Nei cinquant’anni successivi alla scoperta, le poche centinaia di portoghesi sbarcati in un territorio più grande dell’Europa si trovarono in una situazione così imprevedibile e confusionale da portarli a invocare un rappresentante del

 

re, capace di prendere in mano la situazione e sventare eventuali occupazioni da parte di altri Stati europei. Finalmente, come abbiamo accennato, nel 1549 il re Giovanni III inviò il primo governatore della nuova colonia Tomé de Sousa con un seguito di alcuni funzionari, seicento soldati e quattrocento degredados, cioè banditi. Ma vi erano anche sei gesuiti, guidati dal già citato padre Manuel da Nóbrega, che saranno determinanti per le sorti del Brasile. «Questi sei uomini – scrive Zweig – portano con sé la cosa più preziosa che occorre per l’esistenza di un popolo e di un Paese: un’idea, e precisamente l’idea creatrice del Brasile... Nei loro piani il Brasile futuro non deve essere una nazione di signori bianchi sovrapposta a una nazione di schiavi di colore, bensì un unico popolo libero in un Paese altrettanto libero... Per loro l’indigeno, in quanto futuro brasiliano e anima acquistata alla fede di Cristo, rappresenta forse la sostanza più preziosa di questa terra, più importante della canna da zucchero, del mogano e del tabacco, a causa dei quali i poveretti rischiano di essere asserviti e sterminati.» Ciò cui mirava quello sparuto drappello di gesuiti era «la formazione di una comunità teocratica, di un complesso statale di nuovo genere, non sottoposto alla forza del denaro e della violenza». Nóbrega diceva: «Esta terra é nossa empresa», e non gli si può negare di averla organizzata in modo generoso e geniale.

A quell’epoca il fondatore dei gesuiti Ignazio di Loyola (1491-1556) era ancora in pieno vigore e i sei gesuiti avevano il mandato di realizzare concretamente le sue idee attraverso un modo nuovo di colonizzazione che comportava la conquista delle anime rispettando la dignità degli indigeni, liberandoli dalle pratiche «incivili» come l’antropofagia, il nudismo, il nomadismo e la poligamia, educandoli gradualmente al lavoro collettivo e alla convivenza organizzata. «Come il tempestivo arrivo dei gesuiti è un caso fortunato per il Brasile, così il Brasile si rivela una fortuna per loro, essendo l’officina ideale per il loro progetto» nota Zweig.

Il capo del drappello, Manuel da Nóbrega, è un dinamico e lungimirante trentaduenne laureato a Coimbra, scartato dalla carriera unversitaria perché balbuziente, energico consigliere di un governatore e psicologicamente sottomesso alla sua

 

autorità spirituale. Padre Nóbrega divenne protagonista di tutte le maggiori vicende brasiliane del suo tempo, compresa la fondazione della città di San Paolo, con l’idea di stabilizzare gli indios nomadi nelle reducciones – qualcosa di mezzo tra la fortezza, il villaggio, la fattoria, la scuola, il monastero – in cui era possibile difenderli dalle bandeiras, istruirli, convertirli, educarli agli usi e ai costumi europei, «consegnarli alla fede, alla terra, al futuro» come dice enfaticamente Zweig.

In duecento anni le reducciones fondate in Sudamerica diventarono trentatré. Ognuna di esse ospitava dai 1200 ai 6600 indios e la loro concezione anticipava di secoli i phalanstères di Fourier, i kolchoz sovietici e i kibbutz israeliani. Sottratte agli schiavisti e alla giurisdizione dei funzionari regi, le reducciones erano organizzate capillarmente dai gesuiti, che ne assicuravano anche la difesa tramite un corpo armato composto dagli stessi indios.

Fu sorprendente l’evoluzione ottenuta in due sole generazioni da questi «bianchi buoni» contrapposti ai «bianchi cattivi» che riducevano gli indios in schiavitù per sfruttarli nelle fazendas e nelle miniere. La vita sociale delle reducciones era regolata come quella di un ordine religioso; le preghiere e il catechismo si alternavano con il lavoro; le arti erano insegnate insieme ai mestieri, l’addestramento riguardava anche le tecniche più moderne (fu organizzata persino una tipografia per diffondere la lettura). L’insegnante di musica padre Anton Sepp, parlando degli allievi guaranì, diceva che «se gli poni in mano una figura umana o un disegno, vedrai in poco eseguita un’opera d’arte, come in Europa non se ne può avere simile».

Ma furono «i bianchi cattivi» ad avere la meglio. Conquistadores e degredados, lontani geograficamente dal Portogallo, dalle sue leggi e dalle sue punizioni, operavano in Brasile nella più spregiudicata libertà sostenendo che «ultra equinoxialem non peccatur». Per essi l’organizzazione delle reducciones era un affronto intollerabile e un pericoloso modello alternativo da abbattere. Ci riuscirono conducendo contro di esse e contro i gesuiti una vera e propria guerra che si concluse nel 1756 con la battaglia di Caiboaté e la sconfitta degli indios che, prima di abbandonare le reducciones, le diedero alle fiamme.

 

Quattro anni dopo, nel 1760, i gesuiti furono espulsi dal Brasile ma il loro lavoro non andò perso. Quando essi erano arrivati avevano un piano orientato al futuro: educare «questa nuova terra nello spirito di un’unica religione, di un’unica lingua, di un’unica idea. Se questo fine è stato raggiunto, il Brasile lo deve unicamente a questi primi creatori dell’idea del loro Stato». Così conclude Zweig.

Non per mitigare il suo entusiasmo nei confronti della Compagnia di Gesù, ma per amore del vero va comunque ricordato che, durante tutta la loro presenza in Brasile, i gesuiti utilizzarono gli schiavi e ne organizzarono il commercio dall’Angola, convinti che, in base all’insegnamento di sant’Agostino, la cattività del corpo non implica quella dell’anima e che anche il lavoro forzato può essere una buona occasione per trasmettere allo schiavo i valori essenziali del cristianesimo. Lo stesso padre Nóbrega, in una sua nota, comunica con la massima indifferenza di avere fornito al proprio collegio alcune mucche e tre schiavi. Nel 1640 il solo collegio gesuitico di Rio de Janeiro ne impiegava 600, quasi tutti africani. Del resto, il ricorso a questi schiavi appariva ai gesuiti come il male minore per consentire la liberazione degli indios.

Nella vicenda delle reducciones i francescani si schierarono contro i gesuiti accusandoli di esercitare una teocrazia dispotica, di arricchirsi alle spalle degli indigeni e di tramare contro la Corona di Spagna. Pochi anni dopo l’espulsione dal Brasile (1760) e dal Paraguay (1767), la Compagnia fu sciolta del tutto proprio da un papa francescano, Clemente XIV, con l’editto Dominus ac redemptor del 21 luglio 1773. Deve essersene ricordato il papa gesuita che ha scelto il nome di Francesco, quando, nell’estate del 2013, con il suo primo viaggio papale ha raccolto folle oceaniche di brasiliani sulla spiaggia di Copacabana.

Regno di se stesso

Illuminismo brasiliano. Alla fine del Settecento le idee illuministe, la Rivoluzione francese e quella degli Stati Uniti gettarono la loro luce fino al Brasile. Ne furono sedotti soprattutto i

 

giovani studenti di Minas Gerais, i professionisti più aperti, i poeti e gli artisti locali, anche perché erano quelli che più numerosi andavano a studiare in Europa. Quando le soverchierie dei governatori e l’aggravio delle tasse si sommarono alla crisi dell’oro minacciando il benessere della sparuta classe media, alcuni giovani borghesi – studenti, avvocati, medici, magistrati – dettero luogo a una inconfidência, una ribellione con cui invocavano la repubblica e la liberazione degli schiavi, almeno di quelli nati in Brasile. Prima ancora che la cospirazione prendesse corpo, i cospiratori furono catturati, processati con grande messinscena (la sola lettura della sentenza durò diciotto ore) e condannati alla forca. Poi la pena fu commutata in espulsione dal Brasile per tutti tranne che per il dentista Joaquim José da Silva Xavier, detto Tiradentes, che aveva difeso coraggiosamente le sue idee davanti ai giudici e si era accollate tutte le colpe dei congiurati nel tentativo di scagionarli. Il 21 aprile 1792, con una cerimonia dimostrativa tanto pomposa quanto lugubre, Tiradentes fu giustiziato a Rio de Janeiro, la sua testa fu esposta nella piazza di Ouro Preto e le membra del suo corpo, come quelle di Túpac Amaru, furono inchiodate ai vari crocicchi di Minas para terrivel escarmento dos povos, per terribile monito al popolo. Quando, più tardi, le idee rivoluzionarie e repubblicane di Tiradentes trionferanno, l’escarmento si tramuterà in mito, il martire diventerà il più grande eroe nazionale del Brasile e ogni 21 aprile una festa nazionale lo commemorerà.

Se quella di Tiradentes fu una cospirazione borghese, possiamo chiamare proletaria la rivolta scoppiata sei anni dopo a Bahia, detta «Coniuração dos Alfaiates» perché vi presero parte alcuni sarti (alfaiates) insieme a schiavi, liberti, artigiani e soldati. Anche questo tentativo di rivolta fu soffocata sul nascere e quattro cospiratori furono squartati come Tiradentes. Ma ormai era matura sia l’ora dell’indipendenza dal Portogallo sia la sostituzione della monarchia con la repubblica. E forse entrambe le cose sarebbero avvenute molto presto se non fosse intervenuta un’altra anomalia della storia brasiliana.

La Corona salpa l’Atlantico. Riuscireste a immaginare la regina Elisabetta che trasferisce il suo trono in Canada, o il Re

 

Sole in Indocina, o l’imperatore Carlo V in Perù, ribaltando il rapporto tra Paese colonizzatore e Paese colonizzato? In Brasile tutto questo è avvenuto. La Corona portoghese, costretta a scegliere tra l’alleanza con Napoleone, che minacciava di bombardarla da terra e l’alleanza con l’Inghilterra, che minacciava di bombardarla dal mare, decise di riparare in Brasile.

In tre giorni – tra il 25 e il 27 novembre 1807 – protetto dalla flotta inglese, Dom João, che reggeva il regno al posto della mamma dichiarata pazza, abbandonò frettolosamente il Portogallo insieme a 15.000 sudditi, a tutta la nobiltà, i magistrati della Corte Suprema, gli ecclesiastici, i generali, i ministri, i consiglieri, il tesoro reale, gli archivi del governo, i macchinari di un’intera tipografia e un paio di biblioteche. Il viaggio fu funestato dalla tempesta che disperse le navi e da un’epidemia di pidocchi che costrinse a tosare tutta la comica se non allegra brigata. L’arrivo a Rio dovette essere convulso non meno della partenza da Lisbona, e ancora più risibile a vedersi, con tutte le dame spidocchiate ma rapate e con tutta la corte soverchiante rispetto alla scarsità degli alloggi.

Così il Brasile divenne regno di se stesso. Caddero molti divieti burocratici, i porti si aprirono alle nazioni amiche, fu legalizzato il contrabbando con l’Inghilterra, furono tolti i divieti di impiantare fabbriche sul suolo brasiliano e, anzi, fu incoraggiata l’industrializzazione, furono introdotte le prime restrizioni al commercio degli schiavi, la capitale divenne cosmopolita e raddoppiò il numero degli abitanti, vi fiorirono teatri, accademie e biblioteche, fu stampata «A Gazeta do Rio de Janeiro», il primo giornale del Brasile.

Il reggente si trovò così bene nella nuova residenza transoceanica che, dopo la sconfitta di Napoleone, quando tutto gli avrebbe consentito il ritorno in Portogallo, lui invece decise di restarsene a Rio e nei primi mesi del 1816 si autonominò «re di Portogallo, Brasile e Algarve» con il titolo di Dom João VI.

A questo punto fu il Portogallo, diventato in qualche modo colonia della sua colonia, a dare segni crescenti di insofferenza e a chiedere la costituzione delle cortes, che rappresentavano una prima forma di parlamento. Così, per non perdere capra e cavoli, nel 1820, dopo quasi tredici anni

 

di permanenza in Brasile, Dom João VI se ne tornò a Lisbona con 4000 portoghesi.

Pedro I e la Costituzione. Prima di salpare per l’Europa, Dom João VI nominò erede al trono brasiliano il suo primogenito che nel dicembre 1822, a soli 24 anni, venne dichiarato imperatore del Brasile indipendente, con il nome di Pedro I. Vale la pena di leggere il suo nome completo: Pedro de Alcântara Francisco António João Carlos Xavier de Paula Miguel Rafael Joaquim José Gonzaga Pascoal Cipriano Serafim.

Così la «Colonia do Brasil» divenne «Império do Brasil» e tale rimase fino al 1889, quando la monarchia fu trasformata in repubblica. Stefan Zweig, che di biografie si intendeva, ci ha lasciato un conciso ritratto del primo Dom Pedro: «Più romantico che realista, non privo di meriti ma troppo preso dalle sue faccende private di carattere sentimentale e incline a lasciare la corte nelle mani della sua amante marchesa di Santos, non sa farsi benvolere dal popolo». Di sicuro era un buon cavallerizzo, un buon talento musicale e un discreto dilettante di pittura, scultura e poesia: un bel ragazzo che la moglie Leopoldina d’Asburgo Lorena, molto amata dai brasiliani, non riuscì a distogliere dalle avventure galanti.

Eppure sarà questo re a promulgare – 37 anni dopo gli Stati Uniti e 24 anni prima del Regno sabaudo – la Costituzione del Brasile, il 25 marzo 1824: una costituzione poco liberale agli occhi dei progressisti perché non applicabile anche agli schiavi e troppo liberale agli occhi dei conservatori che consideravano la schiavitù come morale dal punto di vista civile e ineliminabile dal punto di vista economico. Va ricordato che a quell’epoca il Brasile aveva 4 milioni di abitanti di cui il 29 per cento erano schiavi.

Il regno di Dom Pedro I durò nove anni, fino al 1831 quando, bersaglio di intrighi, inviso alla corte e al popolo, abdicò in favore del figlio di cinque anni e se ne andò in Inghilterra, dove morì di tubercolosi.

