15
Maro, figlio di Barus, osservava gli schiavi al seguito della sua unità che picchettavano le trenta tende degli ufficiali superiori. I loro movimenti, frutto di una lunga pratica, erano precisi e mirati a ottenere il minor dispendio di energie. Lavoravano così bene che Maro, l’ufficiale minore al quale era stato dato l’incarico di sorvegliarli, si sentiva del tutto superfluo. Controllava lo svolgimento delle operazioni, ma non riusciva a trovare alcuna falla nel lavoro dei dodici schiavi. Quando ebbero finito li ringraziò e un attimo dopo imprecò silenziosamente contro sé stesso. L’avevano già messo in guardia due volte per quel suo comportamento bizzarro, ma trovava duro non dover trattare le persone con il minimo di cortesia dovuto. Li congedò e prese a vagare per il nuovo accampamento. Alla sua sinistra vide gli schiavi personali di Jasaray intenti ad assemblare il mosaico che componeva il pavimento della tenda dell’imperatore. Ognuna delle duemila e trecentosette pietre era stata numerata e alcuni di quegli schiavi aveva smontato e rimontato quel mosaico per più di trent’anni. Anch’essi lavoravano veloci e precisi. Era di vitale importanza che il pavimento fosse completato e la grossa tenda eretta prima che Jasarary arrivasse con il grosso delle truppe.
Maro era rimasto incantato dal fervere delle attività che si svolgevano all’interno della nuova fortezza, come era rimasto incantato fin dalla partenza della campagna. Quel rituale giornaliero dimostrava chiaramente la forza e l’ingegno di Stone. Niente era lasciato al caso. Le avanguardie creavano un cordone protettivo, alcuni ufficiali dei reparti logistici segnavano sul terreno la disposizione del campo e le colonne avanzate cominciavano a scavare la grossa trincea difensiva. Da nord a sud venivano tagliati i tronchi che avrebbero costituito il massiccio cancello. Nel frattempo sarebbero arrivate altre pantere che una volta entrate nella fortezza avrebbero cominciato a scavare le latrine, a erigere le tende e ad accendere i fuochi da campo per le cucine.
Maro salì in cima al bastione nord e fissò le colline che si ergevano davanti ai suoi occhi. Da qualche parte, là fuori c’era l’esercito dei Rigante: l’esercito che aveva distrutto Valanus e posto fine al mito della invincibilità di Stone. Secondo gli ultimi rapporti l’esercito degli avversari ammontava a cinquantamila uomini, un decimo, così almeno dicevano gli uomini, di quello che aveva distrutto Valanus.
Il giovane si tolse l’elmo e si passò le dita tra i capelli. Il vento era fresco e piacevole. Gli prudeva la schiena, ma non poteva grattarsela in nessun modo per via del piastrone che indossava. Maro aveva impiegato delle settimane per abituarsi all’armatura pesante, alle polsiere e agli schinieri. Per la maggior parte del tempo egli si sentiva come un truffatore, uno scolaretto che si atteggiava a soldato. Era molto più dura per il giovane ufficiale rispetto ai colleghi della sua stessa leva: egli era il figlio di Barus, il conquistatore dell’est e tutti si aspettavano molto da lui. In un certo senso era contento che il padre fosse rimasto a Stone. Per Maro sarebbe stato imbarazzante compiere i suoi primi errori sotto gli occhi del genitore.
Ora la fortezza era piena di migliaia di soldati. Maro tornò a concentrarsi sul campo e localizzò il punto in cui si trovavano i suoi cinquanta uomini. Si rimise l’elmo, scese a grandi passi dagli spalti e si diresse verso la sezione nella quale erano state montate le tende del suo gruppo. Dopo essersi assicurato che gli uomini avessero mangiato, era tornato nella sua tenda per scrivere una lettera a Cara. C’erano quattro lettere nel suo zaino. Le aveva numerate nell’ordine esatto in cui dovevano essere lette. Il giorno dopo avrebbe chiesto per l’ennesima volta se potevano essere portate ad Accia. Solo dieci ufficiali al giorno avevano il permesso di mandare lettere a casa, perché c’erano solo due messaggeri e Jasaray insisteva che cavalcassero leggeri.
