3
L’ex generale Appius era seduto sul balcone
intento a godersi il sole e la vista del mare lontano. L’odore del
gelsomino lo raggiunse dal giardino recintato. Se chiudeva gli
occhi poteva quasi credere di essere tornato nella sua casa che
dava sulla baia di Cressia e le bianche scogliere dell’isola di
Dara. Appius sospirò. Il suo buon umore era scomparso.
Quella casa di legno piena di spifferi non
era la sua. Accia era un insediamento di frontiera e i tentativi
degli abitanti di rendere quel luogo anche solo una povera copia di
Stone erano quasi patetici. Le case erano costruite con tronchi e
decorate con fregi in pietra. Le strade, eccetto lo spiazzo davanti
al palazzo del concilio, non erano pavimentate e non c’erano sale
da gioco, teatri o arene. L’unico bagno pubblico era ancora
incompleto, non erano arrivati i fondi necessari per terminarlo e
l’ippodromo non aveva nessun posto a sedere.
La popolazione era composta dai relitti della
società di Stone: politici corrotti, mercanti in esilio o criminali
che sfuggivano alla giustizia. Anche i cento soldati che
componevano la guarnigione erano la feccia dell’esercito ed erano
comandati da ufficiali che avevano commesso qualche mancanza
disciplinare o non erano stati nelle grazie di qualcuno.
Erano passate appena ventiquattr’ore da
quando era entrato nella casa di Barus e Appius aveva già ricevuto
la visita di due cittadini: Macrios, il mercante, accusato di
corruzione e compravendita fraudolenta, e Banyon, un ex senatore il
cui nepotismo era finito sulla bocca di tutta Stone. Li aveva
salutati cortesemente, accettato il benvenuto, ma non aveva
augurato loro il buongiorno.
Faceva male al suo orgoglio di vecchio
soldato essere uno di loro, un uomo in disgrazia che viveva in una
città di frontiera lontano dalla civiltà. Si chiese se anche quegli
uomini lo osservavano con gli stessi suoi occhi. Anche loro si
chiedevano quale crimine avesse commesso per essere relegato in
quel luogo? Appius tremò. Aveva passato tutta la vita a cercare di
essere un uomo dignitoso e d’onore. Non aveva mai accettato neanche
una moneta dai mercanti ansiosi di rifornire le sue pantere. Mai,
da quando era adulto, aveva agito spinto dalla gelosia,
dall’invidia o dall’avidità. Tuttavia, eccolo lì, costretto a
vivere in mezzo a dei criminali in una patetica replica di Stone.
Gli stucchi del balcone erano già crepati e alcuni pezzi erano
caduti sul pavimento di terracotta. Fissò l’insediamento. Da quel
punto sembrava che alcune case fossero almeno abitabili, ma sapeva
che se si fosse avvicinato avrebbe scoperto che anch’esse erano
costruite in maniera grossolana.
Il vecchio soldato si girò e tornò a grandi
passi nella sala principale. Gli arredi, tre divani e quattro
poltrone, erano stati portati via nave da Stone e l’alta qualità
della loro fattura serviva solo a evidenziare maggiormente i brutti
stucchi delle pareti e il soffitto grezzo. C’è un muratore o un
carpentiere degno di tale nome che vorrebbe vivere qua?
Pensò.
Sentì qualcuno che bussava alla porta e un
attimo dopo vide Ralis, il chirurgo, che entrava.
«Come sta?» chiese Appius, facendo cenno
all’uomo di sedersi. Ralis si accomodò e si passò la mano
affusolata sulla testa calva.
«La febbre comincia a scendere. Starà bene.
Ho dato ordine a uno dei servitori di stargli vicino. Credo che
nell’acqua del fiume che ha ingurgitato ci fosse qualcosa che l’ha
fatto stare male. Sono riuscito a fargli bere una tisana che gli
rimetterà in sesto lo stomaco. Gli ho anche messo a posto il
braccio. La frattura non era scomposta. Ha il cuore forte e penso
che tra un giorno o due potrà tornare a camminare.»
Appius offrì al suo ospite una coppa di vino,
quindi si sedette a sua volta. I due rimasero entrambi in silenzio.
Il vecchio militare conosceva il chirurgo da anni. Ralis era stato
con lui in tre campagne. Le sue capacità erano indiscutibili, come
anche il suo acume, e l’aveva sempre servito bene. Appius guardò
l’uomo e ricordò lo scandalo. Ralis si era autoesiliato in quel
luogo in seguito a una storia d’amore con un giovane senatore la
cui moglie si era suicidata. I parenti di lei avevano ucciso il
senatore e mandato degli assassini per eliminare anche Ralis, ma il
chirurgo era stato avvertito e aveva abbandonato la città
nottetempo. Lo scandalo seguito alla relazione era stato materia di
conversazione per anni a Stone.
«Il ragazzo ha un aspetto familiare» disse
Ralis.
Appius annuì. «È il figlio meticcio di
Banouin, il Generale Fantasma.»
«Senti, senti, senti» commentò Ralis «Banouin
hai detto, giusto? Non era diventato un trovatore o qualcosa di
simile?»
«Un mercante girovago. Venne ucciso nella
campagna contro i Perdii quasi vent’anni fa.»
«Dicono che fosse un generale bravo quasi
quanto Jasaray.»
«Nessuno è bravo quanto Jasaray, ma lui era
molto in gamba» rispose Appius. «Era un capo pieno di carisma,
adorato dai suoi uomini, ma più di tutto, aveva una specie
d’istinto per la battaglia.»
«Non si sposò con una schiava o altro?»
«Con una strega del Nord.»
«Sconcertante» commentò Ralis. «Avrebbe
potuto essere ricco e potente a Stone, invece ha scelto di andare
in quei territori aspri e sposarsi una selvaggia. Perché? Mi
chiedo.»
«Non lo sapremo mai. Ti manca la città?» gli
chiese improvvisamente Appius.
Ralis fece un sorriso mesto. «E a chi non
mancherebbe? Ma qua stiamo facendo del nostro meglio. Il prossimo
anno di questa stagione la strada dovrebbe essere lastricata e
Macrios sta raccogliendo dei fondi per far terminare il bagno
pubblico entro la primavera. Un inizio ben misero, lo so, ma è pur
sempre un progresso. Barus tornerà quest’anno?»
Il vecchio generale scosse la testa. «Gli è
stato affidato un comando a est. Io e Lia rimarremo un po’ nella
sua casa e poi decideremo se stabilirci qua o tornare.»