Pedro II e la guerra con il Paraguay. «O imperador menino» diventerà vero e proprio imperatore di tutto il Brasile, ormai assestato nella forma unitaria di Stato-nazione, nel 1840

 

all’età di 15 anni, con il titolo di Pedro II; nel 1843 sposerà la principessa napoletana Teresa Cristina di Borbone e regnerà abbastanza pacificamente per quasi mezzo secolo. Ecco come lo descrive Zweig: «È nel suo intimo una natura contemplativa, uno studioso o un bibliotecario salito sul trono, piuttosto che un politico o un soldato. Vero umanista dalla mentalità onesta, la cui ambizione è soddisfatta più dal ricevere una lettera di Manzoni, di Victor Hugo o di Pasteur che dal brillare in una parata militare o dalle vittorie sul campo di battaglia, egli, pur essendo una figura molto affascinante grazie alla bella barba e al maestoso portamento, si tiene il più possibile sullo sfondo e trascorre le sue ore più felici a Petropolis in mezzo ai suoi fiori oppure in Europa in mezzo ai libri o ai musei».

Il lungo regno di Pedro II è una transizione della monarchia verso la repubblica, punteggiata da eventi tutt’altro che trascurabili. Dall’Europa e dagli Stati Uniti continuavano ad arrivare idee illuministe, positiviste, repubblicane e massoniche. La massoneria divenne così potente che, quando il papa vietò l’ingresso dei massoni nelle congregazioni religiose, due vescovi che tentarono di applicare questo divieto furono arrestati come «funzionari ribelli».

Sul piano culturale, anche grazie alla spinta positivista, nacquero università scientifiche e accademie. Sul piano pratico si diffuse la coltivazione e il commercio del caffè, mentre anche negli altri settori cresceva di giorno in giorno lo sforzo per trasformare sul posto le materie prime modernizzando l’industria manifatturiera. Intorno al 1850 fu svecchiata la burocrazia, fu vietata la tratta degli schiavi, furono aperte banche e imprese di navigazione, fu migliorato il sistema dei trasporti con la costruzione di alcune linee ferroviarie che purtroppo restano ancora oggi più o meno le stesse.

Il periodo fu funestato da una serie di rivolte, da una quasi-guerra e da una guerra vera e propria. La quasi guerra, detta guerra dei Farrapos, ossia degli straccioni, scoppiò nel 1835 ed ebbe come teatro il Rio Grande do Sul, abitato dai gaúchos e separato con confini labilissimi dal limitrofo Uruguay. I gaúchos più ricchi erano allevatori di bestiame (estancieros); quelli più poveri (charqueadores) erano produttori di carne secca, cibo di infima qualità destinato agli schiavi. Gli estancieros, sostenuti anche dalla classe media urbana, e chiamati sprezzantemente farrapos pur essendo la parte più ricca della popolazione, volevano separarsi dal Brasile o almeno ottenere una forte autonomia; i charqueadores, invece, erano schierati con il governo centrale. Questa quasi guerra non rientra nell’economia del mio discorso, ma non posso non citarla perché la causa dei farrapos fu condivisa anche da una ventina di rivoluzionari italiani, tra cui Giuseppe Garibaldi, che in Italia si batteva per unire il Paese e in Brasile si batteva per dividerlo. Né posso tacerne perché mi offre l’opportunità di citare, sia pure di sfuggita, la gaúcha Anita Garibaldi, una delle donne più straordinarie della storia brasiliana e di quella italiana, che trovano in lei un prezioso, irripetibile anello di congiunzione.

Merita di essere invece ricordata a pieno titolo la guerra con il Paraguay perché si tratta dell’unica vera guerra combattuta dal Brasile in tutta la sua storia plurisecolare, riconfermando, per eccezione, la natura pacifica del Paese. Non è chiara la causa del conflitto, forse fomentato dall’Inghilterra, ma il pretetesto fu la cattura di una nave brasiliana da parte di una cannoniera paraguaiana nel novembre del 1864. Brasile, Argentina e Uruguay dettero vita a una Triplice Alleanza e otto anni dopo, alla fine del conflitto, la popolazione del perdente Paraguay risultava dimezzata, il rapporto tra Brasile e Inghilterra ne usciva rafforzato, l’esercito era diventato un soggetto così potente nell’ambito della politica nazionale da dare vita, più tardi, a governi sostenuti o esercitati dai militari.

Abolizione della schiavitù. Man mano che si sentiva nell’aria l’avvicinarsi dell’abolizione della schiavitù, pretesa dall’Inghilterra e dagli Stati Uniti, condivisa da Dom Pedro II, si sarebbe potuta effettuare la graduale riconversione della manodopera dei neri educandola al lavoro salariato. Ce ne sarebbe stato tutto il tempo e tutta l’opportunità, ma il razzismo era ormai entrato nel Dna degli imprenditori, dei politici, dell’intera società, per cui si esageravano le difficoltà di una simile operazione, essendo gli schiavi, gli ex schiavi e i meticci considerati come un unico mucchio di esseri inferiori.

 

Mentre questa massa disperata veniva progressivamente abbandonata a se stessa, dispersa, ulteriormente emarginata, iniziò il corteggiamento agli europei perché emigrassero in Brasile: prima agli svizzeri e ai tedeschi, poi anche agli italiani, fu promesso il viaggio pagato, una buona accoglienza e piantagioni da coltivare a mezzadria. Così, nelle fazendas, nelle miniere, nelle fabbriche, nelle case ricche, le mansioni più pesanti stavano passando dalle spalle degli schiavi a quelle degli immigrati.

Intanto, uno a uno, gli Stati latinoamericani avevano sostituito il regime monarchico con quello repubblicano. Quando nel 1867 anche il Messico divenne repubblica, il Brasile rimase l’unica monarchia del continente e l’unico Stato che, insieme a Cuba, aveva ancora gli schiavi.

Poi le cose precipitarono: nel 1871 fu approvata la Lei do Ventre Livre per cui tutti i figli di schiavi, nati da quel momento in poi, sarebbero diventati liberi appena compiuto il ventunesimo anno; nel 1885 fu approvata la Lei dos Sexagenários che accordava la libertà agli schiavi con più di sessant’anni; infine, il 13 maggio 1888 fu approvata la Lei Áurea che aboliva definitivamente la schiavitù anche in Brasile. In quel momento neri e mulatti rappresentavano il 79 per cento della popolazione a Bahia, il 75 per cento a Minas Gerais, il 68 per cento a Pernambuco, il 65 per cento a Rio de Janeiro, il 44 per cento a San Paolo. Quasi la metà di tutta questa massa era formata da schiavi liberati e da liberti.

L’attesa e sperata notiza dell’abolizione raggiunse Dom Pedro II a Milano dove si trovava, gravemente ammalato, dopo un viaggio a Capri, Pompei, Firenze e Bologna.

Purtroppo, come risvolto negativo di questa tardiva legge liberatrice, milioni di ex schiavi furono lasciati in balia di se stessi e delle carestie, che ne fecero strage soprattutto nel nordest.

La gioia per l’abolizione della schiavitù, che Pedro I aveva auspicato, riuscì a farlo guarire quel tanto indispensabile per tornare in Brasile, dove la folla lo acclamò ma gli ex proprietari di schiavi, i politici e soprattutto i militari lo accolsero freddamente. Furono poi questi ultimi a dargli la spallata finale con un colpo di Stato al quale Dom Pedro rispose

 

secondo il suo stile, abbandonando silenziosamente il Brasile e tornandosene in Europa il 17 novembre 1889.

Repubblica meticcia

Cento colori, una sola lingua, un solo Stato. Da quel giorno gli Estados Unidos do Brasil diventarono República dos Estados Unidos do Brasil e, più tardi, República Federativa do Brasil. Una rivoluzione istituzionale che negli Stati Uniti e in Francia era costata enormi spargimenti di sangue, in Brasile era avvenuta in modo soffice. «La transizione dall’impero alla Prima repubblica fu quasi una passeggiata» scrive Boris Fausto. E Stefan Zweig sottolinea che il Brasile «tanto nella sua politica interna che nella politica estera ha applicato, sempre e senza deviazioni, lo stesso metodo, che rispecchia l’anima di milioni e milioni di uomini: il metodo della pacifica soluzione di tutti i conflitti per mezzo di un reciproco spirito di conciliazione. Il Brasile non ha mai turbato con il proprio progresso il progresso del mondo, ma lo ha sempre promosso».

Tra le innovazioni promosse da Pedro II vi era stata l’introduzione dei primi censimenti generali della popolazione brasiliana. Conosciamo così, con buona affidabilità, la condizione socio-economica in cui nacque la Prima repubblica. Nel 1890 i brasilani erano 14.333.000, più che triplicati rispetto a settant’anni prima. La maggioranza della popolazione (42 per cento) era composta da mulatti; il 38 per cento da bianchi e il 20 per cento da neri. Quasi la metà dei brasiliani, dunque, erano meticci, risultati dall’incrocio tra europei, africani e indigeni. A loro volta gli europei, per lo più portoghesi, erano portatori di tracce iberiche, romane, gote, fenicie, ebraiche e more; gli indigeni appartenevano almeno a due razze diverse, i tupi e i tapuya; gli africani provenivano da numerose etnie di quattro o cinque Paesi diversi. E poi bisognerà aggiungere gli immigrati che ben presto arriveranno da tutto il mondo. «Il mio vero nome – ha scritto Niemeyer – è Oscar Ribeiro Almeida Niemeyer Soares: Ribeiro e Soares sono portoghesi, Almeida è arabo,

 

Niemeyer è tedesco: dunque sono meticcio come meticci sono tutti i miei fratelli brasiliani».

Tra gli schiavi, il 99,9 per cento era analfabeta; tra i maschi liberi l’analfabetismo raggiungeva l’80 per cento; tra le donne libere raggiungeva l’86 per cento. Tra tutti i ragazzi di età scolare, appena il 17 per cento andava a scuola. In quegli stessi anni l’analfabetismo in Italia raggiungeva il 78 per cento nel Nord e l’87 per cento nel Sud.

In Brasile l’80 per cento dei lavoratori era addetto all’agricoltura (in Inghilterra non superava il 15 per cento) e solo il 7 per cento all’industria. L’unica metropoli brasiliana, con 522.000 abitanti, era Rio de Janeiro, più grande di Milano e Torino messe insieme. San Paolo aveva solo 65.000 abitanti.

Proletari di tutto il mondo. Nella seconda metà dell’Ottocento, con la fine della schiavitù, con l’urbanesimo e con l’industrializzazione, la manodopera servile e quella schiava, in varia misura deprivate di professionalità e diritti, si trasformarono in proletariato. Agli indios (che formalmente erano stati liberati nella metà del Settecento, e ai neri definitivamente liberati nel 1888) si sostituirono o si unirono lavoratori svizzeri, tedeschi, italiani, polacchi, slavi, giapponesi, siriani, libanesi, cinesi. In Brasile per la prima volta l’incitamento di Marx ed Engels – «Proletari di tutti i Paesi, unitevi!» – divenne realtà.

Iniziò Dom João nel 1817 chiamando duemila coloni svizzeri che fondarono Nuova Friburgo; poi arrivarono 120.000 tedeschi a Santa Catarina e nel Paranà; quindi fu la volta degli italiani. Con le nuove presenze e la nuova mescolanza, la pelle e le facce dei brasiliani cominciarono a branquear, a diventare via via più bianche.

Dall’Italia venivano avventurieri in cerca di fortuna, e spesso la trovavano. Venivano fuorusciti, esiliati, dissidenti, massoni, affiliati alla Giovine Italia, carbonari, liberali, mazziniani, repubblicani, per salvarsi dalle persecuzioni politiche. Cercavano la monarchia costituzionale, la repubblica, la democrazia, il liberismo, la libertà, e spesso le trovavano. Venivano i contadini, soprattutto dal Triveneto e dal Sud, in cerca di terra da coltivare, e sempre la trovavano. Non era l’Eldorado, ma almeno era la sopravvivenza e, a volte,

 

la fortuna. Nello stesso anno 1888 in cui furono liberati gli schiavi, quasi tutti gli immigrati in Brasile provenivano dall’Italia. Negli anni successivi partì alla volta di questo nuovo mondo il 15 per cento di tutta la popolazione veneta, con punte del 30 per cento in Polesine. Arrivavano nei porti brasiliani allo stesso modo con cui oggi arrivano le golette stracariche a Lampedusa: nel 1882 una nave costruita per 400 persone ne sbarcò a Rio 2300. Molti morivano di stenti durante i quaranta giorni di tragitto e i loro corpi venivano gettati a mare.

Nacquero Nova Vicenza, Nova Trento, Nova Milano, Nova Bassano, Nova Brescia. La strada che porta a Caxias, il più importante di questi centri, è ormai comunemente chiamata «Transpolentona». Fiorirono piccole aziende agricole, vigneti, imprese di ogni genere. Francesco Matarazzo, immigrato da Castellabate, venditore ambulante di grasso di maiale, sarebbe diventato uno dei più importanti industriali brasiliani. Molti annni dopo sarebbero arrivati i grandi gruppi imprenditoriali come la Fiat a Belo Horizonte e la Pirelli a San Paolo. Oggi i brasiani di origine italiana sfiorano i trenta milioni.

Il Brasile moderno

Il lato oscuro della storia. Non c’è modello attuale di vita sociale nel mondo che non rappresenti l’anello più recente di una lunga catena culturale. Dalla mia finestra romana vedo un tempio di Michelangelo e un palazzo di Raffaello costruiti più o meno negli stessi anni in cui Cabral sbarcava a Porto Seguro. Ma essi non coincidono con l’inizio della mia storia, sono solo la tappa intermedia di una lunga serie di opere e di giorni che risale al Medioevo e poi su su fino alla Roma classica, alla civiltà etrusca, agli antichi popoli italici; poi la mia genealogia abbandona la storia ed entra nel buco nero del mito, dove incontra dei, eroi e costellazioni: incontra Enea fuggiasco da Troia, Ulisse veleggiante verso Itaca, Sirio, Saturno e Plutone, Andromeda e Cassiopea, Castore e Polluce tutti roteanti nel tempo. Quel tempo pensato come «un fanciullo che gioca».

