1
La targa dorata bordata di nero diceva: ALEXANDER RUSH, DETECTIVE PRIVATO
All’interno un uomo brutto se ne stava seduto su una sedia inclinata all’indietro, coi piedi appoggiati a una scrivania gialla.
L’ufficio non aveva niente di grazioso. L’arredamento era modesto e vecchiotto, con quell’aria malconcia che hanno i mobili di seconda mano. Il quadrato grigiastro di un vecchio tappeto sfilacciato copriva il pavimento. Sulla tappezzeria nocciola era appeso un certificato in cornice, che dava licenza ad Alexander Rush di esercitare la professione di detective privato nella città di Baltimora, a una serie di condizioni elencate in rosso. Su un’altra parete era appesa una carta topografica della città. E sotto la carta una piccola e fragile libreria ostentava il suo misero contenuto: una guida ferroviaria ingiallita, un elenco tascabile degli alberghi cittadini, gli stradari e le guide telefoniche di Baltimora, Washington e Filadelfia. In un angolo, accanto a un lavandino bianco, un traballante attaccapanni di quercia reggeva un soprabito e una bombetta neri. Le quattro sedie nella stanza non avevano alcuna relazione l’una con l’altra, eccetto l’età. La superficie graffiata della scrivania era occupata, oltre che dai piedi del proprietario, da un telefono, un calamaio pieno di macchie nere, un cumulo di fogli che generalmente riguardavano criminali evasi da questa o quella prigione e da un posacenere ingrigito, che conteneva tutta la cenere e tutti i mozziconi nerastri di sigaro che un posacenere di quelle dimensioni era in grado di contenere.
L’ufficio era brutto, e il suo proprietario ancora più brutto.
La sua testa aveva la forma di una pera schiacciata: troppo larga e arrotondata alla mascella, si restringeva salendo verso i capelli brizzolati, cortissimi e ritti, che spuntavano sopra una fronte bassa e obliqua. Il volto era rubizzo, la pelle una scorza dura avvolta intorno a spessi cuscinetti di grasso. Queste caratteristiche poco eleganti non esaurivano tuttavia la sua bruttezza. Ulteriori ritocchi si erano aggiunti ai suoi connotati. A guardarlo da un lato, il suo naso sembrava a uncino. A guardarlo dall’altro, più che a uncino, appariva del tutto informe. Qualunque opinione si potesse avere sulla sua forma, non c’erano dubbi riguardo al colore: sulla superficie del naso, già rosso di suo, la rottura di alcune venuzze aveva formato una trama di macchioline, riccioli e scarabocchi che sembravano avere qualche oscuro significato. Tra le labbra, grosse e ruvide, luccicavano due solide file di denti d’oro. La fila inferiore, situata davanti a quella superiore, rendeva la mascella sporgente.
Gli occhi, piccoli e incassati, con l’iride azzurro pallido, erano arrossati, tanto da far pensare che l’uomo fosse in preda a un forte raffreddore. Le orecchie rendevano conto delle sue attività giovanili: erano le tipiche orecchie ingrossate e deformi di un pugile.
Un uomo brutto, sulla quarantina, appoggiato allo schienale inclinato della sua sedia, coi piedi sulla scrivania.
La porta con la targa dorata si aprì e un altro uomo entrò nell’ufficio. Più giovane di una decina d’anni, il nuovo arrivato era, per farla breve, tutto il contrario dell’altro. Piuttosto alto, snello, la pelle chiara e gli occhi castani, sarebbe passato inosservato tanto in una bisca quanto in una galleria d’arte. I suoi vestiti, grigi come il cappello, erano puliti, impeccabilmente stirati, e tutto sommato quasi alla moda. Anche il suo viso era altrettanto poco appariscente. Lo si sarebbe anche potuto considerare bello, se non fosse stato per la bocca sottile, tratto caratteristico degli uomini troppo cauti.
Fatti due passi nell’ufficio, il nuovo arrivato esitò. Gli occhi castani si posarono sullo squallido mobilio e sul viso sgradevole del titolare. Tanta bruttezza parve sconcertare l’uomo in grigio, che accennò un sorriso di scusa, come se stesse per mormorare: «Mi perdoni, ho sbagliato porta».
Ma quando si decise a parlare, fatto un altro passo in avanti, l’uomo in grigio domandò incerto: «lei il signor Rush?».
«Seh». La voce del detective era roca, con una durezza pari a quella del suo sguardo gelido. Rimise i piedi sul pavimento e tese una mano rossa e grassoccia verso una sedia. «Si accomodi, prego».
L’uomo in grigio si sedette esitante sul bordo della sedia, con la schiena diritta.
«Allora, che cosa posso fare per lei?», gracchiò Alec Rush in tono cortese.
«Voglio… vorrei… mi piacerebbe…», dopodiché l’uomo in grigio non disse altro.
«Forse è meglio che mi spieghi semplicemente qual è il suo problema», suggerì il detective. «Così capirò che cosa vuole da me».
Sorrise.
C’era una nota rassicurante nel suo sorriso, che vinse la resistenza dell’uomo in grigio. In effetti, più che un sorriso, quello di Alec Rush poteva sembrare un sogghigno da incubo, ma era quello il suo segreto. Su un uomo di bell’aspetto un sorriso non cambia granché, non aggiunge molto alla serena grazia del suo viso, ma sulla distorta maschera da orco di Rush faceva spuntare un qualcosa di gioviale e amichevole, in netto contrasto col rossore degli occhi ferini e la brutalità della bocca metallica. Era confortante. Era la sua mossa vincente.
«Sì, credo che sarebbe meglio». L’uomo in grigio si sedette comodo, appoggiandosi allo schienale della sua sedia. Ora sembrava essersi messo a suo agio e non essere più sul punto di alzarsi e andarsene.
«Ieri, in Fayette Street, ho incontrato una… una giovane donna di mia conoscenza. Io non… noi non ci vedevamo da diversi mesi. Ma questo non è pertinente. Il fatto è che quando ci siamo salutati… avevamo scambiato due parole… ho visto un uomo. Vale a dire, un uomo è uscito da un portone e si è incamminato lungo la strada, nella stessa direzione che aveva preso lei, e io ho avuto l’impressione che la stesse seguendo. Lei svoltò in Liberty Street e lui fece lo stesso. Tantissime persone fanno la stessa strada, e l’idea che quest’uomo la stesse pedinando mi sembrò pura fantasia, tanto che lasciai perdere e me ne andai per gli affari miei. Tuttavia, non riuscivo a togliermi il pensiero dalla testa. Mi era parso che ci fosse qualcosa di circospetto nei modi di quell’uomo, e per quanto mi ripetessi che era un’idea assurda, la preoccupazione persisteva.
Perciò ieri sera, non avendo niente di speciale da fare, sono andato in macchina dalle parti di… quella ragazza. E ho visto di nuovo quell’uomo. Era fermo a un angolo a due isolati dalla casa. Era lo stesso, ne sono certo. Ho cercato di tenerlo d’occhio, ma mentre cercavo un posto per la macchina è scomparso, e io non l’ho più visto. Queste sono le circostanze. Dunque, se ne vuole occupare, per scoprire se quell’individuo la stia davvero seguendo e perché?».
«Sicuro», garantì il detective rauco, «ma lei non ha detto niente alla donna o a qualcuno della sua famiglia?».
L’uomo in grigio cambiò posizione sulla sedia e abbassò lo sguardo sul grigio tappeto sfilacciato. «No, non l’ho fatto. Non volevo disturbarla, spaventarla. E non voglio nemmeno adesso. Dopotutto, potrebbe trattarsi di una semplice coincidenza e… e… be’, non voglio. impossibile! Pensavo piuttosto che lei potesse scoprire che cosa non va, se davvero c’è qualcosa che non va, e che potesse porre rimedio senza che io sia coinvolto».
«Può darsi. Ma badi, non ho ancora detto che lo farò. Prima devo saperne di più».
«Di più? Intende di più…».
«Riguardo a lei e alla donna».
«Ma non c’è niente da dire riguardo a noi!» protestò l’uomo in grigio. «esattamente come le ho detto. Posso aggiungere che… che lei è sposata, e che da dopo il suo matrimonio non l’avevo più vista, fino a ieri».
«Quindi il suo interesse per la signora è…» il detective lasciò che la domanda restasse sospesa in aria.
«Amichevole. una mia vecchia amica».
«Già. Allora, chi è questa giovane signora?».
L’uomo in grigio tornò a muoversi sulla sedia a disagio. «Ecco, vede, Rush…», disse arrossendo, «sono dispostissimo a dirglielo, e lo farò naturalmente, ma preferisco tacere fino a quando lei non mi avrà garantito che si occuperà della questione. Voglio dire, non vorrei rivelare il nome della signora, se… se lei non se ne occupa.
Lo farà?».
Alec Rush si grattò i capelli grigi con un tozzo dito indice. «Non so», borbottò. «Questo lo devo ancora capire. Non posso accettare un incarico così – alla cieca. Devo sapere se posso fidarmi di lei».
La sorpresa oscurò gli occhi castani dell’uomo. «Ma io non pensavo che lei avrebbe…». Si interruppe e distolse lo sguardo dalla brutta faccia di Rush.
«Certo che non lo pensava», ridacchiò il detective. Era la risata di un uomo che un tempo si sarebbe sentito punto sul vivo, ma che ormai era indurito dagli anni. Sollevò una grande mano, facendo cenno di fermarsi al suo potenziale cliente, che stava per alzarsi dalla sedia. «Scommetto che per prima cosa lei è andato a raccontare la sua storia in una grossa agenzia. Quelli non muovono un dito se lei non chiarisce loro i dettagli sospetti. Poi le è capitato il mio nome sotto gli occhi, e si è ricordato che un paio di anni fa mi hanno sbattuto fuori dal dipartimento di polizia. Allora si è detto: “Ecco quello che fa al caso mio, un tipo che non può permettersi di fare lo schizzinoso”».
L’uomo in grigio scosse il capo. A gesti e a voce insistette che non era così. Ma lo sguardo lo tradiva.
Alec Rush si abbandonò a un’altra dura risata e aggiunse: «Non importa. Non faccio caso a certe cose. Posso dare la colpa alla politica, dire che mi hanno scelto come capro espiatorio, ma dagli archivi risulta che la Commissione di Polizia mi ha mandato a spasso per una lista di crimini che va da qui fino alla valle di Canton.
D’accordo, signore! Accetto il suo incarico. Sembra fasullo, ma forse non lo è. Le costerà quindici al giorno più le spese».
«Posso capire che sembri strano», assicurò il giovanotto, «ma scoprirà che è come le ho detto. Vorrà un anticipo, naturalmente».
«Sì, facciamo cinquanta».
L’uomo in grigio prese cinque biglietti da dieci dollari nuovi di zecca da un portafogli di cinghiale, e li depose sulla scrivania.
Alec Rush tracciò dei segni carichi di inchiostro su una ricevuta.
«Il suo nome?», chiese.
«Preferirei non dirglielo. Sa, non voglio essere coinvolto. Il mio nome non ha importanza, le pare?».
Alec Rush depose la penna e guardò accigliato il cliente. «Andiamo, andiamo», borbottò in tono amichevole. «Come posso fare affari con un uomo come lei?».
L’uomo in grigio era spiacente, si scusò, ma rimase ostinato nella sua reticenza. Non avrebbe rivelato il suo nome.
Alec Rush brontolò, si lamentò, ma intascò i cinque biglietti da dieci dollari. «Le farà comodo forse» ammise il detective arrendendosi, «ma non torna a suo vantaggio. D’altra parte, se lei stesse barando, immagino che avrebbe il buon senso di inventarsi un nome falso. Veniamo a questa giovane donna: chi è?».
«La signora Landow».
«Bene, bene. Abbiamo un nome, finalmente! E dove vive la signora Landow?».
«In Charles-Street Avenue», disse l’uomo in grigio, dandogli il numero.
«Descrizione?».
«Ha ventidue anni… forse ventitré, piuttosto alta, snella, atletica, con capelli castano-ramati, occhi azzurri e pelle molto bianca».
«E il marito? Lo conosce?».
«L’ho visto. Hubert Landow avrà la mia età, ma è più robusto di me.
Un classico tipo biondo, alto, ben piantato».
«E il suo uomo del mistero? Che aspetto ha?».
«Piuttosto giovane, non più di ventidue anni. Non troppo robusto… taglia media forse, o anche meno. Ha capelli molto scuri, zigomi alti e il naso grosso. Spalle alte e diritte, ma non larghe. Cammina a passi corti, un po’ vezzosi».
«Com’era vestito?».
«Portava un vestito marrone e un cappello scuro, quando l’ho visto ieri pomeriggio in Fayette Street. Credo che ieri sera fosse vestito allo stesso modo, ma non glielo posso garantire».
«Suppongo che lei passerà di tanto in tanto per avere i miei rapporti», fece il detective, «visto che non saprò dove mandarglieli, no?».
«Infatti». L’uomo in grigio si alzò in piedi e tese la mano. «Le sono molto grato per avere accettato di occuparsene, signor Rush».