Si fissarono e Ralis ebbe la gentilezza di
distogliere lo sguardo. Nessuno si recava in quel luogo per propria
scelta. Se era là voleva dire che era finito sul lastrico o si era
fatto dei nemici molto potenti. «Come vanno le cose a Stone?»
chiese il chirurgo.
«Animate» rispose Appius, senza spiegare
oltre.
«Beh, qua non sono così animate, generale.
Non ci sono Preti Cremisi in questo luogo e la gente può dire
liberamente quello che pensa.»
«Sembra piacevole» osservò Appius. «Anche se
non mi pare saggio.» Si alzò. In quel modo segnalò al suo ospite
che la conversazione era terminata.
Ralis fece un inchino. «È stato bello
rivederti, generale. Se ci dovesse essere qualche peggioramento
nelle condizioni del tuo ospite non farti scrupoli,
chiamami.»
Appius strinse la mano dell’uomo e lo
accompagnò alla porta, quindi tornò al balcone. Nel giardino
sottostante Lia stava camminando con Flagello. La ragazza sembrava
felice. A lei non importava nulla di trovarsi a migliaia di
chilometri da casa e il suono delle sue risate gravava pesantemente
sul cuore di Appius.
Non c’erano i Preti Cremisi ad Accia.
Non ancora.
Era passata da poco la mezzanotte quando un
urlo lacerò il silenzio della notte. Flagello fu il primo a
reagire. Si svegliò, rotolò giù dal letto e corse nudo nella stanza
accanto, dove Banouin era seduto sul suo giaciglio e puntava un
dito contro una parete della stanza. Urlò di nuovo. Flagello corse
da lui afferrandolo per le spalle.
«I muri sono vivi!» urlò Banouin. La pelle
del volto, madida di sudore, brillava illuminata dalla pallida luce
della luna. «E là c’è un demone che ti da la caccia, Flagello. Ah!
Lo vedo. Fauci e artigli. Sta venendo per te.»
«Se verrà lo ucciderò» lo rassicurò Flagello.
«Non preoccuparti, sdraiati. Dormi.»
«Stai attento, Flagello. Fissa la coda. Prima
di saltare, il demone la fa schioccare!»
«Gli guarderò la coda. Adesso, fa come ti ho
detto. Sdraiati.»
Banouin crollò contro di lui, emise un lungo
sospiro quindi permise all’amico di adagiarlo sul materasso. Sbatté
le palpebre. «Non era un sogno» disse con calma. «Era una visione,
Flagello. Stavi camminando lungo... lungo dei corridoi, ma i muri
erano vivi e si muovevano. Tu avevi con te una spada corta ed eri
in compagnia di un vecchio. Un demone vi inseguiva.» Rabbrividì.
«Una bestia terribile dotata di una forza e di una velocità
incredibili.»
«Tutto sommato» scherzò Flagello « avrei
preferito che la tua prima visione fosse quella di una bellissima
ragazza, forse meglio due bellissime ragazze, che si prendevano
cura di me dopo che avevo ucciso la bestia. Pazienza. Riposati
adesso.»
Banouin chiuse gli occhi azzurri e il respiro
divenne più profondo. Flagello si alzò e uscì nel corridoio
illuminato dalle torce. Appius era in piedi davanti alla porta con
indosso una tunica da notte grigia. Dietro di lui c’era Lia.
«Ha avuto una visione» li informò
Flagello.
«Sì, sì, ne parleremo domani mattina» rispose
Appius, secco, frapponendosi tra l’uomo nudo e la figlia.
«È tutto a posto, Appius?» chiese Flagello.
«Come ti ho detto, si trattava di una visione e non ti riguardava
affatto.»
«Lia, torna nella tua stanza» sbottò il
vecchio generale, senza girarsi a guardare la figlia. Flagello si
spostò a destra.
«Dormi bene» le augurò. Lia rise di gusto,
scosse la testa e si allontanò.
«Sei nudo» lo rimproverò Appius,
severo.
«Anche tu lo sei sotto la tunica» gli fece
notare Flagello.
«Esatto! Sotto la tunica. In una società
civile è considerato... offensivo sfilare nudi.»
«Cosa vuol dire sfilare?» chiese
Flagello.
«Apparire nudo in pubblico.»
«Perché?»
«Perché? Perché... è così. Non so come mai ci
sia questa usanza, ma è molto offensivo per un uomo apparire nudo
di fronte a una giovane vergine.»
Flagello ridacchiò. «Mi stai prendendo in
giro, Appius?»
Il vecchio sospirò. «No, non ti sto prendendo
in giro. Se dovessi andare in giro nudo per le strade di Stone
verresti arrestato e frustato. E se ti presentassi nudo davanti a
una ragazza di buona famiglia potresti essere impiccato oppure
mandato a combattere nell’arena. Adesso torna nella tua stanza,
prendi la tunica appesa alla porta e mettila. Sento che ho bisogno
di una coppa di vino. Dopo mi racconterai di questa...
visione.»
Flagello entrò nella sala qualche minuto
dopo, abbigliato con una bella tunica di cotone bianco lunga fino
alle caviglie. Appius gli passò una coppa d’argento e i due uomini
si sedettero sul balcone che dava sulla città di Accia e, oltre,
sul mare screziato dai riflessi delle stelle.
«Perché stai andando a Stone?» gli chiese il
vecchio generale.
Flagello scrollò le spalle. «Ho promesso a
Vorna che mi sarei preso cura di Banouin. Non è un guerriero, ma
attrae i guai come una merda di vacca con le mosche.»
«Questa è un’altra cosa a cui devi stare
attento» puntualizzò Appius. «Il tuo linguaggio. Parli bene il
Turgon e sembra che ti sia impadronito dell’uso di alcune... frasi
interessanti. In compagnia di persone educate dovresti evitare di
usare delle parole associate con le funzioni del corpo o le parti
più intime. Un cittadino di Stone, per esempio, non si alza da
tavola, come hai fatto tu stasera, per ‘pisciare’. Chiede scusa e
dice che sarà di ritorno entro pochi minuti. E non si apre i
pantaloni per grattarsi gli intimi.»
«Intimi?» indagò Flagello.
«Le palle!» sbottò Appius.
«Ah. E quando è permesso grattarsele?»
«In intimità. Da cui ‘intimi’.
Capisci?»
Flagello annuì con aria solenne e bevve il
vino. «Siete un popolo strano» disse. «Non vi importa nulla di
rendere schiave intere tribù, di massacrare le persone e portare
guerra e distruzione nelle terre vicine alle vostre, tuttavia
trovate offensiva la vista di un pene e non parlate di pisciare. È
questa la civiltà, vero? La guerra, gli omicidi e i massacri sono
rispettabili, ma un uomo senza i vestiti rischia di essere
frustato?»