 

Intorno alla mia casa romana, nel raggio di un solo chilometro, vi sono monumenti di origine augustea, romanica, gotica, rinascimentale, barocca, razionalista. Il palazzo in cui abito è stato costruito negli anni in cui a Rio de Janeiro regnava Dom Pedro II; nel cortile vi sono fregi di un tempio del IV secolo a.C. e la tomba di un potente guerriero etrusco chiamato Vel Tansina.

Tutta questa storia nutre la mia anima postmoderna e, allo stesso tempo, l’appesantisce, la vincola, la ingolfa, la trattiene, la carica di troppe riflessioni e titubanze, ne rallenta il cammino, ne castra i voli, ne scoraggia i sogni.

Qui sta la differenza con il Brasile. La preistoria, che in Europa e nel vicino Oriente è finita cinquemila anni fa, in Brasile è durata fino al Cinquecento; in molte tribù indie permane tuttora. Più dura la preistoria, più dura la dolcezza; prima arriva la storia, prima s’insedia la violenza. La civiltà è diversamente incivile.

Cosa facevano gli antichi padri degli indios mentre Hammurabi dettava il suo codice, mentre Mosè obbediva al Dio degli eserciti, mentre Omero descriveva l’assedio di Troia e le peripezie di Odisseo, mentre Alessandro sottometteva Persepoli, mentre Cesare catturava Vercingetorige, mentre Agostino attingeva Dio in un punto, mentre Abelardo pazzo d’amore scriveva ad Eloisa e Dante scalava il più alto dei cieli per vedere «in un volume, / ciò che per l’universo si squaderna»? Anche tra i padri degli indios ci saranno stati poeti e architetti, musicisti e scienziati, guerrieri ed amanti, amori e vendette, ire e tenerezze. Ma nulla fu registrato in forma scritta, con la stessa precisione della mia storia. Tutto un brulicare millenario di passioni, canti, pensieri, scoperte, invenzioni, certamente è sepolto nel più folto della foresta amazzonica, dietro il fragore delle cascate di Iguaçù, sotto la coltre d’acqua e silenzio del Pantanal che hanno coperto le parole, i canti, l’urlo di dolore di milioni di autoctoni quando ancora erano privi della scrittura, della ruota e dell’aratro, ma non certo delle passioni e del pensiero.

Mi rifiuto di pensare, come fa sbrigativamente Zweig, che il brasilano «è un uomo senza storia o, quantomeno, un uomo dalla breve storia... I materiali con i quali ha tirato

 

su la sua civiltà sono totalmente importati dall’Europa». La stessa cosa si potrebbe dire degli Stati Uniti, del Canada, dell’Argentina, tutti Paesi dalla storia breve. Eppure si tratta di popoli che, da una stessa influenza europea, hanno distillato modelli di vita diversissimi proprio grazie alla profonda diversità delle loro storie parallele, lato oscuro della loro genealogia.

I brasiliani di oggi sono debitori ai loro lontani progenitori indios non meno di quanto lo siano ai vicini genitori europei. I debiti del Brasile verso l’Europa sono evidenti e documentati mentre quelli verso gli indios, benché ricostruiti da Ribeiro nei suoi cinque volumi di Estudos de antropologia da civilização, sono molto meno riconosciuti. Forse all’Europa i brasiliani debbono buona parte della loro sfera cosciente e razionale; agli indios debbono buona parte della loro sfera incoscia ed emotiva. Basti pensare al modo con cui questi indios avevano perfettamente adeguato il loro modello di vita al contesto naturale, vivendo serenamente, evitando ogni accumulazione insensata. Basti pensare al modo aggraziato con cui hanno accolto i portoghesi assatanati di violenza gratuita, che osavano considerere incivili le loro vittime inermi. Basti pensare che milioni di indios hanno preferito morire piuttosto che servire i conquistatori e accettare la disumana rudezza del lavoro nelle miniere e nelle piantagioni. Come i Tuareg in Africa, hanno preferito estinguersi piuttosto che rinunziare alla loro civiltà millenaria.

Tra i primi nel mondo. Il lato scuro della storia amerinda e il lato chiaro della plurisecolare storia europeizzata e africanizzata hanno creato quella prodigiosa e misteriosa dinamica che in un solo secolo ha consentito al Brasile di recuperare i ritardi tecnologici e organizzativi, scalare la graduatoria di 196 Paesi e piazzarsi tra i primi dieci posti nel mondo.

Mi sono soffermato sulla storia che ha preceduto la proclamazione della repubblica perché meno nota al lettore europeo. Dopo quell’evento, che può essere considerato come un secondo ingresso del Brasile nel concerto delle nazioni, sono accadute tante cose ma troppo recenti e note per avere bisogno di essere elencate in questa sede.

 

Il poeta Carlos Drummond de Andrade ha detto che «il problema non è inventare. È essere inventati». Si può dire che solo dalla partenza di Pedro II e dalla proclamazione della repubblica il Brasile ha cominciato a inventarsi. Nel 1930 la popolazione è arrivata a 40 milioni; nel 1936 le donne hanno conquistato il diritto al voto; l’anno successivo Getúlio Vargas è diventato dittatore e nel 1954 si è suicidato; nel 1956 è stato eletto presidente il socialdemocratico Juscelino Kubitschek; nel 1960 è stata inaugurata Brasilia, nuova capitale; dal 1964 al 1984 la dittatura militare ha imprigionato o mandato in esilio migliaia di oppositori e ne ha assassinato centinaia; molti intellettuali – da Fernando Henrique Cardoso a Gilberto Gil, da Oscar Niemeyer a Darcy Ribeiro, da Chico Buarque a Caetano Veloso – furono arrestati e costretti ad espatriare.

Dal 1995 al 2002 Cardoso, tornato dall’esilio e diventato presidente, ha modernizzato l’economia e ha accumulato per il Paese la ricchezza che poi Luiz Inácio da Silva, presidente dal 2003 al 2010, ha distribuito consentendo a 42 milioni di brasiliani l’accesso a una classe sociale superiore. Prima ancora dell’Italia, della Francia, del Giappone e della Germania, il Brasile ha eletto presidente una donna: Dilma Rousseff, temprata dalla lotta armata contro la dittatura militare, da tre anni di carcere e dalla brutalità della tortura.

Natura, uomini, economia. Dalla natura il Brasile ha avuto tutto: ventotto volte più grande dell’Italia, è il quinto Paese al mondo per superficie, preceduto solo dagli Stati Uniti, dalla Cina, dal Canada e dalla Russia. Il Rio delle Amazzoni è il secondo fiume del pianeta per lunghezza e il primo per larghezza; le cascate di Iguaçú sono le più belle e tra le più grandi del mondo. Il suo profilo si estende nelle sconfinate pianure, scavalca le colline e sale fino ai 3000 metri dell’Itatiaia. L’intero Paese non conosce terremoti, monsoni e cicloni. Ognuno dei suoi 27 Stati federati ha il suo clima, dall’equatoriale al temperato, ha la sua flora e la sua fauna. Per riserva di acqua e di ossigeno, per varietà di piante e di specie animali il Brasile è uno dei Paesi più ricchi del pianeta e la sua matrice energetica è una delle più pulite.

 

Settant’anni fa i brasiliani erano 50 milioni, oggi sono 200 milioni. Grazie alla sua sconfinata estensione, il Brasile ha una bassissima densità demografica: appena 23 abitanti per chilometro quadrato, contro i 200 dell’Italia e i 334 del Giappone. Se si consentisse la stessa densità dell’Italia, il Brasile potrebbe ospitare un miliardo e mezzo di abitanti; se si consentisse la densità del Giappone, potrebbe arrivare a due miliardi e 800 milioni di abitanti. Il Brasile è un Paese giovane: il 25,5 per cento (contro il 14 per cento degli italiani) ha meno di 15 anni. La speranza di vita è di 74 anni (in Italia è di 82 anni).

Fino all’abolizione della schiavitù il Brasile era prevalentemente rurale non solo perché la maggioranza della popolazione viveva nelle fazendas, ma anche perché nelle fazendas risiedeva quella borghesia che aveva in mano la ricchezza e il potere. Oggi, nonostante il vastissimo territorio rurale disponibile, l’86 per cento dei brasiliani vive in città, dove sono accentrate le sedi del potere economico, politico e amministrativo.

Il Brasile è la settima potenza economica mondiale e il suo Pil cresce costantemente da trent’anni. Il 17 per cento della popolazione attiva è ancora addetta all’agricoltura (contro il 4 per cento in Italia) ma il Paese è al secondo posto nel mondo per numero di utenti Facebook, al quarto posto per abbonamenti a internet, al quinto per produzione industriale. Il 91 per cento dei brasiliani è alfabetizzato e il Brasile, che investe nell’istruzione il 5,4 per cento del Pil, è al settimo posto nel mondo per percentuale di bambini iscritti alle scuole elementari. Resta però bassa la qualità della scolarizzazione: su cinque giovani che hanno concluso l’istruzione di base e che vivono nelle grandi città almeno uno non domina l’uso né della lettura né della scrittura.

Oggi il Brasile non è più inchiodato alla monocoltura, non è più un Paese dipendente, sta uscendo dalla fase industriale e sta entrando in quella postindustriale. Non c’è nazione al mondo che non vorrebbe avere rapporti commerciali con questo colosso economico e sono sempre più numerosi i giovani laureati che da ogni parte si trasferiscono in questo Paese che fino a 150 anni fa importava solo schiavi, migranti poverissimi e avventurieri.

 L’invenzione del Brasile  

Il contributo degli scienziati sociali. L’edizione italiana di Radici del Brasile di Sérgio Buarque de Holanda aggiunge alla bellezza di questo capolavoro della sociologia brasiliana un’introduzione illuminante, scritta da Fernando Henrique Cardoso. Secondo Cardoso Radici fa parte di quella tradizione saggistica che negli anni Trenta caratterizzò l’attività culturale del Paese: «Sérgio Buarque venne ad affiancarsi a nomi come Joaquim Nabuco, Euclides da Cunha, Manoel Bomfim, Paulo Prado, Oliveira Viana, Alcˆ antara Machado e Gilberto Freyre nell’impegno di rivelare il Brasile ai brasiliani. Si devono a questi saggisti molti dei concetti, delle immagini, dei miti e dei poli narrativi che ancora oggi sono usati per definire il Paese, per spiegare la specificità brasiliana. Ciascuno a suo modo, furono essi i veri inventori del Brasile».

In un testo successivo – Pensadores que inventaram o Brasil del 2013 – Cardoso aggiunge a questo elenco altri cinque «inventori»: Caio Prado Jr., Antonio Candido, Florestan Fernandes, Celso Furtado e Raymundo Faoro.

L’elaborazione di un modello brasiliano è stata avviata soprattutto dagli scienziati sociali – sociologi, antropologi, etnologi – così come quello francese è stato abbozzato soprattutto dai filosofi e quello inglese soprattutto dagli economisti. Con la differenza che in Francia e in Inghilterra è nato prima il modello teorico e poi la sua realizzazione pratica (potremmo dire che il verbo si è fatto carne), mentre in Brasile è stata sperimentata prima la realizzazione pratica e poi ne è stato teorizzato il modello (la carne si è fatta verbo). E questa teorizzazione, in Brasile, è stata avviata e proseguita da sociologi la cui cultura sconfinava nell’antropologia e nell’etnologia, assai meno nell’economia.

Va detto che questi scienziati sociali non solo hanno giocato un ruolo fondamentale nella teorizzazione del modello brasiliano, ma hanno anche svolto un’intensa azione politica. Cardoso, per esempio, è stato fondatore del Partido da Social Democracia Brasileira (Psdb) ed è stato l’unico sociologo al mondo eletto (e per ben due volte consecutive) alla presidenza di una repubblica.

 

Molti di questi grandi intellettuali e politici hanno pagato con il carcere e con l’esilio il prezzo della loro libertà ideologica e del loro impegno concreto, facendo proprio il monito dei coniugi Lynd – sociologi statunitensi – secondo cui «lo scopo delle scienze sociali è di essere moleste, di criticare gli ordinamenti vigenti e indicarne di migliori».

Il Brasile inventato da questi sociologi era ancora rurale o industriale, quasi mai postindustriale, quasi sempre privo di conflitti di classe, sempre orgoglioso delle sue prerogative antropologiche. Qui di seguito ne ricordo alcune, che si segnalano per la qualità e la diversità dei rispettivi approcci. Così come essi definirono a posteriori il modello della società brasiliana che si era via via già formata e che aveva bisogno di un’identità, ora occorre che altri intellettuali di tutto il mondo disegnino il modello della società globale, già concretamente abbozzata ma non ancora concettualizzata, svelata a se stessa, resa comprensibile e metabolizzabile.

Una grande famiglia patriarcale

Monocoltura e patriarcato. Secondo Freyre, uno dei massimi antropologi del Brasile e del mondo, per rappresentare e comprendere il modello culturale di un popolo occorre esplorarne il passato, la continuità, la herança, con un atteggiamento intellettuale umile e tenace: «Se dipendesse da me – egli diceva – non sarei mai maturo né nelle idee, né nello stile, ma sarei sempre verde, incompiuto, sperimentale».

Freyre rifiutava il determinismo razziale e attribuiva la formazione del popolo brasiliano soprattutto ai fattori culturali e ambientali. L’ibridazione di iberici, indigeni e africani, lungi dal costituire un elemento di debolezza, ha contribuito a sedimentare una cultura positiva in una popolazione temprata dalla sfida di una natura sfidante.

Teso alla conquista della ricchezza e del potere in un contesto ostile, il colonizzatore portoghese ha creato, attraverso le fazendas, degli spazi civilizzati; le famiglie che sono riuscite a emergere hanno aperto le opportunità e hanno tessuto le

 

reti di influenza dalle quali man mano si è enucleato lo Stato nazionale.

