15
Maro, figlio di Barus, osservava gli schiavi
al seguito della sua unità che picchettavano le trenta tende degli
ufficiali superiori. I loro movimenti, frutto di una lunga pratica,
erano precisi e mirati a ottenere il minor dispendio di energie.
Lavoravano così bene che Maro, l’ufficiale minore al quale era
stato dato l’incarico di sorvegliarli, si sentiva del tutto
superfluo. Controllava lo svolgimento delle operazioni, ma non
riusciva a trovare alcuna falla nel lavoro dei dodici schiavi.
Quando ebbero finito li ringraziò e un attimo dopo imprecò
silenziosamente contro sé stesso. L’avevano già messo in guardia
due volte per quel suo comportamento bizzarro, ma trovava duro non
dover trattare le persone con il minimo di cortesia dovuto. Li
congedò e prese a vagare per il nuovo accampamento. Alla sua
sinistra vide gli schiavi personali di Jasaray intenti ad
assemblare il mosaico che componeva il pavimento della tenda
dell’imperatore. Ognuna delle duemila e trecentosette pietre era
stata numerata e alcuni di quegli schiavi aveva smontato e
rimontato quel mosaico per più di trent’anni. Anch’essi lavoravano
veloci e precisi. Era di vitale importanza che il pavimento fosse
completato e la grossa tenda eretta prima che Jasarary arrivasse
con il grosso delle truppe.
Maro era rimasto incantato dal fervere delle
attività che si svolgevano all’interno della nuova fortezza, come
era rimasto incantato fin dalla partenza della campagna. Quel
rituale giornaliero dimostrava chiaramente la forza e l’ingegno di
Stone. Niente era lasciato al caso. Le avanguardie creavano un
cordone protettivo, alcuni ufficiali dei reparti logistici
segnavano sul terreno la disposizione del campo e le colonne
avanzate cominciavano a scavare la grossa trincea difensiva. Da
nord a sud venivano tagliati i tronchi che avrebbero costituito il
massiccio cancello. Nel frattempo sarebbero arrivate altre pantere
che una volta entrate nella fortezza avrebbero cominciato a scavare
le latrine, a erigere le tende e ad accendere i fuochi da campo per
le cucine.
Maro salì in cima al bastione nord e fissò le
colline che si ergevano davanti ai suoi occhi. Da qualche parte, là
fuori c’era l’esercito dei Rigante: l’esercito che aveva distrutto
Valanus e posto fine al mito della invincibilità di Stone. Secondo
gli ultimi rapporti l’esercito degli avversari ammontava a
cinquantamila uomini, un decimo, così almeno dicevano gli uomini,
di quello che aveva distrutto Valanus.
Il giovane si tolse l’elmo e si passò le dita
tra i capelli. Il vento era fresco e piacevole. Gli prudeva la
schiena, ma non poteva grattarsela in nessun modo per via del
piastrone che indossava. Maro aveva impiegato delle settimane per
abituarsi all’armatura pesante, alle polsiere e agli schinieri. Per
la maggior parte del tempo egli si sentiva come un truffatore, uno
scolaretto che si atteggiava a soldato. Era molto più dura per il
giovane ufficiale rispetto ai colleghi della sua stessa leva: egli
era il figlio di Barus, il conquistatore dell’est e tutti si
aspettavano molto da lui. In un certo senso era contento che il
padre fosse rimasto a Stone. Per Maro sarebbe stato imbarazzante
compiere i suoi primi errori sotto gli occhi del genitore.
Ora la fortezza era piena di migliaia di
soldati. Maro tornò a concentrarsi sul campo e localizzò il punto
in cui si trovavano i suoi cinquanta uomini. Si rimise l’elmo,
scese a grandi passi dagli spalti e si diresse verso la sezione
nella quale erano state montate le tende del suo gruppo. Dopo
essersi assicurato che gli uomini avessero mangiato, era tornato
nella sua tenda per scrivere una lettera a Cara. C’erano quattro
lettere nel suo zaino. Le aveva numerate nell’ordine esatto in cui
dovevano essere lette. Il giorno dopo avrebbe chiesto per
l’ennesima volta se potevano essere portate ad Accia. Solo dieci
ufficiali al giorno avevano il permesso di mandare lettere a casa,
perché c’erano solo due messaggeri e Jasaray insisteva che
cavalcassero leggeri.