Appius rise. «Non l’avevo mai sentito parlare
in modo tanto semplicistico, però, sì, forse questa è l’essenza
della nostra civiltà: forte senso del privato ed espansionismo.
Comunque, ciò che è giusto o sbagliato non ha alcun significato. Il
fatto è che si tratta di leggi applicate. Devi stare molto attento
quando cammini e parli a Stone, Flagello. Sarà diverso per Banouin.
Egli è il figlio di un cittadino molto importante e io gli fornirò
i documenti che comproveranno la sua posizione. Lui verrà
accettato. Tu, al contrario, sarai tenuto sott’occhio nel caso
mostrassi qualche segno di comportamento barbaro.»
«Pensi che io sia un barbaro?»
«Sono un vecchio soldato, ragazzo. Conosco
gli uomini come te. Guerrieri, un po’ innamorati della morte. La
vita senza rischio non significa nulla per te. Uno spreco. Se ti
trovi davanti un abisso ti fermi al limitare e sfidi il vuoto ad
attirarti. Se vedi un cavallo che nessun uomo può cavalcare devi
domarlo. E se vedi un uomo che nessuno può sconfiggere lo devi
sfidare.»
«Vedi molte cose, generale.»
«Più di quanto pensi. Perché Connavar manda
suo figlio a Stone? Cosa ha in mente?»
«Conosci Connavar?» gli chiese Flagello,
cauto.
«Ho combattuto al suo fianco nelle guerre
contro i Perdii e contro di lui a Codgen Field. Sì, lo conosco
quanto basta per vedere te in lui, anche senza quegli occhi strani.
Non dire a nessuno di chi sei figlio, Flagello, o verrai trascinato
davanti a Jasaray in persona e usato contro tuo padre.»
«Lo terrò a mente» disse Flagello,
tranquillo. «Gli dèi sanno quanto voglio bene a Connavar.»
Appius gli lanciò un’occhiata tagliente, ma
non aggiunse altro. Flagello si alzò, si stirò e fece una domanda
al generale che si mise a ridere di gusto.
«Il modo corretto per porre un simile quesito
è: ‘E dove si può trovare un luogo tranquillo dove passare del
tempo in piacevole compagnia femminile?’ E la mia risposta è: non
lo so perché sono arrivato da troppo poco tempo per dirtelo,
ragazzo. Quando lo saprò te lo dirò. Forse domani potresti fare una
passeggiata tra i magazzini del porto. Non dubito che qualche
cittadino premuroso giunga ad aiutarti conducendoti nel luogo che
desideri.»
«Sconcertante» disse Flagello. Mentre uscìva
dalla stanza sentì la porta della camera di Lia che si chiudeva.
Diede un’occhiata a Banouin che ora stava dormendo profondamente,
quindi tornò a letto.
Mentre si sdraiava scoprì che stava pensando
a Lia. La prima volta che si erano incontrati, al fiume, aveva
pensato che fosse carina, niente di più, ma poche ore prima, quando
avevano camminato nel giardino, si era trovato a osservare il modo
in cui inclinava la testa quando rideva, la perfezione del collo e
la carnosità delle labbra. E quando si erano seduti sulla panchina
dietro il paravento si era accorto del profumo dei suoi
capelli.
È un bel po’ che non vai a letto con una
donna, pensò. Si addormentò pensando alla ragazza dai capelli
scuri, immaginandosi intento a camminare in sua compagnia lungo i
pendii delle Druagh con il sole del mattino che rischiarava i
picchi e la nebbia che scaturiva dal Bosco dei Desideri.
Oranus, il capitano della Guardia, era
stanco, aveva lo stomaco pieno di vino scadente e la testa che gli
pulsava dolorosamente. Di solito, Accia era tranquilla nel mezzo
della settimana e lui si era portato l’otre di vino nel piccolo
ufficio di fronte alle celle. La bevanda sarebbe servita, almeno
così lui sperava, a dargli una bella nottata di sonno, invece
l’aveva lasciato di cattivo umore e con il mal di stomaco.
Fissò con aria minacciosa e adirata il
gruppetto di persone rabbiose intorno alla sua scrivania. Parlavano
tutti insieme e quel coro di voci discordanti gareggiavano con la
pulsazione che sentiva nella testa. Conosceva bene la donna, una
prostituta che lavorava nella parte est dei magazzini. L’uomo al
suo fianco, che sfoggiava il naso rotto e un occhio gonfio, era il
suo pappone, Nestar. Era il padrone di una taverna vicina ai moli,
ben conosciuta a tutti per le sue attività parallele: furto,
estorsione e truffa ai danni dei clienti. Due dei suoi uomini gli
stavano a fianco. Entrambi portavano i segni di una colluttazione.
Al capitano sarebbe piaciuto molto poter chiudere la taverna di
Nestar, ma quel pappone aveva degli amici altolocati tra i quali
Macrios il mercante e Banyon il consigliere. All’età di
quarantaquattro anni e a soli otto mesi dalla pensione e dalla
riscossione dell’appezzamento di terra che gli spettava, Oranus non
aveva nessun desiderio di inimicarsi persone tanto potenti.
Oranus si stropicciò gli occhi e spostò lo
sguardo sull’ometto in piedi vicino alla porta. Non l’aveva
riconosciuto. Il volto dell’individuo era punteggiato da
macchioline rosse e aveva diverse schegge di legno piantate nella
pelle della fronte. La mera incongruenza delle ferite dell’uomo
servì ad alleviare per qualche attimo il mal di testa che
provava.
Era stata una mattinata tranquilla fino al
momento in cui avevano portato il barbaro. Lanciò un’occhiata
all’uomo in catene che sedeva fissandoli in cagnesco dalla cella.
Era giovane e robusto, i capelli lunghi e biondi e una treccina che
penzolava contro la tempia. Non portava nessun mantello tribale, ma
Oranus era certo che non appartenesse alla tribù dei Cenii. C’era
qualcosa in lui che suggeriva un fatto: era chiaro che non fosse
mai stato sotto il giogo di Stone. Norvii, forse Rigante, pensò.
Oranus si riempì una coppa d’acqua, la svuotò, quindi rivolse la
sua attenzione al gruppo davanti a lui.