Casa-Grande & Senzala (1933) è il testo con cui Freyre esprime al meglio la sua tesi. Partendo dal presupposto che ogni struttura è la traduzione plastica della funzione, l’opera analizza la formazione e lo sviluppo del Nordeste durante l’epoca coloniale, rappresentandoli attraverso la vita che si svolgeva nella Casa-Grande, cioè la dimora lussuosa del padrone e nella Sanzala, cioè la capanna in cui abitavano i suoi schiavi. La loro struttura architettonica e la loro organizzazione sociopolitica sono assunte da Freyre come teatro, metafora e simbolo del potere esercitato dal capo della famiglia patriarcale, che domina su uomini e cose, liberi e schiavi formando un primitivo nucleo del modello sociale brasiliano.

In questo modello, basato sull’economia monocolturale dell’esportazione, la Casa-Grande ha svolto quel ruolo di centro rurale e di nucleo sociopolitico produttivo di materie prime che nell’Europa industriale sarà tenuto dalla fabbrica trasformatrice di materie prime. L’indottrinamento spirituale e morale esercitato soprattutto dai gesuiti ha fatto da lubrificante di questo sistema in cui i portoghesi prevaricarono gli indigeni. A loro volta, secondo Freyre, anche gli schiavi brasiliani hanno avuto un’influenza fondamentale nella formazione del popolo brasiliano e della sua sessualità.

Democrazia razziale. Per analizzare il sistema brasiliano e la sua evoluzione, Freyre non ricorre al concetto di classi e di lotta di classe sicché il processo di formazione del popolo brasiliano risulta come una unione tra due etnie diverse fra loro, più spontanea, naturale e indolore di quanto sia stata in realtà. Casa-Grande ci descrive un signore della fazenda forse più magnanimo e meno autoritario di quanto sia probabilmente stato e non ci restituisce in tutta la sua crudezza la condizione reale della donna schiava, oggetto di una violenza permanente, costretta con la forza e con il ricatto morale a fare da sfogo alle pulsioni erotiche di tutti i maschi della famiglia padronale e a popolare la colonia facendo da madre a figli senza padre.

 

Perciò a Freyre è stata rimproverata l’idea eccessivamente buonista di una «democrazia razziale» che, a suo avviso, avrebbe regnato nell’engenho de cana e nella fazenda de café ma egli, forse prevedendo questa critica, si era già premurato di rintuzzarla: «Non è che in Brasile sia assente il pregiudizio di razza o di colore così come quello di classe. Esiste. Ma nessuno penserebbe di avere chiese esclusive per i bianchi. Nessuno penserebbe a divieti legali contro i matrimoni interrazziali. Nessuno sbarrerebbe l’ingresso alle persone di colore nei teatri o nei quartieri residenziali della città. Tra i brasiliani lo spirito di fraternità umana prevale sul preconcetto di razza, di colore, di classe o di religione... C’è stato un preconcetto razziale tra i brasiliani degli engenhos, c’è stata una distanza sociale tra il signore e lo schiavo, tra i bianchi e i negri... Ma pochi aristocratici brasiliani erano rigidi sulla purezza della razza come lo era la maggioranza degli aristocratici anglo-americani del Vecchio Sud». Insomma, in Brasile «non vi è una democrazia allo stato puro né sul piano razziale, né su quello sociale o politico, ma esiste molta più approssimazione alla democrazia razziale che in qualunque altra parte del mondo».

Partendo dall’ipotesi che in Brasile regna la democrazia razziale, venti anni dopo la pubblicazione di Casa-Grande l’Unesco promosse quattro ricerche scientifiche sulle relazioni interrazziali a Bahia, a San Paolo, a Rio de Janeiro e nel Pernambuco. Le conclusioni – pienamente condivise da Darcy Ribeiro che partecipò alla ricerca – furono unanimi: in tutte e quattro le aree studiate, i neri e i mulatti erano ancora oggetto di dominazione e discriminazione, vittime di preconcetti crudeli.

È passato un altro mezzo secolo e chi oggi visita il Brasile avendo letto sia Gilberto Freyre che Darcy Ribeiro, può facilmente constatare che le distanze tra i bianchi da una parte, i neri, gli indios, i meticci dall’altra, non sono affatto scomparse. Ma sia nelle città che nelle fazendas, i bianchi non vivono queste differenze con la distante alterigia dei wasp statunitensi. Secondo un’indagine recentissima, il 97 per cento dei brasiliani dichiara di non nutrire alcun pregiudizio razziale... però confessa di conoscere persone razziste.

 

Si possono avere alcune riserve sui contenuti di CasaGrande – e Darcy Ribeiro le elenca tutte in una sua bella prefazione – ma non si può prescindere dalla sua lettura per capire il Brasile e il suo modello, del quale esplora gli aspetti coloniali con acume sociologico ed eleganza formale. Del resto, Gilberto Freyre amava dire «non voglio scrivere un romanzo, voglio creare uno stile». E ci riuscì.

Le radici del Brasile

Spagna e Portogallo. La prima edizione di Radici del Brasile di Sérgio Buarque de Holanda è del 1936. Io mi rifarò alla traduzione italiana che si avvale, come ho già detto, di un’illuminante introduzione di Fernando Henrique Cardoso, secondo cui Radici «spiega e annuncia il Brasile». L’autore, con grande modestia, già nel 1940 disse che si trattava di un’opera «superata e pienemente datata». In realtà essa è ancora oggi utilissima per l’humus storico a cui attinge il Brasile moderno.

Buarque de Holanda esordisce con una constatazione: per quante opere eccellenti, perfette, sorprendenti il Brasile voglia realizzare, comunque si ha l’impressione che esse partecipino a un sistema evolutivo proprio di un altro clima e di un altro paesaggio: «Siamo degli sradicati nella nostra terra» e le radici affondano nella penisola iberica, distante quaranta giorni di navigazione a vela.

Spagna e Portogallo sono Paesi diversissimi dagli altri Pesi europei e diversissimi anche tra loro. In entrambi domina una certa vocazione anarcoide, una mancanza di coesione sociale, un’avversione per l’ordine gerarchico, un rifiuto di privilegi ereditari e definitivi, un’accettazione della mobilità sociale e della promiscuità tra le classi, una predilezione per il libero arbitrio piuttosto che per la predestinazione, una repulsione per l’organizzazione rigida di tipo calvinista, un netto rifiuto del culto del lavoro e dell’utilitarismo, una predilezione dell’ozio rispetto allo stress, della contemplazione e dell’amore rispetto all’attività produttiva, dell’amicizia rispetto alla collaborazione, dei rapporti affettivi rispetto ai

 

vincoli d’interesse. La volontà di comandare e la disposizione a obbedire sono pari all’inclinazione verso l’anarchia e il disordine, dettata da quella natura inquieta e indisciplinata che i gesuiti cercarono di imbrigliare, senza riuscirci, con la centralizzazione del potere, con la cattività nelle reducciones e con l’educazione all’obbedienza.

Qui finiscono le diversità dei Paesi iberici rispetto al resto dei Paesi europei, e qui finiscono anche le somiglianze tra il Portogallo che colonizzò il Brasile e la Spagna che colonizzò tutto il resto del Sudamerica.

Avventurieri e lavoratori. Secondo Buarque de Holanda, ci si può applicare alla vita collettiva con due approcci contrastanti: quello dell’avventuriero, che pretende di cogliere il frutto senza piantare l’albero, puntando sulla prosperità gratuita e sulla ricchezza facile, come fanno il cacciatore e il raccoglitore; e l’approccio del lavoratore, che prima calcola le difficoltà e poi persegue il successo con sistematica pazienza. L’avventuriero è audace, imprevidente, irresponsabile, instabile, nomade; il lavoratore è ponderato, riflessivo, calcolatore, prudente, preveggente.

I portoghesi si applicarono con trascuratezza e con abbandono, ma con successo, all’impresa di conquistare il tropico alla civiltà. Il loro spirito d’avventura è poi trasmigrato nel brasiliano e, agendo da orchestratore di tutti gli altri fattori, ha esercitato su questo un’influenza maggiore che il clima, le razze e i costumi.

I portoghesi trapiantati in Brasile assimilarono dagli indios il loro modo di cibarsi, di andare a caccia, di coltivare la terra, di navigare i fiumi, molto più di quanto gli indios siano stati disposti ad assimilare gli usi e i costumi portoghesi. Gli indios, a loro volta, si dimostrarono più adatti a collaborare in attività nomadi e poco programmabili come la caccia, la pesca o l’allevamento del bestiame che in attività metodiche, costanti, precise, accurate come lo sfruttamento della canna o delle miniere, al quale risultarono tenacemente, silenziosamente ostili. Tutto sommato, come ho già ricordato, le loro propensioni caratteriali – oziosità, imprevidenza, intemperanza, repulsione per le attività faticose e produttive,

 

propensione per quelle predatorie – erano più o meno le stesse degli antichi nobili lusitani.

I portoghesi, che cercavano ricchezza senza fatica, trovarono nella vastità del Brasile e nelle abitudini degli indios le condizioni adatte e complementari alla loro modalità di invasione, alla loro natura transumante che li portava a sfruttare, rovinare e dissipare la terra come si fa con le miniere, per poi abbandonarla dopo averla distrutta e trasmigrare in altro sito piuttosto che affezionarsi a un luogo, curarlo con amore e proteggerlo gelosamente. Di qui la predilezione per la monocoltura e il latifondo, di qui una vita quotidiana senza pretese intellettuali e una forma di dominio «debole, leggero, meno obbediente a regole e a norme che alla legge della natura». Tutto questo senza alcun orgoglio di razza, dal momento che i portoghesi erano essi stessi meticci.

Qui Sérgio Buarque, accostandosi alla tesi della «democrazia razziale» cara a Gilberto Freyre, sottolinea che il Portogallo, lungi dal proibire i matrimoni misti, li favorì e, con un editto del 1755 addirittura li protesse: «Il popolo portoghese entrò in intimo e assiduo contatto con la popolazione di colore. Più di ogni altro popolo europeo si adattava docilmente al prestigio comunicativo dei costumi, della lingua e delle sette degli indigeni e dei negri. Si americanizzava o si africanizzava a seconda del bisogno». Se a ciò si aggiunge l’influenza tollerante, comunicativa e universalista della religione cattolica, si ottiene come risultato che in Brasile il meticciato non rappresentò un’anomalia ma la normalità.

Individualismo, amore per il guadagno facile e incapacità di associarsi, atrofia del senso dell’ordine, della disciplina, del raziocinio, furono tratti costanti della mentalità portoghese, mitigata solo da alcune pratiche di collaborazione tra coltivatori (nel disboscamento, nella semina, nel raccolto, ecc.) peraltro mutuate dagli indios. A tutto questo si accompagnava una «leggerezza leziosa e sdolcinata» nella vita e nell’arte.

Famiglia e città, testa e braccia. Unico mattone compatto in un mucchio di sabbia polverizzata era la famiglia con la sua sfera domestica e il suo pater dotato di autorità indiscussa. Questo nucleo primario costituiva il modello assoluto e invadente per qualsiasi altra istituzione sociale, contagiandola di antipolitica e di particolarismo, decretando la supremazia del privato sul pubblico, della tribù sullo Stato.

Nel Gattopardo Giuseppe Tomasi di Lampedusa descrive la vita di una nobile famiglia siciliana, proprietaria terriera, che trascorre tutto l’anno in città e solo in occasione del raccolto si trasferisce per qualche settimana nel suo latifondo di Donnafugata. In Brasile avveniva l’opposto: i proprietari restavano stabilmente nelle loro fazendas e solo occasionalmente si recavano in città per motivi burocratici, per acquisti o passatempo. Buarque de Holanda parla addirittura di dittatura delle zone rurali sulle zone urbane.

Fu solo con i profondi mutamenti determinati dall’arrivo della corte a Rio de Janeiro e soprattutto dall’abolizione della schiavitù e dal conseguente arrivo degli immigrati, che le istituzioni burocratiche, le libere professioni, le organizzazioni politiche iniziarono a reclamare un loro spazio autonomo rispetto al modello familistico rurale. Tra la metà dell’Ottocento e la metà del Novecento arrivarono in Brasile quattro milioni e mezzo di immigrati, di cui 1 milione e 700.000 portoghesi e 1 milione e 600.000 italiani. Man mano, il Centro e il Sud del Paese prevalsero sul Nord, la città prevalse sulla campagna, la produzione del caffè prevalse sulla produzione dello zucchero, l’influenza degli intellettuali prevalse su quella dei politici, le banche prevalsero sugli usurai, le società per azioni prevalsero sulle aziende familiari. Ma anche il nuovo gareggiò e prevalse sul tradizionale, l’astratto sul concreto, la Geselleschaft sulla Gemeinschaft, per usare la terminologia di Tönnies (che Sérgio Buarque conosce e cita).

Da quel momento in poi l’immigrazione libera di chiunque fosse alla ricerca di lavoro e di libertà prese il posto dell’immigrazione forzata degli africani. Insomma, sia pure in forme più blande che in Europa o negli Stati Uniti, era il trionfo della modernità con le sue metropoli, i suoi grattacieli, i suoi grandi magazzini, le sue strade ferrate, le sue famiglie coniugali, il suo individualismo, il suo cosmopolitismo, la sua velocità, la sua alienazione e la sua anomia. Rimase però netta la predilezione dei brasiliani per quelle qualità «che occupano l’intelligenza senza occupare le braccia». Qui il

 

«modernista» Sérgio Buarque riesce a essere così moderno da entusiasmarsi per la civiltà industriale ma non così lungimirante da prevedere la rivoluzione postindustriale. Vale la pena di dedicare attenzione a questo passaggio.

L’autore di Radici del Brasile ravvisa nel carattere brasiliano una predilezione per il lavoro intellettuale, ideativo, creativo, che in Portogallo fu proprio dei nobili e dei liberi rispetto al lavoro manuale, pratico, esecutivo che fu proprio degli schiavi e degli addetti a ruoli servili. Troppo spesso, però, questa propensione non si è tradotta in strumento di conoscenza e di azione ma è rimasta a livello di ricercatezza linguistica e verbosità erudita.