Mentre scriveva sentì un trambusto fuori
della tenda e mise da parte la lettera. Uscì e vide che era
arrivato un gruppo di cavalieri. Molti di loro erano feriti. Maro
fissò il fregio sul piastrone dell’ufficiale in comando e vide che
aveva la responsabilità di un manipolo di cento uomini. Dietro di
lui ce n’erano circa una trentina. Maro si fece strada tra la
calca. L’ufficiale, un magro veterano di mezza età stava parlando
con uno degli aiutanti di bandiera di Jasaray, l’arcigno e laconico
Heltian.
«Ci hanno colpito sbucando dai boschi a est»
disse il cavaliere. «I Cenii si sono dispersi e sono fuggiti quasi
immediatamente.»
«Perdite?» chiese Heltian.
«Io ho perso sessantotto uomini» riferì
l’ufficiale. «Hanno circondato Tuvor e dubito fortemente che ci
siano stati dei sopravvissuti. Ho riconosciuto il vecchio bastardo
che era venuto a Stone. Fiallach, giusto? Era lui il capo.»
«Perdite da parte del nemico?»
«Difficile da dire, signore. C’è stato il
caos più totale nel momento in cui hanno colpito. Pensavamo che gli
esploratori cenii ci avrebbero messo in guardia, ma sono scappati o
sono stati uccisi. Il nemico ci è saltato addosso
all’improvviso.»
«Quanti?»
«Circa un migliaio, direi.»
«Porta i feriti in infermeria» ordinò Heltian
«quindi prepara un rapporto completo per l’imperatore.»
«Sì, signore» replicò il cavaliere,
salutando.
Maro era ancora fermo nelle vicinanze quando
Heltian si girò. L’aiutante di bandiera lo fissò. «Non hai nulla da
fare, giovanotto?»
«No, signore. I miei uomini hanno mangiato e
le tende sono state erette.»
«Mi sbaglio o sei il figlio di Barus?»
«Sono io, signore.»
«E hai ascoltato il rapporto.»
«Sì, signore.»
«Dimmi cosa ne hai evinto.»
Maro cercò di ricordare ciò che aveva
sentito. «Sembra che cento e sessantotto uomini della nostra
cavalleria siano morti in una imboscata dei lupi di ferro di
Fiallach.»
«Continua.»
«Sono stati presi di sorpresa... ed erano in
svantaggio di cinque a uno. Gli esploratori cenii si sono
dimostrati inefficienti.» In quel momento comprese tutto. «Le
nostre due unità di cavalleria stavano marciando troppo vicine. Se
fossero state alla distanza prevista dal regolamento, ovvero...
trecento metri l’una dall’altra... una delle due avrebbe potuto
evitare lo scontro. Inoltre gli ordini della cavalleria erano
quelli di costeggiare le aree boscose tenendosi fuori della gittata
degli archi.»
«Esatto» disse Heltian. «Gli ufficiali sono
stati incauti e hanno sottovalutato il nemico. Così facendo hanno
appreso una dura lezione.» Heltian si girò e si incamminò verso i
cancelli a nord.
Maro tornò alla sua tenda e riprese a
scrivere la lettera indirizzata a Cara dicendole quanto le
mancassero lei e il loro primogenito maschio, quindi passò a
descrivere la bellezza della terra dei Keltoi che abitavano da
quella parte del mare. Fece una pausa e pensò a Banouin chiedendosi
dove fosse adesso. Non era un guerriero perciò era decisamente
improbabile che prendesse parte alla battaglia. Cominciò a pensare
a Flagello, il gladiatore. Furia aveva detto che era tornato a casa
sua, tra le montagne. Molto probabilmente doveva essere là fuori
intento ad affilare le spade. Maro rabbrividì. Il sole del tardo
pomeriggio stava scaldando ben poco.
Il suo letto era uno spesso pezzo di tela
picchettato a terra. Maro si tolse il piastrone e si grattò la
schiena. Si distese e appoggiò la testa sulla coperta
ripiegata A casa molto probabilmente Cara e suo figlio
dovevano essere nel giardino, il neonato doveva dormire nella culla
collocata all’ombra del vecchio olmo. Maro chiuse gli occhi e cercò
di immaginare la scena. In quello stesso istante si sentì pervadere
dall’amore che provava per entrambi e dalla dolorosa tristezza che
scaturiva dal fatto di non essere con loro.
