Il razzista che ero
Nel 2014 Lorenzo Kom’boa Ervin e JoNina Abron-Ervin, due ex membri delle Black Panthers che avevano dedicato la loro vita all’attivismo rivoluzionario, sono stati invitati all’Anarchist Bookfair di Londra. Nel loro tour sono arrivati anche a Nottingham, dove hanno partecipato a due eventi. La prima conferenza era sulla storia delle Pantere nere ed era ospitata all’Hyson Green Youth Club. La seconda era sul razzismo all’interno della sinistra radicale ed era prevista al Sumac Centre. Il primo incontro era pieno di gente, la sala – che avevo prenotato io – era troppo piccola e le poltrone furono presto occupate da persone della sinistra radicale bianca. Quando arrivarono alcuni membri della comunità nera (in numero non consistente) faticarono a trovare posto per ascoltare comodamente quella conferenza così emozionante.
Innanzitutto la colpa per la scarsa affluenza della comunità nera è mia. Non avevo spinto abbastanza l’evento e non mi ero impegnato nella promozione con abbastanza energia. Lo stesso vale per la scelta di una sala troppo piccola: nonostante sia dipesa da un errore di comunicazione, ne sono responsabile per non essere stato abbastanza previdente. Tornassi indietro, avrei dovuto far aspettare fuori i bianchi fino a quando i membri della comunità nera interessati a sedersi non avessero preso tutti posto. Solo dopo dovevo far entrare i bianchi.
Alla conferenza al Sumac Centre era venuta fuori tutta la vigliaccheria della sinistra radicale di Nottingham. Se una quarantina di loro si erano degnati di presentarsi al primo evento, meno di dieci si erano presentati al Sumac, a cui si erano aggiunti alcuni bianchi da Leeds e da Sheffield. Lorenzo e JoNina avevano tenuto un altro discorso emozionante, schietto e brutalmente sincero. Pieno di verità. Non vi tedio con delle citazioni: leggete The Progressive Plantation. Racism Inside White Radical Social Change Groups di Lorenzo Kom’boa Ervin. Dopo questa iniziativa un militante nero di Nottingham ha colto l’opportunità di far crescere il nostro collettivo (composto da bianchi) organizzando una serie di incontri in cui noi eravamo invitati ad analizzare nel dettaglio The Progressive Plantation e il razzismo che avevamo interiorizzato.
Non parlerò degli altri partecipanti bianchi oltre me. È stata una cosa che mi ha fatto aprire gli occhi, ma poteva essere più profonda. Sia perché mi sono avvicinato con una certa arroganza, sia perché i partecipanti bianchi si sono divisi abbastanza nettamente in due gruppi basati sull’estrazione di classe, cinque persone che si definivano di classe media da una parte, e dall’altra tre di provenienza povera o working class. Il laboratorio è stato molto più impegnativo per quelli di classe media, cosa che mi ha dato l’opportunità di lasciarmi andare. È stato facile ammettere di aver partecipato da bambino alle manifestazioni del National Front e di aver lanciato da adolescente ogni tipo di insulto colonialista contro le persone di colore. Sono cose su cui avevo riflettuto da tempo e avevo già trovato le parole giuste con cui parlarne. Il mio razzismo era viscerale e ottuso, non ambivo a essere un bravo cittadino di una società multiculturale. Nell’istruzione progressista che ho ricevuto in seguito, e nei circoli militanti di sinistra che ho frequentato, quando si parla di razzismo si parla di persone come me e la mia famiglia.
Potrei affrontare queste critiche e usarle per capire come avevo appreso le basi del mio razzismo. Chi è cresciuto in un contesto progressista ed è stato educato a diventare un bravo cittadino multiculturale deve rimuovere parecchi strati prima di vedere quanto razzismo ha incorporato. Certo, non era completamente facile lasciarsi andare, ma probabilmente non sono stato molto collaborativo durante il laboratorio, e potevo essere più rispettoso verso l’impegno messo dal facilitatore e dalle altre persone non bianche che erano venute a parlarci. Il facilitatore ci ha spinti non solo a identificare in che modo il suprematismo bianco ci aveva fornito dei vantaggi nella vita, ma anche di pensare ai momenti in cui avevamo deliberatamente usato le strutture sociali del razzismo a nostro beneficio e a scapito di altre persone. Lo scopo era esaminare in maniera franca il nostro rapporto con, e il nostro ruolo rispetto al suprematismo bianco, in modo da poter collaborare in maniera più solidale con le persone di colore, comprendendo al tempo stesso gli errori fatti in passato quando abbiamo provato a esprimere la nostra solidarietà in maniera meno sincera e ragionata.
