A alegria é a prova dos nove. In un mondo dominato dalla serietà razionale, dalla frenesia insensata del lavoro stressante, dalla triste e monotona gabbia dell’organizzazione fordista, «a alegria é a prova dos nove» come dice il manifesto antropofago di Oswald de Andrade, che vedremo fra poco. Niente di più sovversivo, antagonistico dell’ozio creativo in una società efficiente; niente di più spiazzante di un’attività in cui lavoro, studio e gioco, invece di restare rigidamente separati come impone la liturgia industriale, osano fondersi tra loro. Ozio creativo significa triplicare il tempo, valorizzarlo, dargli più spessore, consistenza e bellezza, rendendo la nostra vita più densa di sensazioni e significati. Ozio creativo è ciò che gli indios apprendevano fin dalla nascita in un contesto affrancato dal problema economico; è ciò che Michelangelo ha fatto senza sosta fino a novant’anni e che Aleijadinho ha portato a termine legando martello e scalpello ai suoi moncherini rosi dalla lebbra.
L’esempio più sorprendente di «ozio creativo» è rappresentato dal carnevale brasiliano: fonte insuperata di prorompente allegria, di sapiente organizzazione, di creazione di valore. Ma anche occasione di liberazione, rivolta, sfrontatezza, digressione, trasgressione. Richiesta senza umiliazione, pretesa senza sconti, minaccia senza crudeltà, confronto senza timidezza, rivendicazione senza paura, organizzazione senza stress, il carnevale brasiliano è forse la più alta e la più allegra rivolta incruenta di tutti i tempi che, secondo Jorge Amado, «esprime l’ansia della libertà e l’identificazione nazionale».
Economisti, sociologi, antropologi hanno cercato di scomporre, decodificare, comprendere questo sistema, quasi miracoloso nell’apparente semplicità del suo meccanismo organizzativo, in cui gli individui, i gruppi, le scuole di samba, i quartieri si confrontano tra loro e, al tempo stesso, si raccordano con l’intera comunità finalmente libera di dimostrare come saprebbe vivere se non fosse inchiodata alla miseria, allo sfruttamento, alle procedure burocratiche, alle gerarchie, al consumismo.
Il carnevale brasiliano nelle sue diverse versioni locali, oltre a rappresentare l’esempio più compiuto di ozio creativo, assume anche la valenza di trasgressione consentita e autogestita in cui confluiscono e si mescolano produzione di senso e produzione di ricchezza, allegria e apprendimento, pluralismo e identità. Ma, a volte, anche protesta esplicita, come quando il gruppo di protesta blocos afro di Bahia ha introdotto nelle musiche del carnevale le sue forme di rivolta sociale e razziale.
Come definire il carnevale? L’antropologo Roberto Da Matta risponde a questa domanda nel suo libro O que faz o brasil, Brasil:
Non sarebbe esagerato dire che è un’occasione in cui la vita quotidiana cessa di essere operativa e, a causa di questo, viene inventato un momento straordinario. Ossia, come tutte le feste, anche il carnevale crea una situazione in cui certe cose sono possibili e altre debbono essere evitate. Non ci può essere un carnevale triste come
non ci può essere un funerale allegro... Sappiamo che il carnevale è definito come «libertà», come possibiltà di vivere un’assenza fantasiosa e utopica di miseria, lavoro, obblighi, peccato e doveri. In una parola, si tratta di un momento in cui si può smettere di vivere la vita come fardello e come castigo. È, in fondo, la possibilità di fare tutto al contrario: vivere e avere un’esperienza del mondo come eccesso – ma come eccesso di piacere, di ricchezza (o di «lusso» come si dice a Rio de Janeiro), di allegria e di riso, di piacere sensuale finalmente alla portata di tutti... Un universo sociale la cui regola consiste nel praticare sistematicamente tutti gli eccessi.
In un Paese – dice DaMatta – dove tutto è codificato e suddiviso in base al nome della famiglia, al titolo di dottore, al colore della pelle, al quartiere dove si abita, al nome del padrino, alle relazioni personali, al fatto di essere amico del re, del leader politico o del presidente, una volta tanto è il popolo che fissa le regole del gioco e le applica con senso di giustizia.
L’auto-organizzazione del carnevale è un caos che ordinatamente si struttura secondo una sua razionalità, grazie alla forte motivazione di tutti coloro che vi prendono parte: come organizzatori, come partecipanti, come spettatori. Fantasia e concretezza, sensualità e androginìa, emotività e razionalità creano un clima esaltante che sublima la fatica rendendola espressiva, la musica rendendola linguaggio, le poche regole rendendole disciplina calibrata, accettata, introiettata. Libertà e piacere, sensualità e peccato sono distribuiti in eguale misura a tutti, senza distinzione di sesso, di età e di condizione sociale. Basta indossare l’abito della sfilata – che non a caso si chiama fantasia – per diventare un re o una prostituta, una schiava o un angelo. Non a caso il carnevale è una locura, cioè una dislocazione da un’entità a un’altra, senza confini di classe o di sesso. Una follia.
L’organizzazione apprende dalla sua propria esperienza; metabolizza le più moderne tecniche costruttive, comunicative, estetiche; include e accoglie azzerando ogni senso di
estraneità in chi partecipa come in chi assiste. Viene preparata meticolosamente durante tutto l’anno, se ne conoscono in anticipo i minimi particolari di tempo, di luogo, dei carri, dei costumi e delle colonne sonore. Ciononostante, quando il carnevale arriva, puntualmente sorprende, lascia annichiliti, trasforma ed esalta trasformando ognuno in un ingranaggio infinitesimale di una folle macchina cubitale.
La festa è impertinente e irriverente ma, al tempo stesso, è dolce e inclusiva. La violenza urbana si regala una pausa, la polizia diventa tollerante e persino affettuosa. La contestazione, quando c’è, impiega l’arma obliqua dell’ironia. L’organizzazione non controlla e costringe ma addomestica seducendo con la fascinazione dei suoni, dei colori, dei corpi e dell’esempio. La sua economia mette in valida sinergia il dono con il profitto.
Se non disponesse di una carica immensa di motivazione, se non vi confluissero fatica, gioco e apprendimento, se non fosse ozio creativo, tutta questa immensa macchina organizzativa – che richiede più persone di quante ne impieghino multinazionali come Ibm e Coca Cola messe insieme, che muove un giro d’affari più imponente della Toyota o della Microsoft – avrebbe bisogno di un apparato immenso e costosissimo di funzionari per reclutare, selezionare, assumere, addestrare, gestire, proceduralizzare, controllare, incentivare, punire. E l’esuberanza creativa, al cui paragone le anemiche sfilate di moda parigine o milanesi appaiono come penosi conati anoressici, resterebbe schiacciata dentro una rigida armatura burocratica di marca aziendale.
Ovviamente, ogni bel gioco dura poco. Altrimenti non è gioco e non è bello. Se l’organizzazione del carnevale dura tutto l’anno, la sua esplosione, il suo orgasmo, il suo vero momento di gioco e di festa felice, come dice la canzone A Felicidade di Vinícius de Moraes, durano solo una settimana: «La felicità del povero / la grande illusione del carnevale / la gente fatica tutto l’anno / per un momento di sogno / per fare la fantasia / di re o di pirata o di giardiniera / e poi tutto finisce il mercoledì».
Secondo Bertrand Russell «l’idea che il povero possa oziare ha sempre urtato i ricchi». Anche in questo il Brasile
è profondamente diverso: durante il carnevale, con orgoglio i poveri offrono ai privilegiati la loro musica, i loro colori e la loro allegria, contagiando i ricchi con l’esplosione della bellezza di volta in volta gioiosa, grottesca, allusiva, seduttiva. E se questo fenomeno esplosivo e pacificatore può ripetersi ogni anno è perché, come dice Jorge Amado, «un popolo meticcio, cordiale, civilizzato, povero e sensibile abita questo paesaggio di sogno». Un popolo spesso povero di risorse materiali ma ricchissimo di cultura, disposto ad accogliere tutti i diversi, a far convivere pacificamente tutte le razze della terra e tutti gli dei del cielo.
Modernismo e antropofagia. Il Novecento si aprì con le celebrazioni del quarto centenario della scoperta, enfatizzate dal libello nazionalista di Afonso Celso Por que me ufano do meu país, perché mi vanto del mio Paese. Ma intanto nuove linfe creative si ribellavano a questa visione per conquistare al Brasile una coscienza critica della sua identità. Nel primo ventennio del secolo le arti confluirono man mano in un magma sempre più provocatorio fino a sfociare nella scuola modernista. La matrice poetica del Portogallo, quella pittorica degli indios e quella musicale dell’Africa si ritrovarono in un medesimo alveo per sorprendere il pubblico e annunziare al mondo che il Brasile era diventato moderno.
Tutto era cominciato qualche anno prima, col romanticismo: la musicalità ossessiva di Antònio Gonçalves, l’indianismo di Gonçalves Dias, le stravaganze di Sousândrade, la morte precoce per tisi di Álvares de Azevedo, Casimiro de Abreu e Castro Alves. Poi fu la volta del parnassianismo con Machado de Assis e del simbolismo con il «cigno nero» João da Cruz e Sousa.
Quando irrompe Augusto dos Anjos che vive «autospiando l’amarissima esistenza», ormai il modernismo è pronto per affrancare la letteratura brasiliana dal modello europeo che finora l’ha tiranneggiata e, allo stesso tempo, per rifiutare «l’accademismo idiota delle critiche letterarie e artistiche dei grandi giornali, la vanità degli pseudoletterati, vuoti, prolissi, installati nella mondanità e nella politica», secondo le accuse al vetriolo del pittore Emiliano Di Cavalcanti. Saranno Mário
de Andrade e poi Oswald de Andrade, di uguale cognome ma non imparentati, a operare questa duplice liberazione letteralmente divorando, metabolizzando, cannibalizzando l’Europa.
Nel febbraio 1922 ebbe luogo a San Paolo, città ormai irrimediabilmente industriale, la Semana da Arte Moderna, un evento che propose a un pubblico esilarato letture di poesie, seminari, musica ed esposizioni. Due anni dopo nacque il movimento smaccatamente nazionalista Pau-Brasil e iniziò il riscatto del meticciato che divenne sinonimo di brasilianità e stile di vita. Del resto, già nel Settecento, un gesuita italiano di nome Andreoni aveva detto che il Brasile era «l’inferno dei negri, il purgatorio dei bianchi, il paradiso dei mulatti e delle mulatte». Quelle mulatte che Tarsila do Amaral immortalerà nel quadro Abaporu e nelle altre sue tele solari cui Oswald de Andrade ispirerà il movimento Antropofagia.
Con l’ironia onnipresente in Brasile, cioè con la più squisita espressione della bontà, il terzo e più celebre de Andrade, Carlos Drummond, dirà: «Archi, musei, cattedrali, il Brasile ha solo cannibali». Proprio il cannibalismo, assunto come attitudine al metabolismo culturale, ispirò il Manifesto antropófago pubblicato da Oswald de Andrade il primo maggio 1928, anche se l’autore lo data Ano 374 da Decludição del Bispo Sardinha, il vescovo che nel 1556 naufragò sulle coste del Nordeste brasiliano e fu fagocitato dagli indios.
Non si può negare che il contenuto del manifesto sia dissacratore. Si leggano questi passaggi: «Solo l’Antropofagia ci unisce. Socialmente. Economicamente. Filosoficamente... Tupy or not Tupy, that is the question... Mi interessa solo ciò che non è mio. Legge dell’uomo. Legge dell’antropofago... Vogliamo una rivoluzione caraibica. Più grande della Rivoluzione francese. L’unificazione di tutte le rivolte efficaci nella direzione dell’uomo... Antropofagia. La trasformazione permanente del tabù in totem... Prima che i portoghesi scoprissero il Brasile, il Brasile aveva già scoperto la felicità... L’allegria è la prova del nove».
La cultura è stata più volte in prima linea nelle grandi vicende brasiliane sia per sottolineare i passaggi cruciali della sua storia, come è appunto avvenuto con il modernismo, sia per realizzare le grandi visioni del potere illuminato, come
hanno fatto Oscar Niemeyer, Lucio Costa e Roberto Burle Marx per la Brasilia del presidente Juscelino Kubitschek; sia per contrastare le spinte reazionarie con la forza liberatrice dell’arte. È questo il caso della musica popolare.
Bossa nova e rock and roll. A un avversario politico che gli rimproverava di dare troppa importanza all’economia immateriale, Tony Blair rispose: «Non è colpa mia se l’Inghilterra ricava più introiti dai Beatles che dalla siderurgia». Qualcosa di analogo si potrebbe dire del ruolo svolto in Brasile dalla musica popolare che, insieme alla letteratura, è stata ambasciatrice nel mondo di saudade e di allegria, di dolcezza e di futuro, di ricordi nostalgici, desideri e speranze. Ma la musica popolare ha svolto in Brasile anche una funzione schiettamente politica, incitando alla rivolta contro la dittatura, o fustigando con ironia i soprusi dei privilegiati, o denunziando le condizioni disperate degli emarginati, o facendo scudo alla cultura popolare per difenderla dalle incursioni mediatiche straniere, soprattutto nordamericane.
Con Sinfonia de Rio de Janeiro (1955) composto da «O Maestro» Antônio Carlos Jobim, e con il disco Canção do amor demais (1958) dello stesso Jobim e di Vinícius de Moraes, nell’ibrido Brasile degli entusiasmanti anni Cinquanta – gli anni di Kubitschek e di Brasilia, appunto – anche la musica si fa soavemente ibrida sposando il samba di Rio e di Bahia con il jazz di New Orleans e con le fisarmoniche della Rive Gauche per regalare al mondo il minimalismo struggente della bossa nova. Comprimario nella procreazione di questo nuovo genere è il chitarrista João Gilberto (definito da Jobim come «la più grande stella del nostro firmamento, il migliore ambasciatore della bossa nova nel mondo»). Tutti e tre figli spirituali del samba-cançao di Dorival Caymmi e nipoti degli ottantotto tanghi di Ernesto Nazareth.
Negli anni Cinquanta la bossa nova, che fa da colonna sonora all’ottimismo cosmopolita e alla modernizzazione democratica, il cinema di Glauber Rocha, il teatro di Augusto Boal, i Centros Populares de Cultura, tutto spinge verso la partecipazione, secondata dalla musica autoctona che si conquista un suo spazio mite nel frastuono invadente del
rock and roll statunitense e dei suoi surrogati locali. A colpi di note, il Brasile cerca di liberarsi dall’abbraccio mortale degli Stati Uniti, della loro cultura e della loro Cia.
