti, dove viveva, maliziosa e felice in mezzo alla verzura, la tribù pagana degli amichetti del cortile.
Nizza, la nostra piccola patria, era una città della Francia meridionale, capoluogo del dipartimento delle alpi marittime.
Sorgeva sul mar mediterraneo ed era, in quegli anni, il maggior centro ferroviario di transito del paese. Le guide turistiche dicevano che alture e colline disposte ad anfiteatro l’avrebbero sempre protetta dal rigore alpino della tramontana. La città si estendeva su una piana alluvionale, si affacciava su un golfo luminoso detto la baia degli angeli.
Martina Cerbiatta era stupida e bellissima, come figlia di industriale e fotomodella. Martina Cerbiatta, nonostante tutto, mi amava. Potrei dire di come ha attraversato la mia vita, di quei baci lunghissimi e liquidi, di come fremeva quando sentiva il cazzo premerle contro gli slip, nel bagno delle femmine di Bonsoir les liberteens. Potrei dire di come fosse facile piacerle, delle frasi che la facevano cadere innamorata e che per me spuntavano ovvie. Potrei dire dell’urgenza con cui ci siamo cercati, e, prima lei poi io, siamo rimasti nascosti per non farci scovare. Potrei dire del reticolo di apparenze facili in cui lei era immobilizzata, della sua voglia sincera di essere altrove, potrei dire di come la sua compiuta bellezza la condannasse sempre a situazioni disponibili e subito false. Potrei dire di come Martina Cerbiatta avesse una sensibilità particolare che ho trovato solo in ragazze così inequivocabilmente belle. Soffriva di essere sempre e comunque desiderata, sapeva bene che nessuno le avrebbe chiesto mai niente che non fosse la versione disinibita di se stessa. Ma era una sensibilità che si vedeva sfocata e di rado. In lei, come in tutte le femmine-cerbiatto, non c’era nessuna levità e scorrevolezza d’essere. Potrei dire di come, quando ho capito come stavano le cose, sono fuggito a gambe levate. Le ho urlato sulla faccia offesa: «Non ti sopporto più, mi hai rotto i coglioni, mi fanno pietà le tue paranoie e io non ne voglio un cazzo!» Gli unici cambiamenti possibili per Martina Cerbiatta potevano essere ingrassare o restare pregna. In ogni caso, le sue coscine di panna finivano per esiliarla dalla nostra vita sulla terra, e l’imbecille meravigliosa soffriva testardamente la sua pena.
Una volta, ero un diciassettenne governato da un ego abbastanza intatto, non spappolato. Una volta, in compagnia del mio ego ancora intatto, leggevo Nietzsche e Stirner guidato da qualcosa di teutonico e soprannaturale.
Mi accontentavo della mia buona fama, poiché ero un frequentatore di baretti violenti e un orgoglioso outsider-faina degli ultras modernisti, una ghenga in parka verde, sciarpe della Dynamo Nizza e distintivi della lambretta.
Dietro al nostro striscione e alle nostre bandiere eravamo una trentina di ragazzi nervosi d’anfetamina, chiusi tra la massa della Vecchia Guardia Dynamo, proletari senza un nome e straordinari solo nel numero, e un altro gruppetto esclusivo, i Boneheads, una squadraccia di teste rasate che non mancava una trasferta. Noi modernisti eravamo studenti interessati alla ricontestualizzazione dello stile edoardiano; i Boneheads, nazisti nel cuore e per professione boscaiuoli, fabbri e garzoni di stalla. Si finiva spesso per scambiarsi complimenti a bottigliate in rue Bastogne o rue de la Somme e le altre stradine buie dove le famiglie parcheggiavano l’auto per venire allo stadio.
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Io non dimentico l’emozione delle cariche dei questurini, l’ardore dei fumogeni piovuti contro le gradinate, la folla che urla e si disperde. Ricordo il momento d’estasi in cui si alzava la sciarpa a camuffare il volto e si correva in quattro o cinque verso i poliziotti rimasti isolati a manganellare, i calci nella mischia, la faccia di animale intrappolato del signor agente mentre il casco vola via sui gradini di cemento, i diretti del sergente Buck sganciati per far male sul serio, le lische a serramanico nascoste negli anfibi o nelle mutande, i segni neri delle manganellate sulle nostre giacche costose da modernisti, i ripiegamenti, le nuove cariche, le urla di guerra degli skinheads capicurva, l’odore lacrimogeno degli scontri, la ricaduta precipitosa nell’inferno amico degli ultras, gli inseguimenti, i cori macabri, le sassaiole, il desiderio montante di annullare qualcuno. Le aggressioni e le sprangate mi parevano un’allegoria perfetta della vita, che all’epoca immaginavo dovesse manifestarsi per strappi e cadute da cui risorgere.
Di aspetto prevalentemente moderno, Nizza doveva il suo sviluppo al movimento turistico che vi confluiva da quasi duecento anni e aveva fatto della nostra piccola patria una delle più note località di soggiorno europee.
L’incremento demografico presentava caratteristiche sofisticate, poiché noi avevamo acquisito il più alto tasso d’invecchiamento e mortalità dell’intera costa, per via dei numerosi pensionati, mentre la presenza dei complessi industriali a tecnologia avanzata e di istituzioni culturali aveva determinato una fulgida presenza giovanile.
Una ragazza abbastanza ignorante che conoscevo, certa di non avere nulla d’interessante da dire con la bocca svelta che si ritrovava, parlava solo con frasi sentite nei film o nelle conversazioni altrui. Io l’avevo incontrata molto simile a Patti Smith da giovane, una festina a casa di uno sconosciuto. Avevamo tirato insieme due righe di monnezza mediocre, parlato dei fantastici quattro e di Berlino. La ragazza abbastanza ignorante ripeteva quel che aveva sentito dire in giro dei fantastici quattro, recitava a pappagallo il resoconto fatto da una sua amica a proposito di una vacanza berlinese. Portava sempre pantaloni a righe colorate. Un giorno, senza nessun motivo particolare, eravamo finiti, noi due soli, in gita a Pisa. Una luce torbida avvolgeva la piazza con la torre, sul prato fiorivano i nostri joint assassini. La sera, in pensione, ho montato la ragazza abbastanza ignorante, sdivanato dal vino rosso. Non voleva farmi venire dentro perché non prendeva la pillola. Poi, ricordo anche quella sborrata senza senso sulle lenzuola pisane. Ricordo il mio signor amico sfigurato dalla candida albicans, sorprendente souvenir della gita a Pisa in compagnia della ragazza abbastanza ignorante.
Quand’eri a casa da solo e Raimundo ti lasciava libero il campo, potevi fare un po’ di cose assolutamente ragguardevoli: potevi ascoltare i dischi violenti di Radio Città, passarti il guanto di crine sulla schiena facendo la doccia, fumare una meravigliosa, alzarti a prendere un bicchiere d’acqua fredda.
Se eri triste, te ne stavi affossato nel divano a rimuginare. Se eri allegro, spingevi l’Inno-Hit a manetta per disturbare il signore del piano inferiore con il disco All mod cons. Quand’eri stanco, potevi infilarti nel letto, tenere accesa la lampadina della abat-jour e leggere, ad esempio, le scritture dettate al signor Burgess dall’oppio in persona O le liriche di autori morti giovani come Praga and his fabulous scapigliati. O le liriche di autori morti incazzati tipo i Zang tumb tumb experience. Era tutto piuttosto semplice, se stavi’ a casa da solo; erano serie di gesti che conoscevi da tanti anni.
Quando volevi addormentarti, appoggiavi il libro sulla testiera del letto o sul pavimento, staccavi il telefono, spegnevi la luce e se ti veniva l’ispirazione potevi dedicarti a una sega filibustiera, fatta con calma, senza pugnalarti a morte. Tutto sommato, non era molto divertente, anche perché la tua zucca piena di pensieri, a stare in casa da sola, si faceva venire le sue ansie, ricordi? le sue angosce. Allora potevi scrivere lunghe lettere alle tue amanti dolci, o alle ragazze che avrebbero potuto diventarlo. Erano lettere scritte su carta sofisticata, piene di piccoli disegni e parole, scritte in quiete domestica bevendo latte nella tazza con la faccia di Goofy, calzettoni pesanti ai piedi e cartine rizla dispiegate sul tavolo, ansiose di arrotolarsi intorno a un’erba mobile ed elegante come la cannabis sativa. Lettere per rapire, chiaro, prendere chi avresti voluto avere vicino, sottrarla alle lezioni di estetica o al tè pomeridiano con le amiche querule. Erano lettere che somigliavano a baci vuoti, e si spedivano come la posta per Santa Claus, con gran cura formale e senza una vera speranza di ricevere risposta.
Se con te c’era Raimundo, invece, parlavate di donne e calcio e droghe fino a quando non eravate stanchissimi, cullavate un poco il siamese Pentothal reduce da una giornata di tafferugli e spesso fumavate olio d’hashish. Poi, andavate a letto integralmente vestiti. La mattina dopo riprendevate conoscenza con quella certa simmetria tipica delle coppie celebri: Tom & Jerry, Rotten e Sid Vicious, Tognazzi e Vianello. Raimundo, stonato senza speranze di ripresa, squassato da colpi di tosse, giaceva in braghe, maglione e stivali, a bordo del lettino da nostromo. Il vostro affezionato, d’altro canto, si trovava stonato perso e squassato da altrettanti colpi di tosse, ribaltato sul letto che era stato della madre, perfettamente vestito con tanto di scarpe, smanioso di iniziare una nuova giornata lavorativa. La doccia restava un ricordo d’infanzia, e un invincibile campo magnetico trascinava i vostri corpi boccheggianti verso il bar.
Quando venivano a trovarvi Dietrich e gli altri, la casa prendeva subito vita, i fantasmi di quand’eri solo si disperdevano. Quella era la casa dove fino a due anni prima avevi vissuto con mamma. Ogni tanto pensavi a come sarebbe stata la tua vita se avessi avuto una vera famiglia, invece di una madre ex bella, incline al 17
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piagnisteo e un padre pigro di testa e ben vestito. Pensavi, anche, quanto di loro ti portavi dentro come radiazioni atomiche assorbite durante il concepimento, e saresti corso a lavarti mille volte, se solo ci fosse stato un sapone specifico nel tuo appartamento disorganizzato. Adesso, là dentro i tuoi amici ci si trovavano bene. Forse dipendeva dai poster delle bande musicali appesi ovunque, o dalle foto di amiche morbide con indosso solo camicie molto aperte, da esibizioniste. Ridevano delle nuove spiritosaggini con cui tu e Raimundo arricchivate l’ambiente, ad esempio boccette di vetro in cui si faceva scendere la neve su città famose, ad esempio foto di politici adornate con frasi scherziere che uscivano dalla bocca come fumetti, ad esempio animali giocattolo trafitti da posate, e altre cose ancora. Dietrich, in particolare, aveva abbandonati apposta, là dentro, alcuni oggetti personali, per ricordare che era un luogo accogliente in cui lui tornava volentieri: uno spazzolino da denti omaggio del dentifricio paperino’s, un set di sferette cinesi per quando si è stressati, una scacchiera da back-gammon con scritte sopra frasi inneggianti a varie sostanze stupefacenti, un disco degli Einstuerzende Neubauten, un vinile raro degli Anti Pasti e uno purtroppo molto rovinato dei Daf, che saltava sempre su Der Mussolini.
Talvolta organizzavate bische e festicciole in cui nessuno invitava la ragazza con cui era momentaneamente fidanzato. Chiamavate invece gente che conoscevate poco, specie cerbiattine adolescenti e desiderose di farsi succedere le casualità della vita. Chi portava gli spaghetti e il sugo, chi altre attrazioni. Di solito il momento migliore era quando si bevevano le mezze dozzine di aperitivi a testa. Poi, iniziavate a puntare le femmine eccitate dall’alcool mentre la coppia del caso si appartava in angolo cottura a preparare, dicevano, i dadini di speck per la carbonara.
A casa, in definitiva, preferivi restare il meno possibile, e solo la desideravi davvero quando nella bruma dell’al-ba tornavi sconvolto e all’improvviso ti sembrava di aver perduto le chiavi. Dovevi frugarti, ispezionare le tasche secondarie. Pregavi di trovarle, le kazzo di chiavi, per salire a farti un tè buonissimo, lavarti prima di cappottare sul letto. Desideravi come nient’altro rientrare sano e salvo a casa tua.
La Confusa. La sua piccola lingua rosa, come di gatta, induriva i miei capezzoli, la sua mano consapevole scivolava agile sotto le mutande, fino alla luogotenenza dell’impero. Scopavo la Confusa senza pensare a niente, lei incrociava le caviglie dietro la mia schiena e godevamo, e godevamo, e godevamo, sotto il poster di Taxi driver che le avevo regalato, attenti che la madre non rientrasse all’improvviso dal corso di origami. La Confusa e il vostro avevano progetti grossi. Non si capisce bene perché, a dire il vero. Si pensava di sposarci tra noi, alle volte. Troppo fricchettone per essere realistico. Dopo il quarto anno di scuola siamo stati in vacanza insieme, un mese in Grecia che ricordo con angoscia narcolettica. La malinconia mi risucchiava in mezzo a quelle isole, al paesaggio ordinato di mare e cielo. Pensavo agli amici rimasti in città, a chi era andato via in moto. E i futuri sposi si bevevano vini fortissimi, mangiavano cibi locali avvolti in foglie di vite grondanti olio. Riavvolgevano la tenda e traghettavano in un’altra isola minuscola piena di asini e tossici nordeuropei, chiusa tra cielo e mare.
Altre foglie grondanti, altri vini. Pensavo a uccidere la Confusa nel sonno, annegarla, sfondarle il cranio con una pietrata mentre dormiva sulla spiaggia per assorbire tutto il sole disponibile. A settembre l’ho lasciata. Mi ha scritto lettere disturbatissime, io più che altro ascoltavo i Damned, mi benzinavo di birre medie e non avevo nessuna voglia di risponderle. Alla festa della maturità lei ha scopato il fratello minorenne della padrona di casa.