Un visconte postindustriale. Il «modernista» Sérgio Buarque è infatuato dell’industria e dell’industrialismo, che gli appaiono come la quintessenza della modernità. Ottanta anni dopo i Grundrisse di Marx, sei anni dopo Possibilità economiche per i nostri nipoti di Maynard Keynes, Buarque de Holanda non riesce ancora a intuire che, grazie al progresso tecnologico, la fatica fisica delle fabbriche cui i brasiliani sono inadatti così come gli indios erano inadatti alle miniere e all’engenho sta per cedere il passo alle attività postindustriali in cui prevalgono ideazione e flessibilità, cioè le doti che i brasiliani, grazie alla loro storia, si portano nel loro Dna.

Si può obiettare che nel 1936 quando uscì la prima edizione di Radici, nel 1947 e nel 1955 quando uscirono le succesive edizioni, pochi avevano intuito l’avvento postindustriale. Ma Sérgio Buarque conosceva il pensiero di un precursore, ne sottovalutò e ne criticò la portata.

Questo visionario geniale, che anticipò di un secolo e mezzo il pensiero di Alain Touraine e di Daniel Bell, era l’economista bahiano José da Silva Lisboa visconte di Cairú, autore degli Estudios do bem comun (1819). Uomo politico liberale, economista, professore, autore di opere notevoli come i Principi di economia politica, convinto che l’attività dello Stato debba essere indirizzata al «raggiungimento della felicità generale», il nostro visconte suggerì a Dom João VI appena sbarcato in Brasile di aprire i porti a tutte le nazioni amiche, avviando così l’indipendenza politica del Paese.

 

Grazie a lui l’industrializzazione, stroncata dagli iniqui trattati settecenteschi tra Portogallo e Inghilterra, riprese il suo corso, spinta a colmare il divario con l’Europa.

Dunque, José da Silva Lisboa era tutt’altro che contrario all’industrializzazione, ma già ne intravedeva il superamento. A suo avviso, infatti, la prosperità delle nazioni dipende più dalla quantità di intelligenza che dalla quantità di lavoro mobilitato e il lavoro manuale è meno utile dell’attività cerebrale.

Commentando la sua concezione economica, il saggista Alceu Amoroso Lima, profondo conoscitore del modernismo, ebbe a dire: «Vi erano i fisiocratici che avevano considerato la terra elemento capitale della produzione. Venne Adam Smith che enfatizzò la componente lavoro. E con il manchesterianesimo fu il capitale a essere considerato l’elemento basilare della produzione. Pertanto il nostro grande Cairú nel suo trattato del 1819, pur menzionando l’azione di ciascuno di questi elementi, dà la preminenza a un altro fattore, che si sarebbe evidenziato solo in tempi moderni, dopo la lotta tra il socialismo e il liberalismo protrattasi per tutto il XIX secolo: l’Intelligenza». Poi aggiunge: «Cairú precorse Ford, Taylor, Stakhanoff, con un secolo di anticipo».

In realtà Cairú non si limitò a precorrrere queste icone della società industriale, ma di gran lunga le scavalcò riuscendo a prevedere, con due secoli di anticipo, che i knowledge workers avrebbero soppiantato gli operai e che la società postindustriale, centrata sulla produzione di beni immateriali attraverso l’intelligenza, avrebbe soppiantato la società industriale, centrata sulla produzione in grandi serie di beni materiali attraverso le macchine e l’organizzazione scientifica del lavoro. Inoltre Cairú avanzò il concetto, oggi corteggiatissimo, di bene comune e anticipò persino quello di jobless growth, lo sviluppo senza lavoro, assegnando agli scienziati il compito di trovare i modi e le tecniche affinché «gli uomini possano ottenere la maggiore ricchezza possibile con il minor lavoro possibile».

Per l’autore di Estudios do bem comun l’industria, che valorizza il lavoro fisico, non rappresentava altro che una tappa, sia pure indispensabile, verso un’ulteriore civiltà in cui l’intelligenza e non la fatica sarebbe stata la vera forza

 

motrice. Per Sérgio Buarque, invece, porre l’intelligenza a fondamento del sistema produttivo come fa Silva Lisboa è un principio «essenzialmente antimoderno». La massima modernità, a suo avviso, è rappresentata dalla Rivoluzione industriale, che punta sull’uso crescente delle macchine e, quindi, sulle leggi matematiche della meccanica, rifiutando drasticamente il fattore soggettivo. È il lavoratore che deve adattarsi al lavoro, non viceversa. «Il gusto artistico, la destrezza, l’impronta personale, che sono virtù cardinali nell’economia artigianale, passano così in secondo piano. Il terreno del genio individuale, dell’ingegno creatore e inventivo, tende, per quanto possibile, a restringersi, in favore di doti di attenzione e di perseveranza rivolte a tutte le minuzie dello sforzo produttivo.»

Sérgio Buarque identifica il futuro economico con l’organizzazione industriale dove l’intelligenza, che a suo avviso non può mai sostituire o completare il lavoro fisico, finirebbe per rappresentare solo una velleità personalistica e aristocratica, per distinguersi grazie a una virtù congenita e intrasferibile.

Il tempo ha dato ragione al visconte di Cairú: nella società postindustriale contano l’intelligenza coltivata e la creatività, mentre le fabbriche, con la loro razionalità intransigente, vengono decentrate nel Terzo mondo.

Lastricatori. La città, scrive Le Corbusier in Urbanistica (1925) «rappresenta l’affermazione dell’uomo sulla natura... La vita di una città moderna è tutta impostata, praticamente, sulla linea retta: dalla costruzione degli edifici a quella delle fognature, delle condutture, delle carreggiate, dei marciapiedi, ecc. La retta è la direttrice ideale del traffico; è il toccasana, diciamo, di una città dinamica e animata. La curva è faticosa, pericolosa, funesta, ha un vero effetto paralizzante... La strada a curve è un risultato arbitrario, frutto del caso, della noncuranza, di un fare puramente istintivo. La strada rettilinea è una risposta a una sollecitazione, è frutto di un preciso intervento, di un atto di volontà, un risultato raggiunto con piena consapevolezza. È cosa utile e bella».

Il razionalista Le Corbusier amava la linea retta e l’angolo retto perché «segno tangibile di perfezione, sistema perfetto,

 

unico, costante, puro». Anche Italo Calvino aveva la stessa preferenza ma per tutt’altro motivo: «Preferisco affidarmi alla linea retta – diceva – nella speranza che continui all’infinito e mi renda irraggiungibile». Secondo Le Corbusier «l’operare umano è un mettere in ordine. Visto dal cielo, il risultato di questo operare appare sulla terra in forma di figure geometriche». Se dunque egli avesse visto dall’alto le città spagnole dell’America Latina, avrebbe subito dedotto dalla loro forma regolare che i fondatori le avevano costruite per restarci, dopo avere attentamente individuato le localizzazioni il più simili possibile per clima e vegetazione a quelle iberiche dalle quali essi provenivano.

Il piano regolatore astratto precedeva sempre la costruzione concreta della città. Una volta individuato il sito ottimale (possibilmente all’interno e sugli altopiani, non troppo alto e ventoso, non troppo basso e paludoso, non troppo piovoso né troppo arido, e così via) i fondatori tracciavano le piante delle città e, tra una città e l’altra, pianificavano le grandi strade destinate agli spostamenti dei commercianti. «Già a prima vista – scrive Sérgio Buarque, quasi parafrasando Le Corbusier – lo stesso tracciato dei centri urbani nell’America spagnola denunzia lo sforzo deciso di vincere e di rettificare la capricciosa fantasia del paesaggio agreste: è un atto definito dalla volontà umana. Non si lascia che le strade si modellino in base alla sinuosità e all’asprezza del suolo; si impone loro l’aspetto deciso della linea retta». Si procede secondo l’ordine dei lastricatori, costretti entro l’inflessibilità geometrica della linea retta,

Nella città così edificata, la Chiesa si incaricava di mettere ordine cattolico nelle anime dei nativi, educandoli all’obbedienza dei precetti religiosi e delle autorità civili; la legislazione provvedeva a regolamentare minuziosamente i comportamenti urbani e le punizioni dei cittadini. Tutto rifletteva valori positivi, tenacia, accortezza, precisione, puntualità, prevedibilità. Nelle missioni dei gesuiti ogni cosa era geometrica e prefissata. In quelle boliviane si arrivava al punto che «coniuges Indiani media nocte sono tintinabuli ad exercendum coitum excitarentur», nel mezzo della notte i coniugi indiani venivano eccitati al coito con il suono di un campanello.

 

Questa frenesia di ordine, regolamentazione, geometria, simmetria, uniformità viene al modello spagnolo dalla necessità di tenere sempre unite, sotto controllo e dentro i confini nazionali nel corso dei secoli, componenti disparate come i catalani, i baschi, i mori e, fuori da questi confini, i fiamminghi, i napoletani, i milanesi, i borgognoni, i siciliani, i berberi, i musulmani, gli indiani d’America e d’Oriente.

Seminatori. Se invece Le Corbusier avesse sorvolato le città brasiliane si sarebbe reso conto, con pari facilità, che esse erano cresciute alla rinfusa, senza una mappa prefissata e uno scopo di lungo termine, dislocate il più vicino possibile alla costa per accorciare le distanze con il Portogallo e per fruire meglio degli indios che, lungo il litorale, parlavano tutti la stessa lìngua geral.

Se la Spagna traeva la mania di ordine unificante dalla sua storia centrifuga, il Portogallo non aveva nessun complesso di disgregazione perché, fin dal Duecento, era stato politicamente unitario e centripeto. Perciò, a differenza della città catalana, quella lusitana è costruita a caso, ispirandosi all’irregolarità, alla transitorietà, all’instabilità, allo spreco, all’imprecisione, ma raramente alla sconsideratezza. «La città costruita dai portoghesi in America, non è un prodotto della mente, non arriva a contraddire il quadro della natura, e il suo profilo si lega alla linea del paesaggio... Nessun rigore, nessun metodo, nessuna precauzione, ma sempre questo significativo abbandono espresso dalla parola desleixo, parola che lo scrittore Aubrey Bell considerò così tipicamente portoghese come saudade e che, in un suo significato estensivo, indica meno una mancanza di energia che un’intima convinzione che non valeva la pena... Un realismo che, in sintesi, accetta la vita com’è, senza cerimonie, senza illusioni, senza forme di impazienza, senza malizia e, molte volte, senza gioi.a»

Per distinguere con una metafora il modello di vita catalano da quello lusitano, Sérgio Buarque contrappone al metodo razionale del lastricatore quello irrazionale del seminatore, che procede spargendo ad ampie bracciate i semi che cadranno alla rinfusa in un terreno che si spera fertile. Da modernista, Sergio Buarque rivela tra le righe un certo rammarico per il

 

fatto che la cultura lusitana sia così approssimativa, flessibile e curvilinea. Invece Oscar Niemeyer che, insieme a Lùcio Costa e Roberto Burle Marx, ha pianificato Brasilia con lo scrupolo geometrico del lastricatore, creando un’eccezione quasi catalana nell’urbanistica lusitana, tuttavia opta decisamente e con orgoglio per la linea curva: «Non è l’angolo retto che mi attrae, nemmeno la linea retta, dura, inflessibile, creata dall’uomo. Ciò che mi attrae è la curva libera e sensuale, la curva che incontro nelle montagne del mio Paese, nel corso sinuoso dei suoi fiumi, nelle onde del mare, nel corpo della donna preferita. Di curve è fatto tutto l’universo, l’universo curvo di Einstein».

L’uomo cordiale. Oggi gli antropologi criticano il concetto di «carattere» di un popolo. Tuttavia i tratti fondamentali del carattere brasiliano, secondo Sérgio Buarque, possono essere identificati nel personalismo, nel machismo e nel caudilhismo, nella propensione al nomadismo, all’avventura, alla mobilità sociale nel rispetto delle esperienze altrui, nel senso geloso della libertà e della dignità, nella passionalità, nel familismo patriarcale, nella prevalenza dei gruppi primari su quelli secondari, nella preferenza accordata a un ordine relativo e transitorio piuttosto che a un ordine assoluto e definitivo.

La famiglia e il familismo sono stati così forti nel Brasile rurale da prestare il loro modello anche a quelle attività extrafamiliari di tipo professionale e politico che prevarranno nella successiva fase industriale. Per fare affari con una persona occorre prima di tutto farselo amico; ogni rapporto razionale, burocratico, formale deve essere lubrificato dall’amicalità; ogni manifestazione, sia essa di concordia o di inimicizia, nasce dal cuore, dall’intimo, è «calda», è cordiale nel senso etimologico della parola. Lo scrittore Roberto Cauto, con un’espressione che Sérgio Buarque giudica felice e adotta, parla di uomo cordiale, capace di conservare le virtù rurali della schiettezza, dell’ospitalità, della generosità. Cioè l’opposto della cortesia, che è una sottospecie codificata, affettata, formalizzata, epidermica di cordialità. L’uomo cordiale tende spontaneamente a stabilire forme di amicizia e di intimità con gli altri, fossero anche i superiori gerarchici, non per

 

sminuirli ma per condurli nella sua sfera affettiva. Perciò il brasiliano usa frequentemente il diminutivo inho e chiama per nome, senza cognome, anche il presidente della Repubblica. La stessa riduzione di distanze viene praticata con i santi, che sono considerati protettori amorevoli, affettuosi e prescelti dal devoto in base alla semplicità. Non a caso Santa Teresinha, cioè santa Teresa di Lisieux, per la sua semplicità quasi infantile è ben più popolare della mistica, distante santa Teresa d’Avila. Di qui una fede più carnale e permissiva che tormentata e rigorosa, espressa in forme più disinvolte che austere, più sincretiche che ortodosse.