Rio e Bahia. Passa qualche anno e la scena cambia radicalmente, tingendosi di sangue; il golpe porta i militari al potere; la dittatura trasforma l’ottimismo in paura; la libertà si paga con l’esilio. È in questo mutato contesto che alla bossa nova si aggiunge da una parte il movimento tropicália di Caetano Veloso e Gilberto Gil, tradizionale nei contenuti, sovversivo nello stile, con epicentro a Bahia; dall’altra la musica popular brasileira (Mpb) cara a Chico Buarque, tradizionale nello stile e sovversiva nei contenuti, con epicentro a Rio. Bossa nova, tropicália e Mpb creano quell’intreccio di poesia e suoni che oggi fa del Brasile il Paese più musicale del mondo, l’unico capace di tenere testa all’industria discografica statunitense.
Nel 1967 Hélio Oiticica espone a Rio de Janeiro un’installazione intitolata Tropicália, nell’ambito di un evento che accentua l’impronta brasiliana dell’avanguardia artistica e piglia posizione sulla deriva politica, sociale, etica. Poco dopo, Caetano Veloso intitola Tropicália una canzone che diventa immediatamente il manifesto del tropicalismo alludendo a Brasilia, la città dell’orgoglio democratico diventata capitale della dittatura.
Il movimento tropicalista ha il suo culmine in quello stesso 1967-68 in cui l’Europa è movimentata dalla rivolta studentesca nelle università, in sintonia con la lotta di classe nelle fabbriche. In Brasile governa già da tre anni una destra autoritaria gradita agli Stati Uniti e che alla fine del Sessantotto lancia la linha dura scandita dalla censura, dal carcere, dalla tortura, dall’esilio.
Le canzoni di Chico, di Caetano, di Gilberto Gil vengono cantate nel Brasile dominato dai militari con lo stesso spirito libertario con cui venivano cantate le arie di Giuseppe Verdi durante il Risorgimento italiano. Nella Mpb di Chico la cifra rivoluzionaria è più esplicita, gli stimoli alla ribellione sono più sfrontati. Invece nella musica tropicalista di Caetano le allusioni sovversive stanno nel suo essere precocemente postmoderna: incline cioè alla citazione, al pastiche, al patchwork,
al meticciato sonoro che cannibalizza jazz, samba, rock, restando parimenti attenta alla tradizione musicale e alle tendenze giovanili, alle avanguardie pauliste e alla pop music. Un meticciato orgoglioso di se stesso, che ripesca e fa proprio il manifesto antropofago di Oswald de Andrade. «L’idea di cannibalismo culturale – confessa Caetano Veloso – ci va a pennello. Infatti noi divoriamo i Beatles e Jimi Hendrix».
Il prezzo della ribellione. Rubens Gerchman e Caetano Veloso, prima di essere costretti all’esilio, sparano la canzone Lindonéia contro la repressione violenta, l’internazionalizzazione fasulla e il nazionalismo ottuso. Torquato Neto e Gilberto Gil sparano Geléia Geral, Caetano ripete il colpo con É proibido proibir. Chico Buarque spara Apesar de Você, che fa ai militari più danno di una mitragliata: «Oggi sei tu che comandi / va bene così, non c’è discussione / la mia gente oggi parla di nascosto / e guardando per terra, vedi?». E poi ancora: «Domani dovrà essere un altro giorno. / Io ti domando / dove ti nasconderai / dall’enorme euforia. / Come ti metterai a proibire / quando il gallo insisterà a cantare? / Acqua nuova sgorgherà / e la gente si amerà senza fine». In conclusione: «Domani dovrà essere un altro giorno. / Tu finirai male / ma non voglio dire come».
Nei testi poetici di tutti questi autori che insidieranno i successi internazionali delle popstar nordamericane, le povere capanne di fango vengono evocate accanto alla metropoli di vetrocemento, il dada accanto al kitsch, l’avanguardia accanto alla cultura popolare, la tecnologia accando al sottosviluppo, il rozzo accanto al sofisticato, la prostituta accanto a Batman. E gli accostamenti estemporanei servono sia per ironizzare sulla macabra trasformazione del Paese imposta dai militari, sia per alludere alla deriva conservatrice in cui stava cadendo la società brasiliana tutta intera. Le canzoni, tanto più invise al potere quanto più popolari, denunziano la scandalosa povertà, la violenza e i soprusi della polizia, la connivenza delle gerarchie ecclesiastiche, il trattamento brutale riservato ai ragazzi di strada.
La reazione non si fa attendere: prima incarcerati e poi espulsi dal Paese, Veloso e Gil ripararono a Londra, Chico
Buarque in Italia. Del resto, lo slogan patriottico dei militari era «Brasil: ame-o ou deixe-o», Brasile: amalo o lascialo. Altri tropicalisti e altri appartenneti alla Mpb furono torturati o costretti a trattamenti psichiatrici. Il cantautore Torquato Neto si suicidò.
Sincretismo religioso. La varietà delle credenze e dei riti, il sincretismo e la pacifica convivenza tra le diverse religioni rappresenta una modalità schiettamente brasiliana di rapportarsi con Dio e con il diavolo, che sfida sfrontatamente tutte le ortodossie teologiche e tutte le gerarchie ecclesiastiche. Secondo i dati ufficiali il 74 per cento della popolazione brasiliana è cattolica; il 15 per cento appartiene alle Chiese evangeliche, soprattutto pentecostali, che hanno dato luogo a forme sincretiche con la spiritualità sciamanica locale; e poi ci sono i luterani, i presbiteriani, i metodisti, i battisti, gli avventisti, i congregazionisti. Più di un milione sono i testimoni di Geova; più di due milioni sono gli spiritisti, che a volte sommano le loro credenze al cattolicesimo o al protestantesimo. Poi ci sono i buddhisti, gli induisti, i fedeli di varie altre Chiese e, infine, gli adepti dei culti tradizionali amerindi. Un 7 per cento è composto da atei e agnostici.
Ma chi, esterno al Brasile, pensa alla religiosità di questo Paese, corre subito con la mente ai culti animisti di tipo sincretico e derivazione africana come l’umbanda e il candomblé, tra loro strettamente imparentati anche perché entrambi credono nella reincarnazione ed entrambi hanno nel loro pantheon gli orixá, divinità di origine totemica che fanno da angelo custode a ogni credente.
Derivato, attraverso gli schiavi, da culture africane diverse e poi influenzato dalla religione cristiana, il candomblé designa varie sette e vari riti benché non sia politeista. Olorun, il suo principio primo che molti fedeli identificano col Dio cristiano, ha delegato il suo potere agli orixà, corrispondenti in qualche modo alle figure del culto cattolico: ad Oxala, per esempio, corrisponderebbe Gesù, a Iemanjà la madonna del mare, a Oxossi corrisponderebbe san Sebastiano.
Il candomblé intende mettere in rapporto armonioso l’uomo, la società e il cosmo attraverso una vita ben vissuta. L’in
dividuo può entrare in comunicazione con il mondo invisibile e sacro perché egli stesso è un frammento della divinità dalla quale ha ricevuto le sue caratteristiche psicofisiche e dalla quale trae le sue energie vitali, la sua forza magica, la sua axé, che fluisce indistintamente negli esseri umani, negli animali, nelle piante, nelle cose.
La spiritualità ha sempre un rapporto intenso con la corporeità e il bene vi interagisce con il male consentendo ai fedeli di familiarizzare con entrambi. Ciò appare evidente soprattutto nella macumba, anch’essa di origine africana, potente assicuratrice di buona fortuna ai praticanti che appartengono indistintamente a tutte le classi sociali e a tutte le religioni, compresa la cattolica.
Teologia della liberazione. In America Latina la Chiesa ufficiale non si oppose mai alla schiavitù. Gli ordini religiosi sono stati grandi proprietari di schiavi. Ciò non toglie che, in ogni sollevazione di schiavi o di indios, troviamo religiosi schierati con gli insorti, come i sacerdoti Miguel Hidalgo e José Maria Morelos di cui abbiamo già parlato, fucilati dall’Inquisizione messicana nel 1815.
Il movimento cattolico più recente e consistente, che ha preso la difesa dei poveri sfidando le gerarchie ecclesiastiche locali e il Vaticano, è stato quello della teologia della liberazione. Mentre in America montava il movimento hippy, mentre a Berkeley, a Berlino, a Parigi, a Roma gli studenti occupavano le università, mentre in Francia e in Italia gli operai si ribellavano all’organizzazione taylorista delle fabbriche, in America Latina alcuni vescovi, teologi e sacerdoti impegnati nella terribile quotidianità delle favelas riflettevano sul rapporto tra messaggio cristiano ed emancipazione sociopolitica, sulla necessità di tradurre la beatitudine evangelica dei poveri in processo di liberazione concreta dei poveri dalla miseria tramite una radicale trasformazione socio-politica.
In Perù Gustavo Gutiérrez, che con il titolo del suo libro Teologia della liberazione (1973) dette anche nome al movimento, in Colombia il presbitero Camilo Torres, in Salvador il gesuita Jon Sobrino, in Brasile l’arcivescovo di Recife Hélder Câmara, i teologi Leonardo Boff, Frei Betto e molti altri,
ma anche pedagogisti come Paulo Freire, si contrapposero frontalmente ai regimi dittatoriali e sanguinari dei rispettivi Paesi per liberare il popolo latinoamericano dall’oppressione politica e dalla povertà economica con l’azione di una Chiesa popolare e socialmente attiva.
Secondo questi teologi della liberazione è necessario incoraggiare nel popolo la presa di coscienza della realtà socioeconomica latinoamericana. La maggioranza dei latinoamericani vive in una situazione che contraddice il disegno divino perché la povertà è un peccato sociale. La salvezza cristiana consiste nella «liberazione integrale» dell’uomo e quindi include la liberazione economica, politica, sociale e ideologica, visibili segni della dignità umana. Vi sono persecutori che opprimono e vittime che chiedono giustizia.
Da queste premesse conseguono alcuni impegni teorici e operativi. Occorre una costante riflessione dell’uomo su se stesso per rendersi creativo a vantaggio proprio e della società. Nella disuguaglianza tra ricchi e miseri bisogna schierarsi dalla parte di questi ultimi, aiutarli a capire chi sono i loro veri nemici, rivoluzionare il sistema socio-economico senza paura di essere classisti e rivoluzionari.
Ma la rivoluzione del Vangelo è l’amore, non la lotta, dunque la giustizia sociale è sorella della carità e, per eliminare le ingiustizie, i cristiani che aderiscono alla teologia della liberazione debbono impegnarsi affinché siano subito garantite ai poveri condizioni di vita dignitose, l’accesso all’istruzione, alla sanità e agli altri diritti civili.
Occorre creare un uomo nuovo, solidale e creativo, contrapposto alla logica capitalista della speculazione e del profitto.
Grazie a monsignor Câmara e al cardinale di San Paolo Evaristo Arns nacquero in Brasile quasi 100.000 comunità ecclesiali di base. La teologia della liberazione si estese a macchia d’olio anche negli ambienti protestanti. In Francia e in altri Paesi europei prese piede il movimento dei preti operai che nel 1954 Pio XII costrinse ad abbandonare le fabbriche e che nel 1965 il Concilio Vaticano II riabilitò. In Nicaragua molti cattolici, sacerdoti in testa, presero parte alla lotta armata contro Somoza. In Bolivia fu l’italiano Silvano
Girotto a imbracciare il fucile guadagnandosi il nome di «Frate Mitra».
In Colombia Camilo Torres, prima con azioni pacifiche, poi con la fondazione di un fronte unito, braccio politico dell’Ejercito de Liberacion Nacional, infine con la partecipazione alla guerriglia, cercò di coniugare il marxismo con il cattolicesimo e ci rimise la vita. Negli Stati Uniti la Black Theology, sulla scorta dell’azione condotta da Martin Luther King, si batté per i diritti civili dei neri; in Sudafrica lottò contro l’apartheid; in tutta l’Africa contestò il colonialismo e lo schiavismo. In Asia prese piede la teologia minjung, cioè «popolare». In due congressi – a Medelin nel 1968 e nel Messico nel 1975 – i vescovi latinoamericani adottarono il concetto di opzione preferenziale dei poveri.
La curia romana e i gruppi conservatori come l’Opus Dei reagirono drasticamente. Paolo VI non nascose la sua avversione ai teologi della liberazione; Giovanni Paolo II fu ancora più intransigente. In Paesi lontani dall’atmosfera felpata dei palazzi vaticani, dove la lotta era durissima e i teologi della liberazione erano osteggiati dai dittatori, dai proprietari terrieri e dai narcotrafficanti, ciò significava lasciarli senza difesa, in balia della criminalità privata e della vendetta poliziesca.
Resta esemplare il caso di monsignor Óscar Romero (19171980) cui Paolo VI e Giovanni Paolo II rifiutarono apertamente il loro appoggio, lasciandolo in balia dei suoi efferati nemici. Nominato vescovo di El Salvador nel 1970, Romero si era subito trovato di fronte all’estrema povertà dei suoi fedeli e all’oppressione che su di essi esercitavano i militari in difesa dei latifondisti. I suoi collaboratori furono assassinati e man mano il cerchio si strinse intorno a lui, sempre più coraggioso nel denunziare la situazione drammatica dei poveri colombiani. Nel 1978 fu convocato a Roma dove Paolo VI, dopo una lunga anticamera, gli concesse una ruvida udienza. Romero gli lasciò una nota in cui, tra l’altro, diceva: «Lamento, Santo Padre, che nelle osservazioni presentatemi qui in Roma sulla mia condotta pastorale prevale un’interpretazione negativa che coincide esattamente con le potentissime forze che là, nella mia arcidiocesi, cercano di frenare e screditare il mio sforzo apostolico».
Quando, nell’ottobre 1978, a Paolo VI successe Giovanni Paolo II, i militari colombiani pubblicarono sulla stampa di regime una fotografia del nuovo papa con la sua frase: «Guai ai sacerdoti che fanno politica nella chiesa perché la Chiesa è di tutti». Nel 1979 Giovanni Paolo II, durante un suo viaggio in Messico, dichiarò che «la concezione di Cristo come politico, rivoluzionario, come il sovversivo di Nazaret, non si concilia con la catechesi della Chiesa». La sorte di monsignor Romero era ormai segnata: dopo qualche mese un killer di estrema destra lo uccise mentre celebrava la messa.
In seguito l’atteggiamento del Vaticano non è sostanzialmente mutato. Giovanni Paolo II sollecitò e ottenne dalla Congregazione per la dottrina della fede, allora presieduta dal cardinale Ratzinger, due studi – Libertatis nuntius del 1984 e Libertatis conscientia del 1986 – in cui la teologia della liberazione, in quanto incline ad accettare alcuni principi marxisti, veniva definita incompatibile con la dottrina sociale della Chiesa. Poi nel 2006 lo stesso Ratzinger, divenuto papa Benedetto XVI, ha promulgato una notificazione in cui condanna come «erronee e pericolose» alcune tesi del gesuita Jon Sobrino, amico e ispiratore di monsignor Romero, per avere nei suoi libri eletto i poveri a «luogo teologico fondamentale».
