3
L’ex generale Appius era seduto sul balcone intento a godersi il sole e la vista del mare lontano. L’odore del gelsomino lo raggiunse dal giardino recintato. Se chiudeva gli occhi poteva quasi credere di essere tornato nella sua casa che dava sulla baia di Cressia e le bianche scogliere dell’isola di Dara. Appius sospirò. Il suo buon umore era scomparso.
Quella casa di legno piena di spifferi non era la sua. Accia era un insediamento di frontiera e i tentativi degli abitanti di rendere quel luogo anche solo una povera copia di Stone erano quasi patetici. Le case erano costruite con tronchi e decorate con fregi in pietra. Le strade, eccetto lo spiazzo davanti al palazzo del concilio, non erano pavimentate e non c’erano sale da gioco, teatri o arene. L’unico bagno pubblico era ancora incompleto, non erano arrivati i fondi necessari per terminarlo e l’ippodromo non aveva nessun posto a sedere.
La popolazione era composta dai relitti della società di Stone: politici corrotti, mercanti in esilio o criminali che sfuggivano alla giustizia. Anche i cento soldati che componevano la guarnigione erano la feccia dell’esercito ed erano comandati da ufficiali che avevano commesso qualche mancanza disciplinare o non erano stati nelle grazie di qualcuno.
Erano passate appena ventiquattr’ore da quando era entrato nella casa di Barus e Appius aveva già ricevuto la visita di due cittadini: Macrios, il mercante, accusato di corruzione e compravendita fraudolenta, e Banyon, un ex senatore il cui nepotismo era finito sulla bocca di tutta Stone. Li aveva salutati cortesemente, accettato il benvenuto, ma non aveva augurato loro il buongiorno.
Faceva male al suo orgoglio di vecchio soldato essere uno di loro, un uomo in disgrazia che viveva in una città di frontiera lontano dalla civiltà. Si chiese se anche quegli uomini lo osservavano con gli stessi suoi occhi. Anche loro si chiedevano quale crimine avesse commesso per essere relegato in quel luogo? Appius tremò. Aveva passato tutta la vita a cercare di essere un uomo dignitoso e d’onore. Non aveva mai accettato neanche una moneta dai mercanti ansiosi di rifornire le sue pantere. Mai, da quando era adulto, aveva agito spinto dalla gelosia, dall’invidia o dall’avidità. Tuttavia, eccolo lì, costretto a vivere in mezzo a dei criminali in una patetica replica di Stone. Gli stucchi del balcone erano già crepati e alcuni pezzi erano caduti sul pavimento di terracotta. Fissò l’insediamento. Da quel punto sembrava che alcune case fossero almeno abitabili, ma sapeva che se si fosse avvicinato avrebbe scoperto che anch’esse erano costruite in maniera grossolana.
Il vecchio soldato si girò e tornò a grandi passi nella sala principale. Gli arredi, tre divani e quattro poltrone, erano stati portati via nave da Stone e l’alta qualità della loro fattura serviva solo a evidenziare maggiormente i brutti stucchi delle pareti e il soffitto grezzo. C’è un muratore o un carpentiere degno di tale nome che vorrebbe vivere qua? Pensò.
Sentì qualcuno che bussava alla porta e un attimo dopo vide Ralis, il chirurgo, che entrava.
«Come sta?» chiese Appius, facendo cenno all’uomo di sedersi. Ralis si accomodò e si passò la mano affusolata sulla testa calva.
«La febbre comincia a scendere. Starà bene. Ho dato ordine a uno dei servitori di stargli vicino. Credo che nell’acqua del fiume che ha ingurgitato ci fosse qualcosa che l’ha fatto stare male. Sono riuscito a fargli bere una tisana che gli rimetterà in sesto lo stomaco. Gli ho anche messo a posto il braccio. La frattura non era scomposta. Ha il cuore forte e penso che tra un giorno o due potrà tornare a camminare.»
Appius offrì al suo ospite una coppa di vino, quindi si sedette a sua volta. I due rimasero entrambi in silenzio. Il vecchio militare conosceva il chirurgo da anni. Ralis era stato con lui in tre campagne. Le sue capacità erano indiscutibili, come anche il suo acume, e l’aveva sempre servito bene. Appius guardò l’uomo e ricordò lo scandalo. Ralis si era autoesiliato in quel luogo in seguito a una storia d’amore con un giovane senatore la cui moglie si era suicidata. I parenti di lei avevano ucciso il senatore e mandato degli assassini per eliminare anche Ralis, ma il chirurgo era stato avvertito e aveva abbandonato la città nottetempo. Lo scandalo seguito alla relazione era stato materia di conversazione per anni a Stone.
«Il ragazzo ha un aspetto familiare» disse Ralis.
Appius annuì. «È il figlio meticcio di Banouin, il Generale Fantasma.»
«Senti, senti, senti» commentò Ralis «Banouin hai detto, giusto? Non era diventato un trovatore o qualcosa di simile?»
«Un mercante girovago. Venne ucciso nella campagna contro i Perdii quasi vent’anni fa.»
«Dicono che fosse un generale bravo quasi quanto Jasaray.»
«Nessuno è bravo quanto Jasaray, ma lui era molto in gamba» rispose Appius. «Era un capo pieno di carisma, adorato dai suoi uomini, ma più di tutto, aveva una specie d’istinto per la battaglia.»
«Non si sposò con una schiava o altro?»
«Con una strega del Nord.»
«Sconcertante» commentò Ralis. «Avrebbe potuto essere ricco e potente a Stone, invece ha scelto di andare in quei territori aspri e sposarsi una selvaggia. Perché? Mi chiedo.»
«Non lo sapremo mai. Ti manca la città?» gli chiese improvvisamente Appius.
Ralis fece un sorriso mesto. «E a chi non mancherebbe? Ma qua stiamo facendo del nostro meglio. Il prossimo anno di questa stagione la strada dovrebbe essere lastricata e Macrios sta raccogliendo dei fondi per far terminare il bagno pubblico entro la primavera. Un inizio ben misero, lo so, ma è pur sempre un progresso. Barus tornerà quest’anno?»
Il vecchio generale scosse la testa. «Gli è stato affidato un comando a est. Io e Lia rimarremo un po’ nella sua casa e poi decideremo se stabilirci qua o tornare.»