Cara si era arrabbiata quando lui era partito
e si era rifiutata di salutarlo. «Ti sei alleato con il male» lo
aveva rimproverato quando lui le aveva annunciato che sarebbe
partito al seguito della ventitreesima pantera.
«Non c’è nulla di malvagio nel difendere una
città» aveva replicato lui.
«Questa è la nostra città» aveva detto lei.
«Dov’è l’esercito nemico? Non lo vedo.»
«I Rigante stanno ammassando uomini e i
nostri agenti che hanno superato il canale hanno detto che stanno
fomentando le tribù a ribellarsi al potere di Stone. Se non le
fermiamo subito potremmo veramente trovarci un esercito nemico alle
porte della città.»
«Alcuni uomini cercheranno sempre un motivo
per combattere» aveva risposto Cara, fredda. «Flagello mi ha detto
che i Rigante non hanno mai fatto guerre al di fuori delle loro
terre e che a loro non interessa assoggettare gli altri popoli. Non
sono avidi. Non bramano conquistare e massacrare.»
«Neanch’io» aveva risposto Maro.
«Tuttavia invaderemo i loro territori,
schiavizzeremo le loro donne e uccideremo gli uomini.»
«Fai sembrare tutto così meschino, Cara. In
ogni luogo dove Stone ha governato è arrivata la pace e l’armonia.
Noi stiamo portando la civiltà a quei popoli. Sapevi che i loro
druidi sacrificano i bambini sugli altari? Sono un popolo barbaro e
incivile.»
«Barbaro e incivile?» aveva ripetuto Cara.
«Ieri sono state uccise cinque donne, nell’arena. Sono state
massacrate dalle fiere per far sì che la gente si divertisse. I
Rigante non hanno le arene.»
«È una cosa del tutto diversa» era sbottato,
Maro. «È tipico delle donne cambiare discorso. Le donne di cui
parli erano ovviamente delle criminali e per questo dovevano essere
giustiziate. Assassine, probabilmente, che hanno ampiamente
meritato la loro condanna.»
«Sei un pazzo, Maro. E io spero che tu te ne
renda conto prima che sia troppo tardi.»
Nelle settimane che avevano preceduto la sua
partenza, Cara non gli aveva più parlato. Egli sperava che quelle
lettere le avrebbero addolcito l’animo e che una volta tornato nei
panni dell’eroe conquistatore, lei sarebbe stata più gentile con
lui.
La testa di Braefar scattò a destra e a
sinistra. Per un attimo aveva avuto l’impressione di vedere due
uomini al limitare del cerchio di pietre. Ma un istante dopo erano
scomparsi. Un gioco d’ombre provocato dal sole morente, pensò,
mentre appoggiava la schiena contro la pietra. Il vento era freddo
perciò si avvolse nella giacca di pelo di pecora. Gli altri avevano
acceso un fuoco e si erano sistemati in cerchio intorno a esso, ma
Braefar non aveva nessuna voglia di unirsi a loro. A dire il vero
non aveva nessuna voglia di essere in quel luogo.
Se Connavar non fosse stato tanto egoista,
tanto desideroso di acquisire potere e lodi, pensò, non saremmo mai
arrivati a questo.
Braefar fissò il grosso anello d’oro che
portava all’anulare. Glielo aveva donato Connavar il giorno della
sua incoronazione. Un regalo costoso. Certo a Bendegit Bran era
stato donato un torq d’oro, Govannan aveva ricevuto una stupenda
spilla per il mantello con un prezioso opale nel centro e Fiallach
una spada con l’elsa ricoperta di fili d’oro e il pomello
costituito da uno smeraldo stupendo. Braefar aveva esaminato quei
doni con attenzione. Erano tutti più costosi del suo. Era stato un
insulto voluto.
Braefar aveva ingoiato quel genere d’insulti
per tutta la vita. Fin dal giorno in cui il fratellastro era stato
assalito da quel maledetto orso.
Lo ricordava benissimo anche adesso:
gigantesco, nero, le fauci grondanti di sangue dei ragazzi che
aveva ucciso nel bosco. Stava caricando Connavar. La vista della
bestia era spaventosa e aveva gelato il sangue nelle vene di
Braefar. Conn gli era saltato addosso colpendolo con la daga,
quindi Govannan era corso in suo aiuto. Era finito tutto molto in
fretta. Un attimo prima Conn era stato vivo e forte, l’attimo dopo
era stato ridotto a un corpo lacerato, coperto di sangue e sbattuto
sull’erba. A quel punto erano arrivati dei cavalieri che avevano
piantato le loro lance nel corpo della bestia. Solo allora Braefar
era riuscito a trovare la forza per muoversi e tutti l’avevano
guardato pensando che fosse un codardo. Non l’avevano mai detto ad
alta voce, ma sapeva che era così. Da quel momento in avanti la
vita di Braefar era stata maledetta.