Mentre scriveva sentì un trambusto fuori della tenda e mise da parte la lettera. Uscì e vide che era arrivato un gruppo di cavalieri. Molti di loro erano feriti. Maro fissò il fregio sul piastrone dell’ufficiale in comando e vide che aveva la responsabilità di un manipolo di cento uomini. Dietro di lui ce n’erano circa una trentina. Maro si fece strada tra la calca. L’ufficiale, un magro veterano di mezza età stava parlando con uno degli aiutanti di bandiera di Jasaray, l’arcigno e laconico Heltian.
«Ci hanno colpito sbucando dai boschi a est» disse il cavaliere. «I Cenii si sono dispersi e sono fuggiti quasi immediatamente.»
«Perdite?» chiese Heltian.
«Io ho perso sessantotto uomini» riferì l’ufficiale. «Hanno circondato Tuvor e dubito fortemente che ci siano stati dei sopravvissuti. Ho riconosciuto il vecchio bastardo che era venuto a Stone. Fiallach, giusto? Era lui il capo.»
«Perdite da parte del nemico?»
«Difficile da dire, signore. C’è stato il caos più totale nel momento in cui hanno colpito. Pensavamo che gli esploratori cenii ci avrebbero messo in guardia, ma sono scappati o sono stati uccisi. Il nemico ci è saltato addosso all’improvviso.»
«Quanti?»
«Circa un migliaio, direi.»
«Porta i feriti in infermeria» ordinò Heltian «quindi prepara un rapporto completo per l’imperatore.»
«Sì, signore» replicò il cavaliere, salutando.
Maro era ancora fermo nelle vicinanze quando Heltian si girò. L’aiutante di bandiera lo fissò. «Non hai nulla da fare, giovanotto?»
«No, signore. I miei uomini hanno mangiato e le tende sono state erette.»
«Mi sbaglio o sei il figlio di Barus?»
«Sono io, signore.»
«E hai ascoltato il rapporto.»
«Sì, signore.»
«Dimmi cosa ne hai evinto.»
Maro cercò di ricordare ciò che aveva sentito. «Sembra che cento e sessantotto uomini della nostra cavalleria siano morti in una imboscata dei lupi di ferro di Fiallach.»
«Continua.»
«Sono stati presi di sorpresa... ed erano in svantaggio di cinque a uno. Gli esploratori cenii si sono dimostrati inefficienti.» In quel momento comprese tutto. «Le nostre due unità di cavalleria stavano marciando troppo vicine. Se fossero state alla distanza prevista dal regolamento, ovvero... trecento metri l’una dall’altra... una delle due avrebbe potuto evitare lo scontro. Inoltre gli ordini della cavalleria erano quelli di costeggiare le aree boscose tenendosi fuori della gittata degli archi.»
«Esatto» disse Heltian. «Gli ufficiali sono stati incauti e hanno sottovalutato il nemico. Così facendo hanno appreso una dura lezione.» Heltian si girò e si incamminò verso i cancelli a nord.
Maro tornò alla sua tenda e riprese a scrivere la lettera indirizzata a Cara dicendole quanto le mancassero lei e il loro primogenito maschio, quindi passò a descrivere la bellezza della terra dei Keltoi che abitavano da quella parte del mare. Fece una pausa e pensò a Banouin chiedendosi dove fosse adesso. Non era un guerriero perciò era decisamente improbabile che prendesse parte alla battaglia. Cominciò a pensare a Flagello, il gladiatore. Furia aveva detto che era tornato a casa sua, tra le montagne. Molto probabilmente doveva essere là fuori intento ad affilare le spade. Maro rabbrividì. Il sole del tardo pomeriggio stava scaldando ben poco.
Il suo letto era uno spesso pezzo di tela picchettato a terra. Maro si tolse il piastrone e si grattò la schiena. Si distese e appoggiò la testa sulla coperta ripiegata A casa molto probabilmente Cara e suo figlio dovevano essere nel giardino, il neonato doveva dormire nella culla collocata all’ombra del vecchio olmo. Maro chiuse gli occhi e cercò di immaginare la scena. In quello stesso istante si sentì pervadere dall’amore che provava per entrambi e dalla dolorosa tristezza che scaturiva dal fatto di non essere con loro.