«Silenzio!» sbraitò, mentre sentiva dei
martelli infuocati che gli battevano dentro le tempie. Indicò la
prostituta dai capelli rossi. «Tu, Roxy. Parla. Gli altri tengano
la bocca tappata.»
«Quel bastardo mi ha assalita, signore,
derubandomi dei risparmi di tutta una vita. Ha sfondato la porta a
calci, mentre ero in compagnia di un amico e l’ha scagliato dalla
finestra.»
«Sarei io» disse l’uomo vicino alla porta con
la fronte piena di schegge. «Stavamo parlando quando quel selvaggio
è entrato come una furia. Ho cercato di spiegargli, ma lui mi ha
preso e mi ha scagliato attraverso le imposte chiuse.
Fortunatamente sotto la finestra c’era un telo che ha attutito la
caduta.» Sospirò. «Scommetto che non sapeva niente del telo» disse.
«Meno male che era robusto. Ben tessuto. Non si è neanche
strappato.»
«Non c’è neanche la più remota possibilità
che a me interessi qualcosa di quel telo» commentò Oranus, mentre
si inclinava in avanti pizzacandosi con le dita l’attaccatura del
naso. «Conoscevi quell’uomo delle tribù?» chiese alla
prostituta.
«Si era goduto la mia compagnia poco tempo
prima» disse con aria civettuola.
«Ed è stato proprio allora che mi ha rubato
il sacchetto d’oro» puntualizzò l’uomo nella cella in un Turgon
accettabile.
«Che bugiardo» rispose la donna, con voce
oltraggiata. «Sì è arrivati veramente a questo? Sì è arrivati al
punto in cui una donna d’affari può essere calunniata nell’ufficio
della Legge?» Sorrise dolcemente alla volta di Oranus. «Se volete
posso fare qualcosa per il vostro mal di testa, signore.»
«Proprio quello di cui ho bisogno» scattò
Oranus. «Il mal di testa e un po’ di sifilide. Tu!» Indicò Nestar,
il robusto pappone dai capelli neri, corti e unti. Aveva il naso
gonfio e sanguinante e l’occhio destro quasi chiuso. «Com’è
successo?»
«Ero al piano di sotto quando ho sentito Roxy
che gridava. Ho preso il manganello e sono corso di sopra. Quando
sono entrato nella stanza, quello mi è saltato addosso. Io sono
caduto per le scale. È stato allora che ha derubato Roxy dei suoi
risparmi» affermò, lanciando un’occhiata assassina alla prostituta.
«Lui è sceso giù dalle scale e allora ho chiamato i miei uomini per
fermarlo. Ho detto ‘miei uomini,’ signore, ma ora non lo sono più.
Sarebbe difficile trovare un altro paio di individui tanto inutili.
Li ha schiacciati come se fossero mosche ed è uscito in strada.
Voglio dire, a guardarli si direbbero dei duri. Mani grosse, spalle
massicce. Eppure mi hanno ingannato. Quello li ha trattati come i
contadini che sono.»
«Non è giusto» si lamentò uno dei due. «Ci ha
presi di sorpresa.»
«E tu sei pagato per non farti sorprendere,
cervello d’asino!»
Oranus sbatté il palmo della mano sul piano
facendo sobbalzare il gruppetto dall’altro lato della scrivania,
quindi alzò l’estremità avvicinando il pollice e l’indice a pochi
millimetri di distanza. «Sono a tanto così dallo sbattervi dentro
per il resto del giorno e della notte» li minacciò. «Adesso,
vorreste raccontare la storia nella speranza che la terminiate
prima della fine dell’anno?»
Nestar annuì. «Vi chiedo scusa, signore.
Comunque, dopo aver preso a ceffoni questi imbecilli, è corso in
strada dove, fortunatamente, era a portata di mano un drappello di
soldati della Guardia che l’hanno preso. Penso che scoprirete che
si è rivoltato anche contro di loro, signore. Se non vi dispiace
che lo dica, ecco cosa succede quando si permette a dei barbari di
entrare in un luogo civile.»
«Mi dispiace» disse Oranus. Si alzò dalla
sedia e si girò verso il prigioniero seduto sul tavolaccio della
cella. Lo fissò negli occhi e un brivido improvviso gli corse lungo
la schiena. I ricordi rischiarono di travolgerlo e le mani
cominciarono a tremargli. Si sforzò di mantenere il controllo e
fece un respiro profondo. «Cosa hai da dire?» chiese al
prigioniero. L’uomo si alzò e fissò il gruppo davanti alla sua
scrivania da dietro le sbarre di legno.
«La donna dice che le ho rubato i soldi,
quindi sono corso in strada e sono stato preso dai tuoi soldati,
giusto?»
«Sì, secondo quello che mi hanno detto»
confermò Oranus. «Vorresti dirmi che...?»
«Chiedile quante monete ci sono nel
borsellino.»
«L’hai sentito» la esortò Oranus. «Quanto
c’era nel borsellino?»
«Oh, intorno alle venticinque monete d’oro»
disse lei. «Forse trenta. Non ricordo esattamente.»
«Ci sono trentadue monete d’oro, tre mezze
monete d’argento e cinque monete di rame» elencò tranquillamente il
prigioniero. «E non ti sembra decisamente notevole che io abbia
avuto il tempo di contarle tutte, mentre scendevo le scale di corsa
e uscivo in strada?»
«Già, notevole» ammise Oranus, mentre si
girava fissando con sguardo glaciale la prostituta. «Quindi tu gli
hai rubato il sacchetto. Sai che per questo reato c’è la
fustigazione, Roxy. Cinquanta frustate.»
«Volete credere alla parola di quell’uomo
piuttosto che a quella di una donna d’affari che paga le tasse?»
urlò la donna, con gli occhi colmi di paura.
«Non alla sua parola, puttana! Alla sua
aritmetica.»
«Io non so nulla di nessun furto» si schernì
Nestar, alzando le mani. «Come voi ben sapete, io sono il padrone
di un locale onesto.»
«So quali sono i tuoi affari» commentò
Oranus, continuando a fissare gli occhi spaventati della donna dai
capelli rossi.
«Non posso sopportare di essere frustata
nuovamente» piagnucolò la prostituta, arretrando verso la porta.
«Morirei.»
«Forse avresti dovuto pensarci prima di
derubarlo» la ammonì Oranus.
«Non voglio che venga frustata» disse il
prigioniero. «Posso dire la mia?»