Conn non l’aveva mai perdonato. Gli aveva
detto il contrario, ma sapeva bene che mentiva. Il fratello aveva
passato gli ultimi vent’anni a punirlo, a farlo fallire di fronte
agli altri. Oh, quanto doveva aver riso Conn in ogni occasione.
Braefar non aveva dubbi che il re avesse discusso dei suoi
‘fallimenti’ con Bran, Govannan, Osta, Fiallach e gli altri. Essi
pensavano che lui non li avesse mai visti ridere alle sue spalle,
invece lui se n’era accorto. Braefar non aveva avuto bisogno di
vederli per esserne certo. Era tutto così ovvio. Come erano
grotteschi i complotti orditi dagli altri per farlo sembrare un
incompetente.
Conn gli aveva affidato la conduzione delle
miniere d’oro nel Nord e nel volgere di poco tempo aveva aumentato
l’estrazione del minerale facendo gonfiare le casse del regno.
Braefar aveva inventato diversi attrezzi per gli uomini. Erano
stati un successo. Poi c’era stato il crollo. Braefar era stato
accusato di essersi spinto avanti troppo velocemente senza che le
gallerie fossero sufficientemente puntellate. Erano morti quaranta
uomini e la miniera era rimasta chiusa per quattro mesi. Come se
fosse stata colpa sua. Estrai più oro, gli aveva detto il re e
Braefar aveva ubbidito raddoppiando la produzione.
Ogni incarico che Conn gli aveva offerto era
sempre stato imbevuto di veleno. E tutto a causa di
quell’orso!
Ecco perché non aveva mai ricevuto un grado
all’interno dell’esercito. Che umiliazione! Era come dire a tutti:
‘Braefar è un codardo’. Anche Bran aveva cominciato a crederlo dopo
il loro malinteso durante la prima campagna contro i Pannone,
vent’anni prima. Conn aveva lasciato a Braefar l’incarico di
radunare i rinforzi mentre egli marciava contro il Signore delle
Higland e i Predoni del Mare. Braefar aveva eseguito gli ordini
alla lettera, aveva radunato tutti gli uomini in grado di
combattere dopodiché si sarebbe messo in marcia per aiutare Conn,
appena i ranghi fossero stati completi. Ma no, il quindicenne Bran
doveva diventare un eroe sgattaiolando via con qualche migliaio di
uomini, mentre Braefar stava rinforzando le difese di Querce
Antiche al fine di proteggere gli abitanti in caso di
disastro.
Naturalmente nessuno l’aveva capito e Conn
aveva fatto sì che tutti la pensassero in quel modo. Braefar, il
codardo, aveva fallito e non avrebbe più avuto nessun incarico in
seno all’esercito. Tuttavia, egli era rimasto sempre fedele. Mentre
Bran governava al Nord e Fiallach all’Est, a Braefar era stato
lanciato un osso di nome Tre Torrenti. Un contentino. Era stato
allora che aveva scoperto i suoi veri amici. L’imperatore Jasaray
aveva mandato dei suoi agenti per avere i suoi consigli.
L’imperatore, gli avevano detto, capiva l’intelligenza di Braefar e
uno degli esempi più chiari era l’invenzione delle staffe che
permettevano a un cavaliere di portare un’armatura più pesante
senza perdere l’equilibrio durante gli scontri a cavallo.
L’imperatore sarebbe stato onorato, così gli avevano detto, di
annoverare Braefar tra i suoi amici.
Jasaray era stato un vero amico. I suoi
agenti avevano visto con i loro occhi Connavar che si prendeva
gioco di Braefar e avevano annotato tutte le volte in cui il re
l’aveva beffeggiato. Una volta Connavar aveva dichiarato di essere
stato lui a inventare le staffe per i cavalli. Jasaray aveva
ragione anche riguardo all’espansione militare promossa dal suo
fratellastro. Era costosa e del tutto inefficiente. I Rigante
sarebbero un popolo molto più ricco, gli aveva scritto Jasaray,
sotto la guida di un governante saggio, una persona come voi,
Braefar.