Cara si era arrabbiata quando lui era partito e si era rifiutata di salutarlo. «Ti sei alleato con il male» lo aveva rimproverato quando lui le aveva annunciato che sarebbe partito al seguito della ventitreesima pantera.
«Non c’è nulla di malvagio nel difendere una città» aveva replicato lui.
«Questa è la nostra città» aveva detto lei. «Dov’è l’esercito nemico? Non lo vedo.»
«I Rigante stanno ammassando uomini e i nostri agenti che hanno superato il canale hanno detto che stanno fomentando le tribù a ribellarsi al potere di Stone. Se non le fermiamo subito potremmo veramente trovarci un esercito nemico alle porte della città.»
«Alcuni uomini cercheranno sempre un motivo per combattere» aveva risposto Cara, fredda. «Flagello mi ha detto che i Rigante non hanno mai fatto guerre al di fuori delle loro terre e che a loro non interessa assoggettare gli altri popoli. Non sono avidi. Non bramano conquistare e massacrare.»
«Neanch’io» aveva risposto Maro.
«Tuttavia invaderemo i loro territori, schiavizzeremo le loro donne e uccideremo gli uomini.»
«Fai sembrare tutto così meschino, Cara. In ogni luogo dove Stone ha governato è arrivata la pace e l’armonia. Noi stiamo portando la civiltà a quei popoli. Sapevi che i loro druidi sacrificano i bambini sugli altari? Sono un popolo barbaro e incivile.»
«Barbaro e incivile?» aveva ripetuto Cara. «Ieri sono state uccise cinque donne, nell’arena. Sono state massacrate dalle fiere per far sì che la gente si divertisse. I Rigante non hanno le arene.»
«È una cosa del tutto diversa» era sbottato, Maro. «È tipico delle donne cambiare discorso. Le donne di cui parli erano ovviamente delle criminali e per questo dovevano essere giustiziate. Assassine, probabilmente, che hanno ampiamente meritato la loro condanna.»
«Sei un pazzo, Maro. E io spero che tu te ne renda conto prima che sia troppo tardi.»
Nelle settimane che avevano preceduto la sua partenza, Cara non gli aveva più parlato. Egli sperava che quelle lettere le avrebbero addolcito l’animo e che una volta tornato nei panni dell’eroe conquistatore, lei sarebbe stata più gentile con lui.
La testa di Braefar scattò a destra e a sinistra. Per un attimo aveva avuto l’impressione di vedere due uomini al limitare del cerchio di pietre. Ma un istante dopo erano scomparsi. Un gioco d’ombre provocato dal sole morente, pensò, mentre appoggiava la schiena contro la pietra. Il vento era freddo perciò si avvolse nella giacca di pelo di pecora. Gli altri avevano acceso un fuoco e si erano sistemati in cerchio intorno a esso, ma Braefar non aveva nessuna voglia di unirsi a loro. A dire il vero non aveva nessuna voglia di essere in quel luogo.
Se Connavar non fosse stato tanto egoista, tanto desideroso di acquisire potere e lodi, pensò, non saremmo mai arrivati a questo.
Braefar fissò il grosso anello d’oro che portava all’anulare. Glielo aveva donato Connavar il giorno della sua incoronazione. Un regalo costoso. Certo a Bendegit Bran era stato donato un torq d’oro, Govannan aveva ricevuto una stupenda spilla per il mantello con un prezioso opale nel centro e Fiallach una spada con l’elsa ricoperta di fili d’oro e il pomello costituito da uno smeraldo stupendo. Braefar aveva esaminato quei doni con attenzione. Erano tutti più costosi del suo. Era stato un insulto voluto.
Braefar aveva ingoiato quel genere d’insulti per tutta la vita. Fin dal giorno in cui il fratellastro era stato assalito da quel maledetto orso.
Lo ricordava benissimo anche adesso: gigantesco, nero, le fauci grondanti di sangue dei ragazzi che aveva ucciso nel bosco. Stava caricando Connavar. La vista della bestia era spaventosa e aveva gelato il sangue nelle vene di Braefar. Conn gli era saltato addosso colpendolo con la daga, quindi Govannan era corso in suo aiuto. Era finito tutto molto in fretta. Un attimo prima Conn era stato vivo e forte, l’attimo dopo era stato ridotto a un corpo lacerato, coperto di sangue e sbattuto sull’erba. A quel punto erano arrivati dei cavalieri che avevano piantato le loro lance nel corpo della bestia. Solo allora Braefar era riuscito a trovare la forza per muoversi e tutti l’avevano guardato pensando che fosse un codardo. Non l’avevano mai detto ad alta voce, ma sapeva che era così. Da quel momento in avanti la vita di Braefar era stata maledetta.