Oranus sentì un’ondata di sollievo che gli
alleviò il mal di testa. Se il barbaro non voleva sporgere denuncia
tutta la storia sarebbe stata dimenticata e il suo ufficio sarebbe
tornato un luogo tranquillo. Non avrebbe dovuto compilare rapporti
e portare avanti ulteriori indagini. Avrebbe potuto togliersi il
piastrone della corazza, entrare nella cella, sdraiarsi sul
tavolaccio e chiudere gli occhi. Spostò la sua attenzione dalla
prostituta al prigioniero, continuando a mantenere lo sguardo
severo. «Il borsellino era il tuo» disse infine. «Il crimine è
stato commesso ai tuoi danni, non contro una proprietà della città.
Se sei contento che la cosa venga dimenticata, allora c’è ben poco
che io possa fare.» Cercò di sembrare dispiaciuto e gratificò la
prostituta con un sguardo che la fece rimpicciolire.
«E io?» chiese l’uomo con le schegge nella
fronte. «Mi ha scagliato da una finestra!»
Oranus fece un sorriso tetro. «Hai ragione»
affermò. «Bisognerebbe istituire un processo pubblico. Potresti
comparire e spiegare come mai ti trovavi nella stanza di una
prostituta quando sei stato assalito da uno sconosciuto. Vediamo»
disse, aprendo un cassetto della scrivania. «La corte si dovrebbe
riunire domani a mezzogiorno.»
«Non voglio comparire davanti alla corte»
mugugnò l’uomo.
«E tu, Nestar?» chiese Oranus. «Vuoi
comparire davanti alla corte?»
Il pappone scosse la testa.
«Bene» disse Oranus. «Fuori tutti! E tu,
Roxy, se ti riportano da me ti faccio impiccare.»
La donna fuggì rapidamente dall’ufficio
imitata dagli altri uomini. Oranus aprì la cella e tolse le manette
dai polsi del prigioniero. «Da dove vieni?» gli chiese.
«Nord.»
«Rigante?»
«Sì.»
«Sei piuttosto lontano da casa.»
«Mi piace viaggiare.» Il giovane prese il
borsellino e lo legò alla cintura.
«Perché non hai voluto che venisse frustata?»
gli chiese Oranus. «Se lo sarebbe meritato e tu lo sai.»
«È stata una buona compagnia» rispose il
giovane, sfoderando un largo sorriso. «Ed è colpa mia se mi sono
addormentato. Posso andare?»
«Dipende da dove. Hai degli amici ad
Accia?»
«Sono con il generale Appius, ci ospita
perché un mio amico ha la febbre.»
«Ah, Appius! Ho sentito che era arrivato.
Solo gli dèi sanno come mai è finito in questo buco infestato dai
topi.» Oranus fece un respiro profondo. «È meglio che te ne vada»
gli consigliò. «Presto sarà buio e alle genti delle tribù non è
permesso andare in giro dopo il coprifuoco. E guardati le spalle.
Il pappone, Nestar, potrebbe aspettarti. Hai molto oro
addosso.»
L’uomo sorrise nuovamente. «Non lo farà.» E
uscì. Oranus si avvicinò alla porta e tirò il chiavistello per
chiuderla, quindi si tolse il piastrone della corazza e si sdraiò
sul tavolaccio della cella.
Il giorno dopo si sarebbe recato da Appius
per porgergli i suoi rispetti. Chiuse gli occhi e ricordò la
sanguinosa ritirata da Codgen Field. E con i ricordi giunse anche
la tremenda paura che aveva cominciato a perseguitarlo da quel
giorno. Un sentimento che aveva bruciato la sua ambizione e corroso
il suo coraggio. Con gli occhi della mente rivide lo schieramento
infranto, le spade che fendevano l’aria, sentì le urla soffocate
dei compagni morti con la gola tagliata o che cadevano mutilati.
Era stato come se una moltitudine di diavoli in forma umana, con i
corpi pitturati di blu e gli occhi dallo sguardo ferale fosse
scaturita dalla nebbia. Oranus tremò. Era stato fortunato. Lui e
circa una quarantina di uomini in preda al panico erano riusciti a
raggiungere la retroguardia organizzata da Appius, dopodiché erano
arretrati combattendo fino al campo fortificato che avevano eretto
la notte prima. Erano stati sotto attacco per tutta la notte, ma
Appius aveva gestito la difesa con molta abilità. Il nemico si era
ritirato.
Ma il terrore non era diminuito.
Mentre attendevano sugli spalti di terra
avevano visto che il nemico aveva puntato contro di loro tre delle
catapulte che avevano catturato. In principio nessuno aveva avuto
paura perché non c’erano pietre da scagliare, ma il nemico aveva
ben altre intenzioni. Avevano riempito i cesti di teste tagliate e
le avevano fatte piovere sul campo. Entro la mattina lo spazio
libero all’interno delle mura ne era pieno.
Alle prime luci dell’alba un cavaliere in
sella a un destriero grigio si era avvicinato alle mura fermandosi
fuori dalla portata degli archi. Oranus e gli altri difensori
l’avevano fissato. Quello era Connavar, il Re Demonio. L’avevano
visto combattere come un posseduto il giorno prima. Aveva ucciso e
mutilato senza requie. Ora era seduto in sella al cavallo con il
mantello a scacchi che sventolava agitato dalla brezza mattutina.
Appius era salito sugli spalti con passo deciso, era rimasto
silenzioso per un attimo, quindi aveva lanciato un’occhiata a
Oranus.
«Seguimi» gli aveva ordinato. Con orrore e
paura, Oranus l’aveva osservato scavalcare gli spalti e scendere
lungo la trincea, dopodiché, in compagnia di altri due uomini,
l’aveva seguito con passo incerto.
Appius aveva camminato lentamente con le mani
serrate dietro la schiena come se stesse facendo una passeggiata.
Oranus l’aveva guardato e aveva visto che il volto del generale non
era spaventato. Una volta raggiunto il cavaliere, Oranus aveva
alzato gli occhi. L’uomo davanti a lui indossava un elmo sormontato
da una piuma bianca. I lineamenti del volto erano interamente
nascosti dalla celata, solo gli occhi erano visibili. In qualche
modo gli era sembrata una creatura inumana. Oranus si era
concentrato sulla spada infilata nel fodero che pendeva dal fianco
dell’uomo.
«I tuoi uomini combattono bene, Connavar»
aveva sentito dire da Appius.
Il re dei Rigante aveva ignorato il
complimento e, quando aveva risposto, la sua voce, distorta
dall’elmo, era echeggiata nell’aria, metallica e fredda. «Hai due
scelte, Appius. Puoi rimanere e venire distrutto oppure puoi
riportare i tuoi uomini nelle terre dei Cenii. Se mi darai la
parola che non ti fermerai finché non avrai raggiunto il mare, ti
permetterò di andartene indisturbato e ti fornirò delle provviste
per il viaggio.»