Il detective assentì. Si strinsero la mano e l’uomo in grigio uscì.
Rush attese che il cliente avesse il tempo di svoltare nel corridoio che portava agli ascensori. «Avanti, vecchio mio!» disse il detective. Si alzò dalla sedia, prese il cappello dall’attaccapanni e chiuse a chiave la porta. Quindi scese di corsa le scale di servizio.
Correva con l’agilità di un orso, ingannevolmente pesante. E sembrava davvero un orso, col suo vestito blu troppo largo sul corpo massiccio e con le sue spalle tozze e spioventi, ma molto più solide di quanto dessero a vedere.
Arrivò al pianterreno giusto in tempo per vedere la schiena grigia del cliente che si allontanava lungo il marciapiede. Rush cominciò a camminare normalmente, senza perderlo di vista. Due isolati, svolta a sinistra, un altro isolato, svolta a destra. L’uomo in grigio entrò negli uffici di una società che occupava il piano terra di un grosso palazzo.
Il resto era solo routine.
Mezzo dollaro al portiere: l’uomo in grigio era il vice-cassiere Ralph Millar.
2
Le tenebre calavano su Charles-Street Avenue quando Alec Rush, a bordo di un modesto coupé nero, raggiunse l’indirizzo indicatogli da Ralph Millar. Al crepuscolo, la casa appariva grande, circondata com’era da strisce d’erba ben rasata che la separavano tanto dal marciapiede quanto dai vicini.
Alec Rush proseguì, svoltò a sinistra al primo incrocio, di nuovo a sinistra a quello successivo e a quello dopo ancora. Continuò a girare per mezz’ora, battendo palmo a palmo il vicinato, fino a fermarsi accanto al marciapiede a una certa distanza da casa Landow, sufficiente a garantirgli una buona visuale.
Non aveva scorto neanche l’ombra del giovane bruno dalle spalle alte descritto da Millar.
C’era una forte illuminazione in Charles-Street Avenue, e il traffico cominciava a sciamare verso il sud della città. Il corpo massiccio di Alec Rush si appoggiò pazientemente al volante del coupé, mentre riempiva l’interno dell’auto della fitta nebbia di un sigaro, e i suoi occhi arrossati si concentravano su quanto poteva vedere della residenza dei Landow.
Trascorsero tre quarti d’ora, e ci fu movimento nella casa. Una limousine uscì dal garage sul retro, dirigendosi verso l’ingresso principale. Un uomo e una donna, le cui figure si distinguevano appena in lontananza, uscirono dalla casa per salire a bordo dell’auto. Di lì a poco, la limousine si inseriva nel traffico diretto verso la città. La terza automobile dietro la macchina dei Landow era il modesto coupé di Rush.
Tranne un momento sulla North Avenue, quando il flusso del traffico quasi gli fece perdere le tracce della sua preda, il detective non ebbe difficoltà a seguire la limousine. Di fronte al teatro di Howard Street, l’automobile dei Landow depose il suo carico: un uomo e una donna, giovani, alti e in vestito da sera. Corrispondevano in pieno alla descrizione fatta dal cliente.
I Landow stavano entrando nella sala, dove già si erano spente le luci, mentre Alec Rush comprava un biglietto. Quando i lampadari si riaccesero al primo intervallo, il detective li localizzò. Lasciando il suo posto per spostarsi in fondo all’auditorium, trovò un angolo da cui poterli studiare per i cinque minuti in cui le luci sarebbero rimaste accese.
La testa di Hubert Landow era piccola in proporzione alla sua statura, coi capelli biondi e ricci che parevano sul punto di ribellarsi alla compostezza imposta dalla brillantina. Il volto, dal colorito sano e vivace, era alquanto piacente, in accordo con l’aspetto muscoloso e virile, indice di una scarsa vivacità mentale.
La moglie era di una bellezza che sfuggiva a qualsiasi catalogazione.
In ogni caso, i capelli erano ramati, gli occhi azzurri, la pelle bianca. Dimostrava uno o due anni di più rispetto al massimo di ventitré che Millar le aveva attribuito.
Per tutta la durata dell’intervallo, Hubert Landow continuò a conversare con la moglie. Lo sguardo era quello di un uomo innamorato. Alec Rush non riusciva a distinguere l’espressione degli occhi della signora Landow. La vedeva replicare di quando in quando alle frasi del marito. Vista di profilo, non sembrava mostrare un particolare interesse in quello che lui le diceva, ma il suo volto non lasciava trasparire la noia.
Verso la metà dell’ultimo atto, Alec Rush lasciò il teatro per parcheggiare convenientemente la propria automobile, in modo da essere pronto quando i Landow fossero usciti. Tuttavia, la limousine non li venne a prendere alla fine della rappresentazione. I coniugi Landow fecero due passi lungo Howard Street, fino a un vistoso ristorante di seconda categoria, in cui un’orchestrina faceva del suo meglio per nascondere la povertà dei suoi elementi.
Risistemata opportunamente l’automobile, Alec Rush si fece dare un tavolo da cui gli fosse possibile sorvegliare la coppia senza farsi notare.
Il marito non smetteva di parlare. La moglie continuava ad ascoltare con cortese disinteresse. Nessuno dei due prestò particolare attenzione alle portate. Lei gli concesse un ballo, con la stessa espressione distratta con cui aveva ascoltato le sue parole. Un bel viso, ma vuoto.
La lancetta dei minuti dell’orologio nichelato di Alec Rush aveva appena cominciato l’ultimo giro del giorno dal VI verso il XII, quando i Landow lasciarono il ristorante. La limousine, con l’autista negro in livrea che attendeva fumando appoggiato a una fiancata, era ferma un paio di portoni più in là.
I Landow tornarono in Charles-Street Avenue. Dopo aver visto la coppia varcare la soglia di casa e l’automobile rientrare nel garage, il detective fece nuovamente una serie di ricognizioni nei dintorni.
E non vide alcuna traccia del giovanotto bruno descritto da Millar.
Dopodiché, Alec Rush se ne tornò a casa a dormire.
3
Alle otto del mattino seguente, l’uomo brutto e il suo modesto coupé stazionavano di nuovo nei pressi di casa Landow. La popolazione maschile di Charles-Street Avenue stava migrando verso sud in direzione degli uffici. Col passare delle ore, le ombre si facevano più corte e sottili, e i partecipanti alla processione mattutina si diradavano. Quelli delle otto di solito erano giovani, snelli e svegli. Quelli delle otto e trenta un po’ meno. Quelli delle nove ancora meno, e nella retroguardia delle dieci, di giovani e snelli se ne vedevano pochi, e tutt’altro che svegli.
Della retroguardia, benché fisicamente corrispondesse a una fascia oraria non posteriore alle otto e trenta, faceva parte anche Hubert Landow, a bordo di un’automobile scoperta blu. Un soprabito blu sulle larghe spalle, un cappello grigio sui capelli biondi, era in macchina da solo. Dopo essersi guardato intorno, per sincerarsi che non ci fosse in giro il giovanotto bruno di Millar, Alec Rush si mise a seguire l’automobile blu.
Raggiunsero rapidamente il centro finanziario della città, dove Landow lasciò l’automobile in Redwood Street, davanti all’ufficio di un agente di cambio. Era ormai mezzogiorno quando Landow riapparve in strada, fece un’inversione e ripartì verso nord.
Inseguito e inseguitore fecero un’altra sosta in Mount Royal Avenue. Landow scese dall’auto ed entrò a passi rapidi in un edificio. Un isolato più in là, Rush si accese un sigaro e non si mosse dal sedile.
Passò mezz’ora. Il detective si voltò, affondando un dente d’oro nel sigaro. A sei o sette metri dietro il coupé, nell’ingresso di un garage, un giovanotto bruno dagli zigomi alti e con le spalle dritte passeggiava avanti e indietro. Naso grosso, vestito marrone, occhi castani che non sembravano prestare attenzione a nulla, da dietro il sottile filo di fumo azzurrognolo della sigaretta che gli pendeva dal labbro.
Alec Rush si tolse il sigaro di bocca, lo esaminò, prese di tasca un temperino per tagliare l’estremità masticata, quindi rimise a posto il temperino nella tasca e il sigaro in bocca. Dopodiché tornò a mostrarsi indifferente nei confronti di Mount Royal Avenue, esattamente come il giovanotto bruno alle sue spalle. Uno se ne restava fermo all’ingresso del garage, l’altro sonnecchiava al posto di guida. E le ore trascorrevano lentamente: passò l’una, passò l’una e trenta.
Hubert Landow uscì dall’edificio, risalì in automobile e svanì rapidamente. La sua partenza non parve interessare nessuno dei due uomini. Né l’uno né l’altro fecero una piega. Lo seguirono appena con lo sguardo. Non si mossero finché non fu trascorso almeno un quarto d’ora.
Poi il giovanotto bruno uscì dalla porta del garage. Camminava senza fretta lungo la strada, a passi piccoli, un po’ vezzosi. Quando passò accanto al coupé, Rush era di spalle e non si vedeva altro che la sua bombetta nera. Meglio così: nessuno avrebbe potuto dire che il brutto detective gli avesse rivolto più di un rapido sguardo, dopo averlo avvistato. Il giovanotto gli diede un’occhiata distratta e passò oltre. Raggiunse l’edificio cui Landow aveva fatto visita, salì gli scalini e sparì al suo interno.
A quel punto, Alec Rush gettò via il sigaro, si stiracchiò, sbadigliò e risvegliò il motore del coupé. A quattro isolati e due svolte da Mount Royal Avenue, parcheggiò davanti a una chiesa in pietra, scese dall’auto e la chiuse a chiave. Tornò a piedi in Mount Royal Avenue, e si fermò su un angolo a due isolati dalla posizione precedente.
Gli toccò aspettare un’altra mezz’ora perché il giovanotto bruno ricomparisse. Quando passò, Rush stava comprando un sigaro dietro la vetrina di una tabaccheria. Il giovanotto salì su un tram sulla North Avenue e trovò un posto a sedere. All’angolo successivo, il detective salì sullo stesso tram e rimase in piedi sulla piattaforma posteriore. Allertato da un movimento della testa e delle spalle del giovanotto che accennava ad alzarsi, Alec Rush fu il primo passeggero a scendere a Madison Avenue. Così come fu il primo a salire su un altro tram diretto a sud. E ancora, fu il primo a scenderne in Franklin Street.
Lo sconosciuto andò dritto verso una pensione, mentre il detective si fermava di fronte alla vetrina di un negozio d’angolo, specializzato in trucco teatrale. Ci rimase fino alle tre e trenta.
Quando il giovanotto tornò in strada, riprese il cammino, tallonato da Rush fino a Eutaw Street, dove prese un tram per Camden Station.
Nella sala d’attesa della stazione, il giovanotto bruno incontrò una giovane donna che gli chiese, accigliata: «Dove diavolo sei stato?».
Passando loro accanto, il detective sentì l’accoglienza petulante della donna, ma non la risposta dell’uomo, che parlava troppo a bassa voce, né quello che la donna disse in seguito. I due rimasero a discutere per una decina di minuti, in piedi in un angolo deserto della sala d’attesa, il che impediva ad Alec Rush di avvicinarsi senza dare nell’occhio.
La giovane donna, per qualche ragione, sembrava impaziente. Lui cercava di darle spiegazioni, di rassicurarla. Di quando in quando gesticolava, con le mani agili e rovinate di un esperto meccanico. La donna si fece più conciliante. Era bassa e tarchiata, come se fosse stata scolpita intagliando un cubo. In armonia col resto del corpo, il suo naso era corto e il mento quadrato. Complessivamente, ora che si stava calmando, il suo appariva un viso allegro, con un’espressione sveglia, combattiva e sanguigna che denotava un’inesauribile vitalità. Lo si vedeva dai suoi lineamenti, da com’erano pettinati i capelli corti e dalla posizione dei piedi, quasi ancorati al pavimento in cemento. Il suo vestito scuro era costoso e poco appariscente. Non le cadeva benissimo: pendeva informe qua e là dal suo corpo tarchiato.
Annuendo vigorosamente diverse volte, il giovanotto portò distrattamente due dita alla tesa del cappello in un cenno di saluto e uscì in strada. Alec Rush lo lasciò andare senza seguirlo. Ma quando la donna si incamminò a passo lento lungo le transenne, oltrepassando lo sportello del deposito bagagli e raggiungendo la porta di uscita, il detective le tenne dietro. Non la perse di vista neanche quando si infilò tra la folla che alle quattro del pomeriggio si accalcava in Lexington Street per fare acquisti.
4
La giovane donna si dedicava a far spese con la dedizione di chi non ha nient’altro per la testa. Da Goodbody, il secondo grande magazzino cui fece visita, Alec Rush la lasciò di fronte al bancone dei merletti e affrettò il passo, per quanto gli consentiva la folla di acquirenti, in direzione di una donna robusta in nero dai capelli grigi che sembrava aspettare qualcuno ai piedi di una rampa di scale.
«Salve, Alec», lo salutò questa, quando lui le toccò un braccio.