Si fissarono e Ralis ebbe la gentilezza di distogliere lo sguardo. Nessuno si recava in quel luogo per propria scelta. Se era là voleva dire che era finito sul lastrico o si era fatto dei nemici molto potenti. «Come vanno le cose a Stone?» chiese il chirurgo.
«Animate» rispose Appius, senza spiegare oltre.
«Beh, qua non sono così animate, generale. Non ci sono Preti Cremisi in questo luogo e la gente può dire liberamente quello che pensa.»
«Sembra piacevole» osservò Appius. «Anche se non mi pare saggio.» Si alzò. In quel modo segnalò al suo ospite che la conversazione era terminata.
Ralis fece un inchino. «È stato bello rivederti, generale. Se ci dovesse essere qualche peggioramento nelle condizioni del tuo ospite non farti scrupoli, chiamami.»
Appius strinse la mano dell’uomo e lo accompagnò alla porta, quindi tornò al balcone. Nel giardino sottostante Lia stava camminando con Flagello. La ragazza sembrava felice. A lei non importava nulla di trovarsi a migliaia di chilometri da casa e il suono delle sue risate gravava pesantemente sul cuore di Appius.
Non c’erano i Preti Cremisi ad Accia.
Non ancora.
Era passata da poco la mezzanotte quando un urlo lacerò il silenzio della notte. Flagello fu il primo a reagire. Si svegliò, rotolò giù dal letto e corse nudo nella stanza accanto, dove Banouin era seduto sul suo giaciglio e puntava un dito contro una parete della stanza. Urlò di nuovo. Flagello corse da lui afferrandolo per le spalle.
«I muri sono vivi!» urlò Banouin. La pelle del volto, madida di sudore, brillava illuminata dalla pallida luce della luna. «E là c’è un demone che ti da la caccia, Flagello. Ah! Lo vedo. Fauci e artigli. Sta venendo per te.»
«Se verrà lo ucciderò» lo rassicurò Flagello. «Non preoccuparti, sdraiati. Dormi.»
«Stai attento, Flagello. Fissa la coda. Prima di saltare, il demone la fa schioccare!»
«Gli guarderò la coda. Adesso, fa come ti ho detto. Sdraiati.»
Banouin crollò contro di lui, emise un lungo sospiro quindi permise all’amico di adagiarlo sul materasso. Sbatté le palpebre. «Non era un sogno» disse con calma. «Era una visione, Flagello. Stavi camminando lungo... lungo dei corridoi, ma i muri erano vivi e si muovevano. Tu avevi con te una spada corta ed eri in compagnia di un vecchio. Un demone vi inseguiva.» Rabbrividì. «Una bestia terribile dotata di una forza e di una velocità incredibili.»
«Tutto sommato» scherzò Flagello « avrei preferito che la tua prima visione fosse quella di una bellissima ragazza, forse meglio due bellissime ragazze, che si prendevano cura di me dopo che avevo ucciso la bestia. Pazienza. Riposati adesso.»
Banouin chiuse gli occhi azzurri e il respiro divenne più profondo. Flagello si alzò e uscì nel corridoio illuminato dalle torce. Appius era in piedi davanti alla porta con indosso una tunica da notte grigia. Dietro di lui c’era Lia.
«Ha avuto una visione» li informò Flagello.
«Sì, sì, ne parleremo domani mattina» rispose Appius, secco, frapponendosi tra l’uomo nudo e la figlia.
«È tutto a posto, Appius?» chiese Flagello. «Come ti ho detto, si trattava di una visione e non ti riguardava affatto.»
«Lia, torna nella tua stanza» sbottò il vecchio generale, senza girarsi a guardare la figlia. Flagello si spostò a destra.
«Dormi bene» le augurò. Lia rise di gusto, scosse la testa e si allontanò.
«Sei nudo» lo rimproverò Appius, severo.
«Anche tu lo sei sotto la tunica» gli fece notare Flagello.
«Esatto! Sotto la tunica. In una società civile è considerato... offensivo sfilare nudi.»
«Cosa vuol dire sfilare?» chiese Flagello.
«Apparire nudo in pubblico.»
«Perché?»
«Perché? Perché... è così. Non so come mai ci sia questa usanza, ma è molto offensivo per un uomo apparire nudo di fronte a una giovane vergine.»
Flagello ridacchiò. «Mi stai prendendo in giro, Appius?»
Il vecchio sospirò. «No, non ti sto prendendo in giro. Se dovessi andare in giro nudo per le strade di Stone verresti arrestato e frustato. E se ti presentassi nudo davanti a una ragazza di buona famiglia potresti essere impiccato oppure mandato a combattere nell’arena. Adesso torna nella tua stanza, prendi la tunica appesa alla porta e mettila. Sento che ho bisogno di una coppa di vino. Dopo mi racconterai di questa... visione.»
Flagello entrò nella sala qualche minuto dopo, abbigliato con una bella tunica di cotone bianco lunga fino alle caviglie. Appius gli passò una coppa d’argento e i due uomini si sedettero sul balcone che dava sulla città di Accia e, oltre, sul mare screziato dai riflessi delle stelle.
«Perché stai andando a Stone?» gli chiese il vecchio generale.
Flagello scrollò le spalle. «Ho promesso a Vorna che mi sarei preso cura di Banouin. Non è un guerriero, ma attrae i guai come una merda di vacca con le mosche.»
«Questa è un’altra cosa a cui devi stare attento» puntualizzò Appius. «Il tuo linguaggio. Parli bene il Turgon e sembra che ti sia impadronito dell’uso di alcune... frasi interessanti. In compagnia di persone educate dovresti evitare di usare delle parole associate con le funzioni del corpo o le parti più intime. Un cittadino di Stone, per esempio, non si alza da tavola, come hai fatto tu stasera, per ‘pisciare’. Chiede scusa e dice che sarà di ritorno entro pochi minuti. E non si apre i pantaloni per grattarsi gli intimi.»
«Intimi?» indagò Flagello.
«Le palle!» sbottò Appius.
«Ah. E quando è permesso grattarsele?»
«In intimità. Da cui ‘intimi’. Capisci?»
Flagello annuì con aria solenne e bevve il vino. «Siete un popolo strano» disse. «Non vi importa nulla di rendere schiave intere tribù, di massacrare le persone e portare guerra e distruzione nelle terre vicine alle vostre, tuttavia trovate offensiva la vista di un pene e non parlate di pisciare. È questa la civiltà, vero? La guerra, gli omicidi e i massacri sono rispettabili, ma un uomo senza i vestiti rischia di essere frustato?»