Intanto in Brasile il francescano Leonardo Boff è stato costretto ad abbandonare l’ordine monastico e oggi si batte, in posizione laicale, per alimentare nel popolo una coscienza ecologica basata sull’interdipendenza tra esseri umani e natura.
Ricchi e poveri. Secondo «Le Monde Diplomatique Brasil» del novembre 2010, il Brasile è una macchina economica costruita per far vivere bene o benissimo l’8 per cento della popolazione (classe A). Questi privilegiati, cresciuti numericamente negli ultimi dieci anni, sono imprenditori, professionisti, professori universitari, giuristi, dirigenti che godono di formazione, servizi sanitari, abitazioni, consumi, sport, spettacoli e viaggi di prima qualità. La classe medio-alta (B), che è salita dal 10 per cento al 13 per cento, è composta da professionisti di livello medio, da manager, militari, tecnici che fruiscono di un livello di vita di poco inferiore a quello della classe alta. La classe medio-bassa (C), che è salita dal
30 al 39 per cento, comprende insegnanti della scuola di base, infermieri, impiegati, barbieri, parrucchieri che vivono in uno stato di precarietà strutturale per quanto riguarda le abitazioni, l’istruzione, i trasporti, l’alimentazione, il tempo libero. A questa classe C appartiene anche il 65 per cento dei dodici milioni di brasiliani che vivono nelle favelas. Infine la classe operaia (D) è salita dal 28 al 30 per cento, mentre l’ultimo segmento sociale, il sottoproletariato, è sceso dal 25 al 10 per cento.
Tre anni dopo il servizio di «Le Monde Diplomatique» il quotidiano economico «Valor» ha così ripartito i 200 milioni di brasiliani: 31 milioni appartenenti alla classe alta, 113 miloni alla classe media, 56 milioni alla classe bassa.
Il 10 per cento della popolazione bianca possiede il 75 per cento di tutta la ricchezza. Il 6 per cento dei brasiliani è miliardario e, nella classifica mondiale elaborata in base al numero di miliardari, il Brasile occupa il dodicesimo posto. Il reddito delle fasce sociali più ricche è 42 volte superiore al reddito delle fasce sociali più povere. Tra i venti milioni di brasiliani più ricchi, 18 milioni sono bianchi. Tra i venti milioni di brasiliani più poveri 15 milioni sono neri.
Il 51 per cento di tutti i brasiliani si autodefinisce di razza nera o mista. Dei sedici milioni di persone che vivono in condizioni di estrema povertà (cioè con 30 euro al mese) undici milioni sono neri o di razza mista. Tra i neri con più di 15 anni il tasso di analfabetismo supera il 27 per cento.
Parlando alla Fiera del libro di Francoforte l’8 ottobre 2013, lo scrittore Luiz Ruffato ha detto: «Quando non vediamo il prossimo, il prossimo non ci vede. Così accumuliamo il nostro odio e il simile diventa nemico. Il tasso di omicidi in Brasile raggiunge i 20 assassinati ogni 100.000 abitanti, pari a 37.000 persone l’anno, un numero tre volte superiore alla media mondiale. E chi è più esposto alla violenza non sono i ricchi... ma i poveri confinati in favelas e quartieri di periferia, alla mercè di narcotrafficanti e poliziotti corrotti... Negli ultimi dieci anni 45.000 donne sono state assassinate. Codardi, abbiamo accumulato più di 100.000 denunce di maltrattamenti contro i bambini e gli adolescenti... Non è una coincidenza che la popolazione carceraria brasiliana, circa
550.000 persone, sia formata prevalentemente da giovani tra i 18 e i 34 anni, poveri, neri e con istruzione bassa».
Però occorre anche ricordare che nei dieci anni intercorsi tra il 2003 e il 2013 ben 42 milioni di brasiliani sono saliti socialmente anche grazie alla borsa-famiglia e all’introduzione di quote razziali per l’ingresso nelle facoltà pubbliche.
Il movimento sociale del 2013. Il sottoproletariato trova difficilmente la capacità di riconoscere e la forza di rivendicare i propri diritti, ma quando la mobilità sociale ne solleva una parte a livello di proletariato e, contemporaneamente, solleva una parte di proletariato nella classe media come è avvenuto in Brasile durante l’ultimo ventennio, allora i bisogni crescono più del reddito e la disponibilità a mobilitarsi cresce più dei bisogni. La mobilitazione di massa, per quanto anarcoide possa apparire, richiede tuttavia un suo metodo. E i brasliani assimilano questo metodo incosciamente, fin dall’infanzia, partecipando alle grandi adunate del carnevale e del football, oceaniche, allegre, ironiche, sfrontate, bordeline. Trasferirlo dal sambodromo e dallo stadio alla piazza non è difficile, tanto più che internet consente di informare, eccitare e convocare in tempo reale.
Una prova generale, evidente e sorprendente di questa esplosione della classe media si è avuta nel 2013. Prendendo in contropiede sociologi, politici e giornalisti, «o gigante adormecido», come il patriottismo locale definisce il Brasile, è insorto a denunziare la corruzione, rivendicare la qualità della vita, arginare l’arroganza dei politici, difendere i diritti umani, segnalare al mondo intero la vitalità del Paese, che tollera ma non perdona, dimostrare che il malessere contemporaneo è universale e può acuirsi anche quando migliora il benessere materiale perché, con esso, aumenta anche la consapevolezza che la crescita economica non è infinita e, da sola, non assicura ai cittadini la felicità.
Anche questo movimento, come i molti altri divampati repentini e imprevisti in varie parti del mondo, con sfumature diverse e per diverse cause contingenti, dimostra soprattutto il disorientamento psico-sociale provocato dalla mancanza di un modello di riferimento. L’inconscio collettivo delle
masse, soprattutto giovanili, percepisce che nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove vuole andare; percepisce che, senza un progetto nuovo di società nuova, la crescita materiale non basta. Figurarsi la decrescita!
I poveri non hanno lobby. Il tallone d’Achille di questo, come di ogni analogo movimento democratico, è duplice: da una parte la possibile infiltrazione di gruppi violenti (gli onnipresenti black block, servi sempre preziosi delle forze reazionarie) che ne sovvertono la natura pacifica finendo per avvantaggiare i conservatori; dall’altra, la mancanza, da parte del movimento, di un modello alternativo a quello delle istituzioni criticate. Quando poi la protesta proviene soprattutto dalla nuova classe media, come è avvenuto in Brasile, vi è un terzo pericolo: l’obiettivo legittimo di questa classe non è sconfiggere la povertà di chi è rimasto povero ma allargare il benessere di chi è entrato nell’agiatezza.
Restano i poveri: quelli che non hanno da mangiare e non hanno voce perché, come diceva il governatore Leonel Brizola, oppositore del regime militare e costretto da questo regime a quindici anni di esilio: «I poveri non hanno lobby. Nessuno si incarica di chiedere per essi e sono pochi coloro che desiderano migliorare la vita di chi vive ai margini della società». Ancora una volta sono anzitutto gli intellettuali che debbono farsi carico delle classes oprimidas, dare loro una voce e una coscienza, fornire ai movimenti sociali un progetto e alla società un modello alternativo.
Non possiamo non dirci brasiliani
Un capitolo del libro A desordem do progresso di Cristovam Buarque, uno dei pensatori più acuti e coerenti del Brasile contemporaneo, inizia così: «Alle due di un pomeriggio dell’estate 1984, nel bel mezzo di un lungo ingorgo nel centro della città, l’autista indicò la macchina che ci precedeva e chiese: “Lei sa perché quell’auto sta con tutti i vetri chiusi?” Prima che io dicessi no, lui rispose: “Perché tutti pensino che ha l’aria condizionata”».
Il contagio consumista del modello statunitense ha già conquistato molti aspetti della vita urbana brasiliana e addirittura trionfa nel mondo manageriale, monopolizzato dal pensiero, dai maestri, dalla lingua, dalla letteratura bostoniana e californiana. A esso va aggiunta la tentazione di cedere a quelle richieste incolte del mercato esterno che più sollecitano gli aspetti deteriori della brasilianità: l’eccesso cromatico e sonoro, la sensualità sregolata, l’esotismo provinciale, la dissipazione del patrimonio naturale, cui possono aggiungersi la mancanza di autostima, l’esterofilia, lo scarso senso civile, il ricorso all’astuzia come surrogato dell’intelligenza, la scarsa affidabilità.
Però, nonostante la persistente impronta colonizzatrice dell’Europa e degli Stati Uniti, il Brasile resta il Brasile e gli aspetti originali e migliori della brasilianità continuano a prevalere su quelli importati e deteriori.
A partire dall’arrivo della casa reale portoghese, il Brasile ha iniziato a osservare se stesso producendo, come abbiamo visto, ottime autoanalisi di antropologia e di sociologia, di economia e di politica. Cos’è il Brasile? Chi sono i brasiliani? In cosa si distinguono, se si distinguono, dagli altri sudamericani? Qual è il volto reale di questo Paese così diverso per i suoi aspetti naturali e culturali?
L’interesse per la propria identità si è ulteriormente acuita in occasione del quarto e poi del quinto centenario della scoperta. Io stesso, nel 2002, ho promosso la ricerca Cara brasileira, affidata alla direzione del sociologo italiano Stefano Palumbo, che si è avvalso della collaborazione interdisciplinare di 25 prestigiosi esperti brasiliani.
I risultati hanno confermato la persistenza dei fattori qualificanti che abbiamo riscontrato lungo tutto questo capitolo e che sono sintetizzati qui di seguito.
Cara brasileira. Scrive Gilberto Freyre: «Considerata in modo generale, la formazione brasiliana è stata... un processo di equilibrio di antagonismi. Antagonismi di economia e di cultura. La cultura europea e la indigena. L’europea e l’africana. L’africana e l’indigena. L’ economia agricola e la pastorizia. L’agricola e l’estrattiva. Il cattolico e l’eretico. Il gesuita e il
“fazendero”. Il bandeirante e il signore di engenho. Il paulista e l’emboaba. Il pernambucano e il mascate. Il grande proprietario e il paria. Il laureato e l’analfabeta. E soprattutto il signore e lo schiavo... Tuttavia la mentalità brasiliana non si scandalizza con il gioco di contrasti, confronti, paradossi, misture e antinomie. Il Brasile vive il sincretismo, la coniugazione degli opposti, il matrimonio di ciò che è inconciliabile a prima vista».
La mescolanza di fattori così diversi, che in altri contesti risulterebbe distruttiva, nel nostro caso è benefica. Il concetto di «brasilianità» rinvia immediatamente all’incontro e al rapporto interpersonale. Le relazioni inglobano gli individui. L’individualismo assume un’accezione negativa. Vivere significa «avere rapporti sociali». Saudade significa interruzione incresciosa di questi rapporti.
All’armonia del fisico, alla sensualità e alla salute, si aggiungono doti psicologiche come l’amicalità, la cordialità, il senso di ospitalità, la socievolezza, la generosità, il buonumore, l’allegria, l’ottimismo, la spontaneità, la creatività. Per questo la cultura brasiliana è amata in tutto il mondo: mai nessuno avrebbe bombardato le Twin Towers se fossero state in Brasile!
Nel 1928 Mário de Andrade scrisse Macumaíma. O heró sem nehum caràcter. Ma il brasiliano non è senza carattere: tende a colorare di amicalità ogni relazione anche di tipo professionale e le sue azioni assumono significati diversi in base ai sottesi rapporti personali. Molte decisioni, anche minime, sono influenzate dal gruppo dei parenti o degli amici.
La religione e la fede, come la vita, sono legate ai concetti di tolleranza e curiosità. La pazienza, la capacità di muoversi tra diversi codici di comportamento e di reinterpretare le regole, le norme, i linguaggi, sono attitudini frequenti come pure la tendenza a considerare fluidi i confini tra sacro e profano, tra formale e informale, tra pubblico e privato, tra emozione e regola. Il jeitinho brasileiro, il modo di fare, consiste proprio nell’armonizzare i contrasti, driblare gli intoppi, usare con una certa spregiudicatezza anche espedienti che vanno al di là delle regole.
Molti sono i fattori che aiutano ad amalgamare le diversità
dando all’interno e all’esterno un’immagine unitaria del Paese. La natura esuberante e un’estate che in molte regioni dura tutto l’anno fanno del Brasile un «Paese tropicale organico» mai funestato da cicloni o terremoti. Sul piano sociale il ruolo unificante è giocato dalla struttura federativa dei vari Stati che si riconoscono nella medesima costituzione, dalla «lingua generale», dal sincretismo culturale, dalle grandi feste civili e religiose incorporate nel modo di vivere popolare, dalla musica, dal ruolo della donna nella vita sociale, dalla sessualità senza sensi di colpa e, a livello più intellettuale, dalla spiccata capacità di riciclaggio culturale tramite una permanente attività di assimilazione, adeguamento, rilettura, antropofagia.
Il Brasile è aperto al nuovo e ai cambiamenti. Anche nei momenti peggiori affronta la realtà con sentimento positivo. Parte del suo modello culturale deriva dall’Illuminismo e dal positivismo: il motto «Ordem e Progresso» contenuto nella sua bandiera è ripreso dal pensiero di Auguste Comte: «L’amore come principio, l’ordine come base, il progresso come obiettivo».
In Brasile, come in tutto l’Occidente, è in corso una lotta feroce fra tradizione e innovazione. Essendo giovane, il Paese è incline a rinnovarsi, misturando però il nuovo con il vechio, dando luogo a un modo originale di evolvere, adattando, accettando, modificando, rendendo più problematico e complesso, ma anche più ricco, il modello di vita allo stato nascente e che occorre completare.
Valori persistenti e autostima. Nel 2013, dieci anni dopo la ricerca Cara brasileira, il gruppo Oca (Organização de Conhecimentos Associados) di San Paolo ne ha condotto una analoga intervistando quarantaquattro personalità della cultura brasiliana. I risultati indicano la persistenza dei valori basici: il ritmo, la sensualità senza complessi, la festosità, l’esaltazione dei colori e dei sapori, l’interculturalità, la capacità di copiare e di inventare. Il brasiliano è informale, lavora in maniche di camicia e lo sa fare in gruppo, è fluido nei suoi processi decisionali, non ha pregiudizi ideologici, apprende facendo, tende a coniugare il lavoro con il divertimento, presta i servizi in modo attento e affabile.
Rispetto al passato vi sono due elementi nuovi: è più diffusa la consapevolezza delle grandi sfide interne – corruzione, violenza, disuguaglianza, deficit educativo – e ormai il Brasile si sente un Paese di punta, diverso e positivo, capace di proporre anche all’esterno il proprio modo di essere e di fare come modello alternativo di società.
Il successo, ovviamente, dipenderà dalla sua capacità di mobilitarsi, organizzarsi, rendere esplicito un progetto condivisibile, perseguirlo con tenacia, agire con maggiore razionalità senza perdere la simpatia, modernizzarsi senza compromettere la sostenibilità, essere meno tollerante, superficiale, improvvisatore senza perdere la creatività.