Sembrava davvero contenta di vedere la sua brutta faccia. «Che cosa ci fai nel mio territorio?».
«Ho una taccheggiatrice per te», borbottò lui. «La ragazzotta in blu, all’ultimo bancone. L’hai vista?».
La detective dei grandi magazzini lanciò un’occhiata nella direzione indicatale e annuì. «Sì. Grazie, Alec. Sei sicuro che rubi, vero?».
«Andiamo, Minnie!», fece lui fingendosi offeso, la voce che si trasformava in un ringhio metallico. «Credi che verrei a raccontarti una balla? Si è messa in tasca un paio di capi in seta, ed è molto probabile che si sia già presa anche un po’ di merletti».
«Um-hmm», fece Minnie. «Be’, come mette piede in strada, le sarò addosso».
Alec Rush mise di nuovo una mano sul braccio della sorvegliante.
«Vorrei scambiarci due parole», le disse. «Che ne dici se la talloniamo per un po’ e vediamo dove va, prima di inchiodarla?».
«Se non mi fai perdere tutto il giorno», concesse la donna. E quando la ragazzotta in blu si staccò dal bancone dei merletti e uscì dai magazzini, i detective la pedinarono fino a un altro negozio, tenendosi troppo lontani per vigilare su altri eventuali furti. A loro bastava tenerla sotto sorveglianza. Dall’ultimo negozio, la preda si diresse verso la parte più squallida di Pratt Street, ed entrò in uno squallidissimo meublé di tre piani.
Due isolati più in là, un poliziotto stava svoltando un angolo.
«Prendi posizione, intanto che io chiamo lo sbirro», ordinò Rush.
Quando il detective tornò col poliziotto, la sorvegliante dei grandi magazzini aspettava sulla porta. «Secondo piano», disse.
Alle sue spalle si apriva un buio corridoio, che portava a una scalinata dalla passatoia consunta. Nel rettangolo della porta apparve una donna magra e sciatta, con un cencioso abito grigio di cotone. «Che volete?», protestò l’affittacamere con voce lamentosa.
«Questa è una casa rispettabile, rendetevene conto, e io…».
«Una ragazza bassa e tozza, occhi scuri, che vive qui», gracchiò Alec Rush. «Secondo piano. Ci porti su».
La donna corrugò il volto scarno in un’espressione di sorpresa e spalancò gli occhi incolori, come se la dura voce del detective fosse per lei una forte emozione. «Ma… ma…», balbettò. Poi le tornò in mente il primo principio dell’affittacamere di infima categoria: mai sbarrare il passo ai poliziotti. «Vi porto di sopra», convenne.
Sollevò con una mano il bordo della gonna spiegazzata e li precedette sulle scale.
Bussò con le dita ossute a una porta in cima alla rampa che portava al secondo piano.
«Chi è?», domandò una voce femminile in tono sgarbato.
«La padrona».
La ragazza bassa vestita di blu, ora senza cappello, aprì la porta.
Alec Rush protese il suo grosso piede per bloccarla. L’affittacamere annunciò «Eccola», mentre il poliziotto se ne usciva con un «Dovrà venire con noi», e Minnie si limitava a un «Tesoro, vogliamo entrare a fare due chiacchiere».
«Mio Dio!», esclamò la ragazza. «Tanto valeva che mi saltaste davanti tutti insieme gridando “Buh”».
«Non era questa l’intenzione», fece Rush, rauco, facendosi avanti e sfoggiando il suo orrendo amabile sorriso. «Vogliamo entrare a scambiare due parole».
Senza aggiungere altro, un passo qua e mezzo passo là, voltandosi ora verso l’uno ora verso l’altro, Rush introdusse il suo corpo massiccio e disarticolato nella stanza, portandosi dietro il poliziotto e la sorvegliante, e congedando l’insoddisfatta affittacamere.
«Guardate che io non ho idea di che cosa vogliate», disse la ragazza mentre i tre occupavano il salottino, in cui il blu faceva a pugni con il rosso senza venire a compromessi sul violetto. «Sono una persona socievole, e se pensate che questo sia un bel posto per fare due chiacchiere, fate pure, ma non contate sul fatto che io prenda parte alla conversazione».
«Taccheggio, tesoro», disse Minnie, protendendosi in avanti per dare una pacca sul braccio alla ragazza. «Lavoro da Goodbody».
«Pensate che io abbia rubato? questo che vi siete messi in testa?».
«Seh. Esatto. Uh-huh, proprio così». Alec Rush non le lasciò alcun dubbio in proposito.
La ragazza strinse gli occhi, arricciò le labbra rosse e lanciò un’occhiata di sbieco al brutto detective. «Per me va bene. Se Goodbody mi muove un’accusa, appena la lascia cadere io gli faccio causa per un milione di dollari. Non ho niente da dire. Portatemi dove volete».
«A tempo e luogo, sorella», disse il brutto detective in tono amichevole. «Nessuno ti fa fretta. Ma ti spiace se mi guardo in giro, tanto per cominciare?».
«Hai un foglio con sopra il nome di un giudice che dice che puoi farlo?».
«No».
«Allora non c’è niente da guardare».
Alec Rush scoppiò a ridere, ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni e si mise a guardare qua e là per le tre stanze che componevano il piccolo appartamento ammobiliato. Uscì dalla camera da letto con una fotografia in una cornice d’argento.
«E questo chi è?», chiese alla ragazza.
«Scopritelo da solo!».
«Ci sto provando», mentì lui.
«Deficiente», sbottò lei. «Non troveresti acqua nell’oceano».
Alec Rush si abbandonò a una sonora risata. Se lo poteva permettere. L’uomo nella foto che teneva in mano era Hubert Landow.
5
Era ormai il tramonto quando il proprietario del coupé abbandonato tornò davanti alla chiesa a riprenderselo.
La ragazza, Polly Vanness era il nome che aveva dato, aveva trovato alloggio in una cella della Stazione di Polizia Sudovest. Nel suo appartamentino era stata trovata una notevole quantità di merce rubata. Aveva ancora indosso la sua messe di quel pomeriggio, quando Minnie e una donna poliziotto l’avevano perquisita. Polly si era rifiutata di parlare. Il detective aveva glissato tanto sull’identità dell’uomo nella foto, quanto sull’incontro di Polly col giovanotto bruno alla stazione ferroviaria. Niente di quanto era stato trovato nelle sue camere gettava alcuna luce sull’una o sull’altra faccenda.
Alec Rush aveva cenato prima di ritornare a prendere l’automobile.
Il detective si diresse verso Charles-Street Avenue. Le luci erano accese normalmente a casa Landow, quando vi passò davanti. Poco più avanti fece un’inversione, puntando il muso dell’auto verso la città e parcheggiando accanto al marciapiede alberato, in un punto in cui poteva tenere d’occhio la casa.
La sera lasciò spazio alla notte, e nessuno uscì o entrò in casa Landow.
Poi qualcuno bussò con le dita sul finestrino del coupé.
C’era un uomo fuori dall’auto. Nell’oscurità non si distingueva nulla di lui, se non una figura non troppo grande. Per avere eluso l’attenzione del detective, doveva essersi avvicinato di soppiatto da dietro la macchina.
«Ha un fiammifero?», chiese l’uomo.
Il detective esitò. «Seh», rispose, tendendogliene una scatoletta.
Un fiammifero si incendiò, illuminando un volto di un uomo giovane, dai capelli scuri: naso grosso, zigomi alti. Il giovanotto che Alec Rush aveva pedinato quel pomeriggio.
Ma fu il giovane a dare segno di riconoscerlo per primo.
«Immaginavo che fosse lei», disse semplicemente, mentre accostava la fiamma alla punta di una sigaretta. «Forse lei non mi conosce, ma io mi ricordo di lei, quando era nella polizia».
L’ex sergente Rush non si compromise. «Seh», rispose.
«Mi era parso di riconoscerla, oggi pomeriggio in Mount Royal Avenue, ma non ne ero del tutto sicuro», proseguì il giovanotto entrando nell’auto. Si mise a sedere accanto a Rush e richiuse la portiera. «Sono Scuttle Zeipp. Non sono famoso come Napoleone, quindi se non mi ha mai sentito nominare non mi offendo».
«Seh».
«Ha ragione: quando si trova una buona risposta, attenersi a quella». Al bagliore della sigaretta accesa, la faccia di Scuttle Zeipp parve all’improvviso una maschera di bronzo. «La stessa risposta va bene per la mia prossima domanda. Si interessa a questi Landow? Seh», aggiunse, facendo il verso al detective. Zeipp aspirò nuovamente, e il bagliore tornò a illuminargli il viso. Mentre la luce si affievoliva, le parole vennero fuori con una boccata di fumo.
«Penso che vorrà sapere che cosa ci faccio qua fuori. Non mi farò pregare: glielo dirò. Mi hanno allungato cinquecento dollari per stendere la ragazza. Due volte. Che gliene pare?».
«Ti ho sentito», disse Alec Rush. «Ma tutti sono capaci di parlare».
«Parlare? Certo, parlare», fece Zeipp di buon umore. «Come quando il giudice dice: “Resterà impiccato fino al sopraggiungere della morte, e che Dio abbia pietà della sua anima”. Si parla di un sacco di cose, ma questo non vuol dire che non siano vere».
«Seh?».
«Seh, fratello, seh! Adesso sta’ a sentire questa: è veramente grossa. Una persona viene da me un paio di giorni fa, a nome di uno che mi conosce. Mi segui? Questa persona mi chiede quanto voglio per far fuori una tipa. Io dico che un foglio da mille andrebbe bene. La persona non molla. Ci accordiamo su cinquecento. Me ne becco duecentocinquanta subito, e il resto quando la Landow sarà fredda.
Niente male per un lavoretto semplice. Tipo andarle addosso con la macchina, eh?».
«Be’, e allora che cosa aspetti ad ammazzarla? Il giorno del suo compleanno o una festa comandata?».
Scuttle Zeipp fece schioccare le labbra, e nell’oscurità puntò un dito al petto del detective. «Niente da fare, fratello! Io guardo più in là di te. Senti questa: mi metto in tasca i due e cinquanta d’anticipo, e vengo qui a studiare bene il terreno, giusto per non trovarmi di fronte a qualche imprevisto. E mentre mi sto guardando in giro, trovo una persona che si sta guardando in giro anche lei. Mi si avvicina, io me la gioco bene e… bingo! Ecco che mi fa una proposta. Indovina un po’: mi chiede quanto voglio per far fuori una donna. E non è proprio la stessa donna? Certo che è la stessa. E siccome non sono un cretino, metto le mani su altri duecentocinquanta, con la promessa di altrettanti quando avrò fatto il lavoretto. E allora, credi che potrei fare del male alla pupa Landow? Saresti scemo: quella mi garantisce il pane quotidiano. Se aspetta che sia io a farla fuori, può campare sino a cent’anni. Mi ha già fatto guadagnare cinquecento dollari, quindi che male c’è se me ne sto intorno ancora un po’ e aspetto che si faccia vivo qualcun altro che ce l’ha con lei? Se sono già in due a volerle comprare un biglietto per l’aldilà, perché non possono essercene altri? La risposta è “Seh!”. Ed ecco che arrivi anche tu a ficcare il naso.
Be’, ce n’è di roba da annusare, qui intorno».
Seguirono diversi minuti di silenzio. Poi, nell’oscurità dell’interno del coupé, risuonò la voce dura del detective. «E chi sarebbero queste persone che vogliono toglierla di mezzo?».
«Bada», lo ammonì Scuttle Zeipp. «Io posso anche fregarle, d’accordo, ma non faccio la spia».
«E allora che cosa me ne parli a fare?».
«A fare? Ci sei di mezzo anche tu, e ostacolarci a vicenda non è di vantaggio per nessuno. Se non troviamo un accordo, non faremo che rovinarci la piazza l’un l’altro. Mi sono già messo in tasca cinquecento dollari con questa Landow: è roba mia, ma due uomini che sanno il fatto loro possono guadagnarci anche di più. Va bene. Ti offro di associarti al cinquanta e cinquanta di quello che riusciamo a intascare. Ma quei nomi sono fuori questione! Non me ne frega niente se si fanno beccare, ma non sono così bastardo da puntare il dito su di loro».
Alec Rush emise un grugnito ed espresse un altro dubbio. «Com’è che ti fidi tanto di me, Scuttle?».
Il killer a pagamento ridacchiò con fare complice. «Perché no? Sei uno che ci sa fare. Vedi il profitto, quando ti propongono un affare.
Non ti hanno certo sbattuto fuori dalla polizia perché ti eri scordato di allacciarti le scarpe. D’altra parte, se anche volessi fare il doppio gioco, che cosa potresti dire? Non puoi provare niente. Ti ho detto che non voglio fare del male alla donna. Non porto nemmeno la pistola. Ma queste sono stupidaggini. Sei un tipo sveglio, sai come vanno le cose. Tu e io, Alec, possiamo fare i soldi!».
Ancora silenzio, finché il detective non riprese la parola, pensoso. «La prima cosa sarebbe scoprire il motivo perché questi tizi la vogliono morta. Hai qualche idea?».