Appius rise. «Non l’avevo mai sentito parlare in modo tanto semplicistico, però, sì, forse questa è l’essenza della nostra civiltà: forte senso del privato ed espansionismo. Comunque, ciò che è giusto o sbagliato non ha alcun significato. Il fatto è che si tratta di leggi applicate. Devi stare molto attento quando cammini e parli a Stone, Flagello. Sarà diverso per Banouin. Egli è il figlio di un cittadino molto importante e io gli fornirò i documenti che comproveranno la sua posizione. Lui verrà accettato. Tu, al contrario, sarai tenuto sott’occhio nel caso mostrassi qualche segno di comportamento barbaro.»
«Pensi che io sia un barbaro?»
«Sono un vecchio soldato, ragazzo. Conosco gli uomini come te. Guerrieri, un po’ innamorati della morte. La vita senza rischio non significa nulla per te. Uno spreco. Se ti trovi davanti un abisso ti fermi al limitare e sfidi il vuoto ad attirarti. Se vedi un cavallo che nessun uomo può cavalcare devi domarlo. E se vedi un uomo che nessuno può sconfiggere lo devi sfidare.»
«Vedi molte cose, generale.»
«Più di quanto pensi. Perché Connavar manda suo figlio a Stone? Cosa ha in mente?»
«Conosci Connavar?» gli chiese Flagello, cauto.
«Ho combattuto al suo fianco nelle guerre contro i Perdii e contro di lui a Codgen Field. Sì, lo conosco quanto basta per vedere te in lui, anche senza quegli occhi strani. Non dire a nessuno di chi sei figlio, Flagello, o verrai trascinato davanti a Jasaray in persona e usato contro tuo padre.»
«Lo terrò a mente» disse Flagello, tranquillo. «Gli dèi sanno quanto voglio bene a Connavar.»
Appius gli lanciò un’occhiata tagliente, ma non aggiunse altro. Flagello si alzò, si stirò e fece una domanda al generale che si mise a ridere di gusto.
«Il modo corretto per porre un simile quesito è: ‘E dove si può trovare un luogo tranquillo dove passare del tempo in piacevole compagnia femminile?’ E la mia risposta è: non lo so perché sono arrivato da troppo poco tempo per dirtelo, ragazzo. Quando lo saprò te lo dirò. Forse domani potresti fare una passeggiata tra i magazzini del porto. Non dubito che qualche cittadino premuroso giunga ad aiutarti conducendoti nel luogo che desideri.»
«Sconcertante» disse Flagello. Mentre uscìva dalla stanza sentì la porta della camera di Lia che si chiudeva. Diede un’occhiata a Banouin che ora stava dormendo profondamente, quindi tornò a letto.
Mentre si sdraiava scoprì che stava pensando a Lia. La prima volta che si erano incontrati, al fiume, aveva pensato che fosse carina, niente di più, ma poche ore prima, quando avevano camminato nel giardino, si era trovato a osservare il modo in cui inclinava la testa quando rideva, la perfezione del collo e la carnosità delle labbra. E quando si erano seduti sulla panchina dietro il paravento si era accorto del profumo dei suoi capelli.
È un bel po’ che non vai a letto con una donna, pensò. Si addormentò pensando alla ragazza dai capelli scuri, immaginandosi intento a camminare in sua compagnia lungo i pendii delle Druagh con il sole del mattino che rischiarava i picchi e la nebbia che scaturiva dal Bosco dei Desideri.
Oranus, il capitano della Guardia, era stanco, aveva lo stomaco pieno di vino scadente e la testa che gli pulsava dolorosamente. Di solito, Accia era tranquilla nel mezzo della settimana e lui si era portato l’otre di vino nel piccolo ufficio di fronte alle celle. La bevanda sarebbe servita, almeno così lui sperava, a dargli una bella nottata di sonno, invece l’aveva lasciato di cattivo umore e con il mal di stomaco.
Fissò con aria minacciosa e adirata il gruppetto di persone rabbiose intorno alla sua scrivania. Parlavano tutti insieme e quel coro di voci discordanti gareggiavano con la pulsazione che sentiva nella testa. Conosceva bene la donna, una prostituta che lavorava nella parte est dei magazzini. L’uomo al suo fianco, che sfoggiava il naso rotto e un occhio gonfio, era il suo pappone, Nestar. Era il padrone di una taverna vicina ai moli, ben conosciuta a tutti per le sue attività parallele: furto, estorsione e truffa ai danni dei clienti. Due dei suoi uomini gli stavano a fianco. Entrambi portavano i segni di una colluttazione. Al capitano sarebbe piaciuto molto poter chiudere la taverna di Nestar, ma quel pappone aveva degli amici altolocati tra i quali Macrios il mercante e Banyon il consigliere. All’età di quarantaquattro anni e a soli otto mesi dalla pensione e dalla riscossione dell’appezzamento di terra che gli spettava, Oranus non aveva nessun desiderio di inimicarsi persone tanto potenti.
Oranus si stropicciò gli occhi e spostò lo sguardo sull’ometto in piedi vicino alla porta. Non l’aveva riconosciuto. Il volto dell’individuo era punteggiato da macchioline rosse e aveva diverse schegge di legno piantate nella pelle della fronte. La mera incongruenza delle ferite dell’uomo servì ad alleviare per qualche attimo il mal di testa che provava.
Era stata una mattinata tranquilla fino al momento in cui avevano portato il barbaro. Lanciò un’occhiata all’uomo in catene che sedeva fissandoli in cagnesco dalla cella. Era giovane e robusto, i capelli lunghi e biondi e una treccina che penzolava contro la tempia. Non portava nessun mantello tribale, ma Oranus era certo che non appartenesse alla tribù dei Cenii. C’era qualcosa in lui che suggeriva un fatto: era chiaro che non fosse mai stato sotto il giogo di Stone. Norvii, forse Rigante, pensò. Oranus si riempì una coppa d’acqua, la svuotò, quindi rivolse la sua attenzione al gruppo davanti a lui.