Un momento magico. Come ho già detto, oggi il Brasile si trova in una situazione unica nei confronti del suo passato e del suo futuro. Ora che il modello dell’Europa latina e quello degli Stati Uniti sono in profonda crisi, il gigante latinoamericano è solo davanti al proprio futuro. Nella sua corrispondenza Flaubert ci ha lasciato un pensiero che si attaglia bene a questa situazione: «Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo». Quel magico momento di sospensione generò l’età di Adriano: la più felice di tutta la storia romana. Oggi anche il Brasile è solo ma, nella sua solitudine, può vantare un’immensa riserva di umanesimo corporale, preziosa come quella riserva di umanesimo spirituale che fa dell’India un punto di riferimento altrettanto ineludibile.
Nessun altro Paese è campione così rappresentativo e metafora così significativa del mondo intero, nella sua attuale fase evolutiva. Il meticciato che fu prerogativa del Brasile oggi diventa normalità per l’intero pianeta dove è in atto la più imponente mescolanza di tutti i tempi, determinata a livello fisico dalle grandi migrazioni e, a livello culturale, dai media e dalla rete. Come nel Novecento la mescolanza brasiliana divenne modello e paradigma grazie all’interpretazione geniale che ne fecero gli «inventori del Brasile», così oggi il mondo intero attende qualcuno che lo reinventi, conferendogli, attraverso un nuovo modello, una nuova e consapevole identità.
Il Brasile e i suoi intellettuali possono contribuire in misura determinante a questa reinvenzione perché – come già notava Darcy Ribeiro – la gente brasiliana «sotto l’influenza impercettibilmente riposante del clima, sviluppa una minore forza d’urto, una minore irruenza e dinamismo, ossia proprio le qualità che oggi vengono drammaticamente sopravvalutate e considerate come valori morali di un popolo».
Solo il Brasile, deprivato per secoli di potere internazionale, possiede questa nobiltà unica e amorosa perché, come dice Jacques Lacan, «il contrario dell’amore non è l’odio ma il potere».
Conclusione
«Il mondo è giovane ancora»
«Mi siedo al margine della strada. Il guidatore
cambia la ruota.
Non sono contento di dove vengo. Non sono contento di dove vado.
Perché guardo il cambio della ruota con impazienza?»
BERTOLT BRECHT «L’immaginazione dell’uomo non rinunzierà mai a fare della
società un’opera d’arte.»
La società disorientata
DANIEL BELL
I rumori del passato. Ogni epoca ha avuto le sue questioni, rimaste nella storia successiva come rumori di fondo. Di cosa si discuteva nelle corti europee, nelle accademie, ma anche nelle botteghe, agli inizi del Seicento, quando ancora prevaleva la società pienamente rurale? Probabilmente si discuteva dello sfruttamento delle colonie, dei confini degli imperi dopo la morte di Carlo V, dell’eredità di Elisabetta I, dei rapporti ostili con i turchi. Sorprendevano le ipotesi di Copernico, il cannocchiale di Galileo, le intuizioni di Keplero. Terrorizzava l’Inquisizione. Scandalizzavano le teorie temerarie di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella, gli affreschi sfrontati di Annibale Carracci, le tele opulente di Rubens, quelle inquietanti e ingiuriose di Caravaggio. Gli aristocratici e gli intellettuali si dilettavano con la musica colta di Claudio Monteverdi; in Italia leggevano Torquato Tasso, in Spagna Lope de Vega e Miguel de Cervantes; in Inghilterra assistevano alle rappresentazioni di Shakespeare.
Cento anni dopo, agli inizi del Settecento, quando l’economia era ancora centrata sulla produzione agricola ma la cultura andava già elaborando nuovi paradigmi di tipo preindustriale, di cosa discutevano gli accademici e gli ecclesiastici, gli intellettuali, i nobili e i ministri, le favorite e i cicisbei? Facevano notizia le riforme e le realizzazioni dello zar Pietro il Grande, l’opulenza di Luigi XIV, il trono di Filippo V e le avventure militari di Eugenio di Savoia; le teorie di Cartesio, di Leibniz, di Locke, di Newton e di Giambattista Vico; le musiche di Scarlatti e di Händel, di Vivaldi e di Bach. In Inghilterra si leggeva Jonathan Swift e Daniel Defoe, in Spagna Calderón de la Barca.
Passano ancora cento anni e arriviamo all’inizio dell’Ottocento. Subito dopo la Rivoluzione francese, quando già le ciminiere delle filande e delle acciaierie annunziano il diffondersi della società industriale, la scena occidentale è occupata da Napoleone e dalle sue imprese. Ma emergono altre questioni politiche come l’unione dell’Inghilterra con l’Irlanda in un unico regno, la presidenza di Jefferson in America, il rapporto tra Illuminismo e liberalismo, la differenza tra monarchia e repubblica, tra monarchie assolute e monarchie costituzionali. Tutti vorrebbero essere ammessi nel salotto di Madame de Staël, tutti vorrebbero ammirare la pittura di Goya e David. Dalla Germania si diffondono le opere filosofiche di Fichte, Kant ed Hegel, i poemi di Shelling e Goethe. In Francia furoreggiano i romanzi edificanti di Chateaubriand e quelli scandalosi del marchese de Sade; in Inghilterra i versi di Byron, Shelley e Keats (ma anche i godibili romanzi di Walter Scott). In tutta Europa si ascoltano le musiche di Mozart e Rossini, di Haydn e Beethoven.
Agli inizi del Novecento l’Inghilterra era ormai industrializzata (gli addetti all’agricoltura si erano ridotti appena al 9 per cento); gli imperi coloniali vacillavano; liberali e cristiani, socialisti, comunisti e anarchici si contendevano il potere terreno e ultraterreno. Si favoleggiava sulla potenza delle nuove fabbriche automobilistiche come la Renault in Francia, la Ford in America, la Fiat in Italia. Si restava stupiti di fronte al dirigibile Zeppelin, ai primi voli spericolati di Santos-Dumont e dei fratelli Wright, alle idee megalomani di Nietzsche. Si andava a teatro per assistere alle ultime opere di Verdi e di Wagner. Il puritanesimo trionfava con la doppia morale della regina Vittoria in Inghilterra e dell’imperatrice
Maria Teresa in Austria. In Italia si leggeva D’Annunzio e Pirandello; in Francia Gide e Zola; in Russia Tolstoj e Gorkij; in Inghilterra Forster e Wilde; in Germania Thomas Mann; in America Henry James; Kafka in Cecoslovacchia, Musil in Austria. La musica tonale di Brahms e Strauss era insidiata dall’impressionismo di Debussy, dall’anticonformismo di Mahler, dalla dodecafonia di Schönberg.
Il fragore del presente. Quando, nella Grecia arcaica, i mutamenti erano lenti e riguardavano, di volta in volta, solo pochi aspetti della vita sociale, Eraclito poteva dire che «nel mutamento le cose si riposano». Ma oggi chi potrebbe ostentare altrettanta tranquillità?
Rare volte nella storia umana sono cambiati simultaneamente i termini fondamentali del lavoro, della ricchezza, del potere e del sapere. Ogni volta che ciò è avvenuto si sono verificate vere e proprie discontinuità epocali nel cammino dell’umanità. L’avvio dell’agricoltura, la nascita della città, l’invenzione della scrittura in Mesopotamia, l’organizzazione della democrazia e l’elaborazione del sapere umanistico in Grecia, le grandi scoperte scientifiche e geografiche realizzate tra il dodicesimo e il sedicesimo secolo, l’avvento della società industriale nell’Ottocento, rappresentano altrettanti salti epocali che hanno disorientato intere generazioni.
A ben guardare, queste onde lunghe della storia, come le chiamava Braudel, sono diventate sempre più corte e il loro fragore è diventato assordante. La società è rimasta centrata per molte migliaia di anni sull’economia rurale e artigianale; poi, nell’Ottocento, è arrivata la fabbrica provocando un impetuoso sorpasso dell’industria sull’agricoltura. Quando le generazioni recenti si erano appena riprese dalla Rivoluzione industriale, in meno di un secolo un nuovo salto epocale le ha prese nuovamente alla sprovvista, investendole con quella che Wright Mills ha valutato come «la più progredita e temibile delle modernità». In tutti i campi le trasformazioni sono state più rapide e profonde di quanto il diritto non sia riuscito a regolare, il mercato non sia riuscito a smaltire, il nostro cervello non sia riuscito a comprendere. Oggi nuovi nomadi transitano lungo nuovi percorsi, senza un punto di
riferimento e senza un itinerario prestabilito, in una condizione transitoria e perturbata, entro paesaggi geografici, scientifici, tecnologici, economici cangianti di ora in ora, senza lasciare il tempo necessario per metabolizzarne gli effetti.
I topi di Camus. Nessuno potrebbe restare impassibile di fronte a questo cataclisma. Perciò la sensazione più diffusa, percepibile simultaneamente in tutto il pianeta, è il disorientamento: quel sentimento sospeso tra la sorpresa e il panico, che serpeggia con crescente insistenza nei film più visti, nei libri più letti, nelle immagini più cliccate su Youtube, nei videoclip più gettonati, nei discorsi ufficiali dei potenti, nei legittimi sospetti degli inermi, persino nei fumetti e nei cartoon dei bambini. Lo stesso disorientamento che ritroviamo in forme più sofisticate nei salotti, in forme più bizantine nei partiti, in forme più intellettuali nelle università, in forme più ciniche nelle Borse.
Questo disorientamento inclina all’euforia solo nei Paesi dove il Pil cresce al passo annuo di 5-10 punti, o in Paesi dove la democrazia è stata conquistata di recente per cui se ne stanno godendo le primizie; e inclina alla depressione in Paesi dove il troppo nuovo e il troppo vecchio convivono e si scontrano dentro il medesimo sistema, che intanto decresce visibilmente nel suo potere d’acquisto e nelle sue potenzialità.
Nessuna sfera resta immune da questo disorientamento: né quella biologica né quella economica, familiare, politica, sessuale, culturale. Non sappiamo se questo disorientamento rappresenti un sintomo di sviluppo o l’avvisaglia di un tracollo. Sappiamo soltanto che provoca una diffusa sensazione di crisi la quale, a sua volta, rende difficile e azzardato progettare il nostro futuro. Sappiamo anche che, se noi smettiamo di progettarlo, altri lo progetteranno per noi, non in funzione dei nostri interessi ma in funzione del loro tornaconto.
Disorientamento e paura sono in rapporto reciproco. Le risorse aumentano, ma non sappiamo come distribuirle; mentre vengono spesi miliardi per pubblicizzare in televisione la carta igienica o il cibo per i gatti, mancano i finanziamenti minimi per assicurare a milioni di ragazzi il diritto allo studio e, in molti casi, il cibo per sopravvivere. Ogni mucca da latte
in Europa riceve un sussidio di 913 dollari mentre un abitante dell’Africa subsahariana riceve solo 8 dollari. In Italia ogni domenica 15.000 poliziotti sono impiegati per mantenere l’ordine negli stadi, mentre mancano quelli indispensabili per arginare la mafia. La visibilità delle disuguaglianze e delle ingiustizie alimenta movimenti, conflitti e migrazioni di massa: il 10 per cento della popolazione mondiale si dice esplicitamente insoddisfatta del proprio Paese e vorrebbe emigrare. In effetti, negli ultimi dieci anni il numero dei migranti internazionali è quasi raddoppiato. L’emigrazione va ad arricchire i Paesi già ricchi: la metà dei laureati del Ghana vivono all’estero; nel Regno Unito il 37 per cento dei medici è composto da immigrati.
Gli oggetti e i servizi offerti dall’industria materiale, così come le idee offerte dall’industria culturale, si moltiplicano e si somigliano a tal punto che ormai non è il valore a determinarne il prezzo, ma è il prezzo a sancirne il valore. Siamo subissati dalle informazioni ma non abbiamo ancora gli schemi logici per tenerle a bada. Il gusto subisce oscillazioni così rapide che non ci siamo ancora abituati a una moda e già un’altra ci incalza.
La mancanza di un modello interpretativo, anzi il vuoto oppressivo di un nonmodello, ci rende inermi di fronte alla paura della guerra, delle epidemie, degli immigrati, della sovrappopolazione, dell’inquinamento, della violenza, dei crolli in borsa, della solitudine, della folla, della noia, della morte, dell’aldilà.
Siamo tutti in attesa dei topi, i topi di Albert Camus. Ricordate come si chiude La peste, il suo capolavoro? Si chiude con l’amara riflessione di Rieux, il medico che ha lottato con tutte le sue forze contro l’epidemia ormai placata: «Lui sapeva quello che ignorava la folla, e che si può leggere nei libri, ossia che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decine d’anni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce e che forse verrebbe giorno in cui, sventura e insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi sorci per mandarli a morire in una città felice».
Quando è morta Eluana? La sensazione complessiva di disorientamento dovuta al salto epocale dalla società industriale alla società postindustriale e alla mancanza di un modello con cui gestire il cambiamento è somma di molteplici disorientamenti settoriali, ciascuno determinato da sue proprie cause.
Il 9 febbraio 2009 è stata interrotta la nutrizione artificiale di Eluana Englaro, una donna italiana di 39 anni che, a seguito di un incidente stradale, ha vissuto in stato vegetativo per diciassette anni. Eluana era ancora viva o era già morta quel 9 febbraio? Era nata il 25 novembre 1970, quando l’anagrafe ne certifica la nascita, o era nata nove mesi prima, quando fu concepita? O quando ancora?
Persino i due eventi considerati più certi e puntuali durante tutta la storia umana che ci ha preceduto – il momento iniziale e finale della nostra vita – sono passati dallo stato di certezza allo stato di ipotesi.
Durante i diciassette anni in cui Eluana è rimasta priva di conoscenza, in tutta Italia si è discusso accanitamente se considerarla viva o morta. Non si sono trovati in contrapposizione frontale i cattolici osservanti e gli atei, ma il dibattito ha tagliato trasversalmente i credenti e i non credenti, i teologi, i medici, i biologi, i filosofi, i politici.
Le biotecnologie e l’ingegneria genetica consentono scambi di spermatozoi, prestiti di uteri, selezioni e clonazioni naturali. La chirurgia consente trapianti di organi. Il corpo, considerato da sempre come un dato che la natura assegna insindacabilmente, oggi, grazie all’ingegneria genetica, alle nanotecnologie, alla chirurgia plastica, alla farmacologia, alla dietologia è diventato una semplice materia prima su cui è possibile intervenire con manipolazioni sempre più sostanziali. Biologia, chirurgia e medicina preventiva fanno a gara nel prospettare vaste zone d’ombra in cui lo scienziato e l’analfabeta, il chierico e il laico parimenti si smarriscono.