«Neanche l’ombra».
«Sono tutt’e due donne, o sbaglio?».
Scuttle Zeipp esitò. «Sì», ammise. «Ma non mi chiedere altro sul loro conto. Primo: non so niente. Secondo: se anche sapessi qualcosa, non voglio essere io a incastrarle».
«Seh», fece il detective, cominciando a comprendere la perversa idea che il suo interlocutore aveva della lealtà. «Be’, se sono due donne, è probabile che ci sia di mezzo un uomo. Che ne pensi di Landow? un bel giovanotto».
Scuttle Zeipp si protese di nuovo verso il detective, puntandogli contro il dito. «Hai ragione, Alec! Potrebbe essere. Potrebbe essere davvero, accidenti!».
«Seh», concordò Alec Rush, avviando l’automobile. «Allontaniamoci di qui e stiamocene lontani, finché non ho scoperto qualcosa su Landow».
Arrivati in Franklin Street, a mezzo isolato dalla casa in cui aveva seguito il giovanotto quel pomeriggio, il detective fermò l’automobile. «Vuoi scendere qui?», chiese.
Scuttle Zeipp si voltò verso la brutta faccia di Rush, riflettendo.
«Va bene», rispose. «Sei proprio uno che ci sa fare. Allora si dà il via, Alec? Fifty-fifty?».
«Non direi proprio». Alec Rush esibì il suo inquietante sorriso.
«Non sei un cattivo ragazzo, Scuttle. E se c’è qualcosa da mietere, avrai la tua parte. Ma non contare sul fatto che mi associ con te».
Gli occhi di Scuttle si restrinsero fino a diventare due fessure sottili. Le labbra si dischiusero, scoprendo i denti gialli in un ghigno ostile. «Prova a vendermi, maledetto gorilla, e io…». Rise, lasciando cadere la minaccia. La sua espressione tornò a essere quella di un ragazzo spensierato. «Fa’ come vuoi, Alec. Non mi sono sbagliato a parlare con te. Quello che decidi tu va bene».
«Seh», approvò il brutto detective. «Lascia perdere questa storia fino a nuovo ordine. Sarà bene che tu faccia un salto a trovarmi, domani. Trovi il mio indirizzo sulla guida del telefono. Ci vediamo, ragazzo».
«Ci vediamo, Alec».
6
Il mattino dopo, Alec Rush diede inizio all’indagine sul conto di Hubert Landow. Per prima cosa andò in Municipio, dove esaminò i registri delle licenze matrimoniali. Apprese così che Hubert Britman Landow e Sara Falsoner si erano sposati sei mesi prima.
Il nome da ragazza della signora Landow fece arrossare ulteriormente gli occhi infiammati dell’investigatore.. L’aria gli uscì sibilando dalle narici. «Seh! Seh!», proruppe ad alta voce. Un esile usciere che stava consultando degli altri registri lo guardò spaventato e si allontanò di alcuni passi.
Con quell’informazione, Alec Rush lasciò il Municipio e fece visita agli uffici di due quotidiani. Una volta esaminati gli archivi, acquistò un cumulo di giornali vecchi di sei mesi. Li portò in ufficio, li sparpagliò sulla scrivania e cominciò a lavorare di forbici. Quando anche l’ultimo fu tagliato e messo da parte, sul piano della scrivania rimase soltanto un mucchio di ritagli.
Sistemati gli articoli in ordine cronologico, Alec Rush si accese un sigaro, appoggiò i gomiti sulla scrivania, prendendosi la brutta faccia tra le mani, e si mise a leggere una storia con cui il pubblico di Baltimora aveva avuto una certa familiarità sei mesi prima.
A parte alcuni elementi irrilevanti e certe digressioni iniziali, la storia era essenzialmente in questi termini: Jerome Falsoner, quarantacinque anni, era uno scapolo che viveva solo in un appartamento in Cathedral Street, con entrate più che sufficienti per il suo benessere. Era un uomo alto, ma dal fisico delicato, probabilmente per essersi concesso troppi piaceri a dispetto di una costituzione non troppo sana fin dal principio. Era piuttosto conosciuto, almeno di vista, da tutti i nottambuli della città: frequentatori degli ippodromi, delle case da gioco e delle bische clandestine che di quando in quando si materializzavano per qualche ora lungo le quaranta miglia di strada tra Baltimora e Washington.
Una certa Fanny Kidd, arrivando come sua abitudine una mattina alle dieci per fare le stanze del signor Falsoner, lo aveva trovato sdraiato in salotto, gli occhi fissi verso un punto del soffitto. Un punto luminoso che era il riflesso della luce del sole proiettato da un oggetto metallico: il manico del tagliacarte che gli sporgeva dal petto.
Le indagini della polizia avevano accertato quattro punti fondamentali. Primo, Jerome Falsoner era morto da quattordici ore quando Fanny Kidd lo aveva trovato, e pertanto la morte doveva risalire intorno alle otto della sera prima. Secondo, le ultime persone a vederlo vivo, tra le sette e mezza e le otto, cioè meno di mezz’ora prima che fosse ucciso, erano state, a quanto si sapeva, una donna di nome Madeline Boudin con cui la vittima era in intimità, e tre amici di questa: il gruppo stava andando in macchina a un cottage sul Severn River, e Madeline Boudin aveva detto agli altri di voler prima vedere Falsoner. Gli altri tre erano rimasti i macchina mentre lei suonava il campanello e Jerome Falsoner apriva la porta per farla entrare. Dieci minuti più tardi, Falsoner l’aveva riaccompagnata alla porta, salutando con la mano uno degli uomini a bordo: un certo Frederick Stoner, suo conoscente, che aveva contatti con l’ufficio del procuratore distrettuale. Altre due donne, che chiacchieravano sui gradini di una casa sul lato opposto della strada, avevano a loro volta visto Falsoner e la macchina con a bordo Madeline Boudin e i suoi amici che si allontanava. Terzo, unica erede e sola parente prossima della vittima era sua nipote Sara Falsoner, che per uno strano gioco della sorte stava sposandosi con Hubert Landow alla stessa ora in cui Fanny Kidd trovava il cadavere del suo datore di lavoro. Zio e nipote si vedevano di rado. I sospetti della polizia si erano immediatamente concentrati sulla ragazza, che tuttavia poteva provare di trovarsi nel proprio appartamento in Carey Street dalle sei della sera del delitto fino alle otto e trenta del mattino seguente. Il marito, in quei momento ancora suo fidanzato, era stato con lei dalle sei fino alle undici di quella sera. Prima del matrimonio, la ragazza aveva lavorato come stenografa presso la stessa compagnia per cui lavorava Ralph Millar. Quarto, Jerome Falsoner, che non era certo di temperamento tranquillo, aveva litigato con un cittadino islandese di nome Einar Jokumsson in una casa da gioco due giorni prima di essere ucciso. Jokumsson lo aveva minacciato. L’islandese, un uomo basso e robusto con occhi e capelli scuri, era sparito dal suo hotel il giorno in cui era stato trovato il corpo, abbandonando i propri bagagli. Nessuno lo aveva più visto da allora.
Dopo aver letto con attenzione l’ultimo ritaglio, Alec Rush si abbandonò meditabondo sulla sedia, facendo una smorfia al soffitto.
Poi si protese di nuovo in avanti per sfogliare la guida telefonica e chiamare la società in cui lavorava Ralph Millar. Ma appena il centralino lo ebbe messo in linea, cambiò idea. «Non importa», disse al ricevitore, e chiamò invece Goodbody. Quando venne a rispondergli, Minnie gli comunicò che Polly Vanness era stata identificata come la pregiudicata Polly Bangs, arrestata un paio di anni prima a Milwaukee per taccheggio, e condannata a due anni di detenzione. Minnie aggiunse che Polly Bangs era stata rilasciata su cauzione nelle prime ore di quella mattina.
Alec Rush spinse indietro il telefono e riguardò i ritagli, fino a trovare l’indirizzo di Madeline Boudin, la donna che aveva fatto visita a Falsoner poco prima che morisse. Era una casa in Madison Avenue. E lì il detective si diresse a bordo del suo coupé.
7
No, la signorina Boudin non viveva lì. Sì, ci aveva abitato, ma se n’era andata da quattro mesi. Forse la signora Blender, al terzo piano, poteva sapere dove si fosse trasferita. La signora Blender non lo sapeva. Sapeva che la signorina Boudin era andata a stare in Garrison Avenue, ma pensava che non ci abitasse più. All’indirizzo di Garrison Avenue, la signorina Boudin se n’era andata un mese e mezzo prima, forse da qualche parte in Mount Royal Avenue. Nessuno sapeva il numero.
Il coupé trasportò il suo brutto proprietario fino a Mount Royal Avenue, nell’edificio in cui Rush aveva visto entrare prima Hubert Landow e poi Scuttle Zeipp, il giorno precedente. Il detective si rivolse all’amministratore, facendo domande su un certo Walter Boyden, che si pensava abitasse lì. L’uomo non conosceva nessun Walter Boyden. C’era una signorina Boudin al 604, ma il nome era B-o-u-d-i-n, e viveva da sola.
Alec Rush uscì dall’edificio e risalì in macchina. Strizzò gli occhi arrossati, annuì soddisfatto e tracciò un piccolo cerchio nell’aria con un dito. Quindi rientrò in ufficio.
Richiamò la società in cui Sara Falsoner aveva lavorato, diede il nome di Ralph Millar, e un attimo dopo ebbe in linea il vice-cassiere.
«Sono Rush. Potrebbe venire subito nel mio ufficio?».
«Che cosa? Certo. Ma come… come… Sì, mi dia un minuto».
La sorpresa che Millar aveva mostrato al telefono era già svanita quando arrivò nell’ufficio del detective. Non fece domande su come Rush avesse scoperto la sua identità. Questa volta era vestito di marrone, ma continuava ad apparire insignificante come quando il giorno prima si era presentato in grigio.
«Entri», lo accolse il brutto detective. «Si accomodi. Mi deve dire qualcosa di più, signor Millar».
La bocca sottile del vice-cassiere si irrigidì, e le sopracciglia si corrugarono in un’espressione di ostinata reticenza. «Pensavo che avessimo messo in chiaro quel punto, Rush. Le ho detto…».
Alec Rush guardò il cliente con divertita ma non meno minacciosa esasperazione. «Lo so che cosa mi ha detto», lo interruppe. «Ma questo era ieri, e adesso è oggi. La matassa comincia a sbrogliarsi, e ne vedo quanto basta per finire nei casini, se non guardo dove metto i piedi. Ho trovato il suo uomo misterioso, gli ho parlato. vero, stava seguendo la signora Landow. E stando a quanto mi ha raccontato, lo hanno assunto per ucciderla».
Millar fece un balzo sulla sedia, piegandosi in avanti verso la scrivania. Avvicinò la sua faccia a quella del detective. «Mio Dio, Rush, ma cosa dice? Ucciderla?».
«Andiamo, andiamo. Stia calmo. Non la ucciderà. Non credo che lo abbia nemmeno preso in considerazione. Ma afferma che l’hanno pagato perché lo facesse».
«Lo ha arrestato? Ha scoperto chi lo ha pagato?».
Il detective socchiuse gli occhi arrossati, e studiò il volto emozionato del giovanotto. «A dire il vero», gracchiò una volta finito il suo esame, «non ho fatto né l’una, né l’altra cosa. La signora non corre pericoli in questo momento. Forse il tipo voleva mettermi in allarme, forse no, ma in ogni caso non mi avrebbe detto niente, se avesse voluto combinare qualcosa. E lei signor Millar, vorrebbe farlo arrestare?».
«Sì! Voglio dire…». Millar si ritrasse dalla scrivania e si insaccò sulla sedia, sollevando le mani tremanti fino a coprirsi il viso. «Mio Dio, Rush, non lo so!», gemette.
«Esatto» disse Alec Rush. «Ora, il fatto è che la signora Landow era l’unica nipote ed erede del signor Falsoner. Lavorava per la sua stessa società. Sposò Landow proprio la mattina in cui suo zio venne trovato morto. E ieri Landow è andato a fare visita alla stessa casa in cui vive Madeline Boudin, l’ultima persona a vedere Falsoner prima che fosse ucciso. Tuttavia l’alibi della Boudin è a tenuta stagna, esattamente come quello dei Landow. Anche l’uomo che dice di essere stato assunto per uccidere la signora Landow ieri si è presentato a casa di Madeline Boudin. L’ho visto entrare. E l’ho visto incontrare un’altra donna, una taccheggiatrice. A casa di quest’ultima ho trovato una fotografia di Hubert Landow. Il suo uomo bruno ha avuto due offerte per uccidere la signora Landow, da parte di due donne, ognuna delle quali era all’oscuro dell’altra. L’uomo non ha intenzione di rivelarmi la loro identità, ma in realtà non ce n’è bisogno».
La voce roca di Alec Rush si interruppe, in attesa che Millar prendesse la parola. Ma Millar sembrava temporaneamente a corto di argomenti. I suoi occhi, sbarrati, apparivano disperatamente vacui.