«Ci restituirai il corpo di Valanus?»
«Dubito che potrei raccoglierne i pezzi o
riconoscerli» aveva risposto Connavar.
Oranus aveva sentito le gambe che gli
tremavano ed era quasi svenuto dalla paura.
«Allora faremo come hai detto, Connavar, ma
dentro il forte ho dei feriti gravi. Avrò bisogno di alcuni carri
per portarli via.»
«Li avrai. Siate pronti a partire entro
un’ora.»
«Avrò bisogno di un po’ più di tempo per
seppellire le teste che ci hai... restituito.»
«Due ore, allora» aveva concesso Connavar. Il
re aveva girato il cavallo ed era tornato al suo esercito.
Oranus si era rivolto al generale. «Se
lasceremo il forte, signore, ci massacreranno sicuramente.»
«Forse, anche se ne dubito. Connavar è uno
stratega astuto, ma è anche un uomo di parola.»
«Perché allora ci lascia andare via?»
«Perché, anche se ha vinto la battaglia, ha
subito molte perdite. Ogni attacco deciso contro di noi
significherebbe perdere tre dei suoi uomini per uno dei nostri.
Certo, vincerebbe, ma non arriverebbe a nulla. In questo modo, noi
ce ne andremo con la coda tra le gambe e ogni sopravvissuto parlerà
del Re Demonio dei Rigante. Porteremo la sua leggenda a casa e si
propagherà come una pestilenza. Il prossimo esercito che si
avventurerà in queste terre lo farà con il terrore nel
cuore.»
La marcia verso la costa era stata lunga,
lenta e dolorosa. Molti dei feriti erano morti nel tragitto ed
erano stati seppelliti lungo il margine della strada. I Keltoi si
erano radunati per vedere i perdenti che si dirigevano verso il
mare.
Per Oranus quella era stata la fine di una
brillante carriera. Nel corso degli anni aveva passato ben poche
notti senza avere degli incubi: sogni terribili in cui teste
mozzate lo chiamavano o spade acuminate gli trafiggevano le
carni.
Se non fosse stato per l’abilità di Appius
egli sarebbe morto a Codgen Field.
Oranus sospirò. La parte migliore di me è
morta laggiù, pensò tristemente.
Banouin, sdraiato nel letto, sentiva il
braccio fratturato che pulsava e la testa che gli faceva male, ma
quei dolori non erano nulla in confronto al terrore che lo
attanagliava. Aveva creduto di conoscere la vera natura della
paura, essere inseguito, tormentato, picchiato e minacciato, ma
adesso sapeva di averne scalfito solo la superficie. Aveva provato
le paure causate da forze esterne a lui, come Forvar e i suoi
amici. Niente di quello che aveva provato avrebbe potuto prepararlo
a quello che aveva scoperto.
Banouin si era sempre sentito al sicuro
all’interno della sua mente, ma ora era come se nel suo cranio si
fosse aperto un cancello attraverso il quale egli poteva cadere in
ogni momento, precipitando in un pozzo di paura senza fondo dal
quale non ci sarebbe stato ritorno. Anche in quel momento sentiva
il richiamo di quell’abisso, era come se fosse sul bordo di un
precipizio e stesse per perdere l’equilibrio. Tremò e si sedette
tirandosi le coperte intorno alle spalle. Non mi sarei mai dovuto
avventurare nell’acqua, si disse. Ecco cosa ha scatenato
tutto.
Vorna gli aveva sempre detto che un giorno o
l’altro il suo Talento sarebbe venuto a galla ed egli avrebbe
sviluppato delle capacità che andavano ben al di là di quelle degli
uomini comuni. Banuoin aveva sempre aspettato con ansia quel giorno
ma, dato che le sue capacità continuavano a non manifestarsi, si
era rivolto a Fratello Solstizio esponendogli il problema. Il
druido aveva fatto una passeggiata sulle colline e si era fermato a
casa loro per rinfrescarsi. Banouin l’aveva avvicinato mentre si
spruzzava l’acqua sul volto e la barba bianca per poi passarsi le
mani bagnate tra i capelli striati di grigio. Uomo gigantesco dalle
spalle possenti e i fianchi robusti, Fratello Solstizio somigliava
molto di più al guerriero che un tempo era stato piuttosto che al
druido che aveva deciso di diventare.
Banouin gli aveva fatto delle domande su come
sviluppare il suo Talento. Fratello Solstizio si era seduto sulla
panca sistemata sotto la grossa quercia e gli aveva fatto cenno di
raggiungerlo e accomodarsi al suo fianco. «Perché vuoi questi
poteri?» gli aveva chiesto.
«Perché tutti li vogliono, Fratello?» aveva
ribattuto lui.
«Pensi che ti faranno diventare speciale e
che ti permetteranno di guadagnarti il rispetto tra la tua
gente?»
«Certo. E deve essere stupendo vedere il
futuro o leggere i pensieri di un uomo.»
«Perché dovrebbe essere stupendo?» gli aveva
domandato il druido.
«Saprei subito se un uomo ha intenzione di
farmi del male.»
«Capisco. Quindi tu pensi che questi poteri
possano essere utili solo a te?»
«Oh no, Fratello, potrei usarli per un buon
fine.»
«E la gente ti sarebbe grata e ti coprirebbe
di lodi. Forse, diventeresti un grande uomo.»
«Sì. È sbagliato?»
Il druido aveva scrollato le spalle. «Cerco
sempre di evitare di esaminare una questione in base al giusto o
allo sbagliato. Mi sembra sempre che siano due concetti che variano
in base ai punti di vista. Quello che è giusto per una persona può
essere sbagliato per un’altra. Il Talento che cerchi è un dono
della Fonte e tali doni sono come i semi: piantati nel terreno
giusto cresceranno floridi, se cadono su una roccia seccheranno e
moriranno. Sei pietra o terra, Banouin?»
«Come faccio a dirlo?»
Il druido sorrise. «Guarda le tue azioni e
come conduci la tua vita.» Il druido si era alzato in piedi, gli
aveva dato una pacca gentile sulla spalla ed era andato via.
Ora, a un anno di distanza, Banouin sapeva la
risposta. Era stato una pietra. Ricordò le parole che Flagello gli
aveva detto poco prima che salvassero Lia e il padre dal fiume.