Senza ideologie e senza classi. Con La fine dell’ideologia (1960) di Daniel Bell, è stata ufficialmente certificata la morte dell’ideologia, cioè del più solido sostegno intellettuale e della più fidata guida esistenziale che l’uomo abbia mai creato per esorcizzare i propri dubbi. Nell’era classica l’Occidente
era orientato dalla mitologia, dalla saggezza e dal diritto. Nel Medioevo era orientato dalla religione. Nel Rinascimento era orientato dal principe e dall’estetica. Nell’Ottocento e Novecento dalle ideologie politico-economiche. In un mondo drasticamente diviso tra ricchi e poveri, cittadini e stranieri, credenti e infedeli, era comodo trovare in san Tommaso, in Marx o in Weber, in Smith o in Keynes, nelle encicliche dei papi e nelle pastorali dei vescovi, nelle parole d’ordine dei leader carismatici e nell’esempio delle star, la segnaletica mentale in base alla quale procedere speditamente.
Un secolo fa, se una persona fosse stata presa dal dubbio, avrebbe avuto a sua disposizione libri, dottrine, manifesti, programmi e maestri cui aggrapparsi. Se era cattolico poteva orientarsi leggendo i libri di Lamennais, l’enciclica Rerun novarum di Leone XIII, le edificanti vite esemplari dei santi che meglio lo ispiravano. Se era socialista, aveva a disposizione gli scritti e gli esempi concreti di Owen o di Saint-Simon, di Kautsky o di Bernstein. Se era anarchico, poteva servirsi delle opere di Proudhon e di Bakunin. Se aveva tendenze rivoluzionarie, poteva seguire il programma tracciato da Engels e Marx.
Insieme alle ideologie sono scomparsi i leader amati come Gandhi, venerati come Pio XII, autorevoli come Juscelino Kubitschek, temuti come Stalin: personalità carismatiche, capaci di offrire solidi punti di riferimento alle passate generazioni. Forse nessuno dei governi più recenti, tranne quello cinese, è riuscito a elaborare e realizzare piani socio-economici grandiosi come quelli di Stalin, di Roosevelt o di Getúlio Vargas. Come ci siamo già chiesti fin dall’inizio, oggi, rifiutate le ideologie, uccisi i maestri, smarriti i leader, a quale modello, a quale insegnamento possiamo rivolgerci, noi disorientati del terzo millennio?
Nell’agone politico della società industriale, tra la metà del Settecento e la metà del Novecento, prevalevano i soggetti istituzionali. Sia che si volesse promuovere un mutamento graduale o radicale, sia che si volesse difendere lo status quo, vi erano specifiche organizzazioni cui aderire per condurre la propria battaglia: Chiese, partiti, sindacati, ognuno con il suo statuto, il suo regolamento, il suo programma, il suo capo, la
sua gerarchia. Ogni lotta collettiva aveva i suoi obiettivi, le sue proposte, le sue strategie, le sue tattiche, le sue avanguardie, i suoi antagonisti, i suoi alleati. Ogni partito, ogni sindacato lottava compatto e, anche quando un sottogruppo riusciva a raggiungere i suoi scopi particolari, tuttavia continuava a battersi insieme a tutti gli altri sottogruppi, per impegno solidale verso i compagni.
Invece, come abbiamo visto, nella società postindustriale i movimenti sociali di base – da Occupy Wall Street negli Stati Uniti a Passe Libre in Brasile – vanno sostituendo le lotte istituzionali. Perlopiù questi movimenti sono imprevedibili, dinamici, reattivi, acefali, volatili, capaci di contestare, non di progettare. Il ruolo agglutinante non è rappresentato da un’ideologia unitaria, da un programma comune, da un leader riconosciuto, da una sede fisica, ma da un disagio condiviso, da un generico desiderio di migliorare le cose, reagire, partecipare, espressi virtualmente tramite internet e fisicamente attraverso le manifestazioni di piazza, provocate da scintille occasionali ma fortemente simboliche, promosse da molti e partecipate da molti. Quando poi un movimento raggiunge i suoi obiettivi contingenti, o quando perde fiducia nella possibilità di raggiungerli, entra in latenza o si dissolve.
Ormai i vecchi apparati partitici e sindacali sono sempre più deboli e contestati in tutti i Paesi democratici; i loro leader sono funzionari di media statura culturale, privi di carisma; le classi, che pure persistono, sono confuse in una mousse incolore dove i programmi convergono progressivamente fino a sovrapporsi, incoraggiando così il disimpegno e l’assenteismo del corpo elettorale. Le idee e i progetti vengono apprezzati non tanto per il loro contenuto quanto per la forma con cui sono espositi. Nella politica-spettacolo basata sulla seduzione, un nodo mal fatto alla cravatta, un congiuntivo fuori posto o una semplice gaffe possono incrinare i consensi assai più di una proposta sciocca.
Nel Manifesto del Partito comunista Marx ed Engels constatavano che l’intera società si era scissa in due classi – borghesia e proletariato – irriducibilmente nemiche e contrapposte. Oggi chi potrebbe essere così netto nella classificazione dei ceti sociali? Quante sono le classi nella nostra attuale società?
Quale corrispondenza vi è tra i partiti e i sindacati da una parte, le classi dall’altra? Quale organizzazione politica, quale formazione sindacale si fa carico dei poveri? Ormai cosa è «destra» e cosa è «sinistra»?
In Europa la stessa Ue e l’introduzione dell’euro hanno attenuato i concetti di patria, identità, confine, tutti fattori che, per quanto limitanti, tuttavia offrivano sicurezza e orgoglio. Per essi, nei secoli passati, i popoli erano disposti a combattere e morire. Oggi i giovani rischiano di smarrire il senso della professionalità dissipandola in lunghe fasi di disoccupazione e, per trovare un lavoro, sono costretti sempre più spesso a cambiare mansione, Paese e vita, riciclando più volte i propri usi e i propri costumi. Si calcola che, nel corso della propria vita, un cittadino europeo cambi mediamente sette residenze e il cittadino americano ne cambi nove. Così, insieme al positivo ampliamento di orizzonti e di esperienze, cresce la sensazione di sradicamento, propria degli apolidi.
Senza storia. Come se non bastasse, si è fatta strada l’idea che non solo sono state definitivamente archiviate le ideologie, le classi e i conflitti di classe, ma che la storia stessa sia giunta al suo capolinea. L’idea non è nuova: già lo storico Marco Velleio Patercolo riteneva che Roma rappresentasse il culmine della storia, oltre il quale non si poteva andare. Hegel, invece, faceva coincidere la fine della storia con il passaggio di Napoleone e delle truppe francesi sotto le proprie finestre. Nel 1872 il matematico e filosofo Antoine Augustine Cournot, riflettendo sul cammino delle idee e degli eventi nell’epoca moderna, ripropose l’idea di «fine della storia». In una conferenza del 1937 al Collège de Sociologie, Alexandre Kojève sostenne che la fine della storia non era coincisa con Napoleone ma con Stalin.
Ma il concetto di fine della storia ha raggiunto il vasto pubblico solo nel 1992 con il saggio La fine della storia e l’ultimo uomo in cui Francis Fukuyama sostiene che il percorso della storia universale dell’umanità non è ciclico, come pensavano Platone, Aristotele e Vico, ma è lineare e coinvolge l’intero pianeta in un unico destino. Con il progresso scientifico, con la vittoria del capitalismo, con la partecipazione delle masse
alla politica, con l’uguaglianza dei diritti, con la libertà individuale, con l’etica del lavoro, con le democrazie liberali, la storia universale ha raggiunto il suo culmine. La caduta del muro di Berlino e l’attentato alle Twin Towers ne sono la prova. Prima o poi anche le singole storie nazionali raggiungeranno questo culmine e, se pure dovessero regredire, comunque la storia universale nel suo complesso cesserà di evolvere.
Si può immaginare quale disorientamento consegue da questa fine epocale: la vita comunitaria si disgrega, i contatti interindividuali rallentano, insieme alla conoscenza consentita dall’informatica aumenta il digital divide, la distanza tra ricchi e poveri, la spersonalizzazione. Si rivalutano i rapporti di parentela e di amicizia ma la scienza tenta di controllare tutte le manifestazioni dell’animo umano. I precetti di vita e i legami sociali diventano pericolosamente elastici; la rivoluzione eugenetica consente di decidere i geni dei propri discendenti minacciando così l’identità della specie; potranno sorgere conflitti tra i valori dell’Occidente e quelli delle altre culture.
Finita la storia, finita la modernità, finite le alternative possibili, si entra nella poststoria in cui l’uomo, abituato da sempre ad affrontare rischi imprevisti, si trova spiazzato proprio dall’inedita mancanza di rischi: si attenuano le differenze tra le società capitaliste e quelle comuniste; scompare l’imprevedibilità; non è più possibile perdersi, isolarsi, dimenticare; l’umanità si emancipa dalla natura e rischia di distruggerla. Se la storia non può evolvere, cessa di serbare sorprese e lascia all’uomo soltanto la possibilità di contare su ciò che già esiste, di mischiare le carte, di ridursi da artifex a semplice bricoleur. «Il bricoleur – come aveva scritto LévyStrauss nel Pensiero selvaggio del 1962 – è capace di eseguire un gran numero di compiti differenziati, ma, diversamente dall’ingegnere, egli non li subordina al possesso di materie prime o di arnesi, concepiti e procurati espressamente per la realizzazione del suo progetto; il suo universo strumentale è chiuso e, per lui , la regola del gioco consiste nell’adattarsi sempre all’equipaggiamento di cui dispone.»
Il cowboy e l’astronauta. Come qualcuno ha già osservato, per secoli abbiamo avuto un’idea parziale del nostro pianeta,
come quella del cowboy che attraversava le praterie; ora ne abbiamo un’idea complessiva, come quella dell’astronauta che lo contempla dall’esterno. Invece di tranquillizzarci, questa visione panoramica ci evidenzia divari inquietanti e paradossali.
Dalla navicella spaziale la Terra appare azzurra, anche perché la sua superficie è coperta prevalentemente dall’acqua. Solo il 2 per cento di quell’acqua è dolce ma un americano ne usa 575 litri al giorno, soprattutto per innaffiare prati e lavare auto; un europeo ne usa 250 litri; un abitante dell’Africa subsahariana ne usa meno di 19 litri e le donne camminano 10 chilometri al giorno per trasportarla.
Altrettanto bizzarro è il nostro rapporto con il cibo. Oggi le bocche da sfamare si avvicinano ai 7 miliardi ma, fortunatamente, gli agricoltori coltivano prodotti pari a 2800 calorie per ogni essere vivente: più che sufficienti, dunque, per assicurare una sana nutrizione a tutto il genere umano. Eppure milioni di persone continuano a morire di fame, mentre nei Paesi opulenti ogni famiglia getta quotidianamente una parte di ciò che è stivato nel suo frigorifero.
Non meno bizzarra è la distribuzione geografica degli esseri umani e dei loro consumi. Oggi 26 megalopoli superano i 10 milioni di abitanti, occupano il 2 per cento della superficie terrestre ma utilizzano il 60 per cento dell’acqua potabile e sono responsabili dell’80 per cento di tutte le emissioni di carbonio prodotte dall’uomo. New York, da sola, supera il Pil del Brasile. Londra e Parigi messe insieme hanno lo stesso Pil dell’India intera.
L’Occidente ricco, ormai consapevole di non poter crescere ulteriormente a scapito dei Paesi poveri come ha fatto per secoli, è in preda a un doppio disorientamento: da una parte lo spettro della stasi economica, della disoccupazione e della decrescita; dall’altra il crollo di molti miti industriali come l’efficienza a ogni costo, la competitività accanita, la dedizione incondizionata al lavoro. A tutto ciò si aggiunga l’emergere di nuove potenze economiche e di nuovi mercati mondiali che scompiglia il fronte imprenditoriale, inducendo alcuni a invocare nuovi protezionismi, altri a battere le rotte più rischiose delle filibusterie finanziarie corrotte e corruttrici.
«Bisogni deboli» e «new realism». Quando si è poveri – come era l’Italia subito dopo la Seconda guerra mondiale e come è tuttora una parte notevole del Brasile – la tensione del cittadino è fissa su pochi «bisogni forti» che orientano tutte le sue azioni e monopolizzano tutte le sue energie. Trovare un lavoro, comprare una casa, farsi una famiglia sono «bisogni forti» che hanno assillato i nostri nonni e che assillano ancora milioni di persone, ma che danno un senso alla vita ancorandola a un progetto. Poi, man mano che una parte della popolazione riesce a soddisfare i suoi bisogni essenziali, le esigenze imprescindibili cedono il passo ai bisogni postmaterialisti. Sociologi e filosofi postmoderni li hanno chiamati «bisogni deboli», accompagnati da un «pensiero debole». La cultura moderna nata dalla fabbrica cede il passo alla cultura postmoderna nata dalla televisione: un patchwork pasticciato di idee, desideri, oggetti, luoghi ed esperienze in cui è difficile distinguere la sostanza dall’apparenza, il contenuto dal contenitore, l’autentico dall’inautentico, il mezzo dal fine.
Mentre i Paesi ricchi si cullavano in questo disorientamento euforico basato sull’illusione di una crescita infinita, il loro Pil rallentava la corsa. Questa decrescita non programmata e neppure prevista, quindi rimossa, è diventata evidente solo in presenza di alcuni momenti della verità come la disoccupazione galoppante in gran parte dei Paesi dell’Ocse e la crisi finanziaria scoppiata nel 2008, che tutti sanno non essere una crisi ma l’inizio di una lunga e implacabile ridistribuzione mondiale della ricchezza. Nuovi sociologi e nuovi filosofi hanno abbandonato il «pensiero debole» per parlare di «new realism»: la valutazione dei fatti per quel che sono, riportando in primo piano l’istinto di sopravvivenza. Così il disorientamento euforico si è tradotto in disorientamento depresso.
Altri sociologi, con Serge Latouche in testa, hanno cercato di capire se, nonostante la decrescita, o proprio grazie a essa, sia possibile resettare il nostro attuale non modello di vita basato sullo spreco suicida per sfrondarlo di tutte le sue stressanti sovrastrutture e ricondurlo a un progetto improntato alla solida, serena sobrietà essenziale. Non si tratta di giocare a fare i poveri così come in passato abbiamo giocato a fare i ricchi. Si tratta di recuperare una realistica semplicità dopo
avere risolto gli aspetti voraci della complessità. Ma, per ora, nessuno mette mano a questo vasto programma: i vecchi ricchi sono impauriti dalla minaccia sempre più concreta di una decrescita che non riescono a concepire; i nuovi ricchi sono eccitati da un consumismo smodato che porta dritto all’inflazione. Per entrambi cresce il disorientamento provocato da un’economia tanto più fuori controllo quanto più potere viene concesso agli economisti affinché la controllino.