Ricordo Raimundo che arriva tutto confidenziale a darmi la notizia, e io che entro nella camera dei genitori e c’è la Confusa con questo inutile zoppetto che glielo mette da dietro in modo fiacco. La Confusa ci vede e, sempre a pecora, comincia a piangere. Io e Raimundo invece ridiamo, torniamo indietro nei rumori della festa.
Come già ricordato, la città di Nizza svolgeva, sulla scia di una tradizione più che rinomata, importanti funzioni culturali attraverso l’università, fondata nella notte dei tempi medioevali, che poteva contare su un notevole squasso di studenti distribuiti in più facoltà, il centro universitario mediterraneo, il famigerato Dams di Nizza, il centro nazionale d’arte drammatica, il conservatorio col suo carico onirico di solfeggiatrici adolescenti, gonne scozzesi e calzette di lana pelosa. Si lasciavano infilare in fica e in culo con la pipa da ganja, e non capivi mai se stessero godendo veramente o cosa.
Va bene. Bienvenidos nella piccola patria.
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Ventotto settembre, 1983.
Il piazzale della stazione centrale di Nizza, la notte fra il ventotto e il ventinove settembre millenovecentoottantatre, sotto una pioggerella rada e quasi inoffensiva. Un ventenne curiosamente somigliante all’attor giovane Matt Dillon, con in sovrappiù un aria pericolosa da calciatore sudamericano (Mario Kempes, Lizardo Garrido, Jaime Duarte), dirige verso i pochi taxi in attesa, carico di un borsone da marinaio. Schiva senza uno sguardo che sia pietà o schifo o altro, un adolescente collassato sotto gli orari delle partenze. Non cerca neanche l’orologio gigante dell’hotel giusto in faccia alla stazione. Non si preoccupa se la pioggia tiepida incolla i capelli, gli infradicia la giacchetta londinese.
Non fa altro che camminare nei suoi stivali di coccodrillo verso i tassisti rifugiati sotto la tettoia dell’atrio arrivi.
Contratta con il meno allegro dei rifugiati, poi lancia il borsone con troppo entusiasmo nel bagagliaio del vecchio mercedes, vince lo sguardo storto dell’autista, un calvo burroso presumibilmente esperto di appartamenti ospitali e tavoli da poker notturni.
Mentre il parabrezza del mercedes riflette e distorce le insegne dei grandi alberghi, certi portici nizzardi ap-paiono popolosi di giovani nottambuli, ciascuno intento a offrire o procurarsi qualche servigio poco adatto alle luci del giorno. Il ragazzo, che si chiama Raimundo Blanco, non è altri che il fedele compagno d’appartamento di Ermanno e sta tornando solitario da una losca vacanza in Ispagna. Trasporta nel borsone quattro bolle di hashish turco da due etti e mezzo più un notevole set di bustine del risiko gonfie di ganja frizzante. Riconosce qualche faccia tra i questuanti stravolti che implorano un quartino di monnezza o insistono per qualche grammo di bai venezuelana.
Raimundo si fa scarrozzare fino alla piazzetta nizzarda col monumento a Federico Nietzsche. Paga il tassista con una manciata di soldi accartocciati, sbucati da tasca dei jeans.
Infila, giaguaro, le scale. Entra in casa con ogni cautela, ché non vuole svegliare l’amico Ermanno. Poi guarda in camera, e vede che l’amico non c’è. Di sicuro sarà a giro per Nizza col fantomatico cugino, adesso. Raimundo trova la sua stanza perfettamente destrutturata, proprio come la ricordava la sera della partenza, più o meno mese prima. Probabilmente Ermanno non c’è entrato neanche per cercare un accendino. Raimundo disfa il bagagli. Si sbarazza dei vestiti sporchi, li chiude in un sacchetto di plastica. Asseconda il nuovo passo morbido delle espadrillas fino in bagno, si lava in modo aggiustato, costretto il lavandino, la porta e la cabina della doccia. Lo specchio è coperto per metà da una fotocopia della mappa cittadina. Una scritta a pennarello sul bordo inferiore del foglio dice nelle maiuscole spirituali di Ermanno: «Ogni centimetro quadrato di questa città è un luogo di conflitto». Poi decide di dare il meglio di sé, pugnalandosi, un po’ in onore della starlette Lory Del Santo. Lei è presente sopra il bidet, in poster, dimenticabile protagonista classici come Desideria, La gorilla, W la foca.
Finisce di pugnalarsi, sciacqua quel che deve all’inpiedi, infine siede trionfale e raggelato sul cesso, fa cacà sfogliando un numero di Frigidaire preso dalla pila di giornali, pensa alle donne toccate in Ispagna e, non gliene vogliate, ai cazzi suoi.
Raimundo sente quella freschezza sovrannaturale dell’appena lavato, quel fiore in bocca che abbiamo imparato a riconoscere dalla pubblicità, rientra in camera senza mollare i fumetti, si stende in sfolgoranti mutande pulite sul lettino da nostromo. Prende sonno proprio mentre Ranxerox grattugia la faccia del sadomacho negro in mezzo alle pale del ventilatore. Carlos Monzon, paternissimo, sorveglia in poster il suo riposo.
Ma non ha il pensiero carino di spegnere la luce.
Il mattino seguente gli è chiaro che Ermanno è rimasto a dormire fuori. Invece il siamese Pentothal è sicuramente presente, nei paraggi. Ha lasciato le tracce del suo passaggio nella cassetta con la sabbia. L’hanno educato bene, quel gatto. Non chiede più del dovuto, non si piange mai addosso. E ha una sua tempra nizzarda, specie quando scivola dentro l’abbaino, che resta sempre aperto, gironzola per casa, si manifesta agli abitanti, riposa un poco e poi salta di nuovo all’aperto, felino maestoso da rissa.
Raimundo vaga spettrale per il salotto, le scatole di tè allineate da Ermanno per cabale di marche e colori, adesivi e scritte scherziere sul frigorifero. Prepara la moka, sprofonda sul divano a fissare la tele spenta. Ermanno dice che anche il cantante dei Joy Division ha guardato un poco una televisione spenta prima di impiccarsi, ma Raimundo sospetta che sia una panzana, come la maggior parte degli aneddoti rock di Ermanno.
Raimundo Blanco/vivere nel kaos, così ha firmato a pennarello sul bordo della televisione.
Raimundo apre un cartoccio infilato nella tasca della braga, stende la bamba su un piatto rovesciato, prepara col coltello due righe lunghe e sottili, tira e sbuffa e tira e si frega il naso. Tutto si fa più nitido, i muscoli distendono e caricano e pompano. Mette la mano a conca sotto il rubinetto, tira su acqua dal naso, e l’acqua scorre direttamente al cervello, lo rende pulito e leggero. Dopo un poco Raimundo accende una lucky strike, fuma con gran soddisfazione. Si sente parte di una qualche leggenda storta che ha attraversato gli ultimi decenni, la magia bianca delle polveri e delle resine e dell’assenzio. Si sente figlio di una stirpe di appassionati alla vita semplice e 19
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veloce, fuggiti in Sudamerica o nei Caraibi per non dovere mai smettere. Raimundo respira profondo, si sente di nuovo forte e sterile ed è contento cosi.
Fino a mattina inoltrata, inspiegabilmente, non squilla il telefono. Raimundo inizia ad agitarsi, e contro ogni suo principio da toreador nizzardo, compone il numero di un’amica, una studentessa d’arte molto ubbidiente che dovrebbe garantirgli un buon rientro in città. «Nicotine tornerà solo alla fine della settimana»: è addirittura la madre che lo umilia così. In ogni caso lo cercherà sicuramente nei prossimi giorni. La madre sottolinea più volte questo concetto, come appositamente istruita.
Dunque Nicotine è ancora a Parigi con Cannuccia… I can’t get no satisfaction, pensa Raimundo chiudendo il telefono… Meglio iniziare a sbattersi, pensa, visto che l’ebreo dei cieli non fa il suo dovere neanche questa volta… Eppure glielo aveva detto, la zoccoletta: ti aspetto qui. Quando torni dall’Ispagna voglio anche tutto il resto… C’è caso che vada via anch’io qualche giorno… A Parigi con l’amica Cannuccia, ma non è detto, è solo una mezza idea, il ventisei al tardi sono a casa comunque. Mi prometti che mi chiami appena arrivi… Voglio essere la prima…
Riesce a vederla, adesso, fra le braccia di qualche turista atletico d’oltreoceano, o in confidenza con qualche au-toctono tutto pepe, ben disposto a insegnare alle saccopeliste nizzarde gli splendori nascosti e notturni della città lumiera. Raimundo le augura sventure di varia specie, alla dolce Nicotine e alla sua amica Cannuccia. Gliela fa pagare, a quella zoccoletta. La attira in trappola. Se Ermanno non ci sta, lo propone a Dietrich. Nicotine è la classica zoccoletta stronza che non capisce cosa può fare e cosa no… Spaventarla… Che Nicotine impari una volta per tutte quanto costa tirarsela… Poi Raimundo rientra alla consolle fornelli richiamato da un odore sospetto. Si rende conto che, preso dai pensieri bellicosi, ha lasciato carbonizzare la guarnizione della moka.
Così, deteriorato dal cattivo inizio della giornata, prepara un personale di ganja, siede sul divano, si distrae, poi si concentra su degli inutili dettagli. Molesta Pentothal soffiandogli il fumo addosso, perde un attimo in lucidità. La mano gli scivola verso la luogotenenza dell’impero.
Mentre si pugnala, pensa a Nicotine che si fa sbattere. Più tardi, porporino di rabbia, trascorre quel che resta della giornata a casa dello sregolatissimo amico Dietrich, in riposo settimanale. Intanto che gode della ospitalità di Dietrich, Raimundo si spara qualche riga su per le nari, beve mezza bottiglia di martini, dice scemenze, vomita, perde la cognizione del tempo, beve il tè vanilla flavoured con il miele coltivato dal nonno di Dietrich e, per riaversi del tutto, si succhia in solitaria una pipa di ganja.
La sera Raimundo e Dietrich scendono sconvolti nella piazza davanti alla cattedrale di santa Recuperata. Tra i mobili capannelli di uligani, artisti e viveurs ventenni incontrano un determinato conoscente che li invita a casa propria. Nel corso di una mezza festa troppo lenta ascoltano musica contemporanea, interagiscono a basso regime con signorine del Dams abbastanza sudate, bevono troppo vino rosso. Astiosissimo e stravolto, ché la bamba venezuelana gli moltiplica l’incazzatura per non aver scopato nessuna, Raimundo decide che è arrivato il momento di ricoverarsi nel proprio letto.
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Ottobre, 1983.
Cousin Jerry ha passato qualche giorno a casa nostra, e ha trovato molti punti in comune con me e Raimundo, il nostro modo sbilenco di gestire le situazioni, la vocazione a starcene appannati e in disparte.
Abbiamo venduto nei soliti club i dieci etti portati dall’Ispagna.
I ragazzi l’hanno preso a credito, chi un etto, chi venti o trenta grammi. Hanno fatto quello che dovevano fare e una settimana dopo ci erano tornati tutti i soldi. Siamo imprenditori, sappiamo rischiare.
Abbiamo venduto a un pubblicitario cocainomane quasi tutte le bustine di ganja. Il prezzo era da truffa, ma questo rampante vestito fiorucci è stato molto contento lo stesso, ha chiesto se possiamo trovarne altra. Sono giullari del genere che incentivano il mercato. Comprano a prezzi gonfiati pur di non doversi sbattere in giro.
Questi giullari sanno solo una parte della storia e non capiranno mai tutto quello che sta dietro al joint che si infilano in bocca. Gli appuntamenti più loschi, le frontiere da superare, le pesate, le scremature, i fogli di cellophane stesi, il buio di certe cantine sicure, le capsule da ingoiare di ritorno dall’Olanda, le variabili che incidono sui prezzi, e ancora le prenotazioni, le bazze, i ritardi, i riguardi da fata turchina per la delicatezza della bilancia, i soldi da pagare, i soldi da esigere, i nascondigli, i cattivi pensieri ogni volta che una macchina della sbirranza ti affianca o gira lugubre vicino a casa.
Cousin Jerry ci ha insegnato a fumare il pakistano sotto il bicchiere, con un tappo di sughero e uno spillo.
Raimundo ha detto per scherzo che così fumano i carcerati. Cousin Jerry ha allargato un sorriso desolante, non ha detto nulla.
Cousin Jerry è rimasto una settimana da noi senza chiedere un soldo in prestito. Sembrava misteriosamente rifornito di contante, si comportava come una persona che passa un periodo di meritato riposo e spende del suo.
Usciva alle undici della mattina e rientrava a ora di cena, per passare la sera con noi. Un giorno è arrivato a pren-derci con una vecchia citroën squalo, adesivi antinucleari ai finestrini. «Me l’ha prestata un amico», ha detto.
Siamo stati in giro tutta la notte a goderci la nostra prima macchina, sicuri che non c’era nessun amico che l’avrebbe chiesta indietro.
Una settimana più tardi Cousin Jerry si è presentato m moto, una aermacchi ala blu due e mezzo, modello harley davidson.
«Te l’ha prestata un amico?» ho chiesto.
«No, l’ho comprata con i miei soldi», ha detto il Cousin.
Nessuno ha mai saputo di preciso da dove venissero e dove fossero depositati questi tesori, né Jerry ce li faceva pesare. Sicuramente smazzava un poco di grammi, ma soltanto per il suo benessere personale. Voglio dire, non era nell’ordine d’idee di guadagnare soldi con le cosiddette droghe.
«Cosa fai tutto il giorno, Jerry? « gli chiedevo.
«Niente, mi guardo in giro», rispondeva Cousin Jerry.