Jasaray era uno che lo capiva. Gli aveva
fatto i complimenti per la sua azione durante la prima guerra
contro i Pannone. Solo un folle, aveva scritto, avrebbe marciato
contro il nemico con tutti gli uomini a disposizione lasciando
priva di difesa la popolazione civile contro un rovescio di fortuna
nel corso della prima battaglia. Braefar conosceva a memoria quella
frase. Jasaray gli aveva anche fatto notare che il modello di
dominazione adottato da Connavar con i Pannone andava contro tutte
le tradizioni dei Keltoi e che egli aveva pensato di presentargli,
grazie all’intercessione dei suoi agenti, Guern, il Pannone ribelle
che cercava di affrancarsi dal giogo dei Rigante.
Era stato tutto così eccitante, pianificare e
complottare in segreto. Avrebbe dimostrato che le sue capacità di
stratega erano maggiori di quelle di suo fratello minore, Bran. Gli
avrebbe anche dimostrato, a tempo debito, che non era un codardo
cavalcando a fianco di Shard quando i Predoni del Mare avessero
attaccato.
Braefar tremò al ricordo della fuga dal campo
di battaglia, ma anche quella era colpa di Connavar, se suo
fratello gli avesse dato una possibilità di combattere egli non si
sarebbe comportato in quel modo e avrebbe imparato a dominare le
sue paure. Beh, adesso le aveva dominate. Era là, nel cerchio
insieme a Guern e i suoi guerrieri, in attesa di Connavar per
ucciderlo.
Ucciderlo! Il pensiero lo sconvolse.
Tutta la vita, eccettuati gli ultimi anni,
egli aveva adorato il fratello. La maggior parte dei suoi errori,
anche se non erano del tutto imputabili a lui, li aveva fatti
perché aveva cercato di compiacerlo in tutti i modi. «Ti ho voluto
bene, Conn» sussurrò.
Il pensiero che Conn non sarebbe mai andato
all’appuntamento lo fece rilassare. Sapeva che sarebbe stata una
trappola. Avrebbe mandato Fiallach e una decina di lupi di ferro
per arrestarli. Braefar sapeva cosa avrebbe detto una volta che
fosse stato portato al cospetto del re. «Allora, Conn, non hai
avuto il coraggio di venirci a incontrare come ti avevo chiesto.
Forse, dopotutto, non sei quell’eroe che tutti pensano, se hai
mandato i tuoi lupi perché non avevi il coraggio di venire da
solo.» Sarebbe valsa la pena farsi bandire pur di parlargli in quel
modo di fronte ai suoi generali. Dopo si sarebbe diretto a sud per
unirsi a Jasaray.
Guern lo chiamò. «Sta arrivando!»
Braefar ebbe un tuffo al cuore. Fissò le
colline in cerca della scorta di lupi di ferro, ma a mano a mano
che il fratellastro avanzava si rese conto che era solo. «Perché
sei venuto, Conn?» si rammaricò.
Connavar il re, entrò nel cerchio. Indossava
il piastrone di una corazza sulla quale era inciso un daino tra i
rovi, il simbolo della sua casata e il famoso mantello. Al suo
fianco era assicurata Seidh, la leggendaria spada dall’elsa d’oro e
sul pomo della sella aveva appeso un elmo alato di argento lucente.
Smontò da cavallo e si fece avanti. Non guardò Braefar che, nel
frattempo, si era nascosto tra le ombre disegnate dalle rocce
Guern avanzò e disse: «Unisciti a noi,
Connavar. Parliamo di pace.»
«Non mi avete fatto venire qua per parlare»
gli aveva risposto Connavar estraendo la spada per poi posarla sul
terreno appoggiando le mani sul pomello d’oro. «Mi avete fatto
venire qua per uccidermi. Fatevi avanti, allora, traditori. Io sono
qua. Solo.»
Gli otto uomini intorno al fuoco da campo si
erano alzati nel momento stesso in cui il re era entrato e ora
avevano estratto le spade formando un semicerchio intorno a lui.
Malgrado la superiorità numerica erano riluttanti ad attaccarlo.
Quello non era un uomo qualunque. Quello era Connavar, Spada del
Demonio, il re guerriero che non sapeva cosa fosse la
sconfitta.