Alec Rush sollevò una mano e la strinse in un pugno quasi sferico, che fece calare non troppo violentemente sulla scrivania. «Eccoci, signor Millar. Un bell’imbroglio. Se lei mi dice quello che sa, metteremo le cose a posto, non abbia paura. In caso contrario… mi consideri fuori!».
A questo punto, Millar dovette tirar fuori qualche parola, per quanto confusa. «Non può, Rush, non può lasciarmi così… lasciarci… lasciarla! Non è che… Lei non…».
Ma Alec Rush scosse la sua brutta testa a forma di pera con deliberata lentezza. «C’è di mezzo un omicidio, e Dio sa che cos’altro. Non mi piace giocare a mosca cieca. Come faccio a sapere che cos’ha in testa? O mi dice tutto quanto, oppure si trova un altro detective. Questo è poco ma sicuro».
Le dita di Ralph Millar si congiunsero, le labbra si strinsero, i suoi occhi tormentati lanciarono una preghiera silenziosa al detective. «Non può, Rush», lo supplicò. «La signora Landow è ancora in pericolo. Anche se lei dovesse avere ragione riguardo al suo potenziale aggressore, Sara non è al sicuro. Le donne che hanno pagato il killer potrebbero rivolgersi a qualcun altro. Lei la deve proteggere, Rush».
«Seh? Allora lei deve parlare».
«Devo… Va bene, Rush. Parlerò. Le dirò tutto quello che vuole. Ma non c’è niente, o quasi niente, che io sappia, a parte quello che lei ha già scoperto».
«Sara Falsoner lavorava per la sua stessa società?».
«Sì, nel mio dipartimento».
«Se n’è andata per sposarsi?».
«Sì, è così. No, Rush, la verità è che è stata licenziata. stata una vergogna, ma…».
«Quando è successo?».
«Il giorno prima che… prima del suo matrimonio».
«Me ne parli».
«Lei aveva… Devo prima spiegarle la situazione, Rush. Sara è orfana. Suo padre, Ben Falsoner, era stato uno scavezzacollo da giovane. E non solo da giovane, come credo tutti i Falsoner. In ogni caso, Ben litigò con il padre, il vecchio Howard Falsoner, il quale lo diseredò. Ma non definitivamente: il vecchio sperava che Ben si ravvedesse, e non voleva lasciarlo senza niente in quella eventualità. Sfortunatamente, si fidò dell’altro suo figlio, Jerome.
Il vecchio lasciò scritto che i suoi averi dovessero andare a Jerome, e che questi, per tutta la sua vita, avrebbe dovuto provvedere a suo fratello Ben, nella misura che riteneva opportuna. Il che voleva dire che aveva mano libera. Poteva dividere le entrate a metà col fratello, oppure concedergli un vitalizio, oppure non dargli assolutamente nulla, a seconda della condotta di Ben. Alla morte di Jerome, tuttavia, i beni sarebbero stati equamente divisi tra i nipoti del vecchio. In teoria sembrava una saggia decisione, ma in pratica… nelle mani di Jerome era l’esatto contrario. Non sa che tipo era? Be’, era l’ultima persona a cui si potesse affidare una simile responsabilità. Esercitò il suo potere fino all’estremo: Ben Falsoner non ricevette mai un centesimo. Morì tre anni fa, e la ragazza, sua unica figlia e già orfana di madre, gli succedette come erede del denaro del nonno. Jerome Falsoner non diede un centesimo neanche a lei. Quella era la situazione, tutt’altro che felice, allorché si presentò alla compagnia due anni fa. Quantomeno, le restava un tocco della stravaganza dei Falsoner: un’ereditiera da due milioni di dollari, dato che Jerome non si era mai sposato e lei era l’unica nipote, senza alcuna entrata, a parte il suo modesto salario.
Si indebitò. Credo che a volte abbia cercato di tirare la cinghia, ma con quei due milioni in vista come poteva obbligarsi a fare economia?
Alla fine, la compagnia scoprì i suoi debiti, quando un paio di creditori mandarono degli esattori in ufficio. Poiché lavorava nel mio dipartimento, ebbi lo sgradevole incarico di ammonirla. Lei promise di pagare i suoi debiti e di non contrarne altri, cosa che credo abbia cercato di fare, ma senza successo. I nostri direttori sono di vecchio stampo, ultra-conservatori. Feci tutto il possibile per difenderla, ma non ci riuscii: non volevano un’impiegata oppressa dai debiti».
Millar fece una pausa, abbassò lo sguardo sul pavimento e riprese a parlare: «Ebbi lo spiacevolissimo ordine di comunicarle che i suoi servigi non erano più richiesti. Cercai di… Fu terribilmente spiacevole. Questo accadde il giorno prima del suo matrimonio con Landow. Fu…». Tacque di nuovo, come se non gli venisse in mente altro da dire. «Sì, fu il giorno prima che sposasse Landow». E tornò a fissare disperato il pavimento.
Alec Rush, che aveva ascoltato la storia restando impassibile come un mostro scolpito sulle mura di una vecchia chiesa, si appoggiò alla scrivania per fare una domanda: «E chi è questo Hubert Landow? Che cosa fa?».
Ralph Millar scosse il capo chino. «Non lo conosco. L’ho visto appena. Non ne so nulla».
«La signora Landow ne ha mai parlato? Voglio dire, quando era in ufficio?».
«Può darsi, ma non ricordo».
«Quindi, non sapeva più come comportarsi, quando ha sentito che lo aveva sposato?».
Il giovanotto lo fissò con gli occhi castani spaventati. «Dove vuole arrivare, Rush? Non penserà… Sì, come dice lei, sono rimasto sorpreso. Ma dove vuole arrivare?».
«La licenza di matrimonio», disse il detective ignorando la reiterata domanda del cliente, «è stata consegnata a Landow quattro giorni prima della cerimonia, quattro giorni prima che fosse rinvenuto il cadavere».
Millar si mordicchiò un indice e scosse il capo disperato. «Non so dove voglia arrivare. Tutto è così sconcertante», mormorò da dietro il dito.
La voce ostinata del detective riempì l’ufficio. «Non è forse un fatto, signor Millar, che lei era in rapporti più amichevoli con Sara Falsoner, di quanto fosse con qualsiasi altro nella compagnia?».
Il giovanotto alzò gli occhi castani e fissò Alec Rush, sostenendo insistentemente il suo sguardo. «Il fatto è», disse calmo, «che ho chiesto a Sara Falsoner di sposarmi il giorno in cui se ne è andata».
«Seh. E lei?».
«E lei… suppongo che sia stata colpa mia. Ero impacciato, e forse sono stato indelicato, o qualcosa del genere. Dio sa che cosa avrà pensato. Forse che le chiedevo di sposarmi perché avevo pietà di lei.
O che cercavo di costringerla a sposarmi licenziandola, quando sapevo che annegava nei debiti! Può avere pensato qualsiasi cosa. In ogni caso è stato… è stato sgradevole».
«Intende dire che non solo lei ha rifiutato la sua offerta, ma si è mostrata sgradevole nei suoi confronti?».
«Sì, è quello che intendo dire».
Alec Rush si appoggiò allo schienale e piegò un angolo della bocca, aggiungendo nuove sfumature grottesche al suo viso. I suoi occhi arrossati erano rivolti al soffitto con un’espressione pensosa e malvagia. «L’unica cosa da fare», decise, «è andare da Landow e dirgli ciò che sappiamo».
«Ma è sicuro che…», obiettò Millar indefinitamente.
«Se non è un grandissimo attore, quell’uomo è molto innamorato della moglie», disse il detective con sicurezza. «Questa è una motivazione sufficiente per andare a raccontargli la storia».
Millar non era convinto. «davvero sicuro che sia la mossa più saggia?».
«Seh. Abbiamo solo tre alternative: dirlo a lui, dirlo a lei, o alla polizia. Io penso che Landow sia quello più adatto, ma scelga lei chi preferisce».
Il giovane annuì con riluttanza. «E va bene. Ma non è necessario che io sia coinvolto, vero?» si informò, in preda a un dubbio improvviso. «Capisce cosa voglio dire… è sua moglie e sarebbe…».
«Ma certo», promise Rush. «Non farò il suo nome».
8
Hubert Landow rigirò tra le dita il biglietto da visita dell’investigatore. Ricevette Alec Rush in una camera riccamente ammobiliata al secondo piano della casa in Charles-Street Avenue.
Alto, biondo, di una bellezza adolescenziale, se ne stava in piedi in mezzo alla stanza, lo sguardo alla porta, quando il detective venne fatto entrare. Grasso, grigio, stanco, Rush sembrava più brutto che mai.
«Voleva vedermi? Prego, si accomodi». I modi di Hubert Landow non erano né troppo cordiali, né troppo freddi. Era precisamente l’atteggiamento di un giovanotto che riceveva la visita inaspettata di un detective privato con l’aspetto brutale di Rush.
«Seh», fece questi, mentre entrambi prendevano posto su due sedie, una di fronte all’altra. «Ho qualcosa da raccontarle. Non le farò perdere molto tempo, ma l’avviso che è una storia piuttosto strana.
Potrebbe essere una sorpresa per lei, oppure no. In ogni caso, è tutto vero, e non voglio che lei pensi che la sto prendendo in giro».
Hubert Landow si sporse in avanti, con un’espressione incuriosita.
«Non si preoccupi», garantì. «Mi dica».
«Un paio di giorni fa, ho raccolto informazioni su un uomo che potrebbe essere coinvolto in un caso su cui sto lavorando. Un imbroglione. Seguendolo, ho scoperto che era interessato ai suoi affari e a quelli di sua moglie. Ha pedinato tanto lei quanto la signora. Passeggiava avanti e indietro di fronte a una casa in Mount Royal Street in cui lei è entrato ieri, e dopo che lei se ne è andato, ci è entrato a sua volta».
«Ma che cosa diavolo sta combinando quell’uomo?», proruppe Landow.
«Crede che…».
«Aspetti», lo avvisò il brutto detective. «Aspetti di sentire il resto, e poi mi dirà che cosa ne pensa. L’uomo è uscito dalla casa ed è andato alla Camden Station, dove ha incontrato una giovane donna.
Hanno parlato per un po’, poi si sono separati. Più tardi, la donna è stata sorpresa a rubare in un negozio. Si chiama Polly Bangs, pregiudicata nel Wisconsin per lo stesso reato. Questa Polly Bangs tiene una sua foto sul comodino».
«Una mia foto?», Landow scattò in piedi.
Alec Rush annuì placidamente, studiando la sua espressione. «Una sua foto. Conosce questa Polly Bangs? Una ragazza tozza, sui ventisei anni, capelli e occhi castani, piuttosto sfrontata».
Il volto di Hubert Landow era un’impenetrabile maschera di stupore.
«No! Che cosa diavolo se ne fa di una mia fotografia?», domandò.
«proprio sicuro che fosse mia?».
«Non sicurissimo, forse, ma abbastanza sicuro da avere bisogno di una prova che non lo fosse. Forse è qualcuno di cui lei si è scordato. O forse ha trovato la sua foto da qualche parte e l’ha tenuta perché le piace».
«Assurdo!». Il giovanotto biondo non raccolse l’implicito complimento, ma il suo volto si fece così rosso da far apparire quasi pallido quello di Rush. «Ci dev’essere una spiegazione sensata. Ha detto che è stata arrestata?».
«Seh, ma ora è fuori su cauzione. Mi lasci andare avanti con la storia. Ieri sera, questo malvivente e io abbiamo fatto due chiacchiere. L’uomo dice di essere stato pagato per uccidere sua moglie».
Hubert Landow, che era tornato a sedersi, sembrò contorcersi sulla sedia. Le giunture scricchiolarono nello sforzo. Il volto, fino a un momento prima paonazzo, si fece bianco come un cencio. Un altro rumore lievissimo risuonò nella stanza, una sorta di singhiozzo soffocato. Il padrone di casa non parve sentirlo, ma gli occhi arrossati di Rush corsero per un istante a una porta chiusa dalla parte opposta della stanza.
Landow si rialzò in piedi e si piegò sul detective, le dita strette sulle sue robuste spalle. «orribile», gemette. «Dobbiamo…».
La porta verso la quale il detective aveva guardato un attimo prima si aprì, e una bella donna entrò nella stanza. Era Sara Landow. I suoi capelli spettinati formavano una nube ramata intorno al viso bianchissimo. Gli occhi sembravano privi di vita. La donna camminò lentamente verso i due uomini, il corpo lievemente piegato, come sotto l’effetto di un forte vento.
«inutile, Hubert». La sua voce non sembrava più viva dello sguardo.
«Dobbiamo guardare in faccia la realtà. Madeline Boudin. Ha scoperto che ho ucciso mio zio».
«Taci, cara, taci!». Landow prese la moglie tra le braccia, e cercò di rassicurarla accarezzandole una spalla. «Non sai quello che dici».
«Oh, lo so benissimo». Sara si sciolse rapidamente dall’abbraccio, e si sedette sulla sedia che Alec Rush aveva appena lasciato libera.
«Si tratta di Madeline Boudin, è chiaro. Lei sa che ho ucciso mio zio Jerome».