Illusione e disincanto. Dopo avere scandagliato in modo geniale le radici del Brasile, Sérgio Buarque ci lascia con una serie di considerazioni sui «tempi nuovi» contrastanti per loro natura con il carattere brasiliano. La società industriale, con le sue attività lunghe e monotone, richiede tenacia, disciplina, ordine gerarchico, organigrammi, mansionari, programmi e rispetto dei programmi. Il brasiliano invece è eclettico, approssimativo, non ha vocazione specialistica, tende a confondere il lavoro con l’ozio: è quanto di più lontano dall’etica protestante e dal weberiano spirito del capitalismo. La sua predilezione per le professioni umanistiche, per il posto fisso, possibilmente pubblico, denota un attaccamento quasi esclusivo ai valori della personalità in contrasto con l’intraprendenza, l’incertezza, il rischio e i valori impersonali.

Qui Buarque de Holanda imbocca la parte più sconsolata del suo discorso. Il brasiliano, a suo avviso, è costituzionalmente imbroglione; i movimenti, solo apparentemente riformatori, sono partiti quasi sempre dall’alto e le riforme, attuate in modo immaturo, sono state accolte con indifferenza da un popolo inconsapevole. Insomma, «la democrazia in Brasile fu sempre un riprovevole fraintendimento».

Quanto agli intellettuali – quelli come Machado de Assis – si rifugiarono nella letteratura per non vedere l’orrore della realtà quotidiana. Ognuno di essi «non reagì contro questa, opponendo una reazione sana e feconda; non cercò di correggerla o dominarla; semplicemente la dimenticò, o la detestò, provocando disincanti precoci e illusioni di maturità». La

 

loro reazione fu tanto fragile ed estetizzante quanto inutile e inconsistente.

Passando dai letterati agli «uomini di idee», cioè anche a se stesso, Sérgio Buarque rincara la dose: la loro cultura, parolaia e libresca, è servita solo per costruire una realtà artificiosa, millantando la retorica e i bizantinismi come segno di saggezza e di superiorità intellettuale. Questa classe intellettuale, conservatrice e aristocratica, presume che la cultura non abbia bisogno di impegno sistematico e di coraggio perché basta il talento innato, e assegna alla conoscenza un ruolo nobilitante per l’intellettuale, mortifero per la società.

Preso dalla foga antiintellettuale, Sérgio Buarque rifiuta anche la «retorica inutile» di quei «pedagoghi della prosperità» che invocano l’alfabetizzazione delle masse come prerequisito indispensabile del progresso. A suo avviso l’alfabetizzazione, «disgiunta da altri elementi fondamentali di educazione che la completino, è paragonabile, in certi casi, a un’arma da fuoco messa nelle mani di un cieco».

Gigante buono. Secondo Sérgio Buarque, l’unica rivoluzione sperimentata dal Brasile nella sua storia nazionale è di natura lenta ma sicura e armonica, senza il grande chiasso di alcune convulsioni di superficie. Il suo punto culminante è lo spartiacque costituito nel 1888 dall’abolizione della schiavitù per cui il centro di gravità nazionale si spostò dalla campagna alla città e, nella campagna, la coltivazione del caffè che, richiedendo meno investimenti e comportando meno fatica fisica, sostituì la defaticante coltivazione della canna da zucchero. Da quel momento in poi, insieme al ruralismo, declinò l’iberismo anche se, quando esce Radici del Brasile, il Paese non è ancora pienamente affrancato dalle decisioni imposte dall’esterno.

Cosa occorreva al Brasile, secondo Sérgio Buarque? Occorreva uno Stato non dispotico ma vigoroso e composto, armonico ed elegante, che in qualche modo rievocasse lo spirito dell’epoca imperiale. Uno Stato che confermasse l’immagine di un «gigante pieno di una superiore bonomia nei confronti di tutte le nazioni del mondo» e che ricorresse alla guerra solo per farsi rispettare, non per ambizione di conquista.

 

«Noi – conclude il grande sociologo, interpretando lo spirito del suo popolo, che conosce bene come pochi altri – non aspiriamo al prestigio di grande Paese conquistatore e notoriamente detestiamo le soluzioni violente. Desideriamo essere il popolo più tranquillo e più corretto del mondo. Combattiamo sempre per i princìpi considerati universalmente più moderati e più razionali. Siamo stati tra le prime nazioni ad abolire la pena di morte nella loro legislazione, dopo averlo fatto molto prima nella pratica. Abbiamo plasmato le norme della nostra condotta fra i popoli in base a quella tenuta, o che sembra tenuta, dai Paesi più colti, e quindi ci siamo inorgogliti dell’ottima compagnia. Tutti questi sono aspetti ben caratteristici del nostro sistema politico, che si impegna a eliminare tutte le espressioni meno armoniche della nostra società.»

Radici del Brasile si chiude con un’accorata opzione. Non è affatto vero – sostiene Sérgio Buarque – che il carattere brasiliano sia incompatibile con gli ideali democratici: basti pensare alla tenacia con cui ha sempre difeso l’autonomia dell’individuo, all’inconsistenza dei pregiudizi di razza e di colore, alla rapidità con cui è passato dalla vita rurale, più autoritaria, alla vita urbana alleata naturale delle idee democratico-liberali. Però non basta essere cordiali perché «con la cordialità non si creano buoni princìpi». Una vera democrazia esige un solido elemento normativo, esige regole capaci di assicurare pari opportunità per tutti, esige il superamento dei personalismi attraverso una disciplina sociale e una serie di regole basate sul consenso, esige il primato delle istituzioni e la sovranità popolare. In assenza di queste garanzie, può prendere il sopravvento «un demonio perfido e pretenzioso» che induce gli uomini a vedersi diversi da quel che sono e a creare nuove predilezioni e ripugnanze, di natura autoritaria come il fascismo.

Un anno dopo la pubblicazione di Radici, Getúlio Vargas impose l’Estado Nôvo autocratico; ventotto anni dopo, la dittatura militare prese il potere e Sérgio Buarque, in conflitto con il regime, entrò nel Partido dos Trabalhadores. Morirà due anni prima del ritorno della democrazia, al quale contribuì coraggiosamente anche suo figlio Chico, grande in musica e in letteratura quanto il padre in sociologia.

 

La terra del futuro

L’ebreo errante. Nel 1941 il drammaturgo, musicologo, giornalista e poeta austriaco naturalizzato britannico Stefan Zweig pubblicò Brasile. Terra del futuro. Allora il Paese aveva 50 milioni di abitanti e viveva in pace sia all’interno nella mescla tra razze e classi sia all’esterno con i suoi dieci Paesi confinanti, proprio mentre gran parte del mondo si macerava in una guerra mondiale che resterà nella storia come apice di umana barbarie e di meschina stupidità.

Quando uscì il suo libro, il sessantunenne Zweig era uno degli scrittori più famosi del mondo e certamente il più tradotto. Aveva avuto la fortuna di nascere in una famiglia ricca e colta, nella Vienna di Musil e di Klimt, di Freud e di Mahler, da lui magistralmente descritta in un altro libro famoso, Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo.

Zweig ha avuto una vita nomade sia per suo temperamento sia perché, essendo ebreo, a partire dal 1933 fu costretto all’esilio per sfuggire alla persecuzione nazista che aveva mandato al rogo i suoi libri insieme a quelli di Thomas Mann e di Einstein. Visse un poco in tutta Europa e negli Stati Uniti, viaggiò in Asia. Nel 1939 sposò in seconde nozze la giovanissima Lotte Altmann con la quale andò ad abitare prima a New York e poi, dal 1941, a Petropolis, dove insieme preferirono restare per sempre, togliendosi intenzionalmente la vita il 23 febbraio 1942. Lui aveva 62 anni, lei ne aveva 34. Nella lettera scritta prima di morire si legge: «Abbiamo deciso, uniti nell’amore, di non lasciarci mai, nella certezza di andare incontro a una grande tranquillità e a una grande pace». Poi ringraziava il «meraviglioso» Brasile che lo aveva generosamente accolto.

La sua produzione letteraria, che comprende poesie, novelle, romanzi, biografie e libretti d’opera è sconfinata e tuttora presente nelle librerie di tutto il mondo. Quattordici miniature storiche raggiunse una tiratura di 250.000 copie, sbalorditiva per quei tempi.

Oltre a Brasile. Terra del futuro Zweig ha scritto a Petropolis altre tre opere tra cui la celebre Novella degli scacchi, uno dei più bei racconti di tutti i tempi.

 

Ma come era capitato in Brasile? Nel 1936, andando a Buenos Aires per un congresso, aveva avuto la possibilità di fare sosta a Rio e ne era rimasto folgorato. Non si trattava solo di bellezze naturali, architettoniche e urbanistiche ma soprattutto di «una coraggiosa e potente spinta allo sviluppo e insieme un’antica cultura dello spirito» che gli trasmettevano una febbre di bellezza e di felicità. «Ora – scrive Zweig – sapevo di aver gettato uno sguardo sul futuro del nostro mondo».

Partì con l’intenzione di tornarvi presto, ma riuscì a farlo solo nel 1941 prendendo casa a Petropolis, dove lavorò intensamente e, nei limiti delle sue nevrosi, serenamente. Il libro sul Brasile è un inno di affettuoso entusiasmo per il Nuovo mondo acuito dal paragone con l’Europa in fiamme, ma anche un saggio di intelligente penetrazione nella storia e nello spirito del Paese. A più di settant’anni di distanza dalla sua pubblicazione, la lettura di questo testo è ancora ricca di spunti e suggestioni soprattutto per chi, come me, guarda il Brasile dall’esterno, con lo stesso ammirato distacco.

Il segreto della convivenza. La domanda centrale, cui Zweig vuole trovare una risposta attraverso la lente del Brasile, è la seguente: «Com’è possibile sulla nostra Terra la convivenza degli uomini, a dispetto della molteplicità di razze, classi, colori, religioni e convinzioni?». Fuori dal Brasile, ovunque nel mondo, la compresenza di diversità anche meno numerose e marcate avrebbe provocato una catastrofe fratricida, come dimostrano il nazismo, il fascismo, ma anche il razzismo presente ovunque. Invece in Brasile bastano due generazioni e ognuno smette di considerarsi nero o giallo, portoghese, italiano o tedesco per sentirsi intimamente, totalmente brasiliano. Questo mescolarsi delle provenienze, questo diluirsi delle differenze razziali facilita la confluenza in un’unica coscienza nazionale che si traduce da una parte in mollezza malinconica, in piccole mancanze di puntualità e negligenze, in una certa indolenza; dall’altra in una forza d’urto più morbida, in una minore irruenza e prepotenza che smussa la punta avvelenata non solo dell’odio razziale, della lotta di classe e dello sciovinismo, ma anche della tagliente competitività capitalista, delle ipertensioni psichiche, dell’avidità economica e della smania di potenza che sono proprie dei Paesi «avanzati».

Stefan Zweig e Bob Kennedy. Il 18 marzo 1968, poco prima di essere ammazzato, Bob Kennedy tenne all’Università del Kansas un discorso che viene citato continuamente come la quintessenza della lucidità lungimirante. La pars destruens del discorso diceva:

Non troveremo né un fine per la nazione né la nostra personale soddisfazione nella mera rincorsa al progresso economico, nell’ammassare senza fine beni terreni. Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones, né i successi nazionali sulla base del Pil. Perché il nostro Pil nazionale comprende l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine. Mette nel conto le serrature speciali con cui chiudiamo le nostre porte, e le prigioni per coloro che le scardinano. Il nostro Pil comprende la distruzione delle sequoie e la morte del Lago Superiore. Cresce con la produzione di napalm, di missili e di testate nucleari, e comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica. Il nostro Pil si gonfia con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte nelle nostre città; e benché non diminuisca a causa dei danni che le rivolte provocano, aumenta però quando si ricostruiscono i bassifondi sulle loro ceneri. Comprende il fucile di Whitman e il coltello di Speck e la trasmissione di programmi televisivi che celebrano la violenza per vendere merci ai nostri bambini.

Poi veniva la pars costruens che retoricamente diceva:

E se, da una parte, il nostro Pil comprende tutto questo, dall’altra non prende in considerazione molte cose. Non tiene conto dello stato di salute delle nostre famiglie, della

 

qualità della loro educazione o della gioia dei loro giochi. È indifferente alla decenza delle nostre fabbriche e insieme alla sicurezza delle nostre strade. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei nostri matrimoni, l’intelligenza delle nostre discussioni o l’onestà dei nostri dipendenti pubblici. Non tiene conto né della giustizia dei nostri tribunali, né della giustezza dei rapporti tra noi. Il nostro Pil non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza, né le nostre conoscenze, né la nostra compassione né la devozione al nostro Paese. In poche parole, misura tutto, tranne ciò che rende la vita degna di essere vissuta; e può dirci tutto sull’America, eccetto se siamo orgogliosi di essere americani.

Ed ecco cosa scriveva Zweig già ventisette anni prima, nel 1941, prendendo spunto dal Brasile:

Gli avvenimenti degli ultimi anni hanno profondamente modificato la nostra opinione riguardo al valore delle parole civiltà e cultura. Di certo non siamo più disposti a metterle sullo stesso piano di concetti quali organizzazione e comodità. Senz’altro è grazie alla statistica se in passato si è compiuto questo errore fatale; essa, in quanto scienza matematica, ha il compito di calcolare l’ammontare della ricchezza di un Paese e del singolo cittadino, ovvero di rispondere alla domanda: quante auto, quanti bagni, apparecchi radio e premi di assicurazione toccano a testa alla popolazione? Secondo queste tabelle i Paesi più colti e civili sarebbero quelli che presentano il maggior tasso produttivo, forti consumi e la più alta quota di ricchezza nazionale. Ma a queste tabelle manca un elemento importante: non tengono conto, cioè, del sentimento umano, che a nostro parere è la più importante unità di misura della cultura e della civiltà. Abbiamo visto con i nostri occhi come anche una perfetta organizzazione non ha potuto impedire a determinati popoli di indirizzare questa organizzazione unicamente nel senso della bestialità invece

 

che in quello dell’umanità... È per questo motivo che non abbiamo più l’intenzione di stilare una graduatoria che prenda in esame soltanto la potenza d’urto industriale, finanziaria e militare di un Paese, ma vogliamo misurare il grado di sviluppo di un popolo in base al suo senso pacifico e al suo atteggiamento umano.