Conn non l’aveva mai perdonato. Gli aveva detto il contrario, ma sapeva bene che mentiva. Il fratello aveva passato gli ultimi vent’anni a punirlo, a farlo fallire di fronte agli altri. Oh, quanto doveva aver riso Conn in ogni occasione. Braefar non aveva dubbi che il re avesse discusso dei suoi ‘fallimenti’ con Bran, Govannan, Osta, Fiallach e gli altri. Essi pensavano che lui non li avesse mai visti ridere alle sue spalle, invece lui se n’era accorto. Braefar non aveva avuto bisogno di vederli per esserne certo. Era tutto così ovvio. Come erano grotteschi i complotti orditi dagli altri per farlo sembrare un incompetente.
Conn gli aveva affidato la conduzione delle miniere d’oro nel Nord e nel volgere di poco tempo aveva aumentato l’estrazione del minerale facendo gonfiare le casse del regno. Braefar aveva inventato diversi attrezzi per gli uomini. Erano stati un successo. Poi c’era stato il crollo. Braefar era stato accusato di essersi spinto avanti troppo velocemente senza che le gallerie fossero sufficientemente puntellate. Erano morti quaranta uomini e la miniera era rimasta chiusa per quattro mesi. Come se fosse stata colpa sua. Estrai più oro, gli aveva detto il re e Braefar aveva ubbidito raddoppiando la produzione.
Ogni incarico che Conn gli aveva offerto era sempre stato imbevuto di veleno. E tutto a causa di quell’orso!
Ecco perché non aveva mai ricevuto un grado all’interno dell’esercito. Che umiliazione! Era come dire a tutti: ‘Braefar è un codardo’. Anche Bran aveva cominciato a crederlo dopo il loro malinteso durante la prima campagna contro i Pannone, vent’anni prima. Conn aveva lasciato a Braefar l’incarico di radunare i rinforzi mentre egli marciava contro il Signore delle Higland e i Predoni del Mare. Braefar aveva eseguito gli ordini alla lettera, aveva radunato tutti gli uomini in grado di combattere dopodiché si sarebbe messo in marcia per aiutare Conn, appena i ranghi fossero stati completi. Ma no, il quindicenne Bran doveva diventare un eroe sgattaiolando via con qualche migliaio di uomini, mentre Braefar stava rinforzando le difese di Querce Antiche al fine di proteggere gli abitanti in caso di disastro.
Naturalmente nessuno l’aveva capito e Conn aveva fatto sì che tutti la pensassero in quel modo. Braefar, il codardo, aveva fallito e non avrebbe più avuto nessun incarico in seno all’esercito. Tuttavia, egli era rimasto sempre fedele. Mentre Bran governava al Nord e Fiallach all’Est, a Braefar era stato lanciato un osso di nome Tre Torrenti. Un contentino. Era stato allora che aveva scoperto i suoi veri amici. L’imperatore Jasaray aveva mandato dei suoi agenti per avere i suoi consigli. L’imperatore, gli avevano detto, capiva l’intelligenza di Braefar e uno degli esempi più chiari era l’invenzione delle staffe che permettevano a un cavaliere di portare un’armatura più pesante senza perdere l’equilibrio durante gli scontri a cavallo. L’imperatore sarebbe stato onorato, così gli avevano detto, di annoverare Braefar tra i suoi amici.
Jasaray era stato un vero amico. I suoi agenti avevano visto con i loro occhi Connavar che si prendeva gioco di Braefar e avevano annotato tutte le volte in cui il re l’aveva beffeggiato. Una volta Connavar aveva dichiarato di essere stato lui a inventare le staffe per i cavalli. Jasaray aveva ragione anche riguardo all’espansione militare promossa dal suo fratellastro. Era costosa e del tutto inefficiente. I Rigante sarebbero un popolo molto più ricco, gli aveva scritto Jasaray, sotto la guida di un governante saggio, una persona come voi, Braefar.