Landow si voltò verso il detective, prendendogli un braccio con entrambe le mani. «Non starà a sentire quello che dice, Rush?», lo supplicò. «Non è stata bene. Non sa di che cosa sta parlando».
Sara Landow si abbandonò a un’amara risata. «Non sono stata bene?», gli fece eco. «No, non lo sono stata da quando l’ho ucciso. Come avrei potuto? Lei è un detective». Alzò verso Alec Rush gli occhi privi di espressione. «Mi arresti. Ho ucciso Jerome Falsoner».
Rush, gambe aperte e braccia conserte, rispose al suo sguardo con una smorfia, e non disse una parola.
«Non può, Rush!». Landow riprese a tirare il detective per un braccio. «Non può. ridicolo! Lei…».
«Che cosa c’entra Madeline Boudin in questa storia?», gli domandò la voce roca di Alec Rush. «So che era un’amica di Jerome, ma perché dovrebbe volere morta sua moglie?».
Landow esitò, strascicò i piedi per terra e alla fine rispose con riluttanza: «Era l’amante di Jerome. Ha avuto un figlio da lui.
Quando mia moglie lo è venuta a sapere, ha insistito per giungere a un accordo. questo il motivo per cui sono andato a farle visita ieri».
«Seh. Ora, per tornare a Jerome, lei e sua moglie risultavate a casa di lei, la sera in cui fu ucciso, se non ricordo male».
Sara Landow sospirò stancamente. «Bisogna discutere ancora tanto?», domandò a bassa voce. «Io l’ho ucciso. Io e nessun altro. Non c’erano altre persone quando gli ho conficcato il tagliacarte nel petto, dopo che lui mi ha aggredito. Gli ho sentito dire: “Non farlo! Non farlo!”, e poi scoppiare a piangere. Era a terra, in ginocchio, quando sono scappata».
Alec Rush guardò la ragazza, poi il giovanotto. Il volto di Landow era coperto di sudore. Le mani, chiuse a pugno, erano bianche. Quando parlò, la sua voce era roca quanto quella del detective, anche se non altrettanto possente. «Sara, aspettami qui fino al mio ritorno. Starò via per un po’, forse per un’ora. Aspettami qui e non fare nulla fino a quando non sarò tornato. D’accordo?».
«Sì», rispose la ragazza. Non c’era traccia né di interesse, né di curiosità nella sua voce. «Ma è inutile, Hubert. Avrei dovuto dirtelo fin dal principio. inutile».
«Aspettami, Sara, non fare altro», la pregò lui. Poi si volse verso il detective, per mormorargli all’orecchio deforme: «Stia con lei, Rush, per l’amor di Dio!». E detto questo, si affrettò a uscire dalla stanza.
La porta d’ingresso sbatté. Un’automobile si allontanò dalla casa.
Alec Rush si rivolse alla ragazza. «Dov’è il telefono?».
«Nell’altra stanza», rispose lei, senza alzare gli occhi dal fazzoletto che teneva teso tra le dita.
Il detective uscì dalla stessa porta da cui Sara Falsoner era entrata, e si trovò in una biblioteca. In un angolo vide il telefono.
Sulla parete di fronte un orologio indicava le tre e trentacinque.
L’investigatore sollevò il ricevitore, chiamò l’ufficio di Ralph Millar e chiese di lui.
«Sono Rush», gli disse. «Sono a casa dei Landow. Venga subito».
«Ma io non posso, Rush. Non capisce la mia…».
«Non può un accidente!», esplose Rush.. «Venga qui subito!».
La giovane donna dagli occhi spenti, ancora impegnata a giocare col bordo del suo fazzoletto, non alzò lo sguardo quando il brutto detective rientrò nella stanza.
Nessuno dei due parlò.
Alec Rush, in piedi con le spalle alla finestra, prese di tasca l’orologio un paio di volte per lanciargli un’occhiataccia.
Poi, finalmente, dal pianterreno giunse il leggero tintinnio del campanello. Il detective, agile malgrado la mole, scese nell’atrio, dove trovò Ralph Millar impegnato a balbettare qualcosa di inintelligibile alla cameriera che gli aveva aperto. Il volto del giovane era un campo di battaglia in cui si combattevano la paura e l’imbarazzo. Alec Rush spinse da parte la cameriera, prese Millar per un braccio e lo condusse di sopra.
«La donna dice di avere ucciso Jerome», sussurrò all’orecchio del cliente.
Ralph Millar impallidì, ma non parve sorpreso.
«Sapeva già che era stata lei a ucciderlo?», ringhiò Rush.
Millar cercò per due volte di parlare, ma dalla sua bocca non uscì alcun suono. Erano ormai sul ballatoio del secondo piano quando finalmente riuscì a dire qualcosa. «L’ho vista uscire in strada, quella sera. Andava verso la casa di Falsoner!».
Alec Rush sbuffò seccato e guidò il giovanotto verso la stanza in cui era seduta Sara. «Landow è uscito», mormorò rapidamente all’orecchio di Millar. «Io me ne vado. Resti con lei. sconvolta, e se rimane sola potrebbe fare qualche sciocchezza. Se Landow dovesse tornare prima di me, gli dica di aspettarmi».
Prima che Millar potesse esprimere la confusione riflessa dal suo volto, erano già entrati nella stanza. Sara Landow alzò gli occhi.
Come sotto l’effetto di una forza invisibile, il suo corpo si sollevò dalla sedia. La donna si erse in piedi. Millar si fermò sulla porta.
Si guardarono negli occhi. Sembrava che una forza li spingesse uno verso l’altra, mentre una forza uguale e contraria li tratteneva.
Senza dire una parola, il detective corse sgraziatamente giù per le scale e uscì in strada.
9
In Mount Royal Avenue, Alec Rush avvistò immediatamente l’automobile scoperta di Landow. Era parcheggiata di fronte all’edificio in cui abitava Madeline Boudin, senza nessuno a bordo.
Il detective la oltrepassò, e tre case più in là fece manovra e parcheggiò accanto al marciapiede. Si era appena fermato quando Landow uscì in strada, saltò in macchina e ripartì.
Il giovane si fermò davanti a un albergo di Charles Street. Il detective gli stava dietro.
In albergo, Landow andò dritto in una saletta, dove rimase seduto per mezz’ora a uno scrittoio, riempiendo frettolosamente di parole un foglio dopo l’altro. L’investigatore teneva d’occhio l’uscita della saletta da dietro un giornale, seduto in un angolo riparato dell’atrio. Landow uscì dalla saletta, spingendosi in tasca una busta rigonfia. Lasciato l’albergo, risalì in macchina e raggiunse l’ufficio di un servizio recapiti in St. Paul Street. Vi rimase per cinque minuti. Quando ne uscì, ignorò la sua automobile e proseguì invece a piedi fino a Calvert Street, dove salì su un tram diretto a nord. Il coupé di Alec Rush continuò a seguirlo.
Landow scese alla Union Station e si diresse verso la biglietteria.
Aveva appena chiesto un biglietto di sola andata per Filadelfia quando Alec Rush gli batté su una spalla.
Hubert Landow si voltò lentamente. Teneva ancora in mano i soldi del biglietto. Lo riconobbe, ma il suo volto non mutò di espressione.
«Sì?», disse calmo. «Che cosa c’è?».
Alec Rush accennò col capo prima allo sportello della biglietteria, e poi ai soldi nella mano di Landow. «Questo non lo doveva fare», ringhiò.
«Ecco a lei», fece il bigliettaio da dietro la griglia. Nessuno dei due uomini gli prestò attenzione. Una donna grassa, vestita di rosa, rosso e violetto, spintonò Landow, gli calpestò un piede e raggiunse lo sportello. Landow fece un passo indietro e il detective lo seguì.
«Non avrebbe dovuto lasciare Sara da sola», protestò Landow. «Lei è…».
«Non è da sola. Ho fatto venire qualcuno».
«Non…».
«Non la polizia, se è questo che pensa».
Landow si incamminò lungo il salone affiancato dal detective. Il giovanotto biondo si fermò improvvisamente e squadrò Rush. «quel tale, Millar, quello che è con lei adesso?», gli domandò.
«Seh».
«per lui che lavora, vero Rush?».
«Seh».
Landow riprese a camminare. Quando furono arrivati all’estremità nord del salone, fronteggiò il detective e parlò di nuovo. «Che cosa vuole, questo Millar?».
Alec Rush si strinse nelle grosse spalle e non aprì bocca.
«Be’, allora lei che cosa vuole?», chiese il giovanotto cominciando a riscaldarsi.
«Voglio che lei non lasci la città».
Landow rifletté, poi, con un’espressione di sfida, ribatté: «Supponiamo che io insista per andarmene. Come ha intenzione di fermarmi?».
«Per esempio, potrei farla accusare di favoreggiamento nella morte di Jerome Falsoner».
Vi fu di nuovo silenzio, fino a quando fu Landow a romperlo. «Mi stia a sentire, Rush. Lei lavora per Millar. Lui è a casa mia. Io ho appena fatto recapitare una lettera a Sara. Dia loro il tempo di leggerla e poi telefoni a Millar. Gli chieda se vuole che io sia trattenuto oppure no».
Alec Rush scosse il capo con decisione. «Niente da fare. Secondo me, Millar è troppo confuso per fargli prendere una decisione del genere al telefono. Torniamo là e ne parliamo tutti insieme».
Ora era Landow a opporsi. «No. Non lo farò». Fissò freddamente la brutta faccia del detective. «Lei ha un prezzo, Rush?».
«No, Landow. Non si faccia ingannare dal mio aspetto e dalla mia fedina».
«Lo immaginavo». Landow guardò verso il soffitto, poi si fissò la punta delle scarpe. Sbuffò. «Non possiamo parlare qui. Troviamo un posto tranquillo».
«Ho la macchina fuori», disse Alec Rush. «Possiamo sederci dentro».
10
Quando furono a bordo del coupé, Hubert Landow si accese una sigaretta, mentre il detective prendeva di tasca uno dei suoi sigari.
«Quella Polly Bangs di cui parlavi, Rush», attaccò il biondo senza preamboli, «è mia moglie. Il mio vero nome è Henry Bangs. Non troverai le mie impronte da nessuna parte. Quando Polly si fece beccare a Milwaukee un paio d’anni fa e finì dentro, venni all’est e mi misi con Madeline Boudin. Facevamo una buona squadra: lei ha cervello da vendere, e se io trovo qualcuno che si mette a pensare al posto mio, sono un gran lavoratore». Sorrise al detective, indicando la propria faccia con la punta della sigaretta.
Mentre Alec Rush lo fissava, il volto del giovane biondo arrossì come quello di una scolaretta. Landow scoppiò a ridere di nuovo e il rossore svanì.
«Uno dei miei trucchi migliori», proseguì. «facile, se sei dotato e ti tieni in allenamento: riempi i polmoni e cerchi di espellere l’aria tenendo chiusa la laringe. Una miniera d’oro per un truffatore. Ti sorprenderesti a vedere quanta gente si fida di me, dopo che sono arrossito una o due volte. Allora, Madeline e io puntavamo ai soldi. Lei aveva il cervello, il fegato e una bella presenza. Io pure, cervello a parte. Abbiamo fatto un paio di lavoretti, una truffa e un ricatto, e poi lei si è imbattuta in Jerome Falsoner. In un primo tempo pensavamo soltanto di spremerlo un po’. Ma quando Madeline ha scoperto che Sara era l’unica erede, che era piena di debiti e che era ai ferri corti con lo zio, abbiamo cambiato i piani e puntato più in alto. Madeline ha trovato qualcuno che mi presentasse a Sara. Io ho fatto la parte dello scemo di bell’aspetto, timido e adorante. Come dicevo, Madeline ha cervello e ne ha fatto uso. Io ronzavo intorno a Sara, mandandole fiori, libri e dolci, portandola a cena e a teatro. I libri e il teatro facevano parte dell’opera di Madeline: due di essi menzionavano il fatto che un marito non possa essere portato come testimone a carico della moglie o viceversa. Se ne parlava anche in una delle commedie.
Stavamo seminando. Come quando, arrossendo e balbettando, persuasi Sara, o meglio glielo lasciai intendere da sola, che sono il peggior bugiardo del mondo».
«Dopodiché, cominciammo a guidare il gioco. Madeline si teneva in buoni rapporti con Jerome, Sara sprofondava ancora di più nei debiti.
E noi ci davamo da fare per aggravare la sua situazione. Una sera mandammo persino un ladro a ripulirle l’appartamento: Ruby Sweeger, forse lo conosci. Adesso è dentro per un altro furto. Ruby l’alleggerì di tutto il denaro e di tutto quello che avrebbe potuto impegnare.
Poi aizzammo un po’ dei suoi creditori, mandando loro lettere anonime per avvisarli di non contare troppo sul fatto che Sara fosse l’erede di Jerome. Lettere stupide, ma funzionarono: un paio di creditori le mandarono degli esattori in ufficio.