«Silenzio!» sbraitò, mentre sentiva dei martelli infuocati che gli battevano dentro le tempie. Indicò la prostituta dai capelli rossi. «Tu, Roxy. Parla. Gli altri tengano la bocca tappata.»
«Quel bastardo mi ha assalita, signore, derubandomi dei risparmi di tutta una vita. Ha sfondato la porta a calci, mentre ero in compagnia di un amico e l’ha scagliato dalla finestra.»
«Sarei io» disse l’uomo vicino alla porta con la fronte piena di schegge. «Stavamo parlando quando quel selvaggio è entrato come una furia. Ho cercato di spiegargli, ma lui mi ha preso e mi ha scagliato attraverso le imposte chiuse. Fortunatamente sotto la finestra c’era un telo che ha attutito la caduta.» Sospirò. «Scommetto che non sapeva niente del telo» disse. «Meno male che era robusto. Ben tessuto. Non si è neanche strappato.»
«Non c’è neanche la più remota possibilità che a me interessi qualcosa di quel telo» commentò Oranus, mentre si inclinava in avanti pizzacandosi con le dita l’attaccatura del naso. «Conoscevi quell’uomo delle tribù?» chiese alla prostituta.
«Si era goduto la mia compagnia poco tempo prima» disse con aria civettuola.
«Ed è stato proprio allora che mi ha rubato il sacchetto d’oro» puntualizzò l’uomo nella cella in un Turgon accettabile.
«Che bugiardo» rispose la donna, con voce oltraggiata. «Sì è arrivati veramente a questo? Sì è arrivati al punto in cui una donna d’affari può essere calunniata nell’ufficio della Legge?» Sorrise dolcemente alla volta di Oranus. «Se volete posso fare qualcosa per il vostro mal di testa, signore.»
«Proprio quello di cui ho bisogno» scattò Oranus. «Il mal di testa e un po’ di sifilide. Tu!» Indicò Nestar, il robusto pappone dai capelli neri, corti e unti. Aveva il naso gonfio e sanguinante e l’occhio destro quasi chiuso. «Com’è successo?»
«Ero al piano di sotto quando ho sentito Roxy che gridava. Ho preso il manganello e sono corso di sopra. Quando sono entrato nella stanza, quello mi è saltato addosso. Io sono caduto per le scale. È stato allora che ha derubato Roxy dei suoi risparmi» affermò, lanciando un’occhiata assassina alla prostituta. «Lui è sceso giù dalle scale e allora ho chiamato i miei uomini per fermarlo. Ho detto ‘miei uomini,’ signore, ma ora non lo sono più. Sarebbe difficile trovare un altro paio di individui tanto inutili. Li ha schiacciati come se fossero mosche ed è uscito in strada. Voglio dire, a guardarli si direbbero dei duri. Mani grosse, spalle massicce. Eppure mi hanno ingannato. Quello li ha trattati come i contadini che sono.»
«Non è giusto» si lamentò uno dei due. «Ci ha presi di sorpresa.»
«E tu sei pagato per non farti sorprendere, cervello d’asino!»
Oranus sbatté il palmo della mano sul piano facendo sobbalzare il gruppetto dall’altro lato della scrivania, quindi alzò l’estremità avvicinando il pollice e l’indice a pochi millimetri di distanza. «Sono a tanto così dallo sbattervi dentro per il resto del giorno e della notte» li minacciò. «Adesso, vorreste raccontare la storia nella speranza che la terminiate prima della fine dell’anno?»
Nestar annuì. «Vi chiedo scusa, signore. Comunque, dopo aver preso a ceffoni questi imbecilli, è corso in strada dove, fortunatamente, era a portata di mano un drappello di soldati della Guardia che l’hanno preso. Penso che scoprirete che si è rivoltato anche contro di loro, signore. Se non vi dispiace che lo dica, ecco cosa succede quando si permette a dei barbari di entrare in un luogo civile.»
«Mi dispiace» disse Oranus. Si alzò dalla sedia e si girò verso il prigioniero seduto sul tavolaccio della cella. Lo fissò negli occhi e un brivido improvviso gli corse lungo la schiena. I ricordi rischiarono di travolgerlo e le mani cominciarono a tremargli. Si sforzò di mantenere il controllo e fece un respiro profondo. «Cosa hai da dire?» chiese al prigioniero. L’uomo si alzò e fissò il gruppo davanti alla sua scrivania da dietro le sbarre di legno.
«La donna dice che le ho rubato i soldi, quindi sono corso in strada e sono stato preso dai tuoi soldati, giusto?»
«Sì, secondo quello che mi hanno detto» confermò Oranus. «Vorresti dirmi che...?»
«Chiedile quante monete ci sono nel borsellino.»
«L’hai sentito» la esortò Oranus. «Quanto c’era nel borsellino?»
«Oh, intorno alle venticinque monete d’oro» disse lei. «Forse trenta. Non ricordo esattamente.»
«Ci sono trentadue monete d’oro, tre mezze monete d’argento e cinque monete di rame» elencò tranquillamente il prigioniero. «E non ti sembra decisamente notevole che io abbia avuto il tempo di contarle tutte, mentre scendevo le scale di corsa e uscivo in strada?»
«Già, notevole» ammise Oranus, mentre si girava fissando con sguardo glaciale la prostituta. «Quindi tu gli hai rubato il sacchetto. Sai che per questo reato c’è la fustigazione, Roxy. Cinquanta frustate.»
«Volete credere alla parola di quell’uomo piuttosto che a quella di una donna d’affari che paga le tasse?» urlò la donna, con gli occhi colmi di paura.
«Non alla sua parola, puttana! Alla sua aritmetica.»
«Io non so nulla di nessun furto» si schernì Nestar, alzando le mani. «Come voi ben sapete, io sono il padrone di un locale onesto.»
«So quali sono i tuoi affari» commentò Oranus, continuando a fissare gli occhi spaventati della donna dai capelli rossi.
«Non posso sopportare di essere frustata nuovamente» piagnucolò la prostituta, arretrando verso la porta. «Morirei.»
«Forse avresti dovuto pensarci prima di derubarlo» la ammonì Oranus.
«Non voglio che venga frustata» disse il prigioniero. «Posso dire la mia?»