Multiplex et unum. Zweig scrive il suo libro per rivelare al mondo il modello poco noto del Brasile e affinché tutte le energie positive del pianeta ispirino ad esso i loro progetti di una futura, grande, serena civiltà. Brasile ha una struttura molto semplice: tre capitoli sono rispettivamente dedicati alla storia, all’economia e alla civiltà del Brasile; cinque capitoli sono dedicati a singole città come Rio o San Paolo e a singole zone come le piantagioni di caffè o le miniere aurifere.

Come la maggior parte degli scrittori di cose brasiliane, anche Zweig considera il 1500 come l’anno zero del Paesecontinente e descrive gli indios attraverso i resoconti dei primi gesuiti, nulla esplorando e dicendo della precedente storia millenaria di questi buoni selvaggi.

Nel capitolo dedicato all’economia, Zweig ricostruisce le tappe quasi cinquantennali dello sfruttamento agricolo e minerario: prima il pau brasil, il legno esportato in Europa, poi in sequenza la canna da zucchero, l’oro, il tabacco, il cacao, l’algodão cioè il cotone che avrebbe alimentato le filande portoghesi e soprattutto inglesi, il caffè, il caucciù. «L’era del legno, dello zucchero e del cotone ha popolato il Nord, ha creato Bahia, Recife, Olinda, Pernambuco e Cearà. Mina Gerais è stata popolata dall’oro. Rio de Janeiro dovrà la sua grandezza alla venuta del re con la corte, San Paolo andrà debitrice della sua fantastica ascesa al caffè, Manaus e Belem dovranno il loro improvviso fiorire al ciclo rapido e transitorio della gomma.» Poi bisognerà aggiungere l’esportazione di frutta e di carne.

Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento arrivano in Brasile quattro o cinque milioni di europei e di asiatici per restarci, attratti dalla possibilità di avere per sé e per i propri discendenti una terra da coltivare e occasioni per

 

fare una stabile fortuna. Molti di loro sanno leggere e scrivere, hanno buone nozioni tecniche, sono operosi, conoscono il benessere per averlo sbirciato in patria nelle case dei ricchi, desiderano conquistarselo e perciò si insediano nelle regioni più simili, per clima e vegetazione, a quelle di provenienza.

Sappiamo cosa è avvenuto dopo Zweig: oltre agli immigrati sono giunte dall’Europa grandi imprese e altre sono nate nello stesso Brasile. Ormai l’economia brasiliana è una polifonia di settori merceologici che trasforma le sue materie prime in ottimi prodotti finiti, li consuma e li esporta, piazzandosi con il suo Pil al settimo posto nel mondo. Mentre il reddito cresceva, venivano debellati anche i tre vecchi nemici del Brasile che Zweig identificava con la tubercolosi, la malaria e la lebbra.

Donde viene la mitezza? Euclides da Cunha (1866-1909), autore del celebre Os sertões, sostiene che «não hà um typo antropologico Brasileiro», non esiste un tipo antropologico brasiliano. Zweig è invece convinto che proprio la mescolanza di tante razze e il loro interagire nel tempo abbia levigato le differenze sicché «il brasiliano di ogni classe e di ogni ceto presenta già chiara e tipica l’impronta di una personalità etnica».

Purtroppo anche Zweig parte dal presupposto che l’anno zero di questa impronta coincida con l’arrivo degli europei. A suo avviso il brasiliano «è un uomo senza storia o, quantomeno, dalla breve storia... Tutto ciò che noi oggi chiamiamo brasiliano e riconosciamo come tale si può spiegare non con una tradizione indigena bensì con una trasformazione creatrice dell’elemento europeo». Nessuno mai è riuscito a trovare o escogitare «un apporto degli aborigeni nudi e antropofagi alla civiltà brasiliana... Chi tentasse di dedurre l’elemento caratteristico brasiliano da un’origine locale cadrebbe nel falso. I materiali con i quali (la nazione) ha tirato su la sua civiltà sono totalmente importati dall’Europa».

Ciò affermando, Zweig cade in una evidente e ingiusta contraddizione. I primi colonizzatori ammettevano di aver trovato in Brasile «a mais gentil gente». Al contrario – lo abbiamo già visto – i conquistadores portoghesi, con i loro cani appositamente addestrati, organizzavano periodiche battute di caccia all’indio come in Europa si facevano battute

 

di caccia alla volpe o alla lepre. Gli indios che scampavano alla caccia, se erano forti venivano catturati, se erano gracili venivano abbattuti insieme alle donne stuprate e i loro corpi erano lasciati in pasto alle bestie feroci. Gli indios razziati e ridotti in schiavitù venivano costretti nelle piantagioni e nelle miniere in modo così brutale che le madri indigene preferivano ammazzare i loro figli piuttosto che lasciarli cadere nelle mani dei bianchi.

Da una parte, dunque, gli indios miti e gentili accolgono i conquistatori europei con ospitale gentilezza; dall’altra i portoghesi armati di tutto punto catturano, stuprano, ammazzano, schiavizzano gli indios con gratuita violenza. Dunque da chi dei due gruppi, se non dagli indios, l’attuale «typo antropologico brasileiro» può avere ereditato le virtù che Zweig gli attribuisce, la dolcezza, l’armonia, l’accondiscendenza, la moderazione, la sobrietà, l’amabilità, la tolleranza? Se è vero, come scrive Zweig, che «il Brasile non ha né velleità di conquista né tendenze imperialistiche» da chi, se non dagli indios, ha potuto trarre questa non aggressività? Forse dai conquistadores imperialisti che venivano dall’Europa e che non a caso chiamiamo conquistadores?

Zweig arriva ad affermare che nessuno mai è riuscito a trovare o escogitare «un apporto degli aborigeni nudi e antropofagi alla civiltà brasiliana» e che «non esiste una poesia preistorica brasiliana, né una religione brasiliana, né una musica brasiliana antica; non esistono leggende popolari tramandate attraverso i secoli e nemmeno i più modesti inizi di un’arte applicata». Ma Zweig parla degli indios senza essere mai stato in Amazzonia o nel Pantanal e senza avere mai dedicato studi sufficienti alle civiltà indie, come invece farà Darcy Ribeiro. Se lo avesse fatto, sarebbe giunto alle stesse mie conclusioni: la parte migliore dell’attuale carattere brasiliano non viene dal contributo portoghese ma dall’eredità india.

Nessuna storia è breve e quella del Brasile risale ai tempi mitici non meno di quella italiana o portoghese, greca o inglese. Nel brasiliano confluiscono e si confrontano un inconscio mite, ereditato dagli indigeni e un superego aggressivo, acquisito per 450 anni dagli europei e negli ultimi 50 anni dagli statunitensi. Per ora, grazie a Dio, ha prevalso la parte

 

dolce e inconscia, dono prezioso delle gocce di sangue indio che scorrono nelle vene di ogni brasiliano. Se anche nelle vene di Hitler e di Mussolini, dei tedeschi e degli italiani ci fosse stato un poco di quel sangue, forse non avremmo avuto il nazismo in Germania e il fascismo in Italia. E se ce ne fosse stato in giusta dose anche nelle vene del generale Emìlio Garrastazu Médici, forse in Brasile non avremmo avuto la fase più efferata della dittatura militare che ha impazzato tra il 1964 e il 1985.

Dunque è più esatto dire che la storia dei brasiliani è lunghissima, che affonda le sue radici nelle mitiche civiltà tupi e tapuya, che proprio da quelle radici viene la sua sua parte migliore.

La civiltà del futuro. In soli cento anni dal giorno della sua indipendenza, il Paese ha compiuto un sorprendente salto in avanti con una velocità e una originalità che, secondo Zweig, ne facevano il Paese del futuro, basato su un modello pacifico e dunque umano, non meccanico come quello nordamericano né avvelenato come quello europeo.

Il quadro che Zweig ci offre della civiltà brasiliana si riferisce al 1941, quando il Brasile viveva in piena pace mentre l’Europa era in piena guerra. Già allora in tutto l’immenso Paese si parlava la stessa lingua portoghese ma con un’intonazone, una sintassi e un vocabolario più evoluto del portoghese parlato nel Paese di origine. Secondo Zweig il Portogallo ha dato al Brasile la lingua, la religione, il costume. Mentre, però, il vecchio Paese colonizzatore ha coniugato questi tre fattori con lo sguardo rivolto al passato, il Brasile li ha reinterpretati guardando al futuro.

La prima biblioteca è giunta in Brasile solo con Dom João e solo nel 1827 la scuola elementare è stata istituita in ogni comune di una certa importanza. Ma nel secolo successivo, quando Zweig scrive il suo libro, in Brasile è ormai forte l’interesse per la cultura, le librerie si moltiplicano di giorno in giorno, la produzione artistica e umanistica è più copiosa che in Portogallo, «raramente si vedono l’operaio o il fattorino del tram che in un minuto libero non tengano un giornale in mano, raramente si vede un giovane studente

 

senza un libro sotto il braccio». La poesia è adorata, venerata, praticata. Machado de Assis ed Euclides da Cunha sono appena entrati nel pantheon della letteratura mondiale, così come Heitor Villa-Lobos è entrato in quello della musica e Portinari in quello della pittura, svezzandosi per la prima volta dagli stilemi europei e nordamericani.

Dal punto di vista fisico, il brasiliano descritto da Zweig è meno corpulento, massiccio e alto sia dell’europeo che del nordamericano. Dal punto di vista psicologico è tranquillo, sognatore, sentimentale, privo di brutalità, violenza, grossolanità, prepotenza e presunzione, incline a quella malinconia che, già nel 1585, padre Anchieta e padre Cardim riscontravano in questa terra «desleixada e remissa e algo melancòlica», pigra e languida e alquanto malinconica.

Nel Brasile descritto da Zweig l’allegria non è mai sfrenata, il linguaggio non è mai iroso. Persino durante il carnevale non si arriva mai a eccessi o a volgarità e ognuno, a prescindere dalla classe di appartenenza, conserva la sua bonaria dolcezza ispirando alla cortesia ogni suo rapporto umano. I brasiliani sono molto ospitali e accolgono lo straniero in modo cordiale, senza diffidenza. Ripugna loro la crudeltà e il sadismo. Regna una grande dimestichezza tra i bambini e i ragazzi di qualsiasi razza. Indios, europei, slavi, giapponesi si sposano tra loro e lavorano insieme pacificamente. La parola meticcio non suona dispregiativa e l’odio di classe è poco diffuso così come l’odio di razza.

Inclinando alla cortesia, il brasiliano considera ogni atto scortese come un disprezzo verso la sua persona e reagisce chiudendosi in se stesso, umiliato. «Questa delicatezza del sentimento – dice Zweig – quest’assenza di ogni forma di veemenza, mi pare la qualità più caratteristica del popolo brasiliano. Qui gli uomini non hanno bisogno di tensioni violente e potenti, per essere contenti non hanno necessità di successo visibile e sfruttabile». Perciò non sono impazienti di arricchirsi, non pretendono tutto e subito; anche durante il lavoro amano concedersi il lusso della pausa, sicché «tutti gli stadi del benessere e della felicità sono mescolati a questa pacifica indolenza». E proprio grazie a questa disposizione alla tranquillità, a questa mancanza di odio tra gruppi e classi,

 

il Portogallo ha potuto dominare il Paese per quasi quattro secoli con un numero esiguo di soldati.

L’assenza di avidità e d’impazienza si è tradotta in bassa efficienza e produttività, che molti osservatori hanno attribuito al clima più che alla pigrizia. Non sono mancate né l’operosità né la capacità bensì «quell’europea o nordamericana impazienza di progredire nella vita con raddoppiata rapidità grazie a un raddoppiato impegno». Per il bahiano del Novecento, come per il napoletano dell’Ottocento, valeva lo stereotipo secondo cui la vita è più importante del tempo e non vale la pena di affaticarsi oltre il necessario se già il cielo, il mare, il clima, la natura offrono tutto ciò che basta per essere soddisfatti.

La ricchezza, secondo i brasiliani, dipendeva più dalla fortuna che dall’impegno: tanto valeva affidarsi al gioco delle lotterie e compensare la mancanza di avidità sognando la ricchezza piuttosto che ammazzandosi per conseguirla. D’altra parte la questione deborda dalla civiltà brasiliana a tutta l’umanità e resta in attesa di una risposta: vale più l’eccitato e surriscaldato dinamismo che finisce per spingere gli uni contro gli altri fino alla guerra, o la vita tranquilla e contenta di sé? Il doping continuo, l’eccitazione febbrile, lo sforzo per tendere al massimo le proprie energie in vista del successo non finisce per inaridire la nostra dimensione umana?

Dalla parte dei perdenti

Feitoria da Europa. Tra le varie analisi sociologiche del Brasile, quella di Caio Prado Jr. (1907-1990) si connota per la sua impostazione marxista. Perseguitato dalla dittatura, nel 1942 Caio Prado ha pubblicato Formação do Brasil Contemporâneo, che analizza il «sentido da colonização» derivato dal fatto che il Brasile è stato e si è percepito per tre secoli e mezzo come feitoria da Europa e poi come fattoria degli Stati Uniti. Il conflitto fondamentale del sistema brasiliano, determinato dai rapporti di produzione e subordinazione degli schiavi e dei servi ai latifondisti e ai commercianti, non si è mai trasformato in vera e propria lotta di classe. Per risolvere l’antitesi

 

tra la corruzione degli sfruttatori e la disorganizzazione degli sfruttati, sarebbe stata necessaria una rivoluzione capace di sfociare in un «equilìbrio recìproco das diferentes classes e categorias sociais». Così, persino il Brasile inventato da un marxista punta su un tranquillo interclassismo.

Perché il Brasile non funziona ancora? Darcy Ribeiro, come abbiamo già visto, è stato un grande sociologo, antropologo, pedagogista e uomo politico, intellettualmente indipendente anche se di formazione marxista, che ha dato contributi preziosi allo sviluppo culturale e politico del suo Paese e di tutta l’America Latina. La riflessione di Ribeiro sul modello brasiliano si distingue da tutte le altre anche perché, subito dopo la laurea in sociologia, studiò per dieci anni la cultura degli indios nel Pantanal, nelle foreste del Brasile centrale e in Amazzonia, vivendo a lungo con gli indigeni Kadiwéu e Kaapor e contribuendo alla creazione del parco indigeno di Xingu.