La rinascita di Venere. Nella sfera sessuale l’avvento della pillola ha sdoganato l’erotismo delle donne, scindendolo dalla funzione procreativa. D’altra parte, per avere un figlio, l’uomo ha tuttora bisogno di avere una moglie mentre la donna non ha più bisogno di avere un marito. Negli Stati Uniti, in soli due anni, il numero delle madri che vivono sole con i figli è aumentato del 28 per cento.
La società industriale, più maschilista di quella rurale, precludeva alle donne tutte le attività creative, le carriere politiche e quelle manageriali, inchiodandole ai livelli più bassi delle piramidi sociali, alla riproduzione, all’educazione della prole e all’assistenza familiare. La Chiesa si incaricava di fornire una giustificazione ideologica a questa limitazione.
Nella società postindustriale il rapporto si va rovesciando: ormai in quasi tutte le facoltà universitarie le studentesse sono almeno pari agli studenti e spesso studiano con maggiore diligenza, conseguendo la laurea in meno tempo e con voti più brillanti. Soprattutto nelle professioni creative – dalla pubblicità ai laboratori scientifici, dalle pubbliche relazioni alla moda e al design – le donne stanno entrando nelle stanze dei bottoni e cresce il numero di maschi dipendenti da esse. La reazione degli uomini è di totale smarrimento, che si traduce in arroccamento nei vecchi stereotipi e difesa a oltranza dei privilegi acquisiti.
La libertà sessuale ha spazzato via il tabù della verginità femminile. I rapporti prematrimoniali, persino agli occhi dei cattolici praticanti, sono declassati a semplici peccati veniali. L’erotismo, deprivato di mistero, si è caricato di nevrosi. L’omosessualità, perseguitata per secoli come pratica deviante o come patologia infamante, finalmente appare come
condizione normale o come lecita opzione, con pari diritti rispetto all’eterosessualità.
Comunque, il conflitto soprattutto generazionale tra i vecchi modi di concepire e vivere la sessualità e i costumi nuovi che non hanno trovato ancora un tranquillizzante equilibrio, costituisce un’ulteriore causa di disorientamento.
Famiglia flessibile e religione secolarizzata. Soltanto mezzo secolo fa, un sociologo americano, Edward C. Banfield, indicò nel «familismo» il tratto essenziale della cultura latina. Poi man mano la categoria del familismo fu applicata a tutti i Paesi del Mediterraneo e, via via, a tutti i Paesi non ancora industrializzati. Questo sistema sociale – secondo lo studioso statunitense – è basato essenzialmente sulla famiglia nucleare, unica valida cellula collettiva frapposta tra l’individuo e lo Stato. Anche in questo caso la Chiesa si è incaricata di fornire il supporto ideologico all’enfasi eccessiva posta sulla famiglia.
Man mano che i Paesi si sono industrializzati, le leggi hanno legittimato sia il divorzio che l’aborto introducendo nel sistema familiare alcuni elementi di libertà e di instabilità. A tale motivo di turbamento del vecchio sistema familiare, altri se ne sono poi aggiunti: i sempre più frequenti matrimoni interrazziali e interculturali, i matrimoni civili anche tra persone dello stesso sesso, le coppie di fatto, i secondi e terzi matrimoni, la nascita di figure nuove per le quali ancora non esiste neppure un nome. Ad esempio, cosa è per un bambino la seconda moglie del nonno? Come deve chiamarla?
Nel suo libro Le nuove famiglie, la sociologa italiana Anna Laura Zanatta ha scritto:
Un singolo individuo può fare l’esperienza di vivere una sequenza di forme familiari: può iniziare la sua vita in una famiglia tradizionale; poi in seguito al divorzio dei genitori, può entrare a far parte di una famiglia con un solo genitore (per lo più la madre), quindi di una famiglia ricomposta, se la madre si risposa, acquisendo eventualmente nuovi fratelli e sorelle e una specie di padre «sociale», sia pure non riconosciuto, che si aggiunge,
senza sostituirsi, al padre biologico e legale. Raggiunta l’età adulta, può vivere temporaneamente da solo, dando vita a una famiglia unipersonale; mettere poi in piedi una convivenza (famiglia di fatto) e successivamente sposarsi, non necessariamente con la stessa persona con cui ha convissuto; non si può escludere che poi divorzi, come hanno fatto i suoi genitori, e dia vita a sua volta a una famiglia ricomposta, non più in veste di figlia o figlio ma di coniuge o partner, forse sperimentando di nuovo, prima o dopo, un periodo di solitudine o di convivenza. Infine – se si tratta di una donna, con maggiore probabilità rispetto a un uomo – concluderà la sua vita di nuovo da solo, come vedovo o vedova. La famiglia tende sempre più a trasformarsi da esperienza totale e permanente in esperienza parziale e transitoria della vita individuale. Inoltre, ogni volta che si parla di coppia, potrebbe trattarsi anche di due omosessuali.
Ormai debellate le malattie infantili, una coppia di sposi non è costretta ad avere molti figli per assicurarsi la discendenza. Di qui l’aumento di famiglie con uno o due figli al massimo. Questo fenomeno, accoppiato ai divorzi e alla conquistata longevità degli anziani, sostituisce i vecchi nuclei parentali composti da molti zii e pochi nonni con nuovi nuclei parentali composti da pochi zii e molti nonni.
La scomparsa della famiglia tradizionale, pietra angolare della dottrina cattolica, ha contribuito alla crisi della religiosità tradizionale. Alla secolarizzazione contribuiscono le contraddizioni sempre più palesi tra le conquiste della scienza e i dogmi della fede, il confronto sempre più serrato tra le diverse Chiese, il contrapporsi dei fondamentalismi con la loro ricaduta di guerre cruente.
Molti tentano di esorcizzare questo disorientamento restando praticanti anche quando non sono più credenti. Altri riempiono il vuoto provocato dalla perdita della fede e dei riti tradizionali col passaggio a nuove religioni sempre più esoteriche e con pratiche religiose sempre più eccentriche.
Il patchwork culturale. Durante tutto l’Ottocento, con il passaggio dalla società rurale a quella industriale, le botteghe divennero fabbriche, i villaggi divennero città e le città divennero metropoli. Si è molto meno disorientati lavorando in una bottega familiare e vivendo in un villaggio che lavorando in una multinazionale e vivendo in una megalopoli dove la massa ci toglie la solitudine senza darci la compagnia.
Lo sconvolgimento delle strutture si sarebbe presto tradotto in sconvolgimento delle culture e delle forme. Nella prima metà del Novecento, con i grandi scienziati sono cambiati i paradigmi delle scienze, con i grandi artisti sono cambiati i paradigmi delle arti. E quando, dopo la Seconda guerra mondiale, si è affermata una società postindustriale completamente inedita, allora tutte le contraddizioni sono esplose, provocando quel disorientamento generale in cui la cultura annaspa.
In questo caso la confusione è determinata dalla compresenza postmoderna di modelli di vita, professioni, gusti, idee, usi, forme, costumi e linguaggi, diversi e contraddittori. Alla costruzione di questo patchwork contribuiscono sia la convivenza nelle medesime aree geografiche di cittadini immigrati da ogni regione del mondo, sia il sistema dei media e la rete sempre più potenti e personalizzati, che provocano una babele semantica dove è difficile districarsi in assenza di guide sicure.
A tutto questo va aggiunto ciò che l’antropologo Clifford Geertz dell’Institute for Advanced Study di Princeton ha chiamato blurred genres per cui le biografie storiche sono pubblicate in forma di romanzo, i saggi filosofici si travestono da critica letteraria, la storiografia s’ingolfa di statistiche, l’economia diventa sociologica, l’antropologia diventa documentario, il documentario diventa film. Nello stesso tempo i letterati si trasformano in esperti e vanno a ricoprire posti di responsabilità, i rivoluzionari si trasformano in consiglieri politici come altrettanti incendiari convertiti in pompieri, gli scienziati diventano fortunati scrittori di bestseller. Da quando poi Duchamp, isolando oggetti qualsiasi e ponendoli in ambienti estranei, gli conferì, come dice Werner Hoffmann, la magia e la dignità del feticcio; da quando Malevicˆ contrappose al mondo delle immagini un quadrato nero su fondo bianco e lo intitolò «quadro», da allora si è parlato di morte dell’arte, slittata nella non arte, uccisa da questa «cosa assoluta» di Duchamp e da questa «forma assoluta» di Malevicˆ. Citando Zeitbilder di Arnold Gehlen, Wolf Lepenies dice che, in questo modo, «la pittura perde il motivo, la musica perde la tonalità, il romanzo perde prima l’eroe, poi l’azione. Ciò che resta può essere definito come arte riflessiva: un gioco di specchi sempre più esasperato che ha per protagonista la soggettività umana».
Nel mondo totalmente modificato ciò che più ci turba è il rapido e simultaneo sconvolgimento delle due categorie ancestrali – lo spazio e il tempo – ritenute immutabili da sempre. La società postindustriale è fondata sul movimento e sulla staticità, sulla rapidità e sulla lentezza, sullo spostamento e sulla concentrazione di individui, merci e notizie provenienti dai luoghi più disparati. Persino i bottoni della nostra giacca incorporano tecnologie e conoscenze chiamate a raccolta da innumerevoli Paesi; persino nel pollo che mangiamo c’è più informatica che carne. E questo divorzio della cultura dalla natura, questo «far da sé» dell’uomo, ci inebria, ci spaventa, ci disorienta.
Il modello mancante
Lo schiamazzo delle galline. Auguste Comte assegnò alla sociologia il compito di «vedere per prevedere, prevedere per prevenire» ma la sociologia ha in gran parte eluso questo mandato. Senza vedere, prevedere e prevenire, non poteva contribuire alla costruzione di un modello di vita postindustriale. In questa latenza è stata accompagnata da una vasta e variegata schiera di intellettuali, e il vuoto è stato subito occupato dagli economisti e dai giornalisti.
Come ho già ricordato, nel lungo corso della loro storia gli uomini hanno inventato pochi modelli di vita, quasi sempre determinati dallo scontro tra natura e cultura prima ancora che dallo scontro tra i popoli. Il ruolo dei leader nella formazione dei modelli è molto diversificata. Gandhi e Garibaldi,
ad esempio, hanno entrambi liberato e unificato i rispettivi Paesi ma Gandhi ha anche creato un modello di vita.
Con criteri forse viziati dal mio inevitabile eurocentrismo, ho scelto quindici di questi modelli, ognuno dei quali ha segnato una tappa importante della storia umana indicando di volta in volta nuovi obiettivi e nuovi itinerari. In ogni modello si ritrovano invenzioni salvifiche e crudeltà aberranti: pedagogiche entrambe per chi volesse accingersi all’opera colossale ma ineludibile di costruire il modello che ci manca, adatto ai nostri tempi e ai nostri bisogni, finalmente capace di orientarci in un futuro che continuiamo ad attendere ma che forse è già tra noi.
È possibile far confluire in un solo nuovo modello di vita tutti i pregi dei quindici modelli analizzati, evitandone i difetti? Abbiamo visto, ad esempio, che il modello capitalista riesce a produrre più ricchezza di ogni altro ma che impone il primato dell’economia sulla politica, dà per scontata una crescita infinita e il diritto dei Paesi più forti a colonizzare i più deboli, se non con le armi comunque con le merci e con la cultura. È un modello basato sulla competitività, la concorrenza, il consumismo, la produttività e l’efficienza. Spesso accentua le disuguaglianze ma altrettanto spesso le addolcisce ricorrendo al welfare. Capofila del modello capitalista è quello degli Stati Uniti, ad alta intensità di ricchezza, con l’esercito più potente, le banche più spregiudicate, i laboratori di ricerca più creativi, le università più avanzate, la lingua più diffusa nel mondo, il culto più praticato dell’efficienza e dell’imprenditorialità.
A questo Washington consensus, che include libere elezioni e libertà di stampa, si contrappone sempre meno drasticamente il Beijing consensus che non ammette libere elezioni né libertà di stampa, che anzi viola spesso il diritto internazionale e i diritti civili, che accentua progressivamente la sua politica di potenza, che tende a tenere tutto sotto controllo ma che, a differenza dei massimi Paesi capitalisti, cresce economicamente a tassi altissimi e riesce a ridistribuire bene sia la ricchezza che il sapere.
Nell’India al contrario ben poco è sotto controllo, le distanze socio-economiche tra le caste restano enormi, il capita
lismo si afferma in forme selvagge, le etnie entrano spesso in conflitto tra loro così come le religioni, ma crescono il reddito e l’urbanesimo, la modernizzazione della tecnologia si afferma di pari passo con la professionalizzazione scientifica e manageriale, la cultura complessiva resta profondamente radicata a un umanesimo spirituale.
Differenze stridenti vi sono pure tra i popoli musulmani e quelli europei di cultura latina. Nei molti Paesi musulmani è presente come unico comun denominatore, insieme alla religione, il rapporto diretto con Dio, l’aspirazione all’uguaglianza, il senso di misericordia, la sensibilità, la tenerezza, la solidarietà, il primato della comunità e del gruppo sul tornaconto personale, la generosità, il senso di giustizia e di equità, il rifiuto della competitività, la coesione sociale, la conduzione etico-morale della vita e lo spirito egualitario. Ma vi è pure l’inclinazione al fondamentalismo, la subordinazione imposta alla donna rispetto all’uomo, la deriva terroristica.
L’Europa mediterranea invece è prevalentemente cattolica, i regimi sono democratici, la classe media è numerosa, la gamma di lingue, usi e costumi è vastissima, l’individualismo prevale sugli interessi della comunità, la gender diversity è sempre più attenuata. Anche i Paesi dell’Europa continentale sono democratici, con pluralità di lingue, usi e costumi. Vi prevalgono il protestantesimo, la classe media è numerosa, il welfare è applicato in forme molto avanzate, domina lo spirito del capitalismo e gli standard economici sono i più ricchi del mondo.
Tra i quindici modelli che ho scelto, ho incluso il Brasile perché anticipa situazioni che la società postindustriale estenderà sempre più a livello planetario. In tutti i Paesi del mondo, ad esempio, è in atto quella mescolanza di razze che il Brasile ha sperimentato con il meticciato fin dal Cinquecento. Fortunatamente cresce il numero di Paesi che vivono in pace con le nazioni confinanti, e anche in questo il Brasile rappresenta un esempio precursore ed eloquente. Il modello di vita brasiliano, benché funestato dalla violenza, dallo scandaloso divario tra ricchi e poveri, dalla corruzione, dalla carenza di infrastrutture, dall’analfabetismo di ritorno, tuttavia coltiva una concezione poetica, allegra, sensuale e
solidale della vita, una propensione all’amicalità e alla solidarietà, un atteggiamento improntato alla cordialità.