Braefar guardò la scena e fu colto da una
terribile tristezza. Connavar non era mai sembrato tanto magnifico
come in quel momento, mentre i suoi nemici, almeno agli occhi di
Braefar, erano diventati dei piccoli uomini dai sogni limitati. Non
avrebbe mai voluto arrivare a quello. Ora lo sapeva. Estrasse la
spada determinato a correre in aiuto del fratello, ma non lo fece.
Le sue gambe erano bloccate come era successo durante l’attacco
dell’orso. Non fece nulla.
Improvvisamente due uomini si lanciarono
all’attacco. La spada Seidh di Connavar sibilò nell’aria e i due
caddero a terra. Gli altri sei attaccarono con affondi e
fendenti.
Una ventata d’aria gelida spazzò il cerchio
che prese a tremare. Una luce abbagliante apparve e un guerriero
sbucò dal nulla. Braefar sbatté le palpebre e la spada gli scivolò
dalle dita. Il nuovo arrivato portava uno scudo d’oro
incredibilmente lucente. Si gettò nella mischia, sbatté lo scudo
sul volto del primo uomo che incontrò e affondò la spada tra le
costole del secondo.
Braefar guardò la sua spada che giaceva a
terra. Voleva alzarsi e prenderla, ma aveva le gambe che gli
tremavano e aveva paura di fallire se ci avesse provato. Estrasse
la daga. Il clangore metallico delle spade, l’urlo dei moribondi lo
terrorizzò al punto tale che crollò con la schiena contro la
pietra, chiuse gli occhi e portò i pugni sopra le orecchie. Non
poteva isolarsi totalmente da quei suoni e si sforzò di ricordare i
momenti felici dell’infanzia nei quali lui e Conn giocavano sulle
colline sopra Tre Torrenti.
I suoni cessarono, Braefar aprì gli occhi. Il
nuovo guerriero, Flagello, il bastardo, era a fianco del re e lo
teneva per un braccio. L’elmo alato di Connavar giaceva a terra,
intaccato da un colpo di spada. La guancia del re era insanguinata
come anche il braccio sinistro. Braefar osservò Connavar che
allentava le cinghie che chiudevano il piastrone. Flagello glielo
sfilò. Il re si tolse la maglia di anelli metallici. Braefar vide
due brutte escoriazioni sul fianco sinistro del fratellastro.
Braefar smise di tremare e si fece avanti con
passo incerto. Connavar lo vide e la sua espressione cambiò.
Braefar si sarebbe aspettato rabbia, l’avrebbe desiderata, ma negli
occhi del re lesse solamente dolore.
«Perché, Ala?» gli chiese.
«Perché? Per tutte le umiliazioni e i dolori
che mi hai fatto subire.»
«Quali dolori e umiliazioni? Io ti voglio
bene, Ala. Te ne ho sempre voluto.»
«So che tutti voi avete riso di me in questi
anni. Non mentire, Conn. Lo so.»
«Nessuno ha riso» disse Connavar. «Non in mia
presenza. Chi ti ha detto queste insulsaggini?» Si avvicinò a
Braefar. «Buttiamoci tutto alle spalle, Ala» provò a dire. «Ci
aspetta una grande battaglia...» Allungò una mano offrendola al
fratello.
«Non mi toccare!» urlò Braefar, fendendo
l’aria con la daga. In quella frazione di secondo, spinto
dall’angoscia e dalla rabbia crescente, Braefar inclinò il pugno e
la lama si insinuò tra le costole di Connavar. Il re emise un
grugnito e arretrò con il sangue che sgorgava copioso dalla
ferita.
«No, non volevo...»
Flagello estrasse la spada e avanzò.
«Lascialo! Non ucciderlo!» ordinò il re quindi si accasciò al
suolo. Flagello rimase fermo per un attimo con gli occhi inchiodati
sul viso stravolto di Braefar.
«Sparisci, serpe!» sibilò. «Se ti rivedo ti
ammazzo dove ti incontro.»
Braefar rimase immobile per un momento.
Flagello alzò la spada. Braefar si girò e scappò verso il
bosco.
Corse, corse, con le gambe che pulsavano e
il cuore che batteva all’impazzata.
Flagello era stupefatto. Aveva pensato che la
profezia di Riamfada fosse sbagliata. Insieme a Connavar aveva
ucciso tutti i cospiratori e il re aveva solo qualche graffio ma,
adesso, che fissava il padre che si era seduto tranquillamente con
la schiena appoggiata a una delle alte pietre che formavano il
cerchio, sapeva che stava per morire. La daga era penetrata in
profondità.