Oranus sentì un’ondata di sollievo che gli alleviò il mal di testa. Se il barbaro non voleva sporgere denuncia tutta la storia sarebbe stata dimenticata e il suo ufficio sarebbe tornato un luogo tranquillo. Non avrebbe dovuto compilare rapporti e portare avanti ulteriori indagini. Avrebbe potuto togliersi il piastrone della corazza, entrare nella cella, sdraiarsi sul tavolaccio e chiudere gli occhi. Spostò la sua attenzione dalla prostituta al prigioniero, continuando a mantenere lo sguardo severo. «Il borsellino era il tuo» disse infine. «Il crimine è stato commesso ai tuoi danni, non contro una proprietà della città. Se sei contento che la cosa venga dimenticata, allora c’è ben poco che io possa fare.» Cercò di sembrare dispiaciuto e gratificò la prostituta con un sguardo che la fece rimpicciolire.
«E io?» chiese l’uomo con le schegge nella fronte. «Mi ha scagliato da una finestra!»
Oranus fece un sorriso tetro. «Hai ragione» affermò. «Bisognerebbe istituire un processo pubblico. Potresti comparire e spiegare come mai ti trovavi nella stanza di una prostituta quando sei stato assalito da uno sconosciuto. Vediamo» disse, aprendo un cassetto della scrivania. «La corte si dovrebbe riunire domani a mezzogiorno.»
«Non voglio comparire davanti alla corte» mugugnò l’uomo.
«E tu, Nestar?» chiese Oranus. «Vuoi comparire davanti alla corte?»
Il pappone scosse la testa.
«Bene» disse Oranus. «Fuori tutti! E tu, Roxy, se ti riportano da me ti faccio impiccare.»
La donna fuggì rapidamente dall’ufficio imitata dagli altri uomini. Oranus aprì la cella e tolse le manette dai polsi del prigioniero. «Da dove vieni?» gli chiese.
«Nord.»
«Rigante?»
«Sì.»
«Sei piuttosto lontano da casa.»
«Mi piace viaggiare.» Il giovane prese il borsellino e lo legò alla cintura.
«Perché non hai voluto che venisse frustata?» gli chiese Oranus. «Se lo sarebbe meritato e tu lo sai.»
«È stata una buona compagnia» rispose il giovane, sfoderando un largo sorriso. «Ed è colpa mia se mi sono addormentato. Posso andare?»
«Dipende da dove. Hai degli amici ad Accia?»
«Sono con il generale Appius, ci ospita perché un mio amico ha la febbre.»
«Ah, Appius! Ho sentito che era arrivato. Solo gli dèi sanno come mai è finito in questo buco infestato dai topi.» Oranus fece un respiro profondo. «È meglio che te ne vada» gli consigliò. «Presto sarà buio e alle genti delle tribù non è permesso andare in giro dopo il coprifuoco. E guardati le spalle. Il pappone, Nestar, potrebbe aspettarti. Hai molto oro addosso.»
L’uomo sorrise nuovamente. «Non lo farà.» E uscì. Oranus si avvicinò alla porta e tirò il chiavistello per chiuderla, quindi si tolse il piastrone della corazza e si sdraiò sul tavolaccio della cella.
Il giorno dopo si sarebbe recato da Appius per porgergli i suoi rispetti. Chiuse gli occhi e ricordò la sanguinosa ritirata da Codgen Field. E con i ricordi giunse anche la tremenda paura che aveva cominciato a perseguitarlo da quel giorno. Un sentimento che aveva bruciato la sua ambizione e corroso il suo coraggio. Con gli occhi della mente rivide lo schieramento infranto, le spade che fendevano l’aria, sentì le urla soffocate dei compagni morti con la gola tagliata o che cadevano mutilati. Era stato come se una moltitudine di diavoli in forma umana, con i corpi pitturati di blu e gli occhi dallo sguardo ferale fosse scaturita dalla nebbia. Oranus tremò. Era stato fortunato. Lui e circa una quarantina di uomini in preda al panico erano riusciti a raggiungere la retroguardia organizzata da Appius, dopodiché erano arretrati combattendo fino al campo fortificato che avevano eretto la notte prima. Erano stati sotto attacco per tutta la notte, ma Appius aveva gestito la difesa con molta abilità. Il nemico si era ritirato.
Ma il terrore non era diminuito.
Mentre attendevano sugli spalti di terra avevano visto che il nemico aveva puntato contro di loro tre delle catapulte che avevano catturato. In principio nessuno aveva avuto paura perché non c’erano pietre da scagliare, ma il nemico aveva ben altre intenzioni. Avevano riempito i cesti di teste tagliate e le avevano fatte piovere sul campo. Entro la mattina lo spazio libero all’interno delle mura ne era pieno.
Alle prime luci dell’alba un cavaliere in sella a un destriero grigio si era avvicinato alle mura fermandosi fuori dalla portata degli archi. Oranus e gli altri difensori l’avevano fissato. Quello era Connavar, il Re Demonio. L’avevano visto combattere come un posseduto il giorno prima. Aveva ucciso e mutilato senza requie. Ora era seduto in sella al cavallo con il mantello a scacchi che sventolava agitato dalla brezza mattutina. Appius era salito sugli spalti con passo deciso, era rimasto silenzioso per un attimo, quindi aveva lanciato un’occhiata a Oranus.
«Seguimi» gli aveva ordinato. Con orrore e paura, Oranus l’aveva osservato scavalcare gli spalti e scendere lungo la trincea, dopodiché, in compagnia di altri due uomini, l’aveva seguito con passo incerto.
Appius aveva camminato lentamente con le mani serrate dietro la schiena come se stesse facendo una passeggiata. Oranus l’aveva guardato e aveva visto che il volto del generale non era spaventato. Una volta raggiunto il cavaliere, Oranus aveva alzato gli occhi. L’uomo davanti a lui indossava un elmo sormontato da una piuma bianca. I lineamenti del volto erano interamente nascosti dalla celata, solo gli occhi erano visibili. In qualche modo gli era sembrata una creatura inumana. Oranus si era concentrato sulla spada infilata nel fodero che pendeva dal fianco dell’uomo.
«I tuoi uomini combattono bene, Connavar» aveva sentito dire da Appius.
Il re dei Rigante aveva ignorato il complimento e, quando aveva risposto, la sua voce, distorta dall’elmo, era echeggiata nell’aria, metallica e fredda. «Hai due scelte, Appius. Puoi rimanere e venire distrutto oppure puoi riportare i tuoi uomini nelle terre dei Cenii. Se mi darai la parola che non ti fermerai finché non avrai raggiunto il mare, ti permetterò di andartene indisturbato e ti fornirò delle provviste per il viaggio.»