Jasaray era uno che lo capiva. Gli aveva fatto i complimenti per la sua azione durante la prima guerra contro i Pannone. Solo un folle, aveva scritto, avrebbe marciato contro il nemico con tutti gli uomini a disposizione lasciando priva di difesa la popolazione civile contro un rovescio di fortuna nel corso della prima battaglia. Braefar conosceva a memoria quella frase. Jasaray gli aveva anche fatto notare che il modello di dominazione adottato da Connavar con i Pannone andava contro tutte le tradizioni dei Keltoi e che egli aveva pensato di presentargli, grazie all’intercessione dei suoi agenti, Guern, il Pannone ribelle che cercava di affrancarsi dal giogo dei Rigante.
Era stato tutto così eccitante, pianificare e complottare in segreto. Avrebbe dimostrato che le sue capacità di stratega erano maggiori di quelle di suo fratello minore, Bran. Gli avrebbe anche dimostrato, a tempo debito, che non era un codardo cavalcando a fianco di Shard quando i Predoni del Mare avessero attaccato.
Braefar tremò al ricordo della fuga dal campo di battaglia, ma anche quella era colpa di Connavar, se suo fratello gli avesse dato una possibilità di combattere egli non si sarebbe comportato in quel modo e avrebbe imparato a dominare le sue paure. Beh, adesso le aveva dominate. Era là, nel cerchio insieme a Guern e i suoi guerrieri, in attesa di Connavar per ucciderlo.
Ucciderlo! Il pensiero lo sconvolse.
Tutta la vita, eccettuati gli ultimi anni, egli aveva adorato il fratello. La maggior parte dei suoi errori, anche se non erano del tutto imputabili a lui, li aveva fatti perché aveva cercato di compiacerlo in tutti i modi. «Ti ho voluto bene, Conn» sussurrò.
Il pensiero che Conn non sarebbe mai andato all’appuntamento lo fece rilassare. Sapeva che sarebbe stata una trappola. Avrebbe mandato Fiallach e una decina di lupi di ferro per arrestarli. Braefar sapeva cosa avrebbe detto una volta che fosse stato portato al cospetto del re. «Allora, Conn, non hai avuto il coraggio di venirci a incontrare come ti avevo chiesto. Forse, dopotutto, non sei quell’eroe che tutti pensano, se hai mandato i tuoi lupi perché non avevi il coraggio di venire da solo.» Sarebbe valsa la pena farsi bandire pur di parlargli in quel modo di fronte ai suoi generali. Dopo si sarebbe diretto a sud per unirsi a Jasaray.
Guern lo chiamò. «Sta arrivando!»
Braefar ebbe un tuffo al cuore. Fissò le colline in cerca della scorta di lupi di ferro, ma a mano a mano che il fratellastro avanzava si rese conto che era solo. «Perché sei venuto, Conn?» si rammaricò.
Connavar il re, entrò nel cerchio. Indossava il piastrone di una corazza sulla quale era inciso un daino tra i rovi, il simbolo della sua casata e il famoso mantello. Al suo fianco era assicurata Seidh, la leggendaria spada dall’elsa d’oro e sul pomo della sella aveva appeso un elmo alato di argento lucente. Smontò da cavallo e si fece avanti. Non guardò Braefar che, nel frattempo, si era nascosto tra le ombre disegnate dalle rocce
Guern avanzò e disse: «Unisciti a noi, Connavar. Parliamo di pace.»
«Non mi avete fatto venire qua per parlare» gli aveva risposto Connavar estraendo la spada per poi posarla sul terreno appoggiando le mani sul pomello d’oro. «Mi avete fatto venire qua per uccidermi. Fatevi avanti, allora, traditori. Io sono qua. Solo.»
Gli otto uomini intorno al fuoco da campo si erano alzati nel momento stesso in cui il re era entrato e ora avevano estratto le spade formando un semicerchio intorno a lui. Malgrado la superiorità numerica erano riluttanti ad attaccarlo. Quello non era un uomo qualunque. Quello era Connavar, Spada del Demonio, il re guerriero che non sapeva cosa fosse la sconfitta.