Appena il sole scomparve, Connavar cominciò a
tremare. Flagello si tolse il mantello e lo avvolse intorno al
petto dell’uomo. «Senti dolore?» gli chiese.
Connavar tossì e un rivoletto di sangue gli
macchiò la barba. «Un po’» confessò. «Dov’è Ala?»
«È scappato nel bosco. Vuoi che venga
risparmiato?»
Connavar appoggiò la testa contro la pietra e
sorrise. «È il mio fratellino» disse. «Mi sono preso cura di lui
per tutta la vita.»
«È un cane traditore e ti ha ucciso.»
«Sono venuto qua per morire» rivelò Connavar.
«Questo era quello che voleva la Morrigu. Non so perché. Mi ha
sempre detto che sconfiggere Stone era... importante. Senza di
me...» rimase silenzioso per un attimo. «Come mai sei qua,
Flagello?»
«Un tuo amico mi ha chiesto di venire.
Riamfada.»
«Pesciolino» sorrise Connavar.
«Pesciolino?» chiese Flagello
«Quando era... umano... non poteva camminare.
Io e Govannan eravamo soliti portarlo fino alle cascate di Riguan.
Gli... abbiamo insegnato a nuotare.»
Flagello fissò il volto pallido del
moribondo. «Era lui il ragazzo storpio che portavi sulle spalle
quando l’orso vi attaccò?»
«Proprio lui. I Seidh hanno dato una casa al
suo spirito.» Connavar emise un lamento sottolineato da una smorfia
del volto. «Dannazione, questa feritella si sta facendo
fastidiosa.» Fissò il volto del figlio. «Sono contento che tu sia
qua, Flagello. Mi avrebbe fatto male morire senza...» Sussultò
nuovamente.
«Non parlare» gli intimò Flagello. «Riposati
tranquillo.»
«A quale scopo?» chiese Connavar, sforzandosi
di sorridere. «Quando abbiamo sollevato la Morrigu ho visto molte
cose e ho condiviso dei momenti della tua vita. Quando vincesti
quella gara e venisti verso di me di corsa... te lo ricordi?»
«Certo che lo ricordo. Mi voltasti la
schiena.»
«Mi dispiace, Flagello. Quando ti vidi
correre davanti agli altri fui così fiero di te che pensai che il
mio cuore si potesse spezzare da un momento all’altro, ma non
potevo rimanere. Abbracciarti e riconoscerti avrebbe voluto dire
rivedere tua madre e io avevo giurato di non vederla più. Se
potessi ricominciare da capo farei molte cose in modo
differente.»
«Hai incolpato lei delle tue mancanze» gli
disse Flagello con voce priva di rabbia.
«No» rispose il re. «Non ho mai incolpato
Arian. L’ho amata dal primo momento in cui l’ho vista. È stata
tutta colpa mia, ma io dovevo pagare per gli innocenti che avevo
ucciso e per la morte di Tae.» Il re si zittì e Flagello pensò che
fosse morto. La notte divenne più fredda.
Flagello avvertì un movimento alle spalle e
si alzò di scatto con la spada in mano. Un ragazzino dai capelli
biondi e la tunica sbiadita era davanti a lui. Sembrava stupito.
Flagello mise via la spada. «Cosa ci fai qua, ragazzino?» gli
chiese.
«Ho visto tutto» disse il ragazzino. «I lupi
mi davano la caccia e io mi sono rifugiato su un albero. Ho visto
la lotta e l’uomo che colpiva il re. Sta bene?»
«Raccogli della legna per il fuoco» disse
Flagello, tornando al fianco di Connavar. Gli toccò le vene della
gola. Il battito era debole. Connavar aprì gli occhi e allungò una
mano prendendo quella di Flagello.
«Ho avuto una visione» gli disse. «Mi sono
visto morire, ma ho visto anche che guidavo la carica contro il
nemico. Non riuscivo a capire come potessero essere entrambe vere.
Lo capisco adesso...» Svenne nuovamente.
Il ragazzo raccolse della legna e preparò un
fuoco. Trovò alcuni pezzi di pietra focaia. Flagello si sedette
tranquillo ad ascoltare il battito ritmico delle pietre seguito
qualche istante dopo dallo scoppiettio della legna che cominciava
ad ardere. Il ragazzo si assicurò che bruciasse bene, quindi andò a
sedersi a fianco del re, davanti a Flagello. «Sta per morire,
giusto?» chiese.