Dopo quel laboratorio mi sono messo in discussione sempre più profondamente, e mi sono impegnato a portare questo lavoro all’interno dei percorsi politici di cui faccio ancora parte. Ma in questo libro non voglio parlare tanto di come sono cambiato e cresciuto, ma della persona che ero, di quanto è rimasto in me di quella persona. E non me la caverò fustigandomi in pubblico o torcendomi le mani per il senso di colpa. Sentirsi in colpa può essere utile per un minuto, forse cinque se è una giornata pigra, ma questi momenti di presa di coscienza sono una cosa più importante, sono vitali per chiunque voglia partecipare a un movimento dal basso di cambiamento sociale rivoluzionario, e andrebbero fatti anche riguardo tutta un’altra serie di questioni (a partire da classe, genere, abilismo e orientamento sessuale). È un processo utile anche se non siete interessati a mobilitarvi in organizzazioni radicali, ma volete soltanto vivere nella società e interagire con gli altri in maniera aperta. Io lo sto facendo qui, ora, perché ho vissuto da persona bianca mentre parlavo di povertà e classe lavoratrice nel Regno Unito, ossia condizioni che colpiscono in maniera sproporzionata le persone di colore.
Credo che gli appartenenti alla classe lavoratrice e i poveri devono lavorare per una trasformazione sociale rivoluzionaria. In tal senso parte del nostro attivismo va dedicata a educare noi stessi, riflettendo sulle strutture del suprematismo bianco in cui viviamo e da cui traiamo beneficio. Ovviamente per smantellarle. Se non comprendiamo i nostri ruoli nelle strutture sociali d’oppressione, siamo mal equipaggiati per sfidarle in maniera energica e non riusciremo a smettere di riprodurle.
Ho passato i primi dieci anni della mia vita tra comunità di rom irlandesi o di nazionalisti bianchi, e nessuna di queste era particolarmente antirazzista, direi. Dal lato della mia famiglia di origine rom irlandese, con cui a dire il vero ho passato gran parte del mio tempo, si usavano regolarmente un certo numero di espressioni razzializzate, e io le ho assunte senza metterle in discussione. Si negava continuamente l’umanità delle persone che non erano bianche e questo ha plasmato in maniera drammatica la mia psiche. La mia famiglia apparteneva a una minoranza fortemente perseguitata che però si affidava al linguaggio dell’oppressore quando doveva rapportarsi con persone di altre razze, di altre etnie o religioni. A proposito, per quelli di voi che hanno origini irlandesi: siate orgogliosi delle vostre origini, ma non venite a dirmi che anche gli irlandesi sono stati schiavi. Se ci riferiamo alla servitù a contratto nei Caraibi o nel sud degli Stati Uniti, allora quella è un’altra cosa. Qualsiasi sia stata la schiavitù conosciuta da uomini e donne irlandesi, non era certo la schiavitù che ha finanziato il successo economico dell’Inghilterra, e non era la schiavitù che ha dato forma alla globalizzazione e alle sue culture negli ultimi trecento anni. È stata una brutta cosa, ma non la stessa. E quando l’argomento viene tirato fuori, va collegato a quanto è sempre stato merdoso il governo inglese. Ma il commercio transatlantico di schiavi non c’entra niente.