Braefar guardò la scena e fu colto da una terribile tristezza. Connavar non era mai sembrato tanto magnifico come in quel momento, mentre i suoi nemici, almeno agli occhi di Braefar, erano diventati dei piccoli uomini dai sogni limitati. Non avrebbe mai voluto arrivare a quello. Ora lo sapeva. Estrasse la spada determinato a correre in aiuto del fratello, ma non lo fece. Le sue gambe erano bloccate come era successo durante l’attacco dell’orso. Non fece nulla.
Improvvisamente due uomini si lanciarono all’attacco. La spada Seidh di Connavar sibilò nell’aria e i due caddero a terra. Gli altri sei attaccarono con affondi e fendenti.
Una ventata d’aria gelida spazzò il cerchio che prese a tremare. Una luce abbagliante apparve e un guerriero sbucò dal nulla. Braefar sbatté le palpebre e la spada gli scivolò dalle dita. Il nuovo arrivato portava uno scudo d’oro incredibilmente lucente. Si gettò nella mischia, sbatté lo scudo sul volto del primo uomo che incontrò e affondò la spada tra le costole del secondo.
Braefar guardò la sua spada che giaceva a terra. Voleva alzarsi e prenderla, ma aveva le gambe che gli tremavano e aveva paura di fallire se ci avesse provato. Estrasse la daga. Il clangore metallico delle spade, l’urlo dei moribondi lo terrorizzò al punto tale che crollò con la schiena contro la pietra, chiuse gli occhi e portò i pugni sopra le orecchie. Non poteva isolarsi totalmente da quei suoni e si sforzò di ricordare i momenti felici dell’infanzia nei quali lui e Conn giocavano sulle colline sopra Tre Torrenti.
I suoni cessarono, Braefar aprì gli occhi. Il nuovo guerriero, Flagello, il bastardo, era a fianco del re e lo teneva per un braccio. L’elmo alato di Connavar giaceva a terra, intaccato da un colpo di spada. La guancia del re era insanguinata come anche il braccio sinistro. Braefar osservò Connavar che allentava le cinghie che chiudevano il piastrone. Flagello glielo sfilò. Il re si tolse la maglia di anelli metallici. Braefar vide due brutte escoriazioni sul fianco sinistro del fratellastro.
Braefar smise di tremare e si fece avanti con passo incerto. Connavar lo vide e la sua espressione cambiò. Braefar si sarebbe aspettato rabbia, l’avrebbe desiderata, ma negli occhi del re lesse solamente dolore.
«Perché, Ala?» gli chiese.
«Perché? Per tutte le umiliazioni e i dolori che mi hai fatto subire.»
«Quali dolori e umiliazioni? Io ti voglio bene, Ala. Te ne ho sempre voluto.»
«So che tutti voi avete riso di me in questi anni. Non mentire, Conn. Lo so.»
«Nessuno ha riso» disse Connavar. «Non in mia presenza. Chi ti ha detto queste insulsaggini?» Si avvicinò a Braefar. «Buttiamoci tutto alle spalle, Ala» provò a dire. «Ci aspetta una grande battaglia...» Allungò una mano offrendola al fratello.
«Non mi toccare!» urlò Braefar, fendendo l’aria con la daga. In quella frazione di secondo, spinto dall’angoscia e dalla rabbia crescente, Braefar inclinò il pugno e la lama si insinuò tra le costole di Connavar. Il re emise un grugnito e arretrò con il sangue che sgorgava copioso dalla ferita.
«No, non volevo...»
Flagello estrasse la spada e avanzò. «Lascialo! Non ucciderlo!» ordinò il re quindi si accasciò al suolo. Flagello rimase fermo per un attimo con gli occhi inchiodati sul viso stravolto di Braefar.
«Sparisci, serpe!» sibilò. «Se ti rivedo ti ammazzo dove ti incontro.»
Braefar rimase immobile per un momento. Flagello alzò la spada. Braefar si girò e scappò verso il bosco.
Corse, corse, con le gambe che pulsavano e il cuore che batteva all’impazzata.
Flagello era stupefatto. Aveva pensato che la profezia di Riamfada fosse sbagliata. Insieme a Connavar aveva ucciso tutti i cospiratori e il re aveva solo qualche graffio ma, adesso, che fissava il padre che si era seduto tranquillamente con la schiena appoggiata a una delle alte pietre che formavano il cerchio, sapeva che stava per morire. La daga era penetrata in profondità.