«Come ti chiami, ragazzino?»
«Axis. Il re venne da noi una volta e diede a
mio papà un toro perché i nostri erano morti.»
«Accudisci il fuoco, Axis» lo pregò Flagello
in tono gentile. «Lo terremo al caldo.»
«Allora sta per morire?» intuì il ragazzo con
le lacrime che gli solcavano le guance.
«Sì, Axis, sta per morire. Segui il
fuoco.»
Flagello abbassò lo sguardo e vide che la
mano del re continuava a stringere la sua. Osservò le cicatrici
sulle braccia del padre. Il sangue aveva smesso di colare dalla
ferita al fianco, ma Flagello sapeva che l’emorragia interna non si
era fermata. Aveva visto diverse ferite come quella nell’arena. Era
solo questione di ore, ma la morte era certa. La luna si levò sopra
il cerchio di pietre. Flagello fissò il ragazzino. «Vai a prendere
i cavalli degli assassini» gli ordinò. «Forse avevano del cibo. Mi
sembri affamato.»
«Sono affamato» confermò Axis. «Posso portare
i cavalli nel cerchio. I lupi potrebbero essere ancora da queste
parti.»
«Fallo» acconsentì Flagello.
Il ragazzo corse via e tornò qualche momento
dopo insieme a tre cavalli che impastoiò all’interno del cerchio.
«Gli altri sono scappati» si scusò. Axis superò il fuoco, prese le
redini del castrato bianco del re e lo portò vicino agli altri
cavalli. Si mise a cercare nelle bisacce e trovò delle fette di
prosciutto avvolte in uno strofinaccio. Ne offrì qualcuna a
Flagello e i due mangiarono in silenzio. Il tempo passava
lentamente. Il ragazzino si addormentò vicino al fuoco e Flagello
si trovò a pensare al passato e all’odio provato per Connavar e
alla sua smania di essere riconosciuto e accettato. Aveva vissuto
gran parte della sua vita sognando il giorno in cui avrebbe ucciso
l’uomo a cui stava stringendo la mano.
Il re emise un lamento. Flagello lo guardò in
volto e vide che aveva gli occhi aperti, ma non erano puntati su di
lui. «Ah, Ala» mormorò il monarca «non essere triste. Andrà tutto a
posto.»
«Connavar!» chiamò Flagello, stringendo le
dita del re. Connavar sbatté le palpebre e fissò Flagello.
«È tornato» disse. «Mi sta aspettando.»
Flagello non disse nulla.
«Mettimi... la spada... in mano» gli chiese
Connavar con voce flebile. L’arma era appoggiata sulla pietra alle
spalle del re. Flagello la prese e gliela mise a portata di mano,
ma Connavar non si mosse. Flagello gli aprì le dita con cautela,
quindi gliele strinse intorno all’elsa. Il moribondo fece un ultimo
sospiro quindi la sua testa crollò di lato e il corpo scivolò
contro il braccio di Flagello che, prima di adagiarlo a terra,
rimase fermo per un po’ di tempo a sentire il peso della testa del
padre contro la spalla.
Riamfada entrò nel cerchio di pietre, si
inginocchiò a fianco del corpo, si sporse in avanti, gli baciò la
fronte, quindi si girò verso Flagello. «Ti ringrazio per essere
rimasto con lui» disse.
«Perché non mi hai detto di Braefar? Avrei
potuto fermarlo.»
«Non sapevo con esattezza come sarebbe
andata, Flagello, solo che sarebbe successo.»
«Vorrei trovarlo e ucciderlo con le mie mani»
proferì Flagello con rabbia.
«Non è necessario. Braefar è morto. È corso
nella foresta e si è tagliato la gola con la daga che ha ucciso
Connavar. Ora lui e suo fratello sono insieme e sono di nuovo in
pace.»
«Allora era Braefar quello che il re ha visto
mentre stava morendo?»
«Sì, era lui.»
Flagello si alzò.
«Hai fatto la tua scelta?» chiese
Riamfada.
«Sì, e credo che tu sapessi quale avrei
fatto.»
«Certo» ammise Riamfada. «Sei il figlio di
Connavar, non mi sarei aspettato di meno.»