«Non riesci proprio a capire, vero? Hai passato tutta la vita a
lamentarti che non piaci alla gente, ma quando mai hai fatto
qualcosa per piacere? L’anno scorso, dov’eri mentre il granaio di
Nian andava a fuoco e tutti sono corsi per cercare di salvarlo? Sei
stato a casa. Mentre noi tornavamo a Tre Torrenti, coperti di
fuliggine e cenere, tu sei arrivato bello pulito. Tanto valeva che
tenessi in mano un cartello con su scritto: ‘Non me ne importa
nulla di voi e dei vostri guai’. Un giorno ti renderai conto che
sei quello che sei perché tu scegli di esserlo. Ha ben poco a che
fare con il sangue.»
Aveva ragione. Quando si era avventurato nel
torrente per salvare Lia e Appius aveva messo la sua vita a
repentaglio per gli altri. Era stato l’atto altruistico che aveva
aperto i cancelli della sua mente. Ora desiderava con tutto il
cuore di essere rimasto sulla sponda del fiume. Il dono non era per
niente meraviglioso. Tutto quello che riusciva a vedere, quando i
suoi occhi interiori spaventati sbirciavano oltre il cancello, era
solo morte e violenza.
E dopo vedeva quel volto piatto e
inespressivo con gli occhi chiari che non conoscevano la pietà.
L’uomo era alto e robusto, indossava un’armatura nera e argento e
portava una spada brillante che grondava sangue. Nessuno poteva
resistergli poiché era il più grande assassino mai vissuto, veloce
e letale. Banouin poteva vedere una folla di migliaia di persone
osannare il suo nome. Poi la scena cambiava e lo stesso uomo, in
compagnia di altri due individui che indossavano un’armatura simile
alla sua, era sulla prua di una nave intento a fissare le onde
grigie. Sta venendo qua, pensò Banouin. Sta venendo qua per
ucciderci tutti. Fu colto dalla disperazione e cominciò a
piangere.
Flagello aveva quasi raggiunto la casa di
Barus quando sentì un rumore alle sue spalle. Si girò e vide le due
canaglie che fino a poche ore prima avevano lavorato per il pappone
di nome Nestar. Entrambe erano armate di coltelli.
Il primo gli corse incontro e tentò un goffo
affondo alla pancia di Flagello. Questi lo parò con il braccio
sinistro, quindi gli diede una gomitata sul volto con il destro
mandandolo a terra. Cadendo, l’uomo finì tra le gambe del suo
compagno che inciampò. Flagello gli spostò la gamba con un calcio,
lo fece cadere a terra dopodiché si appoggiò contro il muro e
scosse la testa.
«Per Taranis, siete i ladri più goffi che mi
sia mai capitato di vedere. Volevate farvi uccidere?»
«Mi ha roddo il nazo» disse il primo, con
parole orribilmente distorte. Si sedette e cercò di bloccare il
flusso di sangue che scendeva dalle narici.
«Ti avevo detto di passare largo» lo
rimproverò il secondo uomo, strofinando una mano sul ginocchio
escoriato. «Non te l’avevo detto? Passa largo sulla destra e lascia
che sia io a fare un affondo pulito.»
«Il mio nazo!» si lamentò il primo
uomo.
«Dove avete imparato questo lavoro?» chiese
loro Flagello.
«Non è un lavoro» disse il secondo uomo.
«Siamo senza soldi. Nestar ci ha mandati via e abbiamo pensato di
rubarti l’oro.»
«Beh, ci avete provato» disse Flagello,
quindi aprì il borsellino, prese due monete d’argento e le lanciò
alla coppia di assalitori. Stupefatto, il primo uomo lasciò cadere
la moneta, quindi la raccolse da terra. Il secondo l’afferrò al
volo. «Trovatevi un lavoro» li avvertì Flagello. «Cosa siete capaci
di fare?»
«Lavoravamo la campagna per nostro padre»
spiegò il secondo uomo. «Avevamo una piccola fattoria. Quando
arrivarono i soldati di Stone gli dissero di andarsene, egli
rifiutò e fu impiccato. Abbiamo firmato come marinai, ma Durk ha
passato tre mesi con il mal di mare e così ci siamo messi a
lavorare per Nestar. Andava tutto bene finché non sei arrivato
tu.»
«Non guardate mai il lato negativo delle
cose» disse loro Flagello, in tono allegro. «Pensateci bene: un
giorno potreste incontrare qualcuno che non è buono come me e
potrebbe piantarvi un coltello nella pancia.»
«Quesdo è vedo» disse il primo uomo, il cui
naso cominciava a gonfiarsi vistosamente.
«Trovatevi un lavoro in una fattoria. Un uomo
dovrebbe sempre fare quello che gli riesce meglio e, credetemi
ragazzi, non siete tagliati per fare i ladri.»
Così dicendo Flagello si allontanò lungo il
viottolo. Il cancello laterale era chiuso, quindi decise di
scavalcare il muro. Una volta raggiunta la cima, saltò nel
giardino. Lia era seduta su una panca ricurva e quando lo vide gli
sorrise. Flagello sentì, con sua somma sorpresa, il fiato mozzarsi
in gola e il cuore battere più forte.
«Perché non hai chiamato?» domandò lei. «Ti
avrei aperto il cancello.»
Egli scrollò le spalle. «Era più facile
scavalcare. Come sta Banouin?»
«La febbre è scomparsa, ma ha uno sguardo da
spiritato. Quando mi sono seduta vicino a lui ha alzato le mani e
mi ha spinta via, quindi ha cominciato a tremare e a piangere. Dice
che partirà entro domani. Mio padre gli ha fornito delle lettere di
referenza e vi ha prenotato un passaggio su un mercantile diretto a
Goriasa. Parte domani al tramonto.»
«Non c’è molto tempo per conoscerci allora»
disse Flagello sedendosi al suo fianco. Le labbra della ragazza
erano umide e brillavano alla luce della luna.
«Mi stai fissando» disse lei.
«Chiedo scusa. Sono un ragazzo di montagna
che non è abituato a tanta bellezza.»
La ragazza rise divertita. «Questo
complimento è scivolato un po’ troppo facilmente fuori dalla tua
bocca. Penso che siate un mascalzone, signore.»
«Un mascalzone ti chiederebbe sicuramente un
bacio» rispose lui.
«E tu lo sei?»
«Lo sono, in effetti.» Si inclinò in avanti e
appoggiò, leggero, le sue labbra su quelle della ragazza, quindi si
ritrasse e fece un profondo respiro. «Avresti dovuto darmi uno
schiaffo» le disse.