Appena il sole scomparve, Connavar cominciò a tremare. Flagello si tolse il mantello e lo avvolse intorno al petto dell’uomo. «Senti dolore?» gli chiese.
Connavar tossì e un rivoletto di sangue gli macchiò la barba. «Un po’» confessò. «Dov’è Ala?»
«È scappato nel bosco. Vuoi che venga risparmiato?»
Connavar appoggiò la testa contro la pietra e sorrise. «È il mio fratellino» disse. «Mi sono preso cura di lui per tutta la vita.»
«È un cane traditore e ti ha ucciso.»
«Sono venuto qua per morire» rivelò Connavar. «Questo era quello che voleva la Morrigu. Non so perché. Mi ha sempre detto che sconfiggere Stone era... importante. Senza di me...» rimase silenzioso per un attimo. «Come mai sei qua, Flagello?»
«Un tuo amico mi ha chiesto di venire. Riamfada.»
«Pesciolino» sorrise Connavar.
«Pesciolino?» chiese Flagello
«Quando era... umano... non poteva camminare. Io e Govannan eravamo soliti portarlo fino alle cascate di Riguan. Gli... abbiamo insegnato a nuotare.»
Flagello fissò il volto pallido del moribondo. «Era lui il ragazzo storpio che portavi sulle spalle quando l’orso vi attaccò?»
«Proprio lui. I Seidh hanno dato una casa al suo spirito.» Connavar emise un lamento sottolineato da una smorfia del volto. «Dannazione, questa feritella si sta facendo fastidiosa.» Fissò il volto del figlio. «Sono contento che tu sia qua, Flagello. Mi avrebbe fatto male morire senza...» Sussultò nuovamente.
«Non parlare» gli intimò Flagello. «Riposati tranquillo.»
«A quale scopo?» chiese Connavar, sforzandosi di sorridere. «Quando abbiamo sollevato la Morrigu ho visto molte cose e ho condiviso dei momenti della tua vita. Quando vincesti quella gara e venisti verso di me di corsa... te lo ricordi?»
«Certo che lo ricordo. Mi voltasti la schiena.»
«Mi dispiace, Flagello. Quando ti vidi correre davanti agli altri fui così fiero di te che pensai che il mio cuore si potesse spezzare da un momento all’altro, ma non potevo rimanere. Abbracciarti e riconoscerti avrebbe voluto dire rivedere tua madre e io avevo giurato di non vederla più. Se potessi ricominciare da capo farei molte cose in modo differente.»
«Hai incolpato lei delle tue mancanze» gli disse Flagello con voce priva di rabbia.
«No» rispose il re. «Non ho mai incolpato Arian. L’ho amata dal primo momento in cui l’ho vista. È stata tutta colpa mia, ma io dovevo pagare per gli innocenti che avevo ucciso e per la morte di Tae.» Il re si zittì e Flagello pensò che fosse morto. La notte divenne più fredda.
Flagello avvertì un movimento alle spalle e si alzò di scatto con la spada in mano. Un ragazzino dai capelli biondi e la tunica sbiadita era davanti a lui. Sembrava stupito. Flagello mise via la spada. «Cosa ci fai qua, ragazzino?» gli chiese.
«Ho visto tutto» disse il ragazzino. «I lupi mi davano la caccia e io mi sono rifugiato su un albero. Ho visto la lotta e l’uomo che colpiva il re. Sta bene?»
«Raccogli della legna per il fuoco» disse Flagello, tornando al fianco di Connavar. Gli toccò le vene della gola. Il battito era debole. Connavar aprì gli occhi e allungò una mano prendendo quella di Flagello.
«Ho avuto una visione» gli disse. «Mi sono visto morire, ma ho visto anche che guidavo la carica contro il nemico. Non riuscivo a capire come potessero essere entrambe vere. Lo capisco adesso...» Svenne nuovamente.
Il ragazzo raccolse della legna e preparò un fuoco. Trovò alcuni pezzi di pietra focaia. Flagello si sedette tranquillo ad ascoltare il battito ritmico delle pietre seguito qualche istante dopo dallo scoppiettio della legna che cominciava ad ardere. Il ragazzo si assicurò che bruciasse bene, quindi andò a sedersi a fianco del re, davanti a Flagello. «Sta per morire, giusto?» chiese.