Per valutare i Paesi, di solito non si comparano i rispettivi modelli di vita presi nel loro insieme, ma si comparano i Pil, gli eserciti e le spese militari, il rispettivo mercato del lavoro, la bilancia dei pagamenti, la superficie, il numero degli abitanti. La comparazione dei modelli nel loro insieme resta un fatto giornalistico e, quando vengono fatte in modo scientifico, si limitano ad aspetti particolari come la condizione femminile, la criminalità, la droga, i consumi. Di solito ciò che fa testo è la ricchezza, e il Paese vincente finisce sempre per essere gli Stati Uniti. Ma noi sappiamo che non sempre la ricchezza garantisce felicità, anche se la simula molto bene. Come direbbe Engels, «lo schiamazzo delle galline non è in rapporto diretto con la grandezza delle uova» e la qualità della vita nel piccolo inerme Buthan potrebbe sorprenderci più di quella riscontrabile in Paesi molto più grandi e potenti.
Se oggi stesso nei Paesi ricchi finisse la disoccupazione, il debito pubblico fosse azzerato, le imprese ottenessero ogni prestito, le monete svalutate si rivalutassero, tuttavia le popolazioni resterebbero disorientate. Il vento favorevole non le faciliterebbe nel raggiungimento della meta per il semplice fatto che non hanno una meta.
Classe sterile e coscienza tranquilla. Forse spettava agli intellettuali fornire un senso alla vita e un modello alla società postindustriale. Forse gli intellettuali del filone umanistico – filosofi, sociologi, psicologi, letterati, artisti – avrebbero dovuto prestare maggiore attenzione ai sintomi dello smarrimento, avrebbero dovuto prevenire i movimenti dell’uomo postmoderno fornendogli in anticipo le mappe per avventurarsi nel mutamento. Ma questa «classe discutidora» come la chiamava Donoso Cortés, questo «système agissant a rebours», un sistema che agisce verso il basso, come lo definiva Diderot, questa specie malinconica che secondo Paul Valéry «si lamenta, dunque esiste», era impegnata a costruirsi una fortuna e a rifugiarsi nell’utopia; soffriva per il mondo ma non si preoccupava di immaginarne uno migliore. Tanto meno di costruirlo. Questo disincanto e questo disimpegno hanno
condannato l’intellighenzia umanistica alla sterilità orientativa e alla subalternità rispetto all’intellighenzia scientifica perché «gli scienziati non si disperano per il mondo, ma si sforzano di spiegarlo, non pensano utopisticamente, ma elaborano previsioni; il loro agire non è caratterizzato né dalla disperazione né dalla speranza, ma dall’obiettività e dal possesso di una coscienza tranquilla», come scrive Wolf Lepenies in Ascesa e declino degli intellettuali (1992). Così, nel contesto intellettuale, mentre la classe lamentosa indugiava nella melanconia nostalgica, la classe dalla coscienza tranquilla rivoluzionava il mondo.
Forse l’unica eccezione in cui l’intellighenzia letteraria ha assunto più rilevanza politica dell’intellighenzia scientifica va rintracciata negli intellettuali dell’Europa centrale come Vaclav Havel, György Konrád, Milan Kundera, Czesław Milosz, Bronisław Geremek, cui vanno aggiunti filosofi, musicisti jazz, studenti, che proprio la cultura ha dotato di tutta la forza necessaria per battersi coraggiosamente per un mondo migliore. «Il loro atteggiamento spirituale – nota Lapenies – si è più improntato all’ironia che al pathos e grande è stata la fede riposta nel potere delle idee e nell’efficacia della letteratura. L’utopia, allora, non è tanto una fuga dalla realtà, ma piuttosto il tentativo di immaginare ed evocare con la scrittura una realtà migliore, grazie alla forza del pensiero e della parola.» Mentre nel resto del mondo la maggioranza degli altri intellettuali era impegnata a cogliere e cucire le convergenze tra ricchi e poveri, tra destra e sinistra, tra bene e male, tra bello e brutto, «gli intellettuali dell’Europa centrale e orientale sono stati gli istigatori di una cultura del conflitto che, con lo scoppio delle rivoluzioni pacifiche degli ultimi anni, ha contribuito enormemente ad allargare lo spazio della libertà in Europa».
Molti per molti. Ma forse nella società postindustriale non è lecito accollare ai soli intellettuali l’onere di elaborare un modello di vita adeguato ai tempi nuovi. Durante i settanta secoli della società rurale, in Occidente la cultura è stata prodotta da pochi e destinata a pochi. Poi, durante i due secoli della società industriale, la cultura è stata prodotta
da pochi ma destinata a molti attraverso i media; così pure i grandi mutamenti sono stati pensati dalle avanguardie politiche, scientifiche artistiche e poi hanno coinvolto le masse tramite l’educazione, la manipolazione o l’imposizione. Oggi la cultura è prodotta da molti e fruita da molti; così pure i mutamenti spesso emergono dalla massa e vivono con la massa. La migliore metafora di questa radicale novità è offerta da Wikipedia. Chi la scrive? Chi la legge? Tutti indistintamente possono fare l’una e l’altra cosa.
Ovunque fioriscono esempi eccellenti di cultura prodotta da molti e destinata a molti. Si pensi, per l’America Latina, al gruppo Axé creato a Salvador de Bahia da Cesare de Florio La Rocca, dove i ragazzi di strada offrono a tutti le loro sorprendenti creazioni di moda, stampa, danza, capoeira e musica. Si pensi alla scuola di danza Bolshoi Brasil creata nello stato di Santa Catarina dal governatore Luiz Henrique da Silveira, dove gli spettacoli di danza prodotti da ottocento giovani ballerini sono offerti a tutta la popolazione. Si pensi al sistema di scuole pubbliche create dal sindaco Paulo Mac Donald Ghisi accanto alle favelas di Foz do Iguaçu, dove studiano più di 30.000 bambini poveri che trasferiscono nelle rispettive case le proprie acquisizioni culturali. Si pensi alla rivoluzione urbanistica innescata da Jaime Lerner a Curitiba o a quella gastronomica partita dal Piemonte grazie a Carlo Petrini. E si pensi all’imponente sistema di scuole musicali creato a Caracas da José Antonio Abreu, che oggi educa alla musica sinfonica 350.000 ragazzi in Venezuala e quasi un milione in tutto il mondo. Organizzati in nuclei, ognuno dei quali comprende orchestre sinfoniche, complessi cameristici e cori, questi giovani musicisti offrono concerti tanto nei grandi auditorium di tutto il mondo, quanto alla popolazione povera dei villaggi e delle favelas.
Dice Abreu: «Cos’è un’orchestra? È una comunità che ha come caratteristica essenziale ed esclusiva di costituirsi con l’obiettivo di unire persone al suo interno. Perciò chi fa parte di un’orchestra inizia a vivere la filosofia del gruppo che si riconosce come interdipendente, dove ognuno è responsabile di tutti e tutti sono responsabili di ciascuno. Riunirsi perché? Per generare bellezza». Così ogni giovane musicista impara
dalla pratica orchestrale che, oltre al caos, alla violenza, all’individualismo dell’ambiente di provenienza, esiste anche la possibilità di vivere in modo ordinato, bello e collaborativo.
La miseria genera disgregazione e i morsi della fame distruggono la spiritualità, cioè la parte più intima e sublime della nostra natura. Il sistema Abreu ha dimostrato che l’educazione estetica, la partecipazione a un’orchestra o a un coro offrono un antidoto insperato e prodigioso all’anomia. «Chiunque, suonando, generi bellezza e armonia musicale, inizia a conoscere dentro di sé ciò che è l’armonia essenziale: l’armonia umana... L’arte è stata inizialmente una cosa delle minoranze per le minoranze; successivamente delle minoranze per le maggioranze; noi ora stiamo iniziando una nuova era in cui l’arte è un’impresa della maggioranza per la maggioranza.»
A modo loro, anche i grandi movimenti di protesta contribuiscono coralmente alla formazione del nuovo modello. I giovani cinesi a Tienanmen, quelli egiziani a Tahrir, quelli americani a Wall Street, quelli turchi a Taksim, quelli brasiliani nella piazza dei Tre Poteri sono stati promotori e attori di aggregazioni iniziate su internet e proseguite nelle strade, senza leader, senza progetti, unite solo da un generico rifiuto della corruzione, del sopruso, della crescita insensata, delle istituzioni tanto onnivore quanto arroganti e incompetenti. Il fatto stesso che in tutti questi casi internazionali, geograficamente distanti migliaia di miglia l’uno dall’altro, le istituzioni e la classe dominante siano state egualmente colte di sorpresa, dimostra la loro comune incapacità di capire il presente e, a maggior ragione, di progettare il futuro. Ognuno di questi movimenti, come tutti i movimenti postindustriali nutriti dai social network, prima o poi entra in una fase di quiescenza ma resta vivo su internet e nell’immaginario collettivo, pronto, ogni volta che ne scoppia l’occasione, a tornare in piazza assumendo forme inattese.
Tra tutti i Paesi del mondo il più preparato a queste forme di conflittualità postindustriale, che ormai sostituiscono quelle sindacali e partitiche evaporate insieme alla società industriale in cui erano nate, forse è proprio il Brasile che nei cinque secoli della sua storia europeizzata ha esiliato due imperatori, ha sostituito la monarchia con la repubblica, ha portato al
potere i dittatori e li ha rovesciati, sempre ricorrendo a grandi movimenti di piazza, senza degenerare in guerre civili.
Partire dalle certezze. La mia tesi è che il nostro disorientamento derivi dalla carenza di un modello di vita universale, condiviso, aderente alla società postindustriale, che consenta di tracciare le coordinate del nostro presente e decidere con lucidità le rotte e gli approdi del nostro futuro. Il non modello indebolisce i legami sociali e la tenacia nel perseguire gli obiettivi, fa prevalere il narcisismo, rende inermi nei confronti degli opinion leader, infiacchisce il carattere e rende sciatto lo stile.
Come abbiamo visto, non tutti reagiscono allo stesso modo: le personalità forti e creative che ho portato ad esempio ne ricavano lo stimolo per trovare nuove idee e sperimentare nuovi equilibri facendo lievitare dalla collettività la verità e la bellezza. Però tutti gli altri perdono fiducia e si condannano a una sterile depressione.
Per uscire dall’empasse occorre partire dalle certezze tranquillizzanti, che pure ci sono. Ogni anno il prodotto interno lordo mondiale cresce mediamente del 4 per cento; mai prima d’ora la vita umana era stata così lunga; mai prima d’ora sette miliardi di cervelli avevano abitato il pianeta; mai avevamo prodotto tanti beni e tanti servizi con così poca fatica fisica e mentale; mai le minoranze erano state così rispettate; mai tanti cittadini erano stati inseriti nella gestione democratica della cosa pubblica; mai prima eravamo stati così capaci di debellare il dolore fisico; mai l’Europa, la Cina, l’America Latina, il Giappone, il Canada, l’Australia avevano goduto di una pace così duratura.
È vero che mai prima d’ora il sistema sociale è stato così mutevole e complesso, ma è anche vero che mai prima d’ora abbiamo avuto a nostra disposizione strumenti così potenti per prevedere il mutamento e dominare la complessità: basti pensare alla rivoluzione dei big data. Il movimento, del resto, appartiene alla nostra natura, fa parte del nostro patrimonio genetico: dal concepimento alla morte il nostro corpo si muove, anche di notte; la nostra mente sogna, anche di giorno.
Oltre che da queste innegabili certezze, l’idea di orienta
mento può venirci dalla cultura della saggezza e dalla gioia della bellezza: due coordinate che il mondo classico – da Socrate a Seneca – ha coltivato con tutta la sua prodigiosa creatività e che ancora oggi può suggerire itinerari felici a chi si avventura nella postmodernità.
Queste due coordinate ci aiutano a collocare ogni cosa al suo giusto posto nella scala dei valori senza cadere nei trabocchetti della manipolazione che induce a sopravvalutare il futile e trascurare l’essenziale. Ci consentono di moderare i bisogni quantitativi, perennemente insoddisfatti, per convogliare la nostra tensione sui bisogni radicali.
La forza buona del mutamento. Infine, la cultura della saggezza e la contemplazione della bellezza possono svelarci, dietro ogni motivo di paura, anche un’occasione di speranza.
La bomba demografica può essere disinnescata da un attento controllo delle nascite; le ondate migratorie possono essere ridotte dallo sviluppo locale delle zone di partenza e, intanto, possono compensare il declino demografico e culturale delle zone di arrivo; le tecnologie, che provocano disoccupazione quando sono introdotte in modo scriteriato, possono assicurare benessere e tempo libero se introdotte con preventiva intelligenza; la scienza può arginare le malattie e allontanare la morte con nuovi farmaci e nuovi metodi; la progressiva riduzione degli orari di lavoro, il telelavoro, gli accorgimenti sociologici e psicologici possono ridurre lo stress del lavoro e delle organizzazioni; la partecipazione può sconfiggere l’autoritarismo; internet può aprire brecce nei monopoli della comunicazione e ridurre tanto gli spostamenti quanto l’isolamento; i movimenti ambientalisti possono tenere viva la coscienza ecologica, quelli anticonsumisti possono mettere in guardia dallo spreco; la globalizzazione, realizzata in forme capaci di evitare l’omologazione culturale e la colonizzazione economica, può migliorare la qualità della vita anche nel Terzo mondo e può far conoscere, valorizzandole, le identità locali; i nuovi strumenti disponibili per garantire la trasparenza possono fornire un argine alla violenza e alla corruzione; un adeguato rinnovamento pedagogico può educare all’ozio creativo.
Per attivare questa forza buona del mutamento, per costruirne la bussola orientatrice, occorre armarsi di utopia positiva, fatta di fantasia e di concretezza, di emozione e di regola. Occorre convincersi che il nostro non è il migliore dei mondi possibili, ma resta tuttavia il migliore dei mondi esistiti finora.
Cittadinanze molteplici. Secondo Fritjof Capra, e io concordo pienamente, «ciò di cui abbiamo bisogno è un nuovo paradigma, una nuova visione della realtà; un mutamento fondamentale dei nostri pensieri, percezioni e valori».
La globalizzazione della scienza e dell’economia richiede un modello unico di vita, meticcio e universale, in cui però possano convivere liberamente, come in una cornice che le impreziosisca, tutte le culture che meritano di essere salvate o sperimentate: un pantheon come quello vagheggiato da Adriano in cui possano convenire tutti i popoli della terra e tutti gli dèi del cielo. Il primo modello meticcio e planetario della storia umana.
Tale modello, capace di consentire una forte personalizzazione e, insieme, una forte integrazione, deve tenere sempre presenti i costi sociali, a breve, medio e lungo termine, di ogni decisione economica e deve essere sempre in grado di conferire molteplici cittadinanze.
Nel 1950 Thomas Humphrey Marshall sostenne che la storia della cittadinanza ha attraversato tre fasi: nel Settecento assicurò i diritti civili (proprietà, garanzia della privacy, possesso delle armi, libertà di espressione, di fede, di stampa, ecc.); nell’Ottocento, i diritti politici (estensione alle donne, alle minoranze e ai poveri delle garanzie prima riservate al maschio bianco dotato di proprietà); nel Novecento, i diritti sociali (salute, istruzione, pensione).