«Ci restituirai il corpo di Valanus?»
«Dubito che potrei raccoglierne i pezzi o riconoscerli» aveva risposto Connavar.
Oranus aveva sentito le gambe che gli tremavano ed era quasi svenuto dalla paura.
«Allora faremo come hai detto, Connavar, ma dentro il forte ho dei feriti gravi. Avrò bisogno di alcuni carri per portarli via.»
«Li avrai. Siate pronti a partire entro un’ora.»
«Avrò bisogno di un po’ più di tempo per seppellire le teste che ci hai... restituito.»
«Due ore, allora» aveva concesso Connavar. Il re aveva girato il cavallo ed era tornato al suo esercito.
Oranus si era rivolto al generale. «Se lasceremo il forte, signore, ci massacreranno sicuramente.»
«Forse, anche se ne dubito. Connavar è uno stratega astuto, ma è anche un uomo di parola.»
«Perché allora ci lascia andare via?»
«Perché, anche se ha vinto la battaglia, ha subito molte perdite. Ogni attacco deciso contro di noi significherebbe perdere tre dei suoi uomini per uno dei nostri. Certo, vincerebbe, ma non arriverebbe a nulla. In questo modo, noi ce ne andremo con la coda tra le gambe e ogni sopravvissuto parlerà del Re Demonio dei Rigante. Porteremo la sua leggenda a casa e si propagherà come una pestilenza. Il prossimo esercito che si avventurerà in queste terre lo farà con il terrore nel cuore.»
La marcia verso la costa era stata lunga, lenta e dolorosa. Molti dei feriti erano morti nel tragitto ed erano stati seppelliti lungo il margine della strada. I Keltoi si erano radunati per vedere i perdenti che si dirigevano verso il mare.
Per Oranus quella era stata la fine di una brillante carriera. Nel corso degli anni aveva passato ben poche notti senza avere degli incubi: sogni terribili in cui teste mozzate lo chiamavano o spade acuminate gli trafiggevano le carni.
Se non fosse stato per l’abilità di Appius egli sarebbe morto a Codgen Field.
Oranus sospirò. La parte migliore di me è morta laggiù, pensò tristemente.
Banouin, sdraiato nel letto, sentiva il braccio fratturato che pulsava e la testa che gli faceva male, ma quei dolori non erano nulla in confronto al terrore che lo attanagliava. Aveva creduto di conoscere la vera natura della paura, essere inseguito, tormentato, picchiato e minacciato, ma adesso sapeva di averne scalfito solo la superficie. Aveva provato le paure causate da forze esterne a lui, come Forvar e i suoi amici. Niente di quello che aveva provato avrebbe potuto prepararlo a quello che aveva scoperto.
Banouin si era sempre sentito al sicuro all’interno della sua mente, ma ora era come se nel suo cranio si fosse aperto un cancello attraverso il quale egli poteva cadere in ogni momento, precipitando in un pozzo di paura senza fondo dal quale non ci sarebbe stato ritorno. Anche in quel momento sentiva il richiamo di quell’abisso, era come se fosse sul bordo di un precipizio e stesse per perdere l’equilibrio. Tremò e si sedette tirandosi le coperte intorno alle spalle. Non mi sarei mai dovuto avventurare nell’acqua, si disse. Ecco cosa ha scatenato tutto.
Vorna gli aveva sempre detto che un giorno o l’altro il suo Talento sarebbe venuto a galla ed egli avrebbe sviluppato delle capacità che andavano ben al di là di quelle degli uomini comuni. Banuoin aveva sempre aspettato con ansia quel giorno ma, dato che le sue capacità continuavano a non manifestarsi, si era rivolto a Fratello Solstizio esponendogli il problema. Il druido aveva fatto una passeggiata sulle colline e si era fermato a casa loro per rinfrescarsi. Banouin l’aveva avvicinato mentre si spruzzava l’acqua sul volto e la barba bianca per poi passarsi le mani bagnate tra i capelli striati di grigio. Uomo gigantesco dalle spalle possenti e i fianchi robusti, Fratello Solstizio somigliava molto di più al guerriero che un tempo era stato piuttosto che al druido che aveva deciso di diventare.
Banouin gli aveva fatto delle domande su come sviluppare il suo Talento. Fratello Solstizio si era seduto sulla panca sistemata sotto la grossa quercia e gli aveva fatto cenno di raggiungerlo e accomodarsi al suo fianco. «Perché vuoi questi poteri?» gli aveva chiesto.
«Perché tutti li vogliono, Fratello?» aveva ribattuto lui.
«Pensi che ti faranno diventare speciale e che ti permetteranno di guadagnarti il rispetto tra la tua gente?»
«Certo. E deve essere stupendo vedere il futuro o leggere i pensieri di un uomo.»
«Perché dovrebbe essere stupendo?» gli aveva domandato il druido.
«Saprei subito se un uomo ha intenzione di farmi del male.»
«Capisco. Quindi tu pensi che questi poteri possano essere utili solo a te?»
«Oh no, Fratello, potrei usarli per un buon fine.»
«E la gente ti sarebbe grata e ti coprirebbe di lodi. Forse, diventeresti un grande uomo.»
«Sì. È sbagliato?»
Il druido aveva scrollato le spalle. «Cerco sempre di evitare di esaminare una questione in base al giusto o allo sbagliato. Mi sembra sempre che siano due concetti che variano in base ai punti di vista. Quello che è giusto per una persona può essere sbagliato per un’altra. Il Talento che cerchi è un dono della Fonte e tali doni sono come i semi: piantati nel terreno giusto cresceranno floridi, se cadono su una roccia seccheranno e moriranno. Sei pietra o terra, Banouin?»
«Come faccio a dirlo?»
Il druido sorrise. «Guarda le tue azioni e come conduci la tua vita.» Il druido si era alzato in piedi, gli aveva dato una pacca gentile sulla spalla ed era andato via.