Nessuno nella mia famiglia ha mai speso più di tante parole per riconoscere l’umanità delle persone di colore, ma nessuno ha neanche mai provato in qualche modo ad approfittare di loro. Eravamo una comunità chiusa, sulla difensiva, e non eravamo certo degli oppressori. Questo non significa che i miei parenti non sarebbero stati aggressivi se avessero avuto più potere. Ma ci sono comunque state anche un paio di occasioni in cui questo mio lato della famiglia ha fatto a botte con dei giovani bianchi lottando al fianco di membri della comunità pakistana. C’è stata poi più di un’occasione in cui gli sbirri hanno fatto delle retate contro le famiglie del posto, e degli afrocaraibici sono arrivati in nostro sostegno, e in seguito questa solidarietà è stata ricambiata.
Guardando indietro, il linguaggio con cui ci esprimevamo era disgustoso, per quel che ricordo. A sei, sette, otto anni vomitavamo questo linguaggio razzista nel giardino della scuola e nel parco in cui giocavamo a calcio, con la tranquilla sicurezza che i ragazzini bersaglio dei nostri insulti avevano difficoltà a ribattere. I loro stessi genitori gli dicevano di porgere anche l’altra guancia, perché qualsiasi cosa succedeva avrebbero poi dato la colpa a loro per via del colore della loro pelle. O forse non ribattevano perché erano intimiditi dalla mia famiglia, che aveva la reputazione di spezzare le ginocchia o di far saltare in aria l’auto di qualcuno senza bisogno di troppe provocazioni. L’abitudine a usare questo tipo di linguaggio razzista, il mio diritto a farlo, mi sono rimasti addosso per anni, anche quando avevo già smesso di vivere con la mia famiglia.
Anche dopo essermi spostato in una città più grande, dove la reputazione della mia famiglia non era conosciuta e dove le persone di colore erano più inclini a rispondere alle provocazioni, ho continuato comunque a usare questo linguaggio. E così spesso ho preso un carico di legnate. Le botte però non mi sono servite a smettere di usare offese razziste. Piuttosto hanno acceso il mio rancore, perché mi avevano tolto l’idea che avessi tutto il diritto di usare quel linguaggio, come mi era stato insegnato. Con questo non voglio dire che non meritassi quelle botte, tanto più che non furono troppo pesanti.
Gli altri adulti che hanno plasmato il mio razzismo negli anni dell’infanzia sono stati mio padre e i suoi amici. Erano un gruppo organizzato di hooligan e partecipavano all’attività politica dell’estrema destra. Sono stato a manifestazioni del National Front portato sulle spalle da adulti che mi incoraggiavano a fare il verso della scimmia e a lanciare banane contro i neri. Stavo seduto negli angoli dei pub mentre questi uomini, assieme ad altri come loro, discutevano della «piaga della gente con la pelle scura che ruba agli uomini bianchi d’Inghilterra posti di lavoro e donne». A causa della demografia del Lancashire erano le persone che provenivano dal Pakistan e dall’India a dover sopportare più spesso le conseguenze “fisiche” di questo odio, ma questi inglesi bianchi quando parlavano rivolgevano la maggior parte della loro bile ai neri.
Giocavo nelle giovanili della principale squadra della città. Per mio padre era fonte di orgoglio e spesso veniva a guardarmi portandosi dietro i suoi amici. Se tra la squadra degli avversari c’era un giocatore nero (e tenete a mente che stiamo parlando di bambini di otto o nove anni) cominciava a lanciare offese contro la sua famiglia. Poi urlava verso di me, incoraggiandomi a fare a pezzi quel giocatore. In più di un’occasione ci provai davvero, pestando i piedi del ragazzo, o dandogli una pedata senza far caso a dove fosse la palla. In un’occasione venni espulso e mio padre e i suoi amici si lanciarono all’inseguimento del padre del ragazzino nero, fuori dal campo, mentre gli sbirri del posto se ne stavano da parte, facendo finta di nulla.
La caratteristica che accomunava sia le mie radici rom irlandesi che quelle working class inglesi, è che entrambi eravamo gruppi marginali, quelli che stavano nel mirino di chiunque. E non solo: in entrambi i casi consideravamo gli altri marginali come se fossero alleati dei gruppi dominanti. È la stessa retorica di certi giornali dei giorni nostri: «Le élite liberali e la sinistra lavorano con i musulmani per imporre la sharia nel Regno Unito». Questa robaccia usciva dalla bocca di tutti i miei parenti, da entrambi i rami, paterno e materno. Mi avevano ficcato in testa che la pelle bianca era l’unica pelle umana, che il popolo bianco non era solo il popolo originario, era l’unico popolo, gli altri erano animali.