Cosa deve aggiungere il nostro modello postindustriale? Nel saggio del 2000 Sociology Beyond Societies: Mobilities for Twenty-First Century, John Urry, sociologo inglese della Lancaster University, individua ulteriori tipi di cittadinanza, corrispondenti ad altrettanti diritti umani universali: la cittadinanza culturale (per cui ogni cultura ha il diritto di preservare la propria identità), quella dell’emigrazione (per cui ogni minoranza può spostarsi in altre società con le stesse
garanzie, gli stessi diritti e gli stessi doveri dei nativi), quella ecologica (cioè il diritto di vivere in armonia con il pianeta, godendo i frutti della natura), quella cosmopolita (il diritto di relazionarsi senza intralci burocratici con altre società, altre culture, altre persone), quella del consumo (il diritto di accedere liberamente a beni, servizi e informazioni in tutto il mondo), quella motoria (il diritto di transitare con rispetto attraverso territori e culture).
Come miniere d’oro. Già nel 1949, secondo Leslie White (La scienza della cultura) il futuro prometteva per tutta l’umanità: «più alti livelli di integrazione... Maggiori concentrazioni di potere e di controllo politico... Una singola organizzazione politica, che comprenderà l’intero pianeta e l’intera razza umana». Dieci anni dopo, nell’introduzione a The Institutions of Advanced Societies, Arnold Ross scriveva: «Negli ultimi quattro secoli si è andata sviluppando una cultura mondiale che interessa tutte le società a sviluppo avanzato... L’origine e l’essenza di questa cultura comune sono il commercio internazionale e l’industrializzazione e le loro dirette conseguenze quali l’urbanizzazione, la specializzazione, la secolarizzazione, la possibilità di mobilità sociale, l’istruzione diffusa e il miglioramento del livello materiale di vita».
Ma, per conferire alla società postindustriale il modello universale e meticcio di cui ha bisogno, occorre incrociare punti di vista diversi. Nelle scienze sociali vale a maggior ragione il criterio che Robert Oppenheimer raccomandava per la fisica: «Prendere in considerazione più di una prospettiva, e utilizzarle completamente in modo da scoprire tutto quanto è possibile scoprire». In questo libro ho voluto offrire quindici prospettive, quindici modelli diversi, costruiti da milioni di esseri umani lungo secoli di riflessione e di sperimentazione. Ma non basta riconoscere la compresenza e l’utilità di più modelli parziali e a volte contrastanti. Occorre la disponibilità a prenderli in considerazione, a esplorarli e compararli, tutti con pari attenzione, per trarne gli indizi utili alla costruzione del modello mancante. Il fatto che ci siamo abituati ad agire secondo un non-modello, rende ancora più difficile elaborare quello giusto.
Il sociologo Alex Inkeles ha paragonato i modelli sociologici ai giacimenti d’oro: ognuno di essi ha avuto il suo momento magico, il suo tempo e il suo luogo di trionfo. Alcuni cercatori d’oro si ostinano a scavare anche quando la vena è visibilmente esaurita mentre altri preferiscono avventurarsi nell’esplorazione di nuovi giacimenti prima ancora che si esauriscano quelli precedenti. Parimenti sterili sono la spericolata frenesia del nuovo e la caparbia insistenza nel vecchio. Parlando degli italiani, Leo Longanesi diceva che «sposano un’idea e subito la lasciano con la scusa che non ha fatto figli». Altrettanto dissennata è l’eccessiva fedeltà a un modello obsoleto, che si trasforma così in paraocchi ideologico, capace di impedire la percezione tempestiva dei cambiamenti sociali. Più insensata ancora è l’insistenza in un non modello come il nostro, inadeguato e confusivo. In Social Change with Respect to Culture and Original Nature (1950) William F. Ogburn dimostrò la legge del cultural gap per cui il nostro modo di pensare tende ad evolvere più lentamente del nostro mondo materiale. Facile perciò cedere alla tentazione di ricorrere ai vecchi modelli per comprendere e gestire le nuove realtà, con risultati sterili e deprimenti. Non avendo elaborato a dovere un modello coerente con la società postindustriale, noi ci illudiamo di poter vivere ancora secondo il modello industriale, accollandoci così tutte le tristi conseguenze del cultural gap.
La fertilità di Cacania. «Il mondo è giovane ancora» constatava Giambattista Vico con l’ingenuo stupore così frequente nei geni. Con la stessa fresca speranza che animò l’età dei Lumi, noi possiamo – dobbiamo – stipulare un nuovo patto sociale tra uomini e donne, tra giovani e anziani, tra autoctoni e immigrati, tra occupati e disoccupati per ridistribuire equamente la ricchezza, il lavoro, il potere, il sapere, le opportunità e le tutele. Un modello di respiro internazionale e non solo locale, di ordine culturale e non solo economico, capace di risolvere l’attuale lotta di classe condotta dai ricchi contro i poveri.
La ricchezza, soprattutto se mal prodotta e mal distribuita, invece di creare senso di benessere in chi la possiede, provoca
astio e risentimento verso i poveri, proprio come è avvenuto per anni in Sudafrica dove l’esigua minoranza bianca ha ghettizzato la straripante maggioranza nera.
Come ho già scritto in un articolo del 1995, la società industriale fu segnata dalla lotta di classe dei poveri contro i ricchi; la società postindustriale è segnata dalla guerra dei ricchi contro i poveri: una sorta di «sindrome di Johannesburg» per cui il miliardo di ricchi ha sempre più paura dei sei miliardi di poveri e si difende da essi attaccandoli, riducendo gli aiuti umanitari, peggiorando la qualità dell’istruzione, ostacolando i flussi migratori.
Solo episodicamente si tratta di una guerra cruenta, ma in linea di massima adotta tattiche ben più sofisticate e manipolatorie, diverse a seconda delle fasce sociali e razziali della controparte da fiaccare.
La pressione esercitata contro i poveri semianalfabeti tende a ridurre il sottoproletariato in un docile esercito industriale di riserva e il Terzo mondo in un immenso suk dove smaltire tutta la merce scartata dal Primo mondo. La pressione esercitata contro il proletariato e contro la piccola borghesia scolarizzata del Primo mondo tende a manipolare queste masse semiagiate per trasformare ognuno dei suoi membri in esecutori specializzati, motivati e obbedienti sul lavoro, in consumatori voraci, acculturati e arrendevoli nel tempo libero, in cittadini comunque impauriti dall’insicurezza fisica e occupazionale. Già da soli, i Neet rappresentano un nutrito esercito di eterna riserva, costretto a scegliere tra violenza o depressione.
Qualche milione di creativi basterà per produrre tutte le idee necessarie a sostenere il ritmo del progresso. Questa ristretta élite, coadiuvata da pochi altri milioni di collaboratori di alto livello, servita da una tecnologia onnipotente, si approprierà di tutto il potere economico e politico, potendo contare indisturbata sull’obbedienza di masse esecutrici tanto più inermi quanto più scolarizzate e più esposte ai media. Già se ne scorgono le avvisaglie, soprattutto nelle organizzazioni dove i subalterni una volta erano gli operai pronti alla ribellione mentre ora sono gli impiegati, i manager e persino i dirigenti, rassegnati a tutto.
Questo problema è tanto più insolubile quanto più declinano le ideologie laiche di tipo solidaristico, sostituite da visioni egoistiche basate sulla competitività individuale e globale. Ai proletari sfruttati dell’Ottocento Marx non proponeva (se non come estremo rimedio, come fase rivoluzionaria provvisoria e strumentale) di disarcionare gli sfruttatori per mettersi al loro posto: proponeva invece di assumersi il compito della liberazione universale; proponeva di costruire una società nuova, senza più sfruttatori né sfruttati. Ai concorrenti del Duemila, il neoliberismo non propone di costruire una società nuova, più giusta e più felice per tutti: propone di battere gli avversari senza pietà e di appropriarsi della loro fetta di mercato; propone di costruire il progresso disinteressandosi delle sue vittime.
Ciò determina la formazione di un immenso potenziale eversivo, una polveriera umana nutrita di invidia sociale, di rancore e di vendetta. Può darsi, come sosteneva Walter Benjamin, che «solo per merito dei disperati ci è data una speranza». Per ora questo potenziale trova ascolto e accoglienza solo presso la Chiesa cattolica, incline a convogliarlo verso pacifici approdi di perdono e di carità. Quando, tuttavia, questi argini dovessero diventare insufficienti, allora la conflittualità tracimerebbe in lotta cruenta e in successivi conati di un nuovo sistema sociale che, proprio perché nato dalla violenza, sarebbe destinato a risolversi in un ulteriore fallimento epocale per tutti.
I quindici modelli esaminati in questo libro offrono numerosi spunti per avviare la costruzione del modello mancante. Basterebbe riandare alla Vienna tra Otto e Novecento e rivivere il clima culturale di quel grande incubatore di modernità per cavarne suggestioni feconde. Grazie a L’uomo senza qualità di Robert Musil (1880-1942) sappiamo come Vienna, in piena società industriale, riusciva a praticare un ozio creativo squisitamente postindustriale, contrapponendosi già allora alla frenetica città superamericana. «Là, in Cacania – è così che l’autore soprannomina Vienna – c’era anche la velocità, ma non troppa... Naturalmente sulle strade viaggiavano anche automobili; ma non troppe! Si preparava anche là la conquista dell’aria; ma non troppo assiduamente... Si faceva lusso; ma non così raffinato come in Francia. Si faceva sport; ma non così accanito come in Inghilterra. Si spendevano grandi somme per l’esercito; ma solo quanto bastava per rimanere la penultima delle grandi potenze... E poi in Cacania poteva succedere che un genio fosse scambiato per un babbeo, mai però, come succedeva altrove, che un babbeo fosse scambiato per un genio.»
È in questa Cacania serena che «l’arte mette in disordine la vita e i poeti dell’umanità ristabiliscono ogni volta il caos», come disse Karl Kraus.
L’aquila e il tacchino. Un caro amico brasiliano mi ha raccontato due storie di animali, forse non vere ma, comunque, adatte al caso nostro. La prima storia dice che, se si disegna un cerchio di gesso intorno a un tacchino, l’animale ne resta psicologicamente prigioniero e non è capace di uscire da questa sua prigione immaginaria.
La seconda storia racconta dell’aquila, il più longevo dei volatili, che può vivere fino a 70 anni purché, intorno alla quarantina, sia capace di prendere una decisione cruciale. A questa età, infatti, il suo becco e i suoi artigli sono così malandati che le diventa impossibile ghermire le prede. A loro volta le sue ali sono talmente appesantite dalle vecchie penne, che non le consentono più di spiccare il volo. A questo punto l’aquila ha due sole alternative: o si lascia morire o affronta un doloroso processo di rinnovamento che dura circa 150 giorni. Tale processo consiste nel ritirarsi in cima a una montagna, battere il becco contro le rocce fino a consumarlo del tutto e attendere pazientemente che si riformi. Quando finalmente si sarà formato un nuovo becco, con questo le sarà possibile aggredire le unghie dei suoi artigli fino a distruggerle. Quando finalmente saranno rinate anche le unghie, con queste potrà liberarsi delle vecchie penne. E così, dopo cinque mesi, sarà finalmente pronta a spiccare un nuovo volo che le permetterà di vivere altri trent’anni.
Come il tacchino, siamo prigionieri di un non modello. Come l’aquila siamo di fronte al bivio di rinnovarci o soccombere. Mi pare che fosse Borges a dire: «Quando arrivi a un bivio, imboccalo!».
Finisce qui questa lunga premessa a un libro che dovrebbe proporre un nuovo modello di vita per la nostra società senza orientamento. Un libro di cui non si può fare più a meno, ma che non può essere scritto da una sola persona e forse neppure da un team interdisciplinare di nuovi illuministi. Grazie alla rete, dovrà essere scritto da tutti e per tutti.
È questo che ti lascio
Per chi volesse contribuire a una simile impresa, potrà essere stimolante rileggere la famosa poesia Testamento del poeta greco Kriton Athanasulis. Si trova nella raccolta Due uomini dentro di me, pubblicata nel 1957, proprio quando la società industriale tramontava e quella postindustriale muoveva i primi passi.
Non voglio che tu sia lo zimbello del mondo. Ti
lascio il sole che lasciò mio padre
a me. Le stelle brilleranno uguali, e uguali t’indurranno le notti
a dolce sonno,
il mare ti riempirà di sogni.
Ti lascio il mio sorriso amareggiato: fanne scialo, ma non
tradirmi. Il mondo è povero
oggi. S’è tanto insanguinato questo mondo
ed è rimasto povero. Diventa ricco tu guadagnando l’amore del
mondo.
Ti lascio la mia lotta incompiuta
e l’arma con la canna arroventata.
Non l’appendere al muro. Il mondo ne ha bisogno. Ti lascio il mio
cordoglio. Tanta pena
vinta nelle battaglie del mio tempo.
E ricorda. Quest’ordine ti lascio.
Ricordare vuol dire non morire.
Non dire mai che sono stato indegno,
che disperazione m’ha portato avanti e son rimasto indietro, al di
qua della trincea.
Ho gridato, gridato mille e mille volte no,
ma soffiava un gran vento, e pioggia, e grandine
hanno sepolto la mia voce.
Ti lascio la mia storia vergata con la mano d’una qualche speranza.
A te finirla.
Ti lascio i simulacri degli
eroi
con le mani mozzate, ragazzi che non fecero a tempo ad assumere
austera forma d’uomo,
madri vestite di bruno, fanciulle violentate.
Ti lascio la memoria di Belsen e di Auschwitz.
Fa’ presto a farti grande. Nutri bene
il tuo gracile cuore con la carne
della pace del mondo, ragazzo, ragazzo.
Impara che milioni di fratelli innocenti
svanirono d’un tratto nelle nevi gelate
in una tomba comune e spregiata.
Si chiamano nemici: già! i nemici dell’odio.
Ti lascio l’indirizzo della tomba
perché tu vada a leggere l’epigrafe.
Ti lascio accampamenti
d’una città con tanti prigionieri:
dicono sempre sì, ma dentro loro muggisce l’imprigionato no
dell’uomo libero.
Anch’io sono di quelli che dicono, di fuori,
il sì della necessità, ma nutro, dentro, il no.
Così è stato il mio tempo. Gira l’occhio
dolce al nostro crepuscolo amaro.
Il pane è fatto pietra, l’acqua fango,
la verità un uccello che non canta.
È questo che ti lascio. Io conquistai il coraggio d’essere fiero.
Sforzati di vivere.
Salta il fosso da solo e fatti libero.
Attendo nuove. È questo che ti lascio.*
* Traduzione di Filippo Maria Pontani, da Poeti greci del Novecento, a cura di Nicola Crocetti e Filippo Maria Pontani, Arnoldo Mondadori Editore 2010.