Cousin Jerry non ha mai partecipato ai nostri affari, ma un paio di volte mi ha accompagnato a portare pezzi a qualche bisognoso. Guardava i gesti come uno squassato di vecchia data, un veterano che oramai ha smesso con gli appuntamenti nei parchi e nelle sale da biliardo ma conosce a memoria tutto il cerimoniale dell’acquisto e della vendita. Stabaccava con noi, la sera, ma non aveva vera passione, come lo considerasse una frivolezza. Non ce l’ha mai detto ma si intuiva, se capite cosa voglio dire. In quelle sere, attenti al suo modo di fumare, all’ansia con cui beveva, abbiamo capito quale era stato il vero vizio di Jerry. Abbiamo visto il flash tatuato con gli aghi sulla spalla, e forse siamo riusciti a immaginare un poco della sua vita. Raggiungeva uno stato di mezza trance, gli occhi lucidi e il collo debole, parlava torbido e dolorante senza smettere di riempirsi il bicchiere, che fosse vino o amaro o whisky. Ascoltavamo miss Rettore e i Cheeta Chrome Motherfuckers e i miei dischi di ska giamaicano. E poi, una notte, Cousin Jerry ha parlato di assalto alla società, forze del disordine, anarchia emotiva e cerebrale. I capelli si scioglievano in ciuffi biondastri e sudati, attaccati alla fronte, e Cousin Jerry sembrava una specie di naufrago. Raimundo accendeva un cannone di marijuana spolverato di bamba venezuelana, si stendeva ad ascoltare, quieto, pronto a fare domande, chiedere chiarimenti, farsi ripetere un concetto. Spesso Cousin Jerry, per dare un giudizio definitivo su una persona diceva proprio così: «E un lavoratore».
Li odiava proprio, i lavoratori.
Cousin Jerry ha trovato un pied-à-terre in affitto, qui nel quartiere. Ci ha trasferito il bagaglio, ha comprato un frigo giallo, un giradischi usato e una radio. Non so ancora come faccia per la biancheria sporca, le necessità quotidiane. Appare tutti i giorni, verso ora di cena, pieno di idee per la serata. Qualche volta prende in prestito la mia vespa. Qualche volta porta un po’ di anfetamine, o delle noci di libanese, oppure determinati sonniferi da bere con il gin tonic. Frequenta felicemente il pub del Basco, parla con le donne che incontra e a volte passa la notte a casa loro. Compra i dischi italian 21
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records da Barclay, sorride per le recensioni di red vinyle su Frigidaire, compra giacche usate e occhiali colorati al mercato del sabato mattina. Va al cinema da solo, vede due volte Copkiller con John Lydon e Harvey Keitel. Gira per Nizza prendendosi il suo tempo, stravagante e cauto, sceglie orari in cui non incontri tanta gente.
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Ventuno ottobre, 1983. Colazione.
Sempre lo stesso gesto d’inforcare gli occhiali scuri pasoliniani nel momento in cui s’affaccia in strada con Raimundo e insieme dirigono, spappolati, incontro alla gloria del nuovo giorno.
Non ci son più, in giro, a quest’ora, gli scolari e le pattuglie di studentelli medi, a parte rari spavaldi che per oggi han nascosto, fra le ortiche, tracolle e abbecedari.
Come puoi non ricordare che eri anche tu un rebel kid del genere? Ci andavi o no, a far l’amore mattutino con l’amica in casa da sola, su letti di finta malattia pensati apposta per ingannare i vecchi? Così giudiziosa, lei! Carina! Diligente! Così smorfia e disponihile, nel venirti ad aprire in pigiamino, neanche si credesse malata veramente! Così intrigata e compresa, nel guidarti per l’appartamento vuoto che sapeva solo di cattolicissima solidità fa-migliare! Così trepida e costretta, quando le prendeva la foja di far cigolare il due piazze coniugale della señora insegnante di tedesco e del señor impiegato statale suoi genitori!
L’inizio della gloria è custodito fra il bancone a elle e gli specchi non proprio scintillanti del bar del Volpe.
Ermanno lascia Raimundo alle prese col giornale sportivo. Accende la prima meravigliosa della mattinata, chiede al Volpe un baby di heineken. Beve un paio di sorsi, e per attutire l’alcool, succhia forte dalla meravigliosa. Però il fumo gli fa la bocca grifagna, e allora beve un altro mezzo sorso per sciacquarsi. E via così. Guarda dalla sua prospettiva ravvicinata la cimbali degli espressi, antica e argentea e panciuta come un’otaria. Ci ha le viscere, dentro, la vecchia cimbali. Ci vogliono delle gran tecniche per consentire a quest’ordigno di esistere, pensa Ermanno. Spegne la meravigliosa nel posacenere havana club, butta giù quel che resta dell’heineken, con discrezione tossisce, chiede al garzone afasico del Volpe un bicchier d’acqua semplice.
Comunque, non si riprende proprio per niente: i suoi occhi rossi e la pelle rovinata gli vengono incontro dallo specchio con maraglio coraggio, e c’è Raimundo che lo raggiunge al banco con aria improvvisamente professionale. La Dynamo Nizza incontrerà il Fenerbahce nei trentaduesimi di coppa Uefa, pare, e lui si è finalmente ricordato che sono soci, loro, che Ermanno lo ospita gratis in casa propria, nella sua vecchia stanza, per di più.
«Che c’è in programma, oggi?» chiede Raimundo.
«Personalmente, il clou sarà il mio pranzo con la soave Biancalancia.»
Raimundo continua a fissarlo interrogativo. «E per il nostro lavoro?» dice.
«Di che lavoro mi parli, vecchio?»
«Non avevi un biglietto attaccato alla porta? Non dovevi incontrare certe persone alle dodici e mezza, dei minorenni spaventosi che avevano una gran fretta di vederti?»
«Gli sbarbi intrepidi che mi aspettano alle dodici e mezza al parco?»
«Proprio», dice Raimundo, indispettito.
Riepilogano i movimenti della giornata, i nomi dei viziosetti che stamattina si saranno risvegliati col sorriso, poiché oggi l’uomo di fiducia consegnerà nelle loro mani veloci quantità e qualità desiderate: si raccomandano la solita prudenza, dovendo traversare la città coi fari delle vespe farciti di libano rosso e altri, più gravi, castighi di dio.
«Bene», dice Raimundo. «Lanciamoci nella giga, allora. « Poi - e per questo Ermanno lo odia, a volte - Raimundo lo pianta al banco ed esce via senza nemmeno salutare, strappato al mondo dalla sua nuova fretta di torbido lavoratore.
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Ventuno ottobre, 1983. Pranzo.
Da circa un mese l’adolescente totale Biancalancia è la mia amante. Gemelli ascendente acquario, biondissima naturale, forse eccede in plegine e creme idratanti. Deve l’attuale celebrità a una particina ne Il tempo del/e me/e due e un’altra nell’ultimo film di Roger Vadim, una storia di revival balneare intitolata - non ci credo - 1960. Terza liceo… e fu tempo di rock and roll. Biancalancia mi viene incontro attraverso la cafeteria della scuola d’arte, leggiadra nei suoi pantaloni scozzesi, le tette ascose da vani libri di storia del cinema. I mezzi registi, mezzi pittori e mezzi musicisti che si ostina a frequentare mi lanciano sguardi invi-diosi. Non smettono di succhiare cappuccino e tramezzini vegetariani.
«Che carino, con questi occhiali scuri», sussurra Biancalancia prima di appoggiare le sue labbra tenerelle su le mie, schiacciare senza troppa discrezione il corpo di marzapane contro l’animale a sangue caldo di piazza Federico Nietzsche. Mentre mordo piano la punta della sua lingua liceale, Biancalancia mi stringe forte, ché vuoi sentirmi come sono, fasciato duro nei pantaloni.
Si eccita, se la punto cosi, davanti a tutti, se le faccio sentire in che senso si deve parlare di luogotenenza dell’impero.
Se qualche avventore della cafeteria fiata o ride o sussurra, il vostro affezionato uncina una sedia, la fiammeggia in aria e gliela disintegra su quel bel cranio biscottato da artista. Ché sono Ermanno Claypool, teppa nizzarda cresciuta nel quartiere, no un mezzo froscio che la notte sogna di fare cose con Wim Wenders.
E come se Biancalancia si sentisse compiutamente intellettuale, lei che ha scelto l’indirizzo artistico, e cercasse in me solo l’animale e il prodigio e gli schizzi che alle volte caramellano i capelli alle ragazzine imprudenti.
Biancalancia fa finta di non sapere che godo con lei solo perché in questo periodo non ho niente di meglio da fare. Non trovo nessun libro che mi piaccia, da quando ho finito Céline e ho cominciato a uscire con questa giovane artista. Nord. Bello. Sulfureo. Disordinato. Non potevo scopare, mentre leggevo Nord. Volevo solo avere Céline e sconvolgermi di brutto. Per rispetto verso il signor LouisFerdinand, credo. Ché la mia mente restasse concentrata su Nord.
Anfetamine, soprattutto. Le anfetamine si sposano magnificamente con le grammature titaniche di resine e ganja normalmente in uso nell’appartamento di piazza Federico Nietzsche. Si è sensibili e più vicini alla terra per tutta la verzura fumata e contemporaneamente molto svegli, mobili, reattivi. Quelle pagine valangate di puntini di sospensione le ricordo benissimo, precise come in fotocopia. Le mie cervella volavano lontano senza perdere neanche una sfumatura di senso, desideravo veramente che quelle situazioni fossero vere e presenti, ma libri così si trovano di rado. Quando ho finito Nord mi sono accorto che non toccavo una femmina da una settimana. Biancalancia l’avevo conosciuta tramite la Medusa, un’amica strippata di Raimundo che vive da sola sui colli. Avevo fatto telefonate lunghe e loquaci, disinibite, ondeggianti, all’assalto, e Biancalancia si è un po’
innamorata. «Perché non ci vediamo, stasera?» mi ha detto. E io: «No, oggi proprio non è dato. Devo ancora finire Céline». Avevo voglia di prenderla, ma era un desiderio solo cerebrale. Il centro era lo stile-coltello di Louis-Ferdinand, e tutt’intorno c’erano colazioni al bar del Volpe, incontri casuali per le strade del quartiere, ascoltare lo stesso disco dodici volte di fila. Particolari insignificanti si gonfiavano di importanza, finivano per occupare tutto lo spazio disponibile.
La sera con Cousin Jerry ammazzavo la velocità delle anfetamine a forza di joint e succhiate furibonde dalla pipa di legno, finché addormentarsi e collassare non diventavano la stessa cosa. Cousin Jerry aspettava che chiudessi gli occhi, spegneva le luci, scendeva in strada.
Sentivo come in sogno l’accensione dell’aermacchi modello harley davidson.
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Adesso che quei giorni sono finiti resta solo Biancalancia. Parlarle al telefono darsi appuntamenti umidificare schizzare un poco usare ed essere usato.
La coppia dell’anno millenovecentoottantatre attraversa Nizza a cavallo di una vespetta special elaborata.
(Sì, la mia è una sella tipo mantello di dalmata. E allora? Qualcosa che non quadra? Cos’è, non si può avere la sella tipo dalmata? Come dici, bello? No, cioè, non è che ho lo coda di paglia, ma se continui a chiederlo in quel modo, neanche avessi scuoiato la carica dei centouno per tappezzarmi la sella, magari mi innervosisco anche… Sai com’è… Le tue insinuazioni del cazzo… No, no, fringuello, non è vera pelle di cane, è sintetico, capisci sintetico? Si può? C’è chi compra la sella zigrinata, chi ce l’ha liscia, oppure quella col poggiaschiena, l’antisdrucciolo, la comoda, la banana, la cammello… Io ce l’ho tipo dalmata.
E chiudiamo qui l’argomento, sì?)
Malauguratamente, il ristorante pirenaico è diventato piuttosto popolare, in città. Essendo quasi tutte le postazioni occupate, la mia amante e io siamo costretti a stringerci in un tavolino da due persone il cui gemello, a un palmo ravvicinato di distanza, è occupato da due imbelli poco più anziani di noi. La femmina è una sorta di impiegata di terza fascia avvolta in abitini simili a quelli che portava mia madre nei tardi anni cinquanta, poco prima che desse alla luce la bestia. Affida il suo fascino a un pendaglio triangolare di plastica appeso a un orecchio, ai capelli tagliati corti, lordi di schiuma modellante. Il maschio è un mascelluto che se la può cavare giusto come minatore. È abbronzato, ha i capelli raccolti in una coda riccioluta, la giacca color dell’aragosta. Potrebbe essere un giovane mafioso, o un visagista disoccupato, forse. Ascolta ogni sorta di scemenze con intensissimo appagamento, come si trovasse di fronte alla persona più intelligente e sensibile degli ultimi anni.
Biancalancia e io triangoliamo uno sguardo denso di compassione. Pensiamo ai diversi modi in cui si può sprecare la propria gioventù. Infine, pieni di curiosità antropologica, tendiamo proprio gli orecchi, ci sorridiamo, ché abbiamo lo stesso modo di guardare il mondo, noi due.
Così almeno mi piace farle credere.
«… Mi ha telefonato Carnosa da Avignone e mi ha chiesto come va la movida qui sulla costa. E cosa dovevo dirle io? Si sta di merda, e scusa! Non siamo mica a Madrid Londra Nuova York! Primo, siamo fuori stagione, secondo, oramai non c’è più nessuno del mio giro… Cosa vuoi fare se non un paio di settimane da decadentista giusto per ricaricare un po’
le batterie? «
«Ah, sì. Fuori stagione, poi», considera gravemente l’uomo aragosta.
«Ci sono solo riccastri inglesi sconosciuti che vengono qui a svernare negli alberghi», dice la femmina.
«Come se ad Avignone, invece…»
«Ah, ma ad Avignone c’è il festival di teatro medioevale, scusa. Per Carnosa è il massimo del divertimento, no?»