O povo brasileiro. A formação e o sentido do Brasil fu pubblicato nel 1995 dopo trent’anni di incubazione durante i quali l’autore si avvicinò progressivamante al tema con alcuni saggi preparatori. La questione iniziale che egli si poneva era: «Por que o Brasil ainda não deu certo?», perché il Brasile non funziona ancora? Le risposte a questa domanda venivano da varie parti, ma erano tutte insufficienti. Ribeiro ne tentò a sua volta con alcuni saggi come Il processo civilizzatore: tappe dell’evoluzione socio-culturale (1968), come Le Americhe e la civiltà (1970) e come Il dilemma dell’America Latina. Strutture di potere e forze insorgenti (1978). Se a questi studi si aggiungono quelli sul mondo indio, si comprende quale massa di conoscenze sia poi confluita nelle cinquecento pagine di O povo brasileiro. A formação e o sentido do Brasil, con cui l’autore cerca di rispondere a una gamma più varia di domande: chi siamo noi brasiliani, fatti di tante e tanto varie componenti umane? La fusione di queste componenti può considerarsi completata, è ancora in corso o mai si concluderà? Siamo condannati per sempre a essere un popolo multicolorato sul piano culturale e razziale? Esiste una caratteristica specifica dei brasiliani in quanto popolo, benché siamo gente arrivata da ogni parte?

 

Darcy Ribeiro ha affidato le risposte al suo capolavoro O povo brasileiro che intende rappresentare «un gesto na nova luta por um Brasil decente», un gesto nella nuova lotta per un Brasile decente e, prima ancora, un aiuto fondamentale sia ai brasiliani per capire se stessi, sia agli stranieri per comprenderli.

Colonizzazione barocca. La colonizzazione del Nordamerica avvenne attraverso l’immigrazione di intere famiglie europee che mantennero un rigido apartheid rispetto alle popolazioni indigene, da tenere il più lontane possibile. La colonizzazione del Brasile avvenne invece attraverso l’immigrazione di avventurieri e il commercio di schiavi, sicché si ritrovarono gomito a gomito tre matrici, tre razze – l’indigena, l’europea e l’africana – diversissime per tipologia fisica, per cultura e provenienza geografica.

La colonizzazione realizzata dal Portogallo, che Ribeiro chiama «império mercantil salvacionista» in quanto impegnato a mercificare e convertire, ha operato su tre piani: quello adattativo riguarda la tecnologia, quello associativo concerne i modi con cui è organizzata la vita socio-economica, quello ideologico comprende la comunicazione, la conoscenza, la religione, la creazione artistica e l’autorappresentazione etnica.

Lo stile «barocco» della colonizzazione portoghese univa la rapacità di guadagno, la soppressione di ogni etnia recalcitrante all’assimilazione, ma anche la commistione con gli indigeni, ampiamente praticata e incoraggiata attraverso la pratica del cunhadismo da cui nacquero i meticci mamelucos. Anche gli afrobrasileiros erano meticci. Alcuni erano creoli o banda-forra, cioè figli di neri provenienti da varie tribù e di portoghesi con sangue iberico e moro; altri erano cafuzos o salta-atrás, cioè figli di neri e di indios; altri ancora erano terceirãos, cioè figli di neri e di banda-forra. I mamelucchi portavano nel loro inconscio il dramma della colonizzazione; gli schiavi e i loro figli portavano le cicatrici dello sradicamento dall’Africa, del viaggio nei tumbeiros, della vendita come bestie al mercato, delle frustate nelle fazendas e nelle miniere, del lavoro quotidiano senza soste, della totale assenza di umanità. Tutto questo in nome della Corona, del dio cattolico, della civiltà europea.

 

A tutti questi meticci, rifiutati dal padre e dalle comunità d’origine, privi di qualsiasi identità sociale, non restava che darsi un’identità propria, originale, creando un popolo nuovo che parlasse portoghese ma che vivesse secondo un modello nuovo in cui confluissero tutte le culture di base. Per acquisire questa identità inedita occorreva passare attraverso una fase intermedia di ninguendade, di essere nessuno, tabula rasa, cioè brasilindio. Poi le comunità di neobrasiliani si ingrandirono man mano e si composero in quel sistema unico che è oggi il Brasile.

Nessun popolo condannato per secoli a una trafila di questo genere potrebbe uscirne indenne, senza esserne segnato in modo indelebile. Dice Darcy Ribeiro, con la sua prosa bella e impietosa: «Tutti noi, brasiliani, siamo carne della carne di quei negri e di quegli indios suppliziati. Tutti noi brasiliani siamo, egualmente, la mano diabolica che li torturò. La dolcezza più tenera e la crudeltà più atroce qui si coniugarono per fare di noi la gente sensibile e rassegnata che siamo e la gente insensibile e brutale che pure siamo. Discendenti degli schiavi e dei signori degli schiavi, saremo sempre servi della malignità istillata e istallata in noi, tanto per il sentimento di dolore intenzionalmente prodotto per soffrire ancora di più, quanto per l’esercizio di brutalità sopra gli uomini, le donne, i bambini trasformati in pasto della nostra furia».

Poi Ribeiro conclude, propositivo come sempre: «La più terribile delle nostre eredità consiste nel portare sempre con noi la cicatrice di torturatori impressa nella nostra anima e pronta a esplodere in brutalità razzista e fascista. È essa che brucia, ancora oggi, in tante autorità brasiliane predisposte a torturare, seviziare, schiacciare i poveri che le capitano in mano. Essa, tuttavia, provocando una crescente indignazione, ci darà la forza, domani, per creare qui una società solidale».

Conflitti e classi. I conflitti iniziali nacquero dalla contrapposizione di tre blocchi: i coloni, organizzati secondo una forma arcaica di capitalismo; gli indios che si rifiutavano di lavorare; i gesuiti, più tolleranti nei confronti degli indios, interessati prima di tutto a convertirli, aggregarli e proteggerli

 

nelle loro missioni, convincerli ad abbandonare l’antropofagia, la poligamia e il nomadismo.

Gli indios si trovarono investiti da una tempesta di novità indesiderate e per essi incomprensibili. Ne derivavano problemi drammatici per i neobrasiliani che man mano nascevano in questa confusione totale: né indios né portoghesi, a volte rurali e a volte urbani, in mancanza di una chiara identità questi meticci ripiegarono su un sentimento di «nativismo».

Gli schiavi neri africani, provenendo da tribù e Paesi disparati, erano diversi per lingua, usi e costumi non solo rispetto agli indios e ai portoghesi, ma anche tra loro: quando scoppiava una fase di sviluppo in una determinata area (ad esempio, la fase mineraria di Ouro Preto), la gente vi confluiva da ogni parte e si trovava costretta a convivere con persone diversissime.

Accanto a nuove forme di associazionismo nacquero anche nuove forme di creatività come il capolavoro poetico Marìlia de Dirceu del luso-brasiliano Tomás António Gonzaga (17441810) che partecipò alla Inconfidência Mineira, cioè all’insurrezione di Minas Gerais e fu imprigionato e poi esiliato in Mozambico; come la poesia dell’illuminista Cláudio Manuel da Costa, nato nel 1729 in Minas Gerais e laureato a Coimbra, che partecipò anche lui alla Inconfidência, fu incarcerato e morì forse suicida nel 1789, l’anno in cui scoppiava la Rivoluzione francese; come la scultura e l’architettura sublimi di Antônio Francisco Lisboa, il grande, grandissimo Aleijadinho (1738-1814).

Un popolo-nazione, nuovo e vecchio. Dopo cinquecento anni la miscela di mercantilismo, schiavismo, tentativo di soppressione di tutto ciò che era etnicamente diverso dal portoghese ha portato, con la connivenza della Chiesa, al risultato attuale: un popolo nuovo e originale, reso dinamico da una cultura sincretica in cui le somiglianze tra le tre matrici – tupi, lusitana e africana – prevalgono sulle differenze, anche per opera della pressione unificatrice dei media.

Rispetto alle tre matrici, il popolo brasiliano si è trasformato etnicamente sia sul piano biologico (si pensi all’effetto delle epidemie), sia sul piano ecologico (si pensi alla flora

 

e alla fauna importate), sia sul piano economico (si pensi al passaggio dalla schiavitù al salariato), sia sul piano psicoculturale (si pensi agli indios deprivati della voglia di vivere). Il risultato è una mescolanza tale che oggi persino il bianco è orgoglioso di essere diventato un poco più moreno.

Ma questo popolo è nuovo soprattutto per una vitale sensualità, una inverosimile allegria e una strepitosa propensione alla felicità, benché scaturite da una storia così straziante. Tuttavia è anche un popolo vecchio dal momento che, per quattro secoli, è stato costretto a svolgere il ruolo di proletariato esterno nell’espansione transatlantica dell’Europa, obbligato a produrre risorse da esportare, usando forza lavoro interna o importata. Al contrario di quanto si sarebbe potuto immaginare, la «multipla ancestralità» di questo popolo, in cui le potenzialità insite nella matrice portoghese si sono realizzate più ancora che in Portogallo, non ha comportato particolari conflitti e antagonismi tra le varie frazioni razziali, ma una sotanziale conformità, screziata da rare microetnie tribali che ancora oggi sopravvivono come piccole isole nel mare della brasilianità.

L’ecologia, l’economia e poi l’immigrazione di europei, arabi e giapponesi si sono incaricate di creare diversi mondi rurali: i sertanejos nel Nordeste, i caboclos in Amazzonia, i crioulos lungo il litorale, i caipiras nel Sudeste e nel Centro, i gaúchos nel Sud, e poi i sulistas e i matutos. A queste etnie, cui Darcy Ribeiro dedica altrettante monografie, si sono poi sovrapposte l’urbanizzazione, l’industrializzazione e i mass media che hanno diffuso e uniformato nuovi stili di vita. Il risultato è che oggi tutte queste componenti si comportano come un unico popolo-nazione situato su un proprio territorio che parla un’unica lingua e convive in uno Stato quasi unietnico: ben diverso, ad esempio, dalla Spagna o dal Guatemala che, pur essendo Stati unitari, sono tuttavia lacerati da continui conflitti interni.

Classi dominanti, subordinate e oppresse. L’unità nazionale fu un obiettivo preciso ed esplicito delle vecchie classi dirigenti brasiliane e costituisce il loro unico vero merito, che le ha distinte dal mosaico degli altri quadri nazionali dell’America

 

ispanica. Con violenza classista esse stroncarono ogni diversità etnica e ogni tentativo separatista, compresi quei movimenti sociali che, senza nulla avere di separatista, solo intendevano edificare una società più aperta e solidale. Ma sotto l’uniformità culturale brasiliana si nasconde una profonda distanza sociale – una delle più spaventose nel mondo – che separa e oppone ricchi e poveri. Come ha detto Fernando Henrique Cardoso: «il Brasile è, al tempo stesso, culturalmente integratore e socialmente ingiusto».

Darcy Ribeiro non adotta un metodo rigidamente marxiano nell’analisi delle classi e dei conflitti, ma ne descrive la progressiva formazione e i rapporti perduranti. Per il passato costruisce una tipologia delle imprese in cui le classi sedimentavano: quella schiavista delle fazendas, degli engenhos e delle miniere; quella gesuitica che raccoglieva gli indios nelle reducciones; quella dei banchieri, degli armatori, dei portuali, degli intermediari commerciali; quella che produceva i generi di sussistenza per sé e per gli altri. Esamina il modo in cui, sulla formazione delle classi, ha inciso il processo di urbanizzazione provocato dalla fuga dalla campagna più che dall’attrattiva della città dove gli immigrati venivano subito emarginati nelle favelas.

Nella società brasiliana di fine Novecento Ribeiro individua quattro classi. Al vertice, le classes dominantes composte da due gruppi conflittuali e complementari: gli imprenditori in quanto coordinatori delle attività produttive; il patriziato (generali, vescovi, militari, tecnocrati, celebrità, parlamentari, leader sindacali) in quanto ordinatore della vita sociale.

Sotto questa cupola che detta le regole e comanda il sistema politico-economico, vi sono i setores intermédios, la classe media dinamica che agisce ora attenuando, ora aggravando i conflitti, fatta di liberi professionisti, manager, politici, basso clero e simili.

Seguono le classes subalternas, manodopera che aspira a lavorare e mercato potenziale che aspira a consumare, proletariato combattivo che cerca di migliorare la propria condizione economica pur senza ristrutturare la società, composto dai salariati rurali, dai piccoli coltivatori diretti,

 

dagli operai, dagli occupati stabili, dai lavoratori specializzati, dai piccoli proprietari.

Infine la grande massa delle classes oprimidas, i sottoproletari, marginali neri e mulatti ammassati nelle favelas e nelle periferie urbane, spazzini, collaboratori domestici semigratuiti, prostitute, delinquenti, mendicanti, tutti analfabeti e incapaci di organizzarsi per rivendicare i propri diritti, anche se sperano di entrare nel sistema produttivo e forse sarebbero anche disposti a sfondare la struttura sociale.

L’antagonismo di classe si manifesta opponendo un sottilissimo strato di privilegiati al grosso della popolazione oppressa sicché le distanze sociali risultano più incolmabili delle distanze razziali. Qui la classe dominante ha oppresso la classe dominata attraverso processi così violenti da assumere la forma di un continuo genocidio e di un etnocidio implacabile. Le tensioni tra classi dominanti e subordinate da una parte, classi oppresse dall’altra sono traumatiche e insinuano un timor panico sempre latente nelle élite dirigenti che in un primo momento erano lusitane, poi divennero luso-brasiliane e ora sono brasiliane. Questo timor panico si esprime attravrerso la brutalità con cui il potere centrale, che non tollera nessuna alterazione dell’ordine vigente, reprime qualsiasi forma di contestazione.

Qui Darcy Ribeiro si contrappone frontalmente alle tesi di