«Jerome riceveva l’assegno della sua rendita una volta ogni quattro mesi. Tanto Madeline quanto Sara conoscevano le date. Il giorno prima che arrivasse l’ultimo assegno, Madeline si diede di nuovo da fare coi creditori. Non so che cosa gli raccontò quella volta, fatto sta che bastò a farli piombare come falchi in ufficio. Col risultato che a Sara furono date due settimane di paga e fu licenziata. Quando lei uscì dall’ufficio, io la incontrai. Per caso, naturalmente: la stavo sorvegliando fin dal mattino. Le feci fare un giro in macchina e la riportai a casa alle sei, giusto in tempo per trovare un’altra orda di creditori impazienti. Io li scacciai, facendo la parte del ragazzo dal cuore d’oro, e offrendo imbarazzato ogni genere di aiuto. Lei rifiutò, naturalmente. E poi le lessi in faccia la decisione: sapeva che quello era il giorno in cui Jerome riceveva il suo assegno. Sara stabilì di andare a parlargli e a chiedergli che le pagasse almeno i debiti. Non mi disse dove voleva andare, ma io lo sapevo benissimo: era quello che aspettavo. La lasciai e mi appostai di faccia a casa sua, in Franklin Square. Quando la vidi uscire trovai un telefono, chiamai Madeline e le dissi che Sara stava andando dallo zio».
Landow si scottò le dita con la sigaretta. La lasciò cadere, la schiacciò col piede e ne accese un’altra. «una storia lunga, Rush», si scusò, «ma siamo quasi alla fine».
«Continua a parlare», lo esortò il detective.
«Quando chiamai Madeline, c’erano delle persone con lei. Gente che stava cercando di convincerla ad andare a una festa in campagna. A quel punto, Madeline accettò: le avrebbero fornito un alibi ancora migliore di quello che si era preparata. Disse loro che doveva vedere Jerome prima di andare, e si fece portare in macchina a casa di Falsoner. Gli altri attesero fuori mentre lei entrava in casa. Si era portata dietro una bottiglia da una pinta di cognac, ben drogato. Ne versò un bicchiere a Jerome, raccontandogli di avere trovato un nuovo contrabbandiere con una dozzina o forse più di casse di quel cognac a un prezzo ragionevole. Il cognac era buono e il prezzo conveniente, abbastanza da far credere a Jerome che lei fosse passata per fargli un favore. Così, lui le diede un ordine da passare al contrabbandiere. Dopo aver messo il tagliacarte bene in vista sulla scrivania, Madeline raggiunse di nuovo i suoi amici, facendosi accompagnare fin sulla porta perché tutti potessero vedere Jerome vivo. Poi l’auto ripartì. Non so che cosa Madeline avesse messo nel cognac: se me lo ha detto, l’ho dimenticato. Ma era una droga potente, non un veleno. Un eccitante. Capirai cosa intendo quando sentirai il resto. Sara deve avere raggiunto lo zio dieci o quindici minuti dopo che Madeline se n’è andata. Il volto di suo zio, mi ha raccontato, era rosso e infiammato quando le venne ad aprire. Lui era un uomo fragile e lei una donna forte, che non si sarebbe spaventata nemmeno se avesse visto il diavolo. Entrò in casa e chiese allo zio di sistemare almeno i suoi debiti, visto che non voleva concederle la quota di rendita che le spettava. Erano entrambi Falsoner, e la discussione si dev’essere animata. La droga cominciava a fare effetto su Jerome, che non aveva la forza di resisterle. Lui l’aggredì. Il tagliacarte era ben in vista sulla scrivania, come Madeline aveva fatto in modo che fosse. Jerome era in preda alla follia, e Sara non è certo il tipo che si rintana in un angolo a urlare di terrore. Afferrò il tagliacarte e lo colpì. Quando lo vide cadere, girò sui tacchi e scappò.
«Avendola seguita., subito dopo avere chiamato Madeline, ero in attesa sui gradini della casa di Jerome quando lei corse fuori. La fermai e le sentii dire che aveva ucciso lo zio. Le suggerii di aspettare mentre io entravo a controllare che fosse davvero morto.
Poi l’accompagnai a casa, spiegando la mia presenza a un passo dal luogo del delitto dicendo, con un certo imbarazzo, che nel timore che commettesse qualche pazzia avevo pensato di tenerla d’occhio. Tornati nel suo appartamento, dovetti dissuaderla dal costituirsi. Le feci presente che, se ammetteva di essere andata dallo zio a parlare di soldi, essendone l’erede, sarebbe stata accusata di omicidio premeditato. La convinsi che la polizia avrebbe riso della storia dell’aggressione. Confusa com’era, non fu difficile persuaderla. Il passo successivo era semplice: anche se non fosse stata la principale sospettata, la polizia avrebbe indagato su di lei. Io ero, per quanto ne sapevo, l’unica persona la cui testimonianza avrebbe potuto esserle fatale. Io le sarei stato leale, ma non ero forse il peggior bugiardo del mondo? Bastava una piccola bugia a farmi diventare rosso come un peperone. L’unico modo di aggirare l’ostacolo era l’espediente di cui parlavano quei due libri e la commedia: se fossi stato suo marito, non avrei potuto testimoniare contro di lei. Ci sposammo il mattino dopo, con una licenza che avevo in tasca da una settimana.
«Bene, eccoci qui. Io ero suo marito. Lei avrebbe ereditato un paio di milioni, appena gli affari di suo zio fossero stati sistemati. Era impossibile che Sara sfuggisse all’arresto e alla detenzione. Anche se nessuno l’avesse vista entrare o uscire dalla casa dello zio, tutto lasciava pensare che fosse lei la colpevole, e la condotta che le avevo consigliato di seguire non faceva che rovinare la sua possibilità di appellarsi alla legittima difesa. Se la impiccavano, i due milioni passavano a me. Se la condannavano a una lunga detenzione, quantomeno avrei avuto io il controllo dei soldi».
Landow fece cadere la sua seconda sigaretta, la schiacciò e guardò per un istante in lontananza. «Tu credi in Dio, o nella Provvidenza, nel Fato o in qualcosa del genere, Rush?», chiese. «Be’, qualcuno crede all’uno, qualcuno crede all’altro. Ma ascolta: Sara non fu mai arrestata, nessuno la sospettò mai veramente. Pare che un finlandese, o uno svedese, avesse avuto a che dire con Jerome e lo avesse minacciato. Suppongo che non potesse rendere conto di dove si trovasse la sera del delitto, per cui fece perdere le sue tracce appena saputo dell’assassinio di Jerome. La polizia indirizzò i sospetti su di lui. Controllarono Sara, naturalmente, ma non a fondo.
Pare che nessuno l’avesse vista per strada, e i suoi vicini, vedendola tornare alle sei e non avendola vista uscire, o non ricordando di averla vista, avevano dichiarato alla polizia che era sempre rimasta a casa. Gli sbirri erano troppo indaffarati a dare la caccia al finlandese scomparso, o quello che era, per indagare più dettagliatamente sul conto di Sara. E così, rieccoci daccapo. Io ero sposato e avevo a portata di mano un mucchio di soldi, di cui però non potevo disporre per dare alla mia socia la sua parte. Madeline disse che avremmo potuto lasciare che la questione dell’eredità si sistemasse, per poi fare una spiata alla polizia. Ma quando i soldi arrivarono, ci fu un altro imprevisto.
«Fu colpa mia. Io… io… be’ volevo lasciare le cose come stavano. Niente a che vedere con la coscienza, credimi, era solo che… be’, volevo solo vivere con Sara. Non ero pentito di quello che avevo fatto: altrimenti non avrei mai potuto averla. Non so se riesco a spiegarmi, Rush, ma anche adesso non ho rimorsi. Sarebbe potuta andare diversamente, ma non è successo. Doveva essere così. E io ho avuto questi sei mesi. Sono stato uno stupido: Sara non era fatta per me. L’ho avuta con l’inganno e col delitto, e mi sono aggrappato alla sciocca speranza che un giorno… potesse guardarmi come io guardavo lei. Dentro di me, sapevo che era inutile. C’era stato un uomo, il tuo Millar. Ora che è venuto fuori il mio matrimonio con Polly, lei è libera e io spero che… io spero… Be’, Madeline ha cominciato a insistere, e io ho raccontato a Sara che lei aveva avuto un figlio da Jerome. Sara pensò di farle avere dei soldi, ma questo a Madeline non bastava. Tra me e lei non c’erano sentimenti, solo i soldi. E lei voleva ogni centesimo che poteva avere, e non poteva accontentarsi della somma che Sara voleva concederle. Era così anche con Polly, ma forse con lei c’è in gioco qualcosa di più. Credo che mi sia affezionata. Non so come abbia fatto a trovarmi, dopo essere uscita di prigione nel Wisconsin, ma posso immaginare che cosa abbia pensato. Ero sposato a una donna ricca. Se la donna moriva, magari uccisa da un bandito durante un tentativo di rapina, io ereditavo, e Polly avrebbe avuto me e il denaro. Non l’ho vista, non avrei mai saputo che era a Baltimora, se non me lo avessi detto tu. Ma dev’essere questo il suo piano. La stessa idea dev’essere venuta a Madeline: le avevo detto che non ero disposto a liberarmi di Sara. Lei ha capito che, se fosse andata avanti da sola e avesse incastrato Sara per l’assassinio di Falsoner, io avrei svelato i retroscena e mandato all’aria il piano. Ma se Sara fosse morta, io avrei avuto i soldi e Madeline la sua parte. Questo è quanto. Non ne sapevo nulla fino a quando non sei venuto a raccontarmelo, Rush. Non m’importa che cosa pensi di me, ma giuro su Dio che non sapevo che Polly o Madeline stessero cercando di far uccidere Sara. Be’, non ho molto altro da dire. Mi stavi pedinando quando sono entrato in albergo?».
«Seh».
«Lo immaginavo. Quella lettera che ho scritto e ho spedito a casa racconta quello che ti ho appena detto. Tutta la storia. Io me ne sarei andato, dopo avere rivelato a Sara ogni cosa. Ora lei saprà tutto, d’accordo, ma io devo pagare le conseguenze. In ogni caso, preferisco non rivederla più, Rush».
«Non credo che dovresti», convenne il detective. «Non dopo aver fatto di lei un’assassina».
«Ma questo non è vero», protestò Landow. «Non lo è. Ho scordato di dirtelo, ma l’ho scritto nella lettera. Jerome Falsoner non era né morto né morente quando sono entrato in casa sua. Il tagliacarte era troppo in alto. L’ho ucciso io, pugnalandolo di nuovo nella stessa ferita, ma verso il basso. Era per questo che ero entrato: per dargli il colpo di grazia».
Alec Rush alzò gli occhi arrossati e studiò a lungo il volto dell’assassino confesso. «una bugia», sentenziò alla fine. «Ma se non altro a fin di bene. Sei sicuro di volerti attenere a questa versione? La verità dovrebbe bastare a scagionare la ragazza senza che tu rischi di farti impiccare».
«Che differenza farebbe?», chiese il giovanotto. «Io sono fregato in ogni caso. Tanto vale che metta Sara in pace con se stessa, oltre che con la legge. Io ho i miei conti in sospeso con la legge, e un’accusa di più non peggiorerà le cose. Te l’ho detto: Madeline ha sempre avuto cervello. E mi ha sempre fatto paura. Doveva avere qualche asso nella manica pronto da giocare per rovinare Sara. Non doveva fare sforzi, era sempre più furba di me. Non potevo correre rischi».
Scoppiò a ridere in faccia a Rush, e con un gesto teatrale spinse un polsino fuori di due o tre centimetri dalla manica del soprabito.
C’era una macchia marroncina ancora umida.
«Ho ucciso Madeline un’ora fa», rivelò Henry Bangs, alias Hubert Landow.
Nota di Beppe Benvenuto
Un eclettico di talento, lo sceneggiatore e scrittore Vladimir Pozner, in un libro di ritratti e ricordi, dal titolo un po’ enfatico, ma dal contenuto piuttosto intrigante (Uomini del mio tempo, pubblicato dagli Editori Riuniti nel lontano 1975) descriveva così il suo incontro con Dashiell Hammett: «La macchina seguiva la sponda sinistra dell’Hudson a nord di New York, dalle parti della cittadina di Ossining. Mia figlia, che doveva avere circa quattro anni, si chinò verso il conducente e disse, sfiorandogli la testa con la punta delle dita: “Avete capelli molto belli”. Dashiell Hammett non doveva più dimenticarlo, come se fosse stato il più grande complimento che una donna gli avesse rivolto: me ne riparlò anni dopo. Si voltò per sorridere a Catherine, il suo occhio colse qualcosa, in lontananza, rallentò l’auto e disse: “Sing-Sing”.
Guardai, alternativamente, il più illustre carcere del romanzo poliziesco americano e i capelli di Dashiell Hammett, fini, argentei, belli: Catherine aveva ragione. Non erano solo i capelli. Egli aveva una bella testa, uno sguardo attento, benevolo, facilmente divertito, e, nella sua andatura, nel suo modo di vestire, una sorta di noncurante eleganza».