«Eh, be’», nitrisce l’uomo aragosta. «Ognuno, poi… » La femmina cambia espressione, tono di voce e posizione sulla sedia in un solo istante. Diventa, come dire, confidenziale: «Però se posso dirti la verità, un po’ mi dispiace. Ci speravo, in quella promessa di Etienne, di rivedersi qui in inverno e scrivere insieme il soggetto di Cattive fanciulle frenetiche… Io ed Etienne soggetto e sceneggiatura, Marcellus alle musiche… Lo sai, vero, che Marcellus sta facendo ricerche estremamente interessanti sugli strumenti dei riti voodoo… Io, Etienne, Marcellus; magari affidare la scenografia e i costumi a Bianca Machado e Rico Smith… Sai che Bianca e Rico adesso lavorano insieme a Londra? Sai come si fanno chiamare? Macsmith studios, da Machado e Smith».
L’uomo aragosta ride, ché la crasi lo diverte.
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«A parte tutto, non sarebbe magnifico passare qui l’inverno, magari affittare una vecchia villa sul fianco del Mont Gros, con vista sul mare, ci hai presente il mare in inverno, cosa non è, starsene in villa dieci o dodici a lavorare insieme a un buon progetto… Praticamente tutta la gente incontrata al workshop dell’anno scorso… Già vibro… Una ghiacciaia colma di vinello e buoni mangiarini, ci si sveglia e si lavora insieme, seduti intorno a questo antico tavolaccio provenzale, legno vecchio ma solido, non so se mi spiego…»
L’uomo aragosta annuisce con energia, scrolla la testa.
«… E la sera», sogna lei, bruttissima, «dopo una buona giornata di lavoro, chi ai dialoghi, chi alla messa in scena, si festeggia un po’, si sta bene insieme, così, si chiacchiera belli distesi…
Finalmente con gente qualificata, moderna, non come le capre passatiste di Avignone…»
«Proprio!» conviene l’uomo aragosta. «Caproni passatisti! Lo dice anche Béberto, che gioca pivot nell’Olympique di Avignone, quindi deve essere almeno un poco vero… Strano, pero…
Quando ci sono stato in gita con la scuola non mi sembrava troppo passatista… A parte le antichità… Il palazzo del vescovo…»
Biancalancia non riesce a trattenersi, ride senza nessun riguardo. La femmina con il pendaglio triangolare arrossisce, sussurra: «Papa».
«Papa, cosa?» dice l’uomo aragosta.
« Il palazzo.»
«Sì…»
«Il palazzo ad Avignone non è del vescovo… Era il palazzo del papa. «
L’uomo aragosta si mette a ridere di gusto, ride come pensasse: «Veramente buona, questa!»
Quando gli dilegua l’ilarità, la donna con il pendaglio è diventata color terra. Si mette ancora più in imbarazzo perché le arrivano le vibrazioni ironiche del nostro tavolo. Ha vergogna per se stessa e per il mostro che si è portata al ristorante pirenaico. Darebbe, io credo, un braccio, per scambiare la propria sorte con quella di Biancalancia.
Alla fine la femmina col pendaglio triangolare prova a riprendersi, sottrarsi alla cattiva inclinazione. Dice: «…. Comunque lo sai quale sarebbe il mio sogno, vero? Una specie di Big Sur, una tenuta in cui si viva insieme, un gruppetto di gente brillante con un progetto comune e anche voglia di divertirsi… La sera potremmo dare feste anche un po’ sregolate, no? Io me lo vedo… Ballare a piedi nudi… Ricontestualizzare in senso postmoderno certi brani di cantautori… Rimmel, ad esempio… Un arrangiamento un poco più funky sarebbe d’uopo… Te lo immagini… Tra l’altro mia cugina a Nuova York si è fidanzata con un bellissimo nero che lavora con Afrika Bambaata… Magari ci mettiamo in contatto… La sera Etienne potrebbe leggere ad alta voce brani di Opus pistorum mentre noi si beve vino, seduti molto comodi sui vecchi divani… Lo conosci il rumore che fanno i vecchi divani, a farci l’amore sopra, vero? Io finalmente sarei quello che ho sempre voluto, una specie di Madame de Staèl, padrona di casa e allo stesso tempo intellettuale salottiera… Una specie di Madame de Staèl chiacchieratissima e d’oggi».
«Saremmo una specie di punto di riferimento per tutti i giovani artisti del mediterraneo… «
azzarda l’uomo aragosta.
« Bravo! Pensa agli articoli sui Cahiers… Su Musica 80…»
«Prima o poi ce la toglieremo questa voglia.»
«Certo, cosa si vive a fare se non ti puoi togliere delle voglie?»
E la femmina, con aria complice e speranzosa, lo guarda come dicesse: per favore, dammi ragione che dopo ti metto a tuo agio. Fa un piccolo brindisi. Dice: «Ai nostri sogni, allora».
L’uomo aragosta fa sì con la testa, batte la manona sul tavolo, dice: « Cin cin! « fa tintinnare il bicchiere.
Ho scrutato con ansia montante gli occhi lacustri di Biancalancia, incerta se ridere nuovamente per il goffo brindisi finale. Poi è successo qualcosa di molto strano.
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Biancalancia mi è diventata seria e sospirante, mi è cambiata sotto gli occhi, rapida come una piantina che spunta dalla terra, cresce e mette le foglie in cinque secondi.
«Cosa succede, sbarba? « ho chiesto.
Poi, visto che taceva e si rabbuiava vieppiù, visto che stringeva le posate nei pugni come se le volesse fondere, ho detto: «Vedi di non rispondere «niente»».
Biancalancia piega il capo verso le tettine a punta che l’hanno resa celebre, tira il fiato, mi fissa, il labbro tremolante, una lacrima inspiegabile le scende sulla guancia: «Ho anch’io dei sogni, se proprio vuoi saperlo! «
«Quali sogni? A livello onirico? È normale.»
«Anch’io voglio stare con un uomo che valorizza il mio essere attrice… Hai visto lui com’è premuroso… «dice, preda del più limpido delirio femminile.
«Lui? Premuroso? Valorizza? « Mi viene da guardarmi alle spalle, sollevo la tovaglia, allungo un’occhiata sospettosa sotto il tavolo. «Ma di cosa mi parli?» dico.
Biancalancia mi guarda con occhio tremulo, come a dire tra sette mesi saremo in tre, non aver paura, sarà bellissimo, io te e il pupo. Nel caso voglia incastrarmi, ho degli alibi di ferro.
« Mi hanno offerto una parte importante in un film con Pierre Cosso… Windsurf il vento nelle mani… Uscirà l’anno prossimo… « dice.
Vagamente disorientato, focalizzo Biancalancia, l’espressione di attesa che mi rivolge. « E
allora? « dico. « C’è qualcosa di suggestivo nel fatto di girare Windsurf il vento nelle mani?
Vuoi che ti faccia i complimenti? Ti rendi conto a che gente ti paragoni? « Faccio un cenno con gli occhi all’uomo aragosta, alla donna col pendaglio triangolare. Mi sembra tutto assurdo. Aspetto di vedere Raimundo e Dietrich che saltano fuori da qualche parte, battono le mani, lanciano i coriandoli, dicono: « Ci sei cascato! Ci sei cascato! « … Anche questi due poveretti sono solo dei figuranti, noleggiati in giro, magari… Biancalancia è d’accordo con tutti gli altri… Cousin Jerry è sicuramente l’organizzatore principale dello scherzo, tra cinque secondi salta dentro il ristorante pirenaico con il naso di cartapesta e il baffo finto, accenna passi di conga, soffia nella lingua di menelik, agita una gigantesca raganella da stadio.
No. Non succede niente del genere. Non è uno scherzo. Nemmanco lo sapevano che venivo al ristorante pirenaico. Allora provo a riprendere i contatti con Biancalancia, rapita dalle cazzate sulla villa e la grande famiglia artistica eccetera. Aspetto solo che mi chieda di unirci ai due figuranti, andare in vacanza insieme tutti e quattro, a Malindi a Santo Domingo alle Seicelle.
Gentilissimo, le chiedo in modo del tutto gentile come va il suo filetto alla perpignanese.
(Io le donne, non so, forse le odio. Forse mi piacciono troppo e non riesco ad accettare che siano tagliate con certe schifezze chimiche. Tipo il fatto di innamorarsi del primo stronzo, o i complessi che si fanno venire, morbosi nei confronti del padre.) Esci in anticipo dal ristorante pirenaico e magari provi a farle ragionare, le donne. Ti spendi, gli spieghi che certi discorsi sono - forse - cazzate, e - forse - loro ne restano un po’ troppo affascinate e le cose che contano veramente nella vita sono altre, tipo l’amicizia e il rock ‘n’
roll e succhiare i cazzi e fare il pieno alla vespetta e spaccare tutto, alle volte. E loro - forse -
vi diventano un attimo indisponenti proprio sotto gli occhi e vi dicono che - forse - dovreste farvi di più gli affari vostri, ché loro ci hanno già la bellezza spasmodica dei diciott’anni e varie facoltà tra cui l’intelligenza. Inoltre il fatto di recitare in Windsurf zì vento nelle mani dovrebbe rendervele più gradite. Dovreste rispettarle per queste settimane che divideranno con Pierre Cosso e il resto della baracca. Settimane di albergo e tecnici dialettali che fanno i simpatici viveurs e avventure amorose sul set tipo infinita parodia di una gita scolastica. Le dovreste rispettare, intesi?
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E voi (forse) trovate le parole giuste per mandarle a fare in culo, seduti sulla pelle (forse) sintetica di dalmata, mentre se ne stanno dritte in piedi con questo sguardo da vittima che prova a ricattarti. È proprio la qualità di sguardo che mi fa venire su tutto l’odio del pianeta.
« Penso che dovresti lasciarle perdere, queste stronzate», dico. « Penso che faresti meglio a metterti in ascolto, e in tal caso ascoltare me e tutte le esplosive incongruità della vita, penso che tu sia solo una viziata che non sa fare un cazzo e (forse) una povera scema. «
E loro riempiono gli occhi di lacrime stizzose, e proprio lì, a pochi metri dal ristorante pirenaico dove avete speso una fortuna per non mangiare praticamente un cazzo, lì, sotto il cartellone pubblicitario della polistil, (forse) vi dicono: «Quando sei così stronzo, quando mi tratti così male, quando fai vedere che non ti frega niente di me, avrei voglia di prenderti a schiaffi».
«Bene», si sente rispondere da una voce impercettibilmente più tesa della vostra, « prendimi pure a schiaffi. Perché no. «
« Sei solo un povero stronzo «, vi viene detto. Poi una mano orgogliosa di giovane attrice curva l’aria che vi divide, colpisce la vostra faccia.
Siete (forse) voi quello che scende dalla vespa.
Siete (forse) voi quello che tira su il cavalletto per non avere impicci.
Siete (forse) voi quello che fissa la giovane attrice con la più nazista delle espressioni d’annientamento.
Così, la colpite una sola volta. Con energia. La sedete scomposta sul marciapiede.
Il buon canto à la Waits dei settantacinque centimetri cubici v’accompagna via dalla nullità di quella situazione, tipo a bere un caffè al bar di Dietrich.
Niente più Biancalancia, niente più seni piccoli con capezzoli scuri, niente più mani sui suoi fianchi per farla ballare, niente più determinati odori di torta di mele sotto le mutandine di cotone, niente più punti di vista su una certa cameretta da diciottenne aspirante diva.
Ermanno pensa a tutte queste cose che non ci saranno più, e non si dispiace tanto. Pensa anzi ad altre ragazze simili, a come stemperare un poco la propria vita con queste esistenze silenziose, a come volarci attraverso in fuoco e fiamme e rumore di chitarre assediate.
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Ventiquattro ottobre, 1983.
Sveglio a mezzogiorno, pranzo e colazione al bar, sbattimenti su e giù per la città fino a sera, spaghettata conviviale con Raimundo e Cousin Jerry, poi è di nuovo buio e fresco sulla pelle e molestie e scopate e resoconti di scopate fino alle cinque, alle sei. Un giorno dopo l’altro, con l’autoreverse, proiettati verso il futuro.
Finisco per passare la mia vita sospeso fra stati opposti: sprazzi soprannaturali di fiducia, in cui penso che in fondo è scopabile, questa cosiddetta vita di squassi continui e letture solitarie e dischi e amore per il Cousin, Raimundo, Dietrich, per il nostro modo infiammabile di attraversare le scene deficienti e giulive che ci si proiettano intorno. Voglio bene a questa vita storta, che penso simile a quella del siamese Pentothal, il piccolo muso da killer con gli occhi azzurri. Sono felice quando lappa il latte dalla scodella o mi viene a mangiare i croccantini dalle mani. Gli parlo come si può parlare a un amico adulto che non capisce tanto bene la lingua, ma insomma, in un modo o nell’altro ci si intende. Penso quasi mi capisca, penso quasi si esalti anche lui ad ascoltare i Public Image Limited o il ragazzo Billy Idol o i Virgin Prunes. Poi - non saluta quasi mai - esce per i tetti a combinare malestri, e io monto in vespa, dirigo sul parco, incontro due bambocci che aspettano da un po’, chiedono «Tutto a posto?» e io dico: «Tranquilli, ragazzi», ci sediamo a fumare una meravigliosa, scorro nelle loro mani avide il pacchetto, dico: «Si va a bere un coffee?» e loro: «Si, sì», offro il caffè e nei rumori discreti della clientela mi allungano la moneta necessaria per pagarmi e si dice: «Ciao belli»,
«Ciao vecchio», e via così a sgroppare seduto comodo sulla mia sella di dalmata verso il piedaterra di Cousin Jerry, verso il bar di Dietrich, verso qualche appuntamento galante. E
tutto è pieno, così, in attesa, bello, poetico, giusto, in pieno sole.
Altre volte però mi faccio aggredire dallo sconforto, penso che siamo soltanto modeste sorprese dell’uovo kinder, immobili, carini, muti ogni volta che apriamo bocca, perfettamente inutili. Cousin Jerry scompare per giorni interi con la citroën squalo, e quando torna è talmente identico a prima, magro biondo saggio silenzioso, che non riesco a mettere insieme nessuna supposizione. Capisco che va via perché certe mattine trovo le chiavi della aermacchi sul terrazzino. Lui riesce a lanciarle dalla strada. Una volta mi ha detto che la posso cavalcare, quando non gli serve. Raimundo mi invidia, per questo privilegio. S’irrita perché io la moto del Cousin non la uso. Semplicemente mi infilo le chiavi in tasca, le rendo a Cousin Jerry quando, senza preavviso, torna a farsi vedere in giro.
L’altro giorno mi è salita in superficie una paranoia quasi impronunciabile, legata a certe mie insicurezze. Semplicemente, mi chiedevo se la gente si dispiacerà, il giorno che muoio.
Una determinata giovane attrice, appreso che Ermanno Claypool non è più, potrebbe addirittura andare a piangere in bagno. Qualche tennista con le chiavi d’una berlina targata Benessere, un adulto dal nome adeguato alla mattanza, un disperato in principe di galles chiamato Tancredi, potrebbe consolarla con frasi puntuali e sensibili, farla addirittura quasi innamorare, convincerla quasi a farsi riaccompagnare a casa, fotterla quasi con gesti studiati sui sedili ribaltabili della macchina, farla sentire quasi donna mentre seduta sul bidet, rientrata a casa, fa abbondante uso di detergente intimo prima di andare a riposare, ché l’indomani si deve studiare i dialoghi di Windsurf il vento nelle mani.
«Oggi ho fatto à l’amore con Tancredi, ho sentito un tot ma non so ancora se lo amo», scriverebbe Biancalancia sul suo diario segreto.
E poi, come dubitarne, nel sogno lei si sveglierebbe carina, e con solo una felpa leggera addosso telefonerebbe, pazzamente glamour, alle amiche per chiedere consiglio.
Verrebbero mangiate delle fette biscottate, me lo sento. Il velo di burro e la marmellata dietetica, ineccepibili. Come il rassicurarsi tra amiche, come l’inesausto sorprendersi: del sesso si può fare a meno per mesi interi, ma quando succede ed è così bello, dopo ne hai sempre voglia, vero amiche? Proprio come quando c’era ancora Ermanno, lui sì che sapeva 29
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far godere una donna. Vero, vero, ma non devi mica sentirti in colpa, ché sono le cose belle della vita, e godere è bello e naturale, e tra noi donne&amiche queste cose ce le possiamo dire. E invece la luogotenenza dell’impero, Ermanno, come l’aveva? Possente? O un caso sociale bisognoso di premure e baci? Ti faceva toccare le forse ventinove delizie dell’estasi o era ingombrante e fastidioso come un topo vivo finito nello scarico del lavandino?
Di questo potrebbe conversare Biancalancia con le amiche.
E col disperato in principe di galles, l’horrido Tancredi, invece, sussurrerebbe tutt’altro.
Per esempio.
Amore… È meraviglioso, a pensarci, che l’uomo e la donna siano stati creati proprio così…
Vedi, tu hai la cosina morbida e bagnata… E tu? Io ho tutto quello che serve per farti stare bene… Dài, scemo… Sssì, per mangiarti meglio… Sei felice? Sì… E tu? Tanto… Ehi, lo so che non si dovrebbe chiedere, ma… Ti è piaciuto? Sui, direbbe a questo punto Biancalancia con sguardo liquido e inclinazione del capo da inconsolabile-consolabile…
Intervallo.
Quando mi accorgo che stai per venire, vado giù di testa… Dài, ti eccita? Sì… Scusa se te lo dico, ma per me c’è una grande intesa sessuale… Tra noi due, dico… Dài, lo sai che mi vergogno… Comunque sì, Tancredi mio, è proprio vero… Sì, yesss.
E alla fine di tutto, questa giovane attrice che per un attimo si è dispiaciuta per me, si sente la pelle fresca e riposata, senza squamètte, senza effetto buccia d’arancia.
E sempre lei, dinamica e studentessa d’arte, piena di amici e di interessi, dalla moda alle religioni orientali, dalla letteratura al sumo, scopabile, pronta al riciclaggio.
Queste liete riflessioni mi tolgono la voglia residua di parlare. È il solito cazzo di circolo vizioso, perché dopo inizio a chiedermi come mai mi è venuta in mente Biancalancia. Già, come mai?
Notate che mi trovo alla festa più brutta del mondo, tre o quattro grammi di zerozero in tasca e almeno altrettanti già fumati in serata. Va be’. Non è tanto il vecchio zerozero, il problema.
Si capisce. Forse quei sette otto cuba libre non mi hanno fatto benissimo. Slitto come una vespetta special sul pavimento appena incerato, unico maledetto vestito da punk suffista al party di Lodovica Tora Della Scala, sedicente videoinstallatrice muy muy creativa y alternativa. In realtà, ringraziando l’industria paterna di cuscinetti a sfera, è semplicemente un’altra giovane miliardaria.
Oh, ma eccovela, Lodovica Tora! A piedi nudi. The only original baiadera. Stringe tra le labbra l’arciduca Joint in persona, ben fondato sulle quattro paglie che gli han dato vita. Molto ospitale di fianchi, ma la dicono simpatica. Ci ha una bella carbonara al posto dei capelli.
«Forza, ragazzi, vi voglio vedere sventrati», dice. Qualcheduni ride. A me mi fa solo pena, e voglia di farle male. Certa gente il dolore la cambia completamente. Chissà dove è finito Raimundo. Non dovrei più venire a questo genere di feste con Raimundo. Si trova troppo a suo agio tra questi stronzetti. Ci mette troppo poco tempo a chiudersi in una stanza con qualche damsiana in calzette colorate. E a me viene su un odio globale, inizio a fissare i burattini invitati nella segreta speranza che qualcuno mi venga a infastidire. «Forza, ragazzi, vi voglio vedere sventrati.» Che clamorosa mancanza di dignità.
«Forza, ragazzi, vi voglio ve…»
«Ma ti accorgi di quanto fai cacare?» e la frase esce dalla mia bocca, così, un bel fumetto bianco con la sua scritta aggressiva ma sobria, come la saprebbero fare certi fumettisti argentini. La scena si ghiaccia. Gli ospiti, finora così partecipi, sono diventati statuine del presepe, meravigliosi convitati di cartapesta.
Lodovica Tora si fa avanti nel suo vestito nero sbracciato. A piedi nudi, mi pare di averlo già detto. Con una sorta di collana zigana alla caviglia.
Uno schifo totale.
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Due buffoni con pretese creative si fingono guardiaspalle.
Tre mostruosi videoinstallatori, in totale.
Quattro animali si fissano, sbalorditi e sbalorditivi. I tre coniglietti fissano il coguaro, che sarei poi io, e non sanno bene come muoversi.
Poi Lodovica Tora la butta sull’ironia, magistrale padrona di casa: «Se non ti piace la festa puoi anche suggerirci un posto dove ci si sballa di più».
Merda. Spiritosissima. Dove ci si sballa di più. Forse una lamata su quelle guance grasse potrebbe restituirle il senso della realtà.
Sfodero la mia perfetta imitazione dell’uomo frittata: «No, no, cara. Sono in città per una ricerca sugli insetti, e qui se ne trovano parecchi. Begli esemplari, anche. Mi hanno detto che ci sono perfino dei creativi. E degli intellettuali. Sono ancora qui a scolarsi la sangria o sono già tornati a casa a nascondere le posate che ti hanno rubato?» L’uomo frittata, forse non ve l’ho mai detto, è un personaggio immaginario che imito nei momenti di isteria. Una specie di arrogante con un potente accento maraglio. Viene fuori nei momenti di conflitto. Si fa largo con quella odiosa raucedine, che non di rado aggrava fingendosi molto - troppo, chiaramente -
cordiale. Spesso se ne esce con «Huey, sbarbati», o altre frasette odiose. Comunque sto smettendo. Non lo faccio quasi più. L’uomo frittata, dico.
« Sei ubriaco», gracchia Lodovica Tora. Mi fissa con quegli occhioni da diarrea. Una tipa veramente decisa. Si vede che ha avuto la maestra privata tedesca, tipo la signorina Rottermeier. Potevano sbattersi un po’ di più e ingaggiare anche una dietologa, a questo punto.
«E voi è meglio che non facciate gli aggressivi, che poi piangete», butto lì ai due sciocchini che non la smettono di fissarmi, forse minacciosi. Hanno una tale indecisione addosso che non riuscirebbero a spaventare neanche un’anziana.
«Dài, basta con queste sciocchezze», interviene una spettatrice finora muta, morbidezze d’altri tempi, nobile nel profilo e nei movimenti, voce da donna adulta. Si fa largo nell’imbarazzo generale, mi prende per mano, dice: «Sei il cugino di Jerry, vero? Ciao, io sono la Baronessa». È doppiata da Ornella Muti.
Mai vista prima, se volete lo giuro. Vestito di cotone etnico - un grandissimo classico nizzardo - e maglioncino superpeloso, sembra perfettamente a suo agio, splendida nel portamento, inarrivabile nei particolari, la perfezione del taglio di capelli.
«Ma lo conosci?» chiede Lodovica Tora, esemplarmente indispettita, circondata dal rossore dei ferocissimi cicisbei.
La misteriosa Baronessa non risponde: «Andiamo a prendere un po’ d’aria fresca in terrazza», informa.
Invece ci muoviamo verso il centro della festa, nel senso opposto a quello di Lodovica Tora e i due baggiani.
Gentiluomini scattano polaroid alle minorenni ubriache sparse sui divani di peluche. Per un po’ la sola preoccupazione degli invitati è scroccare mezze strisce di bamba refrigerante o righini di monnezza per una folata di calore totale. Un giovane sifilitico, giacca di buona fattura e pantaloni in lattice nero, soccorre amorevolmente le narici bisognose. Si affanna a scambiare bustine e banconote di grosso taglio con una tale pitonata confidenza che Ermanno, all’inizio, pensa si tratti del fidanzato della padrona di casa: quello triangola sorridente da un gruppetto all’altro, stringe mani, mette all’incasso i guiderdoni, scivola via dalla grande sala, fino a una cucina arredata con funzionalità nuovayorcliesi.
Il resto degli invitati coagula intorno alle subcelebrità.
Puoi vederli, raggelati nella luce dei faretti, i nuovi mostri di questa Nizza anni ottanta. Quel che sono e quel che si apprestano a diventare. Lo capisci senza bisogno di leggere Nostradamus, quale straordinaria putrefazione è in arrivo, l’horrore del futuro che verrà: i 31
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videoartisti, i giovani scrittori, i new fumettisti, i mecenati di sinistra, i creativi, gli assistenti universitari, i produttori, gli importatori, i pusher, i consumatori, i travestiti. C’è pure quelli che non c’entrano un cazzo. È un vernissaggio, e un’archeologia del futuro. C’è lo scrittore benestante Massimo Neppi, moralista e comico, che racconta fandonie a una ragazza insicura, probabilmente affascinata dalla sua calvizie incipiente. Ah, già, ci sono pure le ragazze insicure. Che cazzo di vernissaggio sarebbe senza le ragazze insicure? Quelle che decidono di darsi una mossa poiché non hanno il fidanzato e si costringono a frequentare le mondanità.
Insicure, però. Insicure del vestitino che hanno scelto, insicure se accettare il passaggio da gente che non si conosce, insicure se sdivanarsi d’alcool e correre il rischio della sfrenatezza o mantenersi vigili, e restare ai margini dell’euforia. Quella alle prese col Neppi, ad esempio, è incerta se accettare l’invito ad andare a scambiarsi baci in collina, appena sussurrato dal benestante bar writer con spontaneità contadina.
«Bella gente, no?» sarcastica la Baronessa, mentre schiva in modo lubrificato i salutatori da festa, la pletora di situazioni anche tristi del vernissaggio.
«Cosa prendi per il culo», dice Ermanno. «Che minimo sei venuta qua piena di ansie e speranze, magari per conoscere qualche faccia nuova, un poeta greco di sinistra, un compagno etiope, un erede di un’industria di cancelli che si veste un poco da blouson noir, un giovane regista d’avanguardia che finirà a dirigere i balletti alla televisione la domenica pomeriggio, o quel coglione putrefatto di Massimo Neppi… «
«Magari una viene qui per distrarsi un po’», dice la Baronessa. «Non necessariamente per trovare un fidanzato.»
«Dici? Però intanto siamo qui con le tette abbastanza di fuori, no? Comunque, io mica vi condanno, sai. Magari farei così anch’io se fossi donna e indifesa. Pensa, una femmina meravigliosa sottoposta a cicli mensili, una vita più irrazionale che mai, governata unicamente dagli ormoni, da cali e innalzamenti degli zuccheri nel sangue.»
«Ogni tanto abbiamo anche un cervello», dice la Baronessa, punta sul vivo nonostante sia chiaro che sto scherzando. Personalmente non mi permetterei mai di affrontare una discussione del genere senza la cinghia in mano.
«Come disse al pub del Basco un tipo che non credo avrai mai occasione di conoscere:
«l’intelligenza è una rivista per soli uomini». «
«Secondo me», dice la Baronessa, leggermente imporporata in viso «scopi troppo poco…
forse sei uno di quelli che vengono subito, e allora sei un gran frustrato, a disagio con le donne, e le tratti male.» La sa lunga, questa Baronessa misteriosa.
Ermanno ride, vorrebbe chiederle come conosce Cousin Jerry, ma non lo fa.
E tuonato dall’alcool, e forse la vecchia marihuana/the killer of youth non lo aiuta a riprendersi: si avvicina a precipizio a un collasso ricco di visioni colorate, collegamenti mentali particolarmente ambiziosi. Vagano così, Ermanno e la Baronessa, per le stanze e i corridoi affollati di poseurs, scambiandosi mezze frasi poco comprensibili sulle fisionomie o i vestiti o gli atteggiamenti. Ogni tanto la Baronessa ride, ogni tanto fa cenno di prenderlo sottobraccio, ogni tanto Ermanno ha degli accenni di erezione. «Mi viene il cazzo duro», dice.
Ridacchia, ubriaco com’è. «Secondo me ci troviamo in un déjà vu «, dice. Finiscono in giardino, e lui frana dentro un divano momentaneamente libero, s’accascia, gli cade la meravigliosa dalle dita. Fa posto anche alla Baronessa, non troppo, però, ché vuole quella carne un po’ insolente il più vicino possibile.
Adesso è curioso di sapere chi è lei, perché è intervenuta a difenderlo. Vorrebbe sapere come fa à l’amore, lei, come dischiude le labbra, lei, quando sta per ricevere. Poi, lui e la Baronessa si fanno ancora più rannicchiati e vicini, intanto che dalle casse disposte anche in giardino sale un sound di Kid Creole and the Coconuts. Alcuni invitati sfilano le scarpe e 32
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danzano, caraibici come l’insalata nizzarda. Si affaticano a piedi nudi, a coppie, a gruppetti, a trenini, a limbo, a esibizionismi, rimandi e sguardi complici. Ermanno non si toglierebbe gli anfibi da rissa per nessuna eventualità; è grato alla Baronessa, in fondo, per gli sguardi da beneficenza che anche lei lancia alla maraglieria scatenata.
Un ciccione dalla risata rumorosa sfila via la camicia, ci sono alcuni che ridono di fronte all’epifania di quelle rotondità ubriache e disvelate. Ermanno e la Baronessa si fanno, se possibile, ancora piu vicini. Percepiscono gli odori, i piccoli movimenti del respiro, e poi si baciano, lenti, entrambi già alla ricerca di un posto meno horrendo.
«Inizia il vernissaggio!» strepitano quattro grassoni inviati a disturbare le danze.
«Tra due minutini scopriamo l’installazione intitolata Reggae Rebounds, e poi ancora una tecnica mista che si chiama Brown Kreuzberg/Brown Attitude che è già stata richiesta a Berlino per l’estate prossima», dice il primo grassone, un semiguercio.
«E altri pezzi interessantissimi, tra cui l’intera serie dei ventiquattro Big Jim & Barbie erotici», gorgoglia il secondo del gruppo.
«Alcune opere minori come collage o posate pazze saranno anche messe in vendita, a fine serata», dicono gli altri due, simmetrici come fratelli Dalton.
«Va bene», dice Ermanno alla Baronessa. Ha smesso di baciarla, le sta parlando da molto vicino. «Andiamocene via di qua», dice.
Vanno a toccarsi nella Dyane di lei, a toccarsi sotto i vestiti nel parcheggio della villa di Lodovica Tora, e lui matura la rara e grave decisione di abbandonare la vespa e recuperarla l’indomani: ha bevuto troppo, e all’improvviso si sente incredibilmente responsabile; ma è una decisione che dura poco.
C’è la Baronessa che tra un bacio e una carezza decide di dedicarsi alla luogotenenza di Ermanno, per l’occasione crisoelefantina. Glielo impugna come una racchetta da tennis, inghiotte la punta, lubrifica con la saliva. Ermanno guarda il parabrezza, il modo storto con cui si riflette la luce dei lampioncini da giardino. «Ehi, non smettere», dice. «Non smettere.
Fammi godere in bocca. «
La Baronessa si pulisce con un fazzoletto di carta, diligente nelle ombre della macchina parcheggiata.
«Ho voglia d’alcool», dice Ermanno.
Già si vede entrare in qualche bar notturno, comprare una bottiglia di vodka. Gli è salita una voglia improvvisa di vodka, tipo. Per il migliore proseguimento della serata. Fissa la Baronessa, offuscato e già carico di nuove voglie. E ha un pensiero improvviso, l’idea che è venuto, per la prima volta, nella stessa bocca in cui è venuto Cousin Jerry. Ermanno sorride, sospeso.
«Ti piaccio, io?» dice la Baronessa, carina, adolescenziale, aristocratica. Poi ride, e anche Ermanno ride.
Ermanno e la vespa rediviva con la sella di dalmata stanno seguendo la Dyane della Baronessa verso abitazioni sconosciute, e lui non può fare a meno di pensare al travolgente benessere che lo illuminerà non appena la vodka e un altro paio di joint gli avranno fatto perdere le sembianze umane residue. Quando la Baronessa acconsentirà a farsi legare alletto, sporgere in aria le sue gioie, i polsi immobilizzati, completamente inerme. Quando la Baronessa sarà solo il filo perfetto di una schiena marcata, una piccola tenebra di marzapane da forzare con le dita e la lingua e l’uccello, una buona ferita grondante e in attesa. Allora, la visiterà per cento volte, formidabile e riassunto nella sua sensibile punta. La visiterà da dietro, e con le dita le aprirà il suo secondo segreto. La farà urlare di smettere, per piacere, per piacere… La farà godere come lei ha provato un’unica volta, in vacanza al mare, da ragazzina, dopo aver fatto la doccia con l’amichetta Tropicana, nude, bagnate, sedicenni, curiose: ma le è 33
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mancato il coraggio di allungare la mano, e tutto il godimento ha dovuto prenderselo più tardi, da sola, sospirando con un cuscino premuto in mezzo alle cosce, le mutandine usate dell’amichetta Tropicana baciate con la bocca.
Quando viene il momento, Ermanno la sposta in un vortice umido di urla, sudore, sentirsi completamente riempita e aperta. Adesso la Baronessa non si offre soltanto, accompagna il movimento avanti e indietro, la faccia appoggiata al cuscino, s’infila un dito dov’è piacevole, mentre Ermanno la fotte nel culo, carezza da dietro le tette piene, tormenta i capezzoli color caffè.
«Più forte», urla la Baronessa. «Spingi più forte, riempimi», grida e sospira. È un animale che sa solo godere e godere, ora, che non sa più dov’è, né chi la sta montando: «Vengo», gli dice. «Spingi, spingi dentro, vengo!» e tutto diventa una piccola furia velocissima. Anche Ermanno viene. Dentro il culo. Dice: «Ti piace in questo modo, vero? « Lo estrae via e schizza ancora le ultime stelle filanti, a sborrare la schiena sudata, le spalle morbide, i capelli profumati. Il flash dell’orgasmo lo acceca, lo svaria di brutto. Da ultimo, vede crollare la Baronessa, scorge la sua ferita splendente aperta, il rivo di caramello bianco che scende lungo la curva di marzapane.
Spaccato, Ermanno si spenge sulle lenzuola tiepide senza abbracciare la Baronessa, senza avvicinarsi in alcun modo.
Cinque minuti più tardi sta guardando la Baronessa che dorme sul fianco, la testa nobile coperta dal braccio magro e abbronzato. Respira veloce, come sognasse inquietudini.
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Venticinque ottobre, 1983.
Quando il vostro affezionato torna alla consapevolezza sono le undici e venti dei mattino, e la Baronessa ha da uscire. Si aggira seminuda per la stanza, rimette insieme i vestiti. Profuma di canzoni londinesi particolarmente acide e solide, come rarissime sbarbe conosciute finora, come certi pezzi ancora molto viventi degli Who. Infila su calze nere di lana, una gonna grigia pure pelosa e una specie di maglietta. Seta color avorio, la diresti.
Gira uno sguardo indulgente al giovane egoista conosciuto dodici ore prima. Ermanno si protegge un po’ offuscato sotto le lenzuola lungamente bistrattate negli assalti notturni. È
snella ed elegante nei movimenti, lei. Sembra una specie di ballerina teatrale.
Poi la sente camminare in stanze che lui non ha mai visto muovere forse cassetti sconosciuti, seguire percorsi e oggetti e punti di vista che non riesce a immaginare.
Con crepitanti scarpe bicolori ai piedi, lei si avvicina al capezzale: «Devo andare a lezione dilatino», dice. «Tu resta pure finché vuoi», dice. «Magari lasciami scritto quando ci sentiamo.» Poi siede sul bordo del letto la straordinaria luna di marzapane con cui lui ha fatto l’amore nottetempo. Giura, così pare a Ermanno in preda allo stordimento del risveglio, che gli vuol bene. Lo bacia sul collo, piano. Giura di avere una gran fretta, ma se dipendesse da lei, figurarsi… Gli bacia le labbra in superficie, giura che resterebbe così volentieri nel letto caldo a svegliarsi lenta insieme a lui, ma proprio non può.
Oh, quali plausibili discorsi.
Mezzo minuto più tardi Ermanno sente lo scatto attutito della porta bundata giù in ingresso.
Puoi raccoglierlo, questo nuovo silenzio semidenso, lasciarti distogliere dal minuscolo dolore della separazione.
Ermanno sente il motore freddo della Dyane che s’avvia. Immagina la Baronessa già proiettata, adesso, nella fretta generica del nuovo giorno. Sa che lei scenderà verso la cattedrale di santa Recuperata e gli altri monumenti minori di Nizza, per andare incontro alla sua fretta, e sa che lui può prendersi il tempo che gli serve, invece, assecondare i residui del desiderio.
E allora può stringerlo in pugno, percepire la forza giovane delle vene in evidenza. Mentre lei sarà forse ferma a un semaforo, in questo momento, in pace col mondo, perfetta dal punto di vista grafico, e non sa tanto bene come la immagina lui, molto aperta e irrorabile, partecipe nel prenderlo ancora dentro, scricciare i suoi sospiri corti, esigente nel ricevere. Si sente il mostro delle lenzuola, prova a immaginare le sbarbe migliori che ha usato, le altre che ha quasi usato. Continua a pugnalarsi senza fretta, lascia venire in quota l’eccitazione tenendo dietro al ritmo delle immagini. E quando sa che è il momento, torna da capo sulla Baronessa, alla sensazione di come era lei poche ore prima, a quattro zampe, protesa e indietro, superbamente scivolosa. Sente che dovrebbe averla sopra, ora, lei che sa far bene quanto una brasiliana giovane e per certo accoglierebbe con orgoglio quel suo piccolo omaggio ansimante nel mattino.
Ermanno sa che fra poco scenderà pistolero in quella strada semisconosciuta, giacchetta à la Ramones e pantaloni a brandelli.
Avrà fame, certamente. E avrà in testa due o tre localini centrali dove puoi far colazione da solo senza soffrire tanto, e anzi, goderti il lusso della giornata che inizia e non dover rendere conto a nessuno. E poi, sa che prima del caffè vale meglio restar soli a storpidarsi senza discutere.
Così, camminerà spedito verso lo special con la sella di dalmata, canticchiando asimmetrico la canzone che dice: «Mongoloid, he was a mongoloid», e mimerà rapidi accordi di basso uncinando corde immaginarie con la destra.
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Sarà, Ermanno lo capisce nel più vero del cuore, una mattinata silenziosa di mezza nebbia.
Lo spiedo girerà scoppiettando fra i ceppi accesi, e la vespa affidata, mansueta, sarà pronta ogni volta a farsi liberare della catena, docile al primo colpo di pedale.
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Fine ottobre, 1983.
Ho trascorso quattro o cinque giornate dai contorni incerti, imbrigliato nella perfezione nasale della brown che mi ha regalato Cousin Jerry, prigioniero in casa col cervello acquatico proprio come Rasputin annichilito dai sogni d’hashish nella casa dorata di Samarcanda. Ero troppo debole per lavarmi o vestire qualche panno ricercato e scendere in strada. Ho rifiutato tutti gli inviti e vissuto come un roditore al riparo nella penombra dell’appartamento, a cercare senso nelle straordinarie avventure di Gargantua e Pantagruele, a cercare liane di accordi elettrici convincenti sulla telecaster che ha rubato Raimundo. Lui è a Marsiglia come nostro plenipotenziario a una convention sulle politiche giovanili in Nepal e Afghanistan, organizzata da un prestigioso importatore algerino.
Ho evitato le visite, finto di non essere in casa, tenuto le luci spente per non essere visto dalla strada. Ho seminato per casa decine di candele magre trovate in una chiesa tempo addietro: le ho fissate con la loro cera ovunque capitava, come se ogni supporto, anche improvvisato come un libro o una pila di dischi, fosse perfettamente congruo, pensato alla bisogna.
Finché la brown ha voluto aiutarmi, mi sono creato intorno il sogno di essere un artista giovane recluso in modo volontario nella sua mansarda: strimpellavo sulla tele color crema la struttura delle scemenze punkabilly che tutti i ragazzi avrebbero ballato di lì a pochi mesi.
Nella furia quieta dei miei pensieri ero la nuova copertina di The Face, l’artista cult del decennio. M’avrebbero invitato a New York, a Londra, al centro di feste vomitanti e spappolate, gettato in pasto ai giornalisti di Rolling Stone e alle volpi di Frigidaire, riuscendo a imporre ovunque il mio stile ricercato e morfinico. Mi sarei accompagnato con modelle adolescenti e analfabete, certe tipe da circo, travestiti senza causa, ex mogli di presidenti e re.
I ragazzini avrebbero litigato a morte, pur di appuntarsi le mie spille sui risvolti della giacca.
Il successo che ti viene incontro così, magnifico e privo di luce come l’andirivieni dello schizo.
Avrei provveduto io stesso a ridimensionare di molto gli intolérables, una volta raggiunto il mio nuovo status: i mezzi videomaker, gli scultori di passaggio, gli installatori di verdura marcia e i pittori sperimentali sarebbero finiti a vender fiammiferi, per mettere insieme le due patate che gli avrebbero consentito di non morire a natale.
Quanto al resto delle celebrità locali a giro pei negozi di lusso, be’, loro sarebbero caduti uno dopo l’altro sotto le revolverate del vostro affezionato, incendiario come Jerry Lee Lewis, demolitore come Pete Townshend, definitivo come Ranxerox.
Non ci sarebbe più stato spazio per nessuno di quei carini. Alla taverna del Rigoletto, locale chic ma radicale, avrebbero organizzato una mostra di miei scatti fotografici e nel palazzo del comune una retrospettiva su certi miei scritti a cura di professori arcinoti financo all’estero.
Alla discoteca minorenne Bonsoir les liberteens si sarebbe tenuta un’audacissima sfilata di alcuni modelli in lana d’angora e lamiera insanguinata da me disegnati su un tovagliolo mentre, strafatto, volavo sull’oceano come il figlio di Mephisto. Io, purtroppo, non avrei presenziato al cocktail inaugurale perché la sera stessa allo stadio, mi sarebbe toccato di aprire il concerto dei Police con cinquanta minuti di delirio rumoristico in solitaria à la Devo più MC5 più New York Dolls più Lounge Lizards più Killing Joke più Black Flag più Iggy più Stray Cats più Nikka Costa, vaffanculo.
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Sei novembre, 1983.
«No, io non ho voglia di dirti niente, si può?» dice la Baronessa con voce danneggiata.
Guarda altrove, enormemente interessata all’arredamento del pub. Tipo le lampade, gli specchi coi nomi delle birre scritti sopra, tutti questi prodigiosi soprammobili gaelici.
«Cos’è», chiede Ermanno, «mi sei diventata aggressiva, adesso?»
«No, non ho voglia di parlare e basta.»
«E allora, cosa vogliamo fare? Si gioca al domino? A freccette? Sono abbastanza bravo, a freccette.»
«Parla tu, no? L’altra sera sei stato due ore a raccontarmi delle storie!»
«È che stasera non mi sembri molto interessata…» dice Ermanno.
«Sì, infatti…» dice la Baronessa.
«Infatti cosa?»
«Non è che certi tuoi discorsi mi interessino così tanto.»
Ermanno gira attorno il suo sguardo un po’ disperato.
Dice: «E allora, scusa, perché cazzo sei uscita con me? Per dimostrarmi questa indifferenza glaciale? »
«Non è glaciale», dice la Baronessa.
« Be’, per dimostrarmi questa indifferenza normale?»
«Può darsi», dice la Baronessa, assumendo una delle forse novecento posture da donna moderna e misteriosa.
«Ma… ma che madonna di situazione è questa?» si scompone Ermanno, «che cazzo vuole dire questa pantomima? Ci si conosce a una festa, si gode in modo magnifico, qualche giorno dopo, all’improvviso, mi trovo in tasca il tuo numero di telefono, ti invito fuori e tu dici sì sì volentieri, e poi passi due ore in silenzio di fronte a me… Che cazzo sei, una statua dell’Isola di Pasqua?»
«Pensa quel che ti pare», dice lei.
«Ma porcodiqueldio, ci si conosce a una festa, si passa una notte così viziosa, la mattina bacini bacini, e poi… Si può richiamare o non richiamare, io ti richiamo e ti chiedo se ti va di uscire e a te va; usciamo e mi fai la farsa tipo farmi sentire in colpa… Cos’è? Un film di Bergman? Sono seduto al pub del Basco, il mio pub, e mi sembra di bere una birra di fronte al giudizio universale…»
«Forse voglio farti capire qualcosa… » azzarda la Baronessa, prima che Ermanno impazzisca definitivamente.
«Ma a me non è mai capitato niente del genere… Un film di Bergman, guarda, porcoddio, sputato, a me piace Kubrick, capisci? Mi piace Sergio Leone, no Bergman… Che madonna vuoi farmi capire, poi? Se non te ne frega un cazzo di me, va benissimo: basta che se ti chiedo di uscire non mi dici di sì tutta cinguettante… Te ne stai a casa tua, fai le riunioni con le zitelle tue amiche, vai a un’altra festa, conosci qualcuno, ti fai scopare, ti fidanzi, ti sposi, fai quel cazzo che ti pare… Non c’è il minimo problema… Se esci con me, io, nella mia semplicità contadina suppongo che tu ne abbia voglia… Sai com’è… »
«Forse voglio farti capire qualcosa…» insiste lei. Ha la voce danneggiata di prima, gli occhi dispiaciuti.
Ermanno sfila una meravigliosa dal pacchetto, la stringe tra le labbra. Accende con la fiamma alta, la meravigliosa abbrustolisce all’istante per meta.
«Senti, bambina», dice Ermanno fissando sgomento la marlboro abbrustolita, «a me delle tue in sicurezze non frega niente, capisci? Io ci ho già tutti i miei problemi che se ne stanno a cuccia ad aspettarmi, capisci? Come varco la porta di casa, sono morto. Ho a che fare con dei pazzi. Con i drogati. Mazzate e fucilate tutto il giorno e la notte e il giorno dopo. Dovresti avere pietà, no rompermi i coglioni. Se pensi di esserti lasciata andare e adesso sei pentita, 38
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sono solo affari tuoi! Hai anche tutti gli alibi del caso, guarda. Sul tuo diario puoi scrivere che l’altra sera avevi bevuto troppo, che quei forse due joint ti hanno diminuito l’identità, che agivi in stato di trance. Raccontati tutte le verità più rassicuranti che ti vengono in mente. Se vuoi dimenticarti di me, va benissimo! Se ti sei innamorata del primo mostro sconosciuto che ti ha fatto il culo e adesso vuoi una storia un po’ più seria, è un altro paio di maniche, ma…
voglio dire, se vuoi piacere a una persona, magari dovresti metterti nei suoi panni, ogni tanto… Non puoi farmi passare due ore in silenzio nel mio pub… È l’esperienza più vicina alla morte che mi sia mai capitata in ventun anni di esistenza… altroché collassare…» Pronuncia queste napoleoniche parole e nebulizza saliva attorno.
A questo punto, la Baronessa si sottrae con talento da attrice non protagonista.
«No», dice la Baronessa. E ha già nel timbro tutte le qualità della sua retromarcia. «No», dice. «Il fatto è che mi sento un po’ apatica.» Piagnucola, quasi. «Non è che mi stai aiutando tanto, vero?»
Ermanno beve un ultimo sorso di birra. «A me», dice, «le fighe apatiche fanno schifo! Io», dice, «voglio godere, capisci? L’altra sera sono stato bene con te, voglio dire esperienze anche un po’ fuori dal comune, e adesso cos’è? Mi presenti il conto? Me la devi far pagare?»
«E a me», dice la Baronessa, «non pensi? Eh?» Le va via la voce. Prova ad accendere una sigaretta delle sue e le tremano le dita, ché non riesce a battere in ritirata come vorrebbe.
«Dovresti metterti nei miei panni», dice, con quella voce che va via.
«I tuoi panni è meglio che si tolgano dai coglioni rapidamente», dice ispirato il nostro drugo.
«Con te dentro, soprattutto. Anzi, è meglio che inizi a cercare qualche aspirante suicida che ti riaccompagni a casa, perché a me hai veramente rotto i coglioni. Finisco la sigaretta e vado da qualche altra parte, amore. La mia vita continua, amore… » Si concentra sulla musica dei Gaznevada diffusa dagli altoparlanti del locale: «È una donna di gomma, di gomma, di gomma, lei è Wonder Woman in un bagno di schiuma», dice il cantante Billy Blade, mentre lui siede di traverso, le gambe poggiate sulla panca: pensa alle geometrie generali del comportamento femminile, pensa che avrebbe voglia di farsi un joint, pensa che probabilmente i ragazzi si sono infilati in cantina a fumare, considerato che Dietrich è stato visto in giro a cercare cartine.
«La birra», dice Ermanno all’improvviso, «te la offro volentieri, visto che sono sportivo anche con chi si meriterebbe solo sprangate.»
«Mi porti da qualche altra parte?» chiede la Baronessa con una vocina così vellutata che sembra un soffio di brezza su un oceano di yogurt. Per un secondo diventa molto uguale all’apparizione soave incrociata alla festa di Lodovica Tora.
Riflette un attimo, Ermanno. Considera fulmineo i possibili sviluppi della serata, poi dice:
«No, guarda, vai a farti fottere che è meglio».
Si alza, chiede al Basco di segnare tutto in conto.
«I ragazzi sono in cantina», informa il Basco, muto testimone di vizi e virtù di Ermanno, e quindi barista ideale.
«Grazie. Hasta la vista», dice Ermanno, mentre chiude lo zippino della giacca. La gratitudine che non prova per quell’uomo…
Il vostro affezionato si gira, fa per uscire, saluta qualcuno. E all’improvviso la Baronessa sembra scomparsa. Invece, è appena fuori dal locale, seduta sulla vespetta verde con la sella di dalmata, le mani svelte appoggiate alle manopole di gomma.
«Passi il resto della se rata seduta su una vespa special?» dice Ermanno. «Veramente all’avanguardia. Chiama qualche tuo amico del Dams, qualche creativo di quelli che salutavi al vernissaggio… Magari ti fanno interpretare un filmino underground sulle ragazze nobili con difficoltà comportamentali», dice. Bussa il codice segreto a una porticina attigua all’ingresso del pub.
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«Vieni qua, dài», dice la Baronessa con una voce così sinuosa che per un attimo distoglie Ermanno dal paradiso verde della ganja.
Lui si volta a guardarla, attraversato dall’adrenalina:
«Cosa, ancora», chiede.
E all’improvviso lei è così morbida, talmente intrecciata alla vespetta verde e languida e desiderabile, mentre c’è Dietrich che apre la porta di colpo con occhi da odissea giamaicana in atto, e la folata d’aria gelida per un secondo lo rivitalizza. «Les joints sont faits», dice. «Chi ha bussato?» dice in modo automatico. Si sporge un po’ da robot, non capisce subito. Poi guarda via in diagonale, e finalmente lo inquadra: a dieci passi da lui c’è Ermanno che bacia una strafica seduta sulla vespa di Ermanno.
«Ehi, amigo», dice impastato. «Io ci sono. E tu?»
Ermanno e la lingua di Ermanno scivolano fuori dalla bocca accogliente della Baronessa. «O
fratello», dice. «Sono qui, fammi entrare!» E ancora prima che faccia un gesto, lo capisci fino a che punto è già dentro al calore fumogeno della cantina.
«Stronzo!» gli strilla la Baronessa da dietro le spalle.
«Ciao, amore! » dice lui, mostrandole il medio alzato. Ghigna felice, prima di chiudere la porta in modo definitivo.
«Ehi, amigo, secondo me non hai mica capito come gira il mondo», riflette ad alta voce Dietrich, ribaltato com’è. Ride, dice: «Una fichina meravigliosa così». Scuote la testa, poi prende Ermanno sottobraccio. Dice: «Va bene, porca puttana. Andiamo».
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Tredici novembre, 1983
Nella sera gelata di novembre Raimundo combatte gli invasori spaziali sul Colecovision.
Ermanno tratta le bolle di pakistano ammorbidendole su una candela. Prima le scalda, poi ci affonda la lama del coltello e le riduce in tagli minori, attento a non sbriciolarle. Ha una clientela talmente bamboccia e affezionata che non si premura nemmeno di pesare tutti i pezzi prima di avvolgerli nella plastica trasparente.
Nelle loro camere e nelle agendine telefoniche, i due amici hanno quel che serve a farli stare tranquilli. La luce è tiepida e in certo modo quieta, l’atmosfera rilassata, i piedi frusciano volentieri sul tappeto e lo sguardo lentissimo scivola sui dettagli gonzi dell’appartamento, lieto di affermare: Questa è casa mia, o se preferite: Io qui mi sento protetto.
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Venti novembre, 1983.
Creature scure e grandi come scarpe da bambino stanno sfrecciando nel cortile sul retro. Li sento da dietro i vetri, li vedo volare bassi, lanciano uno squittio orribile, non capisco se siano tipo merli o tipo pipistrelli.
Forse i pipistrelli non squittiscono, e comunque neanche i merli lo fanno, e in ogni caso a questo punto della notte dovrebbero già dormire nei loro nidi da merli, credo. Vengo via dalla finestra, provo a concentrarmi sulla musica.
This is not a love song, dei Public Image Limited, la voce è quella di John Lydon, non so se vi possa suggerire qualcosa, o perlomeno inquietare un poco.
Il fatto è che la bronchia al vetriolo del Lydon si adatta alla perfezione a determinate scenette celebri della cosiddetta vita: i vecchi muoiono, i giovani crescono, le mamme imbiancano, i bambini rompono i coglioni. Tutto sotto controllo. Gli studenti danno o non danno esami, le belle fiche si fanno o non si fanno scopare, il barman prepara o non prepara il peggior martini vodka della vostra vita. Sette o otto paginette di regole fotocopiate sarebbero sufficienti per spiegare a uno zulù come vivere in società e avere un discreto successo nei salotti, il tutto organizzato da ultras dell’ordine democratico. Noi no. Per il sottoscritto, per il Cousin, Raimundo e Dietrich, no. Siamo la frangia irrecuperabile di una battaglia che non si poteva nemmeno cominciare, siamo l’insensatezza, lo sradicamento, la violenza. È nostro dovere morale affondare quell’universo dolcificato e musicato da Cerrone. Ed è per noi una bandiera fare vita da guerrieri metropolitani, come una wilde clique berlinese d’inizio secolo.
Sono debolezze forse, ma ci si continua a radunare intorno a quelle vecchie icone e modi di dire, ci si identifica meglio col nostro ruolo di vespisti e public relation men dell’apocalisse.
(No, cazzo. Che uomo sei? Un uomo deve emanare un alone odinico di autosufficienza, e tu sei pieno di bisogni: sei impastato di voglie, non sai pianificare, stabilire le priorità. Desideri di continuo, traiettorie altissime e cose qualsiasi di strada. Lo sai in che senso non può andar bene. E i tuoi amici? Prendi Dietrich, per esempio: un alcolista. Né più né meno. Un alcolista fissato con la seconda guerra mondiale a fascicoli, che sogna di organizzarsi la vita per piani e progetti e invece morirà tra le bottiglie come una qualsiasi mosca da bar che si è trovata senza merito dall’altra parte delle bibite.
Raimundo, un mezzo pusher che cammina come un gigolo cubano, camiciola da bowling e basette ben tenute. Probabilmente è solo un aspirante adulto in cerca di sicurezze. Gli mancano quei due o tre etti di coglioni per fare veramente la differenza. Piace giusto alle sbarbe più impressionabili.
Cousin Jerry, poi, è un pazzo furibondo che va in giro senza meta alle cinque di mattina, un maniaco, un tossico, un disadattato da quasi tutti i punti di vista, una bestemmia urlata contro le geometrie del buon comportamento umano. Con quella spilla sempre appuntata alla giacca.
“Ti Sborro In Faccia”, c’è scritto. Roba che le femmine si sporgono in avanti per leggere e si ritraggono schifate. Che poi quando ci ripensano, magari viene anche voglia, dopo, in situazioni molto più casalinghe e subconscie.)
Ermanno si ripete questi pensieri dieci o quindici volte al giorno, mentre cammina sotto la pioggia, ad esempio, o mentre si muove dentro al bar con un bicchiere di latte in mano e la testa che esplode. È convinto che le cose stiano così. Non è molto efficiente, ma in realtà non gl’importa. Si sente più che altro un animale raro che i turisti o le femmine possono vedere da vicino ma non vorrebbero mai portarsi a casa. Pensa a tutti i vaneggiamenti di Cousin Jerry sul rizoma e l’uomo sradicato o comunque a pezzi, con idee seriamente poco a fuoco.
Adesso non si sentono più gli uccelli, e il buio oltre le finestre è un sipario di tenebra autunnale. Così, può accendere il suo joint di libanese, il solo vero soccorso che lo aiuterà a darsi la buonanotte. Si diverte e se la prende a fare certi pensieri. Gli manca baciare il seno di una determinata ragazza diafana, e altre mancanze ancora, pro-fonde e novembrine. Soffia via 42
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un po’ di fumo, e c’è un istante in cui, come in uno squarcio, si sente catapultato oltre il fondale delle apparenze. In compagnia del suo joint, sta andando in visita alla cabala preferita del vecchio Dietrich, quella battaglia delle Ardenne combattuta nell’ultimo inverno di guerra dai tedeschi ormai accerchiati, il piano per rompere l’assedio alleato con divisioni dai nomi altisonanti composte da riservisti miopi e granatieri mezzi storpi. Gli sembra di coglierla, quella poesia disperata lanciata con i panzer attraverso l’intricata foresta delle Ardenne, l’ultimo colpo di coda di uomini destinati a diventare i rifiuti della storia, orgogli negati definitivamente, intere vite da cancellare. E quel che resta del suo coraggio, tedeschi o no, in questo caso, è con le armate di pezzenti che attraversano silenziosi il buio della foresta di abeti per contrattaccare, per prendere alle spalle le divisioni smaglianti dei generali alleati. La carta del suo joint brucia. Non cade subito nel posacenere. E lui ha, a un palmo dagli occhi, la punta di quella cosa che arde e Bastogne, l’avamposto che hai davanti mentre tutta la foresta gela, mentre con gli altri disperati rispondi al fuoco nemico e vai incontro al tuo destino.
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Ventitré dicembre, 1983.
Una telefonata inattesa di papà Claypool mi suggerisce un buon espediente per intascare una certa somma senza troppi sbattimenti. Si tratta di passare il natale a Aix-en-Provence col vecchio e la nipotina del caso, che mio padre qualifica a volte come Hanalise, altre come Anilisa o Anna Lisa. Non gli chiedo l’età, che immagino tra i diciannove e i ventisei, comme d’habitude chez Gualtiero Claypool. «Lei si occupa di estetica», m’informa il pater, cercando di giustificare la solita sciampista col secondo lavoro. Mio padre sgancia dinari che è un piacere, in queste circostanze. Si vede che è proprio appagato, in certi momenti. È natale, e nella grande casa guadagnata col sudore della fronte, circondato da tutto ciò che è suo, pranzerà insieme al figlio, che non vede più di due volte l’anno, e una simpatica mignotta che ha bisogno di lavorare anche il ventiquattro, venticinque e ventisei dicembre.
«Papi, arrivo il ventiquattro mattina», dico al telefono.
La mattina del ventitré dicembre la situazione mi si prospetta così: Dietrich passerà il natale a Nizza con una ragazza che si chiama Marta. La conosco, è una povera stronza, e so che finiranno per litigare comunque. Raimundo trascorrerà il natale con due minorenni a cui vende erbaggi chiavandole alternativamente. Mi sa che almeno a natale i genitori di queste due puttane faranno la voce grossa per averle a casa, e l’appuntamento si rivelerà un gran pacco, immagino. Cousin Jerry non conosce nessuno interessato a festeggiare il natale, e pensa che andrà a bere un paio di cuba libre a casa di qualche malavitoso di passaggio, così, senza impegno. Secondo me fa finta che non gli freghi niente, ma verrà anche a lui la fotta del natale, mi dico.
Il medesimo ventitré dicembre, subito dopo pranzo vengo a sapere che Dietrich ha litigato pesantemente con Marta e non vuole più passare il santo giorno in sua compagnia, Raimundo gli propone quindi di unirsi alle due minorenni. Due noi, due loro, claro, liscio come l’olio, porta i guanti, io la bionda e tu la moretta, come fossimo già dentro al pianeta misterioso.
Cousin Jerry non ha ancora nessun itinerario preciso, e si sta facendo prendere dall’ansia, che manifesta con telefonate frequenti e nevrotiche tese a scoprire qualche cambiamento di programma.
Tempo sessanta minuti, una delle due minorenni telefona a Raimundo giustificando l’amichetta, che sarà trattenuta a casa dai parenti. Così siamo soli noi due, suggerisce, incidentale & puttana. E insomma Dietrich è scaricato, e adesso ha un po’ paura, ché si ritrova a brancolare nel baratro dell’incertezza.
Dopo un’altra ora di appostamenti e pisciate territoriali del tipo vantare opportunità di cenoni da favola con subcelebrità cittadine e altre bambinate, Cousin Jerry si convince a invitare Dietrich in montagna. Il Cousin conoscerebbe il numero d’un rifugio economico a due ore di macchina da Nizza, grappa a gogo, gran sbarbate, turiste di cento nazioni diverse, festeggiamenti pirotecnici, grolle dell’amicizia, amorose bestie a due schiene su tutte le brandine del rifugio. Va bene. Magari restiamo lì quattro o cinque giorni. Sì, sì, ci distendiamo un poco. Chiamano l’ostello. Hanno gli ultimi due posti liberi. Prenota, prenota.
Che culo planetario. Partiamo domani mattina. A posto, e abbiam sfangato anche il natale.
Nella notte, però, la giovane baldracca superstite telefona a Raimundo: i genitori l’hanno chiusa in camera, dopo aver aspramente litigato. È un diritto averla a casa, almeno per natale.
Raimundo chiama Dietrich e chiede se per favore lo prendono in montagna. Oh, purtroppo non si può, dice Dietrich. Non c’è posto, sai. Erano proprio gli ultimi due posti. Non t’immagini quanto mi dispiace. Sul serio.
Il ventiquattro mattina Raimundo, angosciante come un Bela Lugosi in piumino d’oca, dovrebbe accompagnarmi in stazione, ché devo raggiungere mio padre, prendere il treno per Aix-en-Provence.
«Facciamo colazione», dice Raimundo. «Tanto siamo in anticipo.»
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Mi stupisce la sua insolita cortesia, e io vengo rapito attraverso i vialetti alberati del quartiere. La vespa bianca di Raimundo evita misteriosamente il bar del Volpe e i suoi rinomati tramezzini, evita il forno, evita il triste bar del Geranio, evita la sfavillante vetrina della pasticceria Arlequin, che lui di solito definisce “un posto di classe”. Finisco di succhiare il personale joint del buongiorno, lancio via nel traffico il filtro ingiallito per l’olio di The. Per un po’, vagamente eccitato dall’idea della partenza, sopporto deviazioni incomprensibili, finché non mi pare di trovarmi su un itinerario conosciuto. «Raimundo», dico, «dove accidenti stiamo andando?»
«Da Dietrich», dice lui, un po’ ingolfato, come stesse masticando. «Salutiamo i ragazzi prima che partano per la montagna. Si trovano al bar di Dietrich alle dieci e mezza. Tu hai il treno ai cinquantadue, giusto? si fa in tempo a passare da loro.»
Raimundo la tira per le lunghe in ogni modo, prospetta fantomatiche attività interessanti in città.
Alla fine arriviamo al bar di Dietrich, e quando scorge gli zaini pronti poggiati al frigo toseroni, gli sale il terrore che per davvero verrà piantato qui da solo nei giorni più disperanti dell’anno. E non vuole che parta neanch’io: il treno sarà ormai al binario e lui ancora farnetica di nuove possibilità, un intero catalogo di festeggiamenti componibili per soddisfare le più cospicue esigenze. Dietrich e Cousin Jerry sono inflessibili: passeranno il natale in rifugio, mangeranno alla montanara, berranno distillati, faranno cigolare le molle dei letti a castello.
«Ehi, potremmo andare tutti insieme a mangiare le rane», butta là Raimundo, pressoché in lacrime.
E poi ci si saluta, vengono scambiati gli auguri di buon natale, in maniera talmente definitiva e di congedo che Raimundo guida fino in stazione mesto e incerto come uno sbarbo bastonato.
Raimundo mi aiuta a liberare lo zaino dal portapacchi, dice: «Certo che la parola cameratismo è stata cancellata dal vostro vocabolario».
E mentre siamo di fronte alla biglietteria, sono io il primo a vederli, Dietrich e Cousin Jerry che attraversano l’atrio di corsa, facendo smorfie in tutte le direzioni. Lo spirito del Natale li ha resi buoni e trafelati, sembra. «Raimundo», dice Dietrich, «non preoccuparti. Trànquilo, ci restiamo noi, qui con te. L’abbiamo disdetto, l’ostello.» Gli fanno una sviolinata del genere, tanto che all’inizio penso si tratti d’uno scherzo.
Il mio treno è ancora fermo al binario, paziente nella vibrazione semisommersa del locomotore, intanto che i tre amici cominciano a ballare una coreografia alla holiday on ice, si tengono per mano. Sono così disperatamente scoordinati e natalizi che ci vorrebbero anche le renne danzanti sui pattini, giusto per premiare le buone intenzioni. Uno di quegli spettacoli quasi gotici con tanto di nevicata artificiale e campanelle assicurate al sedere degli artisti tramite nastro di velluto rosso. Mi è sempre dispiaciuto avere interrotto quella natalizia esibizione d’amore fraterno. «Regiz, allora io vi saluto», dico, col mio biglietto di viaggio in mano.
«Oh, no, Ermanno, no!» dicono i tre mostri. «Andiamo, amigo! Non ci abbandonare, senza di te non avrebbe senso.» E un poco mi commuovo, a vedere quei furibondi che implorano mezzi teneri.
«Questa sera», dice Dietrich, «facciamo il cenone da me. Resta anche tu, amigo», dice.
«Eh, ma da mio padre chi cazzo ci va?» chiedo.
«Non c’è problema, amigo», dice Cousin Jerry. «Ti accompagnamo noi domattina in macchina.»
«Sicuri?»
«Sicuri», dice Dietrich.
«Sicurissimi?»
«Certo», dice Cousin Jerry. « Sicurissimi. »
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Mi prendono sottobraccio, ridono, mi strapazzano in modo fraterno. Mi spettinano i capelli, e c’è l’interregionale per Aix-en-Provence, con nessuno ai finestrini, che comincia a sfilare via lento dalla tettoia senza di me.
La notte di natale ci siamo ubriacati di gin, abbiamo fumato come belve feroci, e Raimundo ci ha fatto tirare un paio di righe a testa della sua riserva personale. Poi siamo usciti in strada, abbiamo molestato i credenti in parata fuori dalle chiese, lanciato raudi e un paio di molotov nell’ovatta della notte più silenziosa dell’anno. Abbiamo ribaltato i cassoni dell’immondizia, bruciato telefoni pubblici, lanciato sassi e bottiglie contro le case dei lavoratori, contro i lampioni. Eravamo sedicenni di nuovo, ribelli di quartiere, vandali con qualche quarto di nobiltà. A fare queste cose che non facevo da un sacco di tempo mi sono un poco emozionato, e siamo andati avanti così, una cinghiata ai vetri d’una macchina antipatica, una gollata di gin, un joint, un motorino devastato a calci in onore dei cari vecchi tempi. Ci si saluta alle sei del mattino, e io sono talmente ubriaco che potrei pisciarmi nei calzoni da un momento all’altro.
Raimundo mi sveglia alle quattro e dodici del pomeriggio. «Auguri, amico», dice. «Buon natale.»
«Ieri dovevo essere da mio padre», dico con bocca impastata.
Si organizza in men che non si dica una carovana per Aix-en-Provence.
Via così, quattro pazzi appena svegli lanciati sull’autostrada. Soste a ogni autogrill. Un irish coffee. Una vodka. Un amaro. Tanti auguri, signora cassiera. E via, la scatola di cioccolatini trafugati è già al sicuro sotto il cappotto di Dietrich. Questo glielo offro io che è natale. E
anche i mignon di liquore sono già al calduccio nelle tasche del Cousin.
Finisco recapitato davanti a casa di mio padre più o meno all’ora di cena. L’idea di poter vomitare appena messo piede nella casa aliena mi tortura. Per darmi un minimo di contegno, prima di suonare al campanello, accendo una meravigliosa, respiro forte le boccate in mezzo al freddo. Gli amici girano qui per Aix-en-Provence. No, prenderanno una camera in albergo.
Una tripla. Anzi, no, vanno in ostello. Macché, tornano a Nizza stasera stessa… Come al solito non si capisce niente, e io so soltanto che la citroén squalo di Cousin Jerry comincia a marciare piano verso il fitto della nebbia proprio quando mio padre apre il cancello elettrico col comando a distanza. È alla finestra, il vecchio Claypool, che si sbraccia e saluta. Mi pare si sia tagliato i baffi, visto da qui.
Lo diresti felice di vederti, il vecchio, con indosso un accappatoio caleidoscopico degno di Frank Zappa, mentre siede alla tavola bene apparecchiata e ti scruta in cerca di cambiamenti.
Di fronte a lui, muta e imbronciata nonostante l’ambiente confortevole e le candele e i segnaposti, c’è la troia che ha preso in affitto per le feste. «Lei è Hanalise», dice.
Stringo la mano a un sorriso di circostanza. «Ciao», dico. «Buon natale. Io sono Ermanno.»
Questa lurida ignorante globale ha tette tonde e ravvicinate, sode come i meloni dei contadini.