«Come ti chiami, ragazzino?»
«Axis. Il re venne da noi una volta e diede a mio papà un toro perché i nostri erano morti.»
«Accudisci il fuoco, Axis» lo pregò Flagello in tono gentile. «Lo terremo al caldo.»
«Allora sta per morire?» intuì il ragazzo con le lacrime che gli solcavano le guance.
«Sì, Axis, sta per morire. Segui il fuoco.»
Flagello abbassò lo sguardo e vide che la mano del re continuava a stringere la sua. Osservò le cicatrici sulle braccia del padre. Il sangue aveva smesso di colare dalla ferita al fianco, ma Flagello sapeva che l’emorragia interna non si era fermata. Aveva visto diverse ferite come quella nell’arena. Era solo questione di ore, ma la morte era certa. La luna si levò sopra il cerchio di pietre. Flagello fissò il ragazzino. «Vai a prendere i cavalli degli assassini» gli ordinò. «Forse avevano del cibo. Mi sembri affamato.»
«Sono affamato» confermò Axis. «Posso portare i cavalli nel cerchio. I lupi potrebbero essere ancora da queste parti.»
«Fallo» acconsentì Flagello.
Il ragazzo corse via e tornò qualche momento dopo insieme a tre cavalli che impastoiò all’interno del cerchio. «Gli altri sono scappati» si scusò. Axis superò il fuoco, prese le redini del castrato bianco del re e lo portò vicino agli altri cavalli. Si mise a cercare nelle bisacce e trovò delle fette di prosciutto avvolte in uno strofinaccio. Ne offrì qualcuna a Flagello e i due mangiarono in silenzio. Il tempo passava lentamente. Il ragazzino si addormentò vicino al fuoco e Flagello si trovò a pensare al passato e all’odio provato per Connavar e alla sua smania di essere riconosciuto e accettato. Aveva vissuto gran parte della sua vita sognando il giorno in cui avrebbe ucciso l’uomo a cui stava stringendo la mano.
Il re emise un lamento. Flagello lo guardò in volto e vide che aveva gli occhi aperti, ma non erano puntati su di lui. «Ah, Ala» mormorò il monarca «non essere triste. Andrà tutto a posto.»
«Connavar!» chiamò Flagello, stringendo le dita del re. Connavar sbatté le palpebre e fissò Flagello.
«È tornato» disse. «Mi sta aspettando.»
Flagello non disse nulla.
«Mettimi... la spada... in mano» gli chiese Connavar con voce flebile. L’arma era appoggiata sulla pietra alle spalle del re. Flagello la prese e gliela mise a portata di mano, ma Connavar non si mosse. Flagello gli aprì le dita con cautela, quindi gliele strinse intorno all’elsa. Il moribondo fece un ultimo sospiro quindi la sua testa crollò di lato e il corpo scivolò contro il braccio di Flagello che, prima di adagiarlo a terra, rimase fermo per un po’ di tempo a sentire il peso della testa del padre contro la spalla.
Riamfada entrò nel cerchio di pietre, si inginocchiò a fianco del corpo, si sporse in avanti, gli baciò la fronte, quindi si girò verso Flagello. «Ti ringrazio per essere rimasto con lui» disse.
«Perché non mi hai detto di Braefar? Avrei potuto fermarlo.»
«Non sapevo con esattezza come sarebbe andata, Flagello, solo che sarebbe successo.»
«Vorrei trovarlo e ucciderlo con le mie mani» proferì Flagello con rabbia.
«Non è necessario. Braefar è morto. È corso nella foresta e si è tagliato la gola con la daga che ha ucciso Connavar. Ora lui e suo fratello sono insieme e sono di nuovo in pace.»
«Allora era Braefar quello che il re ha visto mentre stava morendo?»
«Sì, era lui.»
Flagello si alzò.
«Hai fatto la tua scelta?» chiese Riamfada.
«Sì, e credo che tu sapessi quale avrei fatto.»
«Certo» ammise Riamfada. «Sei il figlio di Connavar, non mi sarei aspettato di meno.»