MAX
«Dobbiamo portarla in ospedale» strilla Shelly che è la sola a essere uscita completamente illesa dallo scontro.
Chi ci ha investiti è fuggito appena ha potuto, abbandonando un’auto fumante, mentre la mia è ferma in mezzo al traffico paralizzato dall’incidente.
Qualcuno grida di chiamare la polizia e la cosa mi preoccupa nell’immediato.
Cristo!
Mi volto a cercare Liam che scuote il capo stordito, ma è più sveglio ora di quando era brillo o strafatto.
E io cosa faccio in tutto questo tempo confuso?
Appena ammaccato e con la fronte sanguinante guardo lei, riversa a metà tra suolo e sedili dell’auto, grazie alla portiera che si è aperta probabilmente durante l’impatto, e ha sbalzato fuori il suo corpo per metà.
Sembra morta. Potrebbe essere morto.
Cristo, fa’ che non sia morta!
Ho il cuore fermo e non riesco a muovere un muscolo.
Se lei fosse morta, io farei saltare in aria l’intera città.
Nessuno si salverebbe dalla mia furia.
Se lei fosse morta, io distruggerei anche Dio.
Liam si è ripreso, e dice a tutti che chiama lui i soccorsi e di stare indietro, anche se i curiosi non lo stanno a sentire e poi finge di avviare la chiamata.
Dico che finge perché lo so, lui è al corrente di quanto dobbiamo evitare a ogni costo le forze dell’ordine e i dottori.
Ma questo va fatto anche se si tratta della vita di Lydia?
Non osate portarmela via!
Shelly si avvicina tremolante, non è ferita ma non ne posso essere così sicuro, nonostante la resistenza dell’auto abbiamo subito una bella botta: è quasi distrutta.
«Respira ma è svenuta» mi dice la sua amica e, per fortuna, un istante dopo vedo Lydia muoversi.
«Dobbiamo andare via da qui» sentenzio ancora, anche se non so più se sia la cosa giusta.
Lei o me? Io o lei?
Dovrei direi io, meglio me stesso come sempre, ma stavolta…
«Deve essere visitata, ha bisogno di un ospedale, siete pazzi, per caso?» mi urla dietro quella Shelly e so di doverla mettere a tacere.
Se qualcuno riconoscesse Lydia, poi, sarebbe la fine.
Mi avvicino a Shelly e l’afferro per un braccio con poca delicatezza e pochi complimenti. Stringo forte, aprendo appena il giubbotto e mostrandole la migliore amica che è sempre con me. Lei sbarra gli occhi.
«Ti devi fidare di me adesso, va bene? Niente ospedali, a lei ci penso io!» Quella annuisce spaventata e io raggiungo Lydia.
La tiro su e ammicco al mio amico di mettersi al volante: se la macchina riparte sarebbe una grande cosa portarla via da qui, quindi ci deve almeno provare.
«Ehi, Lydia, guardami. Come ti senti? Va tutto bene, okay? Ora ti porto via. Ci penso io a te» le dico.
Tremo al pensiero di perderla, soffro al pensiero di quello che le ho fatto. Per la mia bramosia di averla con me, per la mia ossessione, l’ho quasi uccisa.
Dovevo lasciarla alla sua maledetta festicciola, dovevo permetterle di sposarsi con quell’impostore: è la cosa migliore per lei, la più sicura.
Sono sempre io il maledetto guaio.
Io che porto la morte.
Alle volte sospetto di essere la morte in persona.
«L’auto parte?» l’auto è una merda, penso maledicendomi. Liam annuisce, così m’infilo nel sedile posteriore e ammicco a Shelly di sedere davanti.
Poi guardo Lydia e me la tiro vicina. La prendo tra le braccia per scaldarla perché la serata è fresca e lei sanguina dalla fronte.
Proprio come me, solo che è conciata proprio male e non saprei dire se ha qualcosa di rotto o di grave. Devo portarla in ospedale, non c’è egoismo che tenga.
L’auto che ci ha tamponati cu ha colpiti posteriormente, proprio dove si trovava Lydia. L’ha presa in pieno, insomma.
Non posso fare a meno di pensare che se l’avesse presa per bene, che se avesse centrato la sua posizione, l’avrebbe uccisa.
«L’auto va» la folla ci accerchia ma Liam mette in moto e il traffico già ripartito ci aiuta.
Qualcuno grida, si mette a piovere e io sono ghiacciato come se fosse il peggior inverno dell’Alaska.
Stringo Lydia al cuore sentendomi un’idiota e capendo per la prima volta nella vita cosa significhi avere paura, e la cosa fa schifo.
Mi fa stare fisicamente male.
Mi chino verso il suo volto che mi sono poggiato sul petto e la bacio tra i capelli.
«Dimmi che stai bene…» mormoro mentre Liam guida la macchina ancora un po’ ubriaco e Shelly trema senza avere il coraggio di parlare. Non si volta più neppure per chiedere come stia l’amica, è terrorizzata.
«Sto bene, Max» biascica un attimo dopo la mia ragazzina e io tiro un sospiro di sollievo. «Sento male alla testa e alle costole».
«Ci penso io a te».
«Si può sapere chi diavolo siete?» soltanto adesso la sua amica ha il coraggio di chiederci qualcosa e lo fa in modo isterico, tenendosi aggrappata al cruscotto.
«Amici» ribatte Liam ma io gli parlo sopra, «Criminali»
Lydia muove la testa e m’inchioda con il suo sguardo di luna iniettato di sangue.
«Cosa?» fa l’altra sbalordita.
«Taci, Shelly, ci possiamo fidare di loro. Ora solo… sta’ soltanto zitta» le mormora Lydia prima di abbandonarsi a me.
Se scopro il responsabile dell’incidente lo faccio in così tanti pezzettini che nessun medico legale pur possedendoli tutti riuscirà mai a ricomporlo per scoprire la sua identità.
«Dove, capo?»
«Da Royle» ribatto stringendo Lydia a me con fare possessivo e ristoratore.
Io, che non sono mai stato la serenità di nessuno, che non sono in grado di esserlo, ma in questo momento spero di esserlo per lei e la sua paura, per il suo dolore.
Voglio essere il suo tempio, il suo santuario.
Liam annuisce.
L’auto borbotta ancora per i primi chilometri ma poi parte e slitta sull’asfalto come sempre.
«Chi è Royle?» Lydia mi afferra la maglietta che sta sotto la giacca e ci si aggrappa come una bambina prima del sonno. Odio i bambini ma il suo gesto mi piace, sta aggrappata a me come se potessi salvarla soltanto io… e io non ho mai salvato nessuno, io di solito sono quello che distrugge.
«Il miglior medico che io conosca» la rassicuro stringendola a me, mentre ci allontaniamo dal cuore della città.
E per la prima volta nella mia miserabile vita io mi sento qualcosa per qualcuno, mi sento utile e ho voglia, ho dannatamente, disperatamente voglia di essere migliore per lei.
Che cosa spaventosa.