Ora, a un anno di distanza, Banouin sapeva la risposta. Era stato una pietra. Ricordò le parole che Flagello gli aveva detto poco prima che salvassero Lia e il padre dal fiume. «Non riesci proprio a capire, vero? Hai passato tutta la vita a lamentarti che non piaci alla gente, ma quando mai hai fatto qualcosa per piacere? L’anno scorso, dov’eri mentre il granaio di Nian andava a fuoco e tutti sono corsi per cercare di salvarlo? Sei stato a casa. Mentre noi tornavamo a Tre Torrenti, coperti di fuliggine e cenere, tu sei arrivato bello pulito. Tanto valeva che tenessi in mano un cartello con su scritto: ‘Non me ne importa nulla di voi e dei vostri guai’. Un giorno ti renderai conto che sei quello che sei perché tu scegli di esserlo. Ha ben poco a che fare con il sangue.»
Aveva ragione. Quando si era avventurato nel torrente per salvare Lia e Appius aveva messo la sua vita a repentaglio per gli altri. Era stato l’atto altruistico che aveva aperto i cancelli della sua mente. Ora desiderava con tutto il cuore di essere rimasto sulla sponda del fiume. Il dono non era per niente meraviglioso. Tutto quello che riusciva a vedere, quando i suoi occhi interiori spaventati sbirciavano oltre il cancello, era solo morte e violenza.
E dopo vedeva quel volto piatto e inespressivo con gli occhi chiari che non conoscevano la pietà. L’uomo era alto e robusto, indossava un’armatura nera e argento e portava una spada brillante che grondava sangue. Nessuno poteva resistergli poiché era il più grande assassino mai vissuto, veloce e letale. Banouin poteva vedere una folla di migliaia di persone osannare il suo nome. Poi la scena cambiava e lo stesso uomo, in compagnia di altri due individui che indossavano un’armatura simile alla sua, era sulla prua di una nave intento a fissare le onde grigie. Sta venendo qua, pensò Banouin. Sta venendo qua per ucciderci tutti. Fu colto dalla disperazione e cominciò a piangere.
Flagello aveva quasi raggiunto la casa di Barus quando sentì un rumore alle sue spalle. Si girò e vide le due canaglie che fino a poche ore prima avevano lavorato per il pappone di nome Nestar. Entrambe erano armate di coltelli.
Il primo gli corse incontro e tentò un goffo affondo alla pancia di Flagello. Questi lo parò con il braccio sinistro, quindi gli diede una gomitata sul volto con il destro mandandolo a terra. Cadendo, l’uomo finì tra le gambe del suo compagno che inciampò. Flagello gli spostò la gamba con un calcio, lo fece cadere a terra dopodiché si appoggiò contro il muro e scosse la testa.
«Per Taranis, siete i ladri più goffi che mi sia mai capitato di vedere. Volevate farvi uccidere?»
«Mi ha roddo il nazo» disse il primo, con parole orribilmente distorte. Si sedette e cercò di bloccare il flusso di sangue che scendeva dalle narici.
«Ti avevo detto di passare largo» lo rimproverò il secondo uomo, strofinando una mano sul ginocchio escoriato. «Non te l’avevo detto? Passa largo sulla destra e lascia che sia io a fare un affondo pulito.»
«Il mio nazo!» si lamentò il primo uomo.
«Dove avete imparato questo lavoro?» chiese loro Flagello.
«Non è un lavoro» disse il secondo uomo. «Siamo senza soldi. Nestar ci ha mandati via e abbiamo pensato di rubarti l’oro.»
«Beh, ci avete provato» disse Flagello, quindi aprì il borsellino, prese due monete d’argento e le lanciò alla coppia di assalitori. Stupefatto, il primo uomo lasciò cadere la moneta, quindi la raccolse da terra. Il secondo l’afferrò al volo. «Trovatevi un lavoro» li avvertì Flagello. «Cosa siete capaci di fare?»
«Lavoravamo la campagna per nostro padre» spiegò il secondo uomo. «Avevamo una piccola fattoria. Quando arrivarono i soldati di Stone gli dissero di andarsene, egli rifiutò e fu impiccato. Abbiamo firmato come marinai, ma Durk ha passato tre mesi con il mal di mare e così ci siamo messi a lavorare per Nestar. Andava tutto bene finché non sei arrivato tu.»
«Non guardate mai il lato negativo delle cose» disse loro Flagello, in tono allegro. «Pensateci bene: un giorno potreste incontrare qualcuno che non è buono come me e potrebbe piantarvi un coltello nella pancia.»
«Quesdo è vedo» disse il primo uomo, il cui naso cominciava a gonfiarsi vistosamente.
«Trovatevi un lavoro in una fattoria. Un uomo dovrebbe sempre fare quello che gli riesce meglio e, credetemi ragazzi, non siete tagliati per fare i ladri.»
Così dicendo Flagello si allontanò lungo il viottolo. Il cancello laterale era chiuso, quindi decise di scavalcare il muro. Una volta raggiunta la cima, saltò nel giardino. Lia era seduta su una panca ricurva e quando lo vide gli sorrise. Flagello sentì, con sua somma sorpresa, il fiato mozzarsi in gola e il cuore battere più forte.
«Perché non hai chiamato?» domandò lei. «Ti avrei aperto il cancello.»
Egli scrollò le spalle. «Era più facile scavalcare. Come sta Banouin?»
«La febbre è scomparsa, ma ha uno sguardo da spiritato. Quando mi sono seduta vicino a lui ha alzato le mani e mi ha spinta via, quindi ha cominciato a tremare e a piangere. Dice che partirà entro domani. Mio padre gli ha fornito delle lettere di referenza e vi ha prenotato un passaggio su un mercantile diretto a Goriasa. Parte domani al tramonto.»
«Non c’è molto tempo per conoscerci allora» disse Flagello sedendosi al suo fianco. Le labbra della ragazza erano umide e brillavano alla luce della luna.
«Mi stai fissando» disse lei.
«Chiedo scusa. Sono un ragazzo di montagna che non è abituato a tanta bellezza.»
La ragazza rise divertita. «Questo complimento è scivolato un po’ troppo facilmente fuori dalla tua bocca. Penso che siate un mascalzone, signore.»
«Un mascalzone ti chiederebbe sicuramente un bacio» rispose lui.
«E tu lo sei?»
«Lo sono, in effetti.» Si inclinò in avanti e appoggiò, leggero, le sue labbra su quelle della ragazza, quindi si ritrasse e fece un profondo respiro. «Avresti dovuto darmi uno schiaffo» le disse.