«Perché?»
«Per la mia impertinenza.»
«Come fai a sapere che non era quello che
desideravo? Come fai a sapere se io non mi sono seduta qua apposta
in attesa del tuo ritorno?»
«L’hai fatto?»
«No» gli rispose lei, sorridendo «però avrei
potuto farlo.»
Flagello rise genuinamente divertito. «Dovrei
essere veramente un mascalzone se seducessi la figlia del mio
ospite, quindi mi accontenterò dei piaceri della tua
compagnia.»
«Dovrai goderti i piaceri anche della mia, di
compagnia» sbuffò Appius, sbucando da una porta laterale.
«Sono sicuro che sarà ugualmente piacevole»
disse Flagello. Lia si alzò dalla panca, gli diede un rapido bacio
e andò via.
Flagello la fissò notando il modo in cui i
fianchi ondeggiavano sotto la tunica di cotone. «È bellissima»
proclamò, mentre Appius si sedeva al suo fianco.
«Sì, lo è. È il mio tesoro, Flagello. Lia è
dolce, coraggiosa e folle. Proprio come la madre.» Appius rimase in
silenzio per un momento. «Fu bruciata nell’arena insieme ad altri
cinquanta eretici. Mi hanno detto che il fumo delle pire li ha
fatti svenire prima che le fiamme li divorassero, ma anche così è
un modo brutale per morire.»
«Cosa sono gli eretici?» indagò
Flagello.
Appius agitò una mano in aria. «Religione,
ragazzo. Tutte insulsaggini. Mia moglie si infatuò del Culto
dell’Albero, un gruppo che a Stone è considerato fuorilegge. Essi
parlano di raggiungere l’armonia con la terra e tutti i popoli del
pianeta. Venerano la Fonte di Ogni Cosa, un essere la cui debolezza
è tale che non riesce a salvare neanche uno dei suoi seguaci. Ci
piscio sopra! Lia doveva essere arrestata, come la madre, ma io
l’ho portata via da Stone. Purtroppo non sono riuscito ad
allontanarla prima che insultasse pubblicamente Nalademus,
l’anziano di Stone, chiamandolo vecchio stupido e presuntuoso. Ho
visto gli occhi di quell’uomo e l’odio che ardeva in essi.»
«E questi anziani possono ordinare di
uccidere qualcuno?» chiese Flagello.
«Certo che possono. Anche se danno loro una
bella armatura e un nome nobile, si servono di assassini. I
Cavalieri di Stone. Uomini duri, letali. Arrestano le persone, le
trascinano fuori dalle loro case e le portano al cospetto degli
anziani che le processano.»
«E l’imperatore permette tutto ciò?»
«Perché non dovrebbe? La maggior parte degli
arrestati erano dei sostenitori della vecchia repubblica e tutti
erano contrari all’uso della guerra come mezzo d’espansione
dell’impero. Il Culto dell’Albero crede che tutte le guerre siano
una malvagità.»
«Che follia» disse Flagello. «Senza le guerre
non ci sarebbe nessuna gloria.»
«Esattamente! E cosa sarei stato io, eh? Un
calzolaio? Un fabbro? Ma ho portato qua Lia perché fosse al sicuro
in attesa della caduta dei Preti Cremisi. Dopo potremo tornare a
Stone.»
«Chi adorano quei preti?» chiese
Flagello.
«Stone. Dicono che la città è un dio, eterno
e sacro. Tutti gli altri dèi sono falsi, le creazioni di persone
deboli.» Fissò gli occhi di Flagello. «Chi adori, ragazzo?»
«Nessuno. La mia forza, forse. E tu?»
«Credo che ci sia un potere molto più grande
dietro quello dell’uomo. Devo crederci, altrimenti non siamo altro
che parassiti che corrono di qua e di là senza uno scopo. Comunque
la mia filosofia si ferma qui. Vi ho prenotato un passaggio per
domani. Banouin si è offerto di portare delle lettere per me. Se
vuoi ne scriverò una anche per te con la quale potrai trovare un
posto dove stare.»
«Troverò un posto dove stare, generale. Non
ti preoccupare perché non mi fermerò a lungo. Ho promesso alla
madre di Banouin che l’avrei portato fino alla città. Lo farò,
quindi tornerò a casa. Mi mancano le montagne.»
«Mi sarebbe piaciuto vedere le montagne dei
Rigante» disse Appius. «Mi hanno detto che sono stupende.»
L’espressione del vecchio divenne triste. «Temo che sarà quello che
faranno i miei successori quando l’esercito di Stone marcerà a
nord.»
«Non avete imparato la lezione a Codgen
Field?»
«Stone non impara nessuna lezione» disse
Appius, sospirando. «Siamo un popolo afflitto da un’arroganza
colossale. Jasaray ha avuto altre cose di cui occuparsi dopo Codgen
e Connavar è stato abbastanza furbo da restituirgli gli stendardi
delle pantere. Jasaray disse alla gente che quello era stato un
atto di contrizione e fece in modo di far ricadere tutta la colpa
sulla testa di Valanus, ma Jasaray non ha dimenticato i Rigante,
Flagello. Di questo puoi stare certo. In questo momento sta
combattendo un guerra a est, ma quando sarà terminata marcerà
contro Connavar.»
«Il risultato sarà lo stesso» disse Flagello,
freddo.
«Posso capire cosa ti porta a pensarlo, ma io
sono un vecchio soldato e non sono d’accordo con te. Valanus era
avanzato troppo in profondità e troppo velocemente. Aveva solo
cinque pantere, quindicimila uomini. Quando cominciò la battaglia
non ricevevano più rifornimenti da cinque giorni e anche così hanno
ucciso sedicimila uomini delle tribù. Jasaray non arriverà con
dodicimila uomini. Probabilmente ne porterà quarantamila e li
guiderà lui stesso.»
«È un vecchio» ringhiò Flagello.
Appius sorrise e scosse la testa. «Ah, la
stupenda arroganza della giovinezza! Sì, è un vecchio, ragazzo, ma
è un vecchio che non ha mai perso. Un generale non ha bisogno dei
rapidi riflessi della gioventù per carpire un’apertura nello
schieramento avversario o per saper leggere il flusso e il riflusso
di una battaglia. Quello di cui un generale ha bisogno sono
bravura, esperienza e nervi d’acciaio. Jasaray ha tutte queste
qualità. Non si farà privare degli approvvigionamenti. Si muoverà
lentamente e con moltissima attenzione. Goditi pure le tue
montagne, mentre sono ancora dei Rigante.»