Alcuni cambiamenti nel mio modo di vedere le cose cominciarono attorno ai dieci-quindici anni. Vivevo nel NG7 (un quartiere di Nottingham che prende il nome dal suo codice postale) e le persone con cui passavo il mio tempo erano soprattutto ragazzini di famiglie povere che passavano la maggior parte del tempo fuori di casa. Era un gruppo molto variegato dal punto di vista etnico, nonostante a causa della nostra condizione economica di rado socializzassimo tra gruppi razziali diversi. Come ho già detto, questo non mi impediva di parlare usando espressioni razziste di merda, ma quando le usavo poi me le facevano ricagare. Ovviamente le botte non bastavano a farmi cambiare tono. Ma è molto più difficile urlare stronzate contro il colore della pelle di un tipo che non ti piace, se i tuoi amici che fino a un attimo prima lo stavano insultando insieme a te hanno la pelle del suo stesso colore. Ovviamente tutti cominciano a guardarti come se fossi una testa di cazzo.
Erano ragazzi come loro a coprirmi le spalle in molte occasioni. E io coprivo le loro. Non erano tutti spacciatori o sex workers, ma tutti erano costretti a sopravvivere in un modo o nell’altro, proprio come me. Per strada conta solo chi sta dalla tua parte. E se chi sta dalla tua parte ha un colore della pelle che secondo la tua famiglia è da subumani, allora cazzo, devi cominciare a dimenticare la merda che ti hanno inculcato. Ovviamente dimenticare questa merda non significa automaticamente sconfiggere il suprematismo bianco che ti porti dentro. E non basta neanche immergersi nella cultura popolare nera, cosa che a dire il vero ho fatto, di certo non con una seria riflessione sui miei consumi culturali, quanto piuttosto perché quella era la cultura che avevo attorno. Biggie, Ice-T, Tupac e NWA, è con la loro musica che sono cresciuto, e copiavo il loro linguaggio e il modo di vestirsi. Ciò non vuol dire che capivo meglio cos’era il razzismo, o cos’era davvero quella cultura. Mi limitavo semplicemente a recepire la cultura che era lì alla mia portata. Le serate di musica irlandese non erano granché fighe per un ragazzino di dodici anni.
Considerato il mio attuale accento, sarete sorpresi di sapere che da adolescente ne avevo uno che era un mix tra l’irlandese, l’accento di Nottingham e quello del Lancashire, con alcune influenze giamaicane. Ho smesso di parlare a quel modo dopo aver ricevuto una bella lezione a proposito della “appropriazione culturale” quando mi rivolsi con quella merda di accento finto a un detenuto di origini West Indians nel carcere di Brixton. Presi delle botte così pesanti che per due settimane non riuscii a vedere, tanto i miei occhi erano gonfi. Ma avevo capito che non avevo alcun diritto di usare quel tipo di linguaggio.
In maniera più o meno consapevole continuai comunque a trarre vantaggi sfruttando il suprematismo bianco. Negli incontri di pugilato facevo innervosire gli avversari sussurrandogli merdaglia razzista nelle orecchie. E gli assistenti sociali delle case famiglia, così come le guardie carcerarie in prigione, mi trattavano con più rispetto quando manifestavo il loro stesso razzismo. Non posso dire che mi trattavano bene, ma posso pensare a innumerevoli volte in cui il colore della mia pelle ha avuto rilevanza. Quando dovevano punirmi erano più indulgenti. E se mi beccavano a fare qualcosa di storto, insieme a un ragazzo nero, lui veniva punito più duramente. Quando vivevo per strada ero fermato, perquisito alla ricerca di armi o droghe, costretto ad andarmene, o arrestato, ma meno spesso dei miei compari neri e non bianchi. Qualsiasi siano le ferite psicologiche che oggi mi porto dietro, sarebbero state molto più dure se la mia pelle avesse avuto un colore diverso dal bianco. In tutta onestà penso che se non fossi stato bianco sarei già morto.