«Perché?»
«Per la mia impertinenza.»
«Come fai a sapere che non era quello che desideravo? Come fai a sapere se io non mi sono seduta qua apposta in attesa del tuo ritorno?»
«L’hai fatto?»
«No» gli rispose lei, sorridendo «però avrei potuto farlo.»
Flagello rise genuinamente divertito. «Dovrei essere veramente un mascalzone se seducessi la figlia del mio ospite, quindi mi accontenterò dei piaceri della tua compagnia.»
«Dovrai goderti i piaceri anche della mia, di compagnia» sbuffò Appius, sbucando da una porta laterale.
«Sono sicuro che sarà ugualmente piacevole» disse Flagello. Lia si alzò dalla panca, gli diede un rapido bacio e andò via.
Flagello la fissò notando il modo in cui i fianchi ondeggiavano sotto la tunica di cotone. «È bellissima» proclamò, mentre Appius si sedeva al suo fianco.
«Sì, lo è. È il mio tesoro, Flagello. Lia è dolce, coraggiosa e folle. Proprio come la madre.» Appius rimase in silenzio per un momento. «Fu bruciata nell’arena insieme ad altri cinquanta eretici. Mi hanno detto che il fumo delle pire li ha fatti svenire prima che le fiamme li divorassero, ma anche così è un modo brutale per morire.»
«Cosa sono gli eretici?» indagò Flagello.
Appius agitò una mano in aria. «Religione, ragazzo. Tutte insulsaggini. Mia moglie si infatuò del Culto dell’Albero, un gruppo che a Stone è considerato fuorilegge. Essi parlano di raggiungere l’armonia con la terra e tutti i popoli del pianeta. Venerano la Fonte di Ogni Cosa, un essere la cui debolezza è tale che non riesce a salvare neanche uno dei suoi seguaci. Ci piscio sopra! Lia doveva essere arrestata, come la madre, ma io l’ho portata via da Stone. Purtroppo non sono riuscito ad allontanarla prima che insultasse pubblicamente Nalademus, l’anziano di Stone, chiamandolo vecchio stupido e presuntuoso. Ho visto gli occhi di quell’uomo e l’odio che ardeva in essi.»
«E questi anziani possono ordinare di uccidere qualcuno?» chiese Flagello.
«Certo che possono. Anche se danno loro una bella armatura e un nome nobile, si servono di assassini. I Cavalieri di Stone. Uomini duri, letali. Arrestano le persone, le trascinano fuori dalle loro case e le portano al cospetto degli anziani che le processano.»
«E l’imperatore permette tutto ciò?»
«Perché non dovrebbe? La maggior parte degli arrestati erano dei sostenitori della vecchia repubblica e tutti erano contrari all’uso della guerra come mezzo d’espansione dell’impero. Il Culto dell’Albero crede che tutte le guerre siano una malvagità.»
«Che follia» disse Flagello. «Senza le guerre non ci sarebbe nessuna gloria.»
«Esattamente! E cosa sarei stato io, eh? Un calzolaio? Un fabbro? Ma ho portato qua Lia perché fosse al sicuro in attesa della caduta dei Preti Cremisi. Dopo potremo tornare a Stone.»
«Chi adorano quei preti?» chiese Flagello.
«Stone. Dicono che la città è un dio, eterno e sacro. Tutti gli altri dèi sono falsi, le creazioni di persone deboli.» Fissò gli occhi di Flagello. «Chi adori, ragazzo?»
«Nessuno. La mia forza, forse. E tu?»
«Credo che ci sia un potere molto più grande dietro quello dell’uomo. Devo crederci, altrimenti non siamo altro che parassiti che corrono di qua e di là senza uno scopo. Comunque la mia filosofia si ferma qui. Vi ho prenotato un passaggio per domani. Banouin si è offerto di portare delle lettere per me. Se vuoi ne scriverò una anche per te con la quale potrai trovare un posto dove stare.»
«Troverò un posto dove stare, generale. Non ti preoccupare perché non mi fermerò a lungo. Ho promesso alla madre di Banouin che l’avrei portato fino alla città. Lo farò, quindi tornerò a casa. Mi mancano le montagne.»
«Mi sarebbe piaciuto vedere le montagne dei Rigante» disse Appius. «Mi hanno detto che sono stupende.» L’espressione del vecchio divenne triste. «Temo che sarà quello che faranno i miei successori quando l’esercito di Stone marcerà a nord.»
«Non avete imparato la lezione a Codgen Field?»
«Stone non impara nessuna lezione» disse Appius, sospirando. «Siamo un popolo afflitto da un’arroganza colossale. Jasaray ha avuto altre cose di cui occuparsi dopo Codgen e Connavar è stato abbastanza furbo da restituirgli gli stendardi delle pantere. Jasaray disse alla gente che quello era stato un atto di contrizione e fece in modo di far ricadere tutta la colpa sulla testa di Valanus, ma Jasaray non ha dimenticato i Rigante, Flagello. Di questo puoi stare certo. In questo momento sta combattendo un guerra a est, ma quando sarà terminata marcerà contro Connavar.»
«Il risultato sarà lo stesso» disse Flagello, freddo.
«Posso capire cosa ti porta a pensarlo, ma io sono un vecchio soldato e non sono d’accordo con te. Valanus era avanzato troppo in profondità e troppo velocemente. Aveva solo cinque pantere, quindicimila uomini. Quando cominciò la battaglia non ricevevano più rifornimenti da cinque giorni e anche così hanno ucciso sedicimila uomini delle tribù. Jasaray non arriverà con dodicimila uomini. Probabilmente ne porterà quarantamila e li guiderà lui stesso.»
«È un vecchio» ringhiò Flagello.
Appius sorrise e scosse la testa. «Ah, la stupenda arroganza della giovinezza! Sì, è un vecchio, ragazzo, ma è un vecchio che non ha mai perso. Un generale non ha bisogno dei rapidi riflessi della gioventù per carpire un’apertura nello schieramento avversario o per saper leggere il flusso e il riflusso di una battaglia. Quello di cui un generale ha bisogno sono bravura, esperienza e nervi d’acciaio. Jasaray ha tutte queste qualità. Non si farà privare degli approvvigionamenti. Si muoverà lentamente e con moltissima attenzione. Goditi pure le tue montagne, mentre sono ancora dei Rigante.»