Vladimir Pozner continua spiegando come Dashiell Hammett in quel momento, siamo negli anni della guerra, avesse praticamente smesso di scrivere. Viveva in campagna «nelle vicinanze di un lago pescoso dove passava intere giornate a pescare». Ricorda che non aveva sempre e solo fatto il romanziere ma a lungo il detective privato «per conto della illustre Agenzia Pinkerton». Un impero della forza di quello dei Rockefeller e dei Morgan, delle cui solidità l’illustre Agenzia era stata, peraltro, «l’indispensabile completamento. Casi di divorzio, ricerche, sorveglianza, non l’assorbivano che marginalmente: l’Agenzia Pinkerton era, prima di tutto, al servizio dei datori di lavoro, ai quali forniva agenti antisciopero e provocatori, spie e killer professionisti».
Dashiell Hammett per «anni, percorse gli Stati Uniti, imparando a conoscere sia i suoi datori di lavoro che i suoi clienti, finendo col rendersi conto che, nel suo paese, il mondo degli affari, della politica, della polizia e quello della malavita erano un solo identico mondo».
Ormai fuori dal giro «non scriveva, pescava». Ogni qual volta però «le forze che egli aveva appreso a conoscere lavorando per Pinkerton riprendevano il sopravvento negli Stati Uniti, si poteva contare su di lui». Siglava appelli, aderiva a campagne di solidarietà antifasciste. Dopo il 1937 si avvicinò e forse persino si iscrisse al partito comunista americano (ma certezza non c’è, e alcuni suoi ammiratori pensano che il suo comunismo fosse un punto d’orgoglio più che una fede).
Citato a comparire davanti alla commissione per le attività antiamericane (quella celeberrima del senatore Joseph Mccarthy e della sua crociata anticomunista) «rifiutava di rispondere a qualsiasi domanda… Gli venne chiesto quale significato avessero, in calce a un documento compromettente, le lettere D. H., egli le esaminò prima di dare l’unica sua risposta: “Delle iniziali”» (a proposito quel suo silenzio gli costò circa sei mesi di reclusione e un crollo di status economico ancora più ragguardevole, subì una causa da parte del governo americano per tasse arretrate che gli costò 140.000 dollari, col risultato di bloccare ogni suo introito futuro sui diritti d’autore).
Così nel ricordo. E in parte anche nella realtà. O almeno in quella parte, circonfusa di poesia e di mito, della sua vicenda pubblica.
Dashiell Hammett è stato in effetti un personaggio piuttosto complicato (se i suoi libri sono notissimi a milioni di lettori, la sua vita privata altrettanto articolata resta abbastanza sfuggente anche per i suoi biografi più accurati) almeno quanto sfaccettata è la sua produzione letteraria. Cinque romanzi, un centinaio di racconti, molti inediti, recuperati anche post mortem.
Attivissimo per un arco di anni piuttosto breve, in buona sostanza a cavallo fra la Grande depressione e il New Deal, ha sempre shakerato arte e vita, confondendo, alla fine, le carte. Mettendo naturalmente fuori pista curiosi, fan e persino sapienti cronisti culturali.
Dashiell Hammett ha scritto e vissuto sopra le righe. Secondo il critico e poeta Alfredo Giuliani, «Hammett si comportava nella sua vita proprio come si sarebbero comportati i suoi eroi, specie nei momenti cruciali» (in Alfredo Giuliani, Un armadio pieno di morti, «Repubblica», 4 giugno 1989).
Per la commediografa (autrice del dramma Le piccole volpi e sceneggiatrice di molti film di successo) Lillian Hellman, sua compagna di affetti e di amicizia dal 1934 sino alla morte, lo scrittore era non semplicemente un «grand’uomo». Di più. Apparteneva al genere raro di quelli che non hanno «mai mentito… mai ingannato» e che soprattutto non si sono degradati. La vicenda d’amore fra i due è un’oasi importante nella storia dello scrittore: un’oasi, però, tutt’altro che pacificata. Scrive l’esperto Steven Marcus: «Fu a Hollywood che… dopo una sbronza colossale durata molti giorni e molte notti, lo scrittore incontrò una giovane donna di nome Lillian Hellman. I due provarono immediatamente una forte attrazione reciproca e iniziarono quella che per entrambi sarebbe risultata la più importante relazione della vita: appassionata, tempestosa, a volte persino crudele e violenta; per determinati periodi, incapaci di restare fedeli l’uno all’altro, arrivarono a separarsi; ma riuscirono a superare le crisi e il loro legame si dimostrò saldo: durò trent’anni, sino alla morte dello scrittore» (Steven Marcus, Introduzione a Dashiell Hammett, Continental Op, Mondadori 1980).
Eppure anche la biografia, tanto importante in un narratore così autobiografico (per riconoscimento generale, ma persino, in un certo senso, per diretta ammissione), non è sempre e comunque lineare. E neppure recitava l’andamento a soffietto paludato dell’icona. Nel caso di Dashiell Hammett poi l’intero tragitto esistenziale sa piuttosto di tormento, di un chiedersi e richiedersi senza risposta: a getto continuo. Anche se poi, a scrutar bene in fatti e circostanze, i punti bui, difficili da chiarire, non sono pochi.
Tanto più significativi perché essenziali per capire talune problematiche dello scrittore maturo. Capita così che alcuni snodi del suo passato sembrano riemergere in superficie e immediatamente per risprofondare subito dopo sotto traccia. E tutto ciò con un zig-zag puntuale, del tipo ossessivo viavai. Il riferimento è naturalmente a certi protagonisti delle sue storie.
Le figure di eroe-antieroe, di Don Chisciotte e/o cinico superbo convivono e si alternano nel suo modo di essere soprattutto durante la sua breve stagione di attività (meno di un decennio, dal 1915 ai primi anni Venti si forma e impara dal duro lavoro sul campo investigativo quella che sarà l’eterna materia della sua successiva fiction). Senza soluzione di continuità svariano, a tempo indeterminato, nella costellazione artistica hammettiana. I comportamenti di Dashiell Hammett uomo non sono da meno. Non segnano davvero differenze significative. Nessuna pieghettatura di rilievo, quasi una calcomania fra la pagina scritta e la vita vissuta. E patita. E tuttavia proprio questa sorta di osmosi rende semmai più arduo decifrare la multiformità del personaggio Dashiell Hammett: detective zelante di una super reazionaria Agenzia (sospettato anche, secondo una recente inchiesta giornalistica, apparsa su «Libération» nel 1997, di essere il killer di un noto sindacalista rosso dei minatori del Montana, eliminato nel 1917 su commissione della solita Pinkerton), scrittore al limite del feuilleton, stilista superbo, gran riformatore del poliziesco a stelle e strisce, capofila di ogni scuola dei duri (padre legittimatissimo di ogni hard-boiled che si rispetti), mezzo bardo di coraggio e resistenza civile, mezzo imboscato durante le due guerre (dove al di là delle dichiarazioni assai bellicose si limitò a prestar servizio nelle retrovie), grande gaudente, ma in fondo compagno fedele: un grande talento pari solo a un’altrettanto enorme capacità di dissipazione.
Si sa, Dashiell Hammett non aveva nulla da spartire con il tipo tutto casa e ufficio, con annessa carriera (successi inclusi).
Dashiell Hammett è da subito un segnato. Un predestinato all’autoflagellazione. Un segnalato speciale della provvidenza in nero, un vocato alle montagne russe dell’alterno destino.
Nato nel 1894 a St. Mary’s County, nel Maryland, figlio di genitori cattolici (il padre contadino e politicizzato) di origine scozzese e francese, era cresciuto a Filadelfia e a Baltimora. A quattordici anni già sotto padrone, a venti arruolato alla Pinkerton.
Secondo i suoi biografi aveva l’istinto del cacciatore, era un «cacciatore di uomini». Però, teneva gli occhi aperti, e così, prima o poi, il piacere iniziale gli si era trasformato dentro in amara lucidità, delusa ma non arrendevole consapevolezza che la giustizia non è esattamente di questo mondo (in Oreste del Buono, I rudi gialli del raffinato Hammett, in «Corriere della Sera», 21 dicembre 1979).
Arruolato nell’esercito della Grande guerra ha primi riscontri di quella tubercolosi che sarà la causa della fine della sua attività di investigatore e in un certo senso all’origine dello scrittore. Nel dopoguerra è a San Francisco ancora dipendente Pinkerton. Un ennesimo attacco tubercolotico però lo mette fuori servizio. Definitivamente.
In crisi la famiglia (prima moglie, Jose Dolan, una giovane e bella infermiera del Montana con cui si era trasferito a San Francisco, mollata non troppi anni dopo il colpo di fulmine matrimoniale), praticamente alla miseria, si fa autore. A partire dall’inizio degli anni Venti comincia a pubblicare per la rivista popolare di avventure «Black Mask», diretta da Joseph T. Show. Il «capitano» subito fiuta la buona grana dei racconti e lo impone ai patiti del poliziesco di palato forte e dall’emozione trash.
Il suo miglior alunno, peraltro di sei anni più anziano, Raymond Chandler (a sua volta collaboratore di «Black Mask» a partire però dal 1933) ne ha dato (Dashiell Hammett ancora vivo sebbene segnatissimo da alcol e malanni multipli) un ritratto che resta fra i più efficaci. Importante in particolare per il modo convincente attraverso cui registra la novità (di approccio stilistico e tematico) rappresentata dai libri di quello che riconosce apertamente come un maestro: «Hammett da principio e sin quasi alla fine ha scritto per quelli che prendono la vita di petto aggressivamente.
Questi non avevano paura dei lati neri dell’esistenza, vecchie conoscenze per loro. La violenza non li sgomentava: era ordinaria amministrazione nel loro quartiere. Hammett ha restituito il delitto alla gente che lo commette per ragioni vere o solide, e non semplicemente per fornire un cadavere ai lettori, e lo ha fatto compiere con mezzi accessibili, non con pistole da duello intarsiate, curaro e pesci tropicali. Ha messo sulla carta i suoi personaggi com’erano e li ha fatti parlare e pensare nella lingua che si usa di solito per tali scopi». In un’altra occasione sarà sempre Raymond Chandler, con grande umiltà, a dichiarare: «Non sono stato io a inventare il racconto poliziesco hard-boiled e non ho mai fatto segreto della mia opinione per cui è Hammett che merita la maggior parte o tutto il credito».
Insomma solo una decina d’anni, o giù di lì, attivo. Ma alla grande. Un centinaio di racconti. Cinque pezzi da novanta (Piombo e sangue; Il bacio della violenza; Il falcone maltese; La chiave di vetro; L’uomo ombra) e un numero imprecisato di lavori nel cassetto o dispersi.
Dei suoi romanzi principali si sa quasi tutto. Il cinema poi li ha trasformati in un monumento, amplificandone la leggenda. Quasi non si contano i film tratti dalle sue storie e non mancano neppure quelli che lo vedono sulla scena nel celebre remake di John Huston Il falcone maltese (che coincise con il primo successo hollywoodiano del regista di origine irlandese) con Humphrey Bogart nelle parti del protagonista sino al discusso Hammett: indagine a Chinatown di Wim Wenders.
Una specie di mania che si estende anche alla pagina scritta. Della metà degli anni Settanta è infatti Hammett di Joe Gores (Mondadori 1975). Una storiona di grande cassetta in cui il protagonista vive la dura e intrigante trasformazione dell’ex detective che diventa narratore. Così mania da far scrivere alla fine degli anni Settanta, a un hammettologo come Oreste del Buono, che «ormai Dash piace quasi di più come personaggio di romanzi che come autore di romanzi» (in Graziano Braschi, Dashiell Hammett. Un secolo di delitti, «Il Giornale», 2 giugno 1994). Affermazione da completarsi con quella, rafforzativa, che Dashiell Hammett funziona (eccome!) anche come protagonista di film.
Insomma Dashiell Hammett a quarant’anni dalla morte (10 gennaio 1961, al termine di una lunga malattia) e quasi settanta dal suo ultimo libro esiste, affascina e, come dire, lotta insieme a noi. I suoi classici si ristampano e si rileggono in continuazione e molti dei neofiti del noir lo tengono a modello. Ben venga quindi, quando di tanto in tanto, dalla caotica officina dello scrittore emerge qualche testo, per motivi non facilmente indagabili, se non del tutto inedito, praticamente sconosciuto. il caso di Un matrimonio d’amore. La prima edizione italiana uscì nel 1949 col titolo L’ombra in agguato per gli ormai ancien régime tipi della Nerbini. Riscoperto nel settembre 2000 dalla «Rivista del Mistero» e ora riproposto, con qualche variazione, in volume.
Racconto lungo o romanzo breve, ha tutti i sapori di una fiction assolutamente hammettiana. A cominciare dal genere: tipo dura e spietata storia di molti imbrogli.
A circa metà libro il protagonista, l’ex sergente di polizia Alec Rush, in un momento di empasse, rivolto al suo cliente, mette i piedi nel piatto, quando esclama: «Eccoci, signor Millar. Un bell’imbroglio. Se lei mi dice quello che sa, metteremo le cose a posto, non abbia paura. In caso contrario… mi consideri fuori!».