A causa di queste esperienze ho in parte cancellato le idee con cui mi avevano cresciuto, ripulendomi la testa da quel veleno, ma non sono andato troppo a fondo. Quando ho iniziato a educare me stesso, tra i ventitré e i venticinque anni, queste idee razziste erano più deboli di quanto fossero un decennio prima, ma esistevano ancora, anche se non me ne rendevo bene conto. La vita per strada mi aveva insegnato che era inaccettabile rivolgersi male contro di loro, e vivere e sopravvivere accanto a persone di colore per me è stata una fortuna: mi ha permesso di capire il mondo in maniera più ampia di quanto mi hanno insegnato da bambino. Ma quando ho cominciato a educare me stesso, e sono entrato nel sistema scolastico, alcune delle vecchie idee non sono state messe in discussione. Ad esempio gran parte dei libri che leggevo erano scritti da bianchi e la tv e i film che guardavo ruotavano sempre attorno a persone bianche. I libri che ho letto scritti da neri che parlavano di neri non erano sulle civiltà africane (che comunque per molti secoli sono state più sviluppate dell’Europa o dell’America) ma trattavano di schiavitù, deprivazione urbana, carcere e violenza. Al college e all’università ho avuto solo insegnanti bianchi. Praticamente tutti i miei docenti, tranne uno, erano bianchi. I circoli di attivisti in cui mi sono formato politicamente erano quasi esclusivamente bianchi e la cultura dominante che mi circondava era bianca.
Continuavo a vivere, come facevo ormai da venticinque anni, in una comunità variegata da un punto di vista etnico e razziale, eppure avevo sviluppato un’attitudine al razzismo, maturata per il fatto di essere circondato da persone bianche. Nel corso degli anni ho fatto molte letture sulla storia delle persone di colore. Eppure vivo in una società che fa del suo meglio per reprimere questa consapevolezza, pertanto questa rieducazione è sempre precaria. Per alcuni anni ho investito tempo ed energie impegnandomi nella giustizia per i migranti, ma il razzismo che avevo sviluppato si era spostato da atteggiamenti di disgusto e violenza ad altri di paternalismo e pietà. In questo periodo non interagivo alla pari con i migranti non bianchi: li trattavo come persone che dovevo aiutare. Quando mi sono reso conto del mio comportamento, invece di mettermi in discussione, ho preferito ritirarmi da questo tipo di lotte. Ho cercato anche di giustificarmi con scuse politiche, ma in realtà se ho fatto un passo indietro era perché non riuscivo a mettere in discussione in maniera profonda il mio razzismo.
Usando la politica come scusa ho abbandonato una situazione che trovavo difficile da gestire. Sono però riuscito a mantenere lo status che avevo acquisito con quel tipo di impegno, lasciando al tempo stesso credere che mi sarei dedicato a un lavoro politico più importante. Per noi bianchi che ci impegniamo in lotte antirazziste e in sostegno ai migranti, è vitale tenere costantemente d’occhio le nostre motivazioni e il modo in cui concretizziamo questo impegno. Nell’ultimo anno ho pensato di tornare in queste lotte in maniera più attiva, ma devo prestare attenzione a come lo faccio, soprattutto devo chiedermi in che senso è richiesto il mio impegno. Quando partecipo alle assemblee antirazziste devo rimanere tranquillo, devo sapere che i miei interventi e le mie osservazioni non sono indispensabili, e alle manifestazioni devo stare lontano dal microfono. Se impugno un cartello o uno striscione, devo tenere conto che il suo messaggio va contestualizzato anche rispetto alla mia posizione di privilegio bianco. So che il mio ruolo in queste lotte è soprattutto di impegnarmi con le persone della classe lavoratrice bianca influenzate dall’ideologia razzista della cultura dominante che le manipola a propri fini per conservare il potere. Ma devo farlo riconoscendo che la mia stessa vita è stata, a riguardo, una lunga serie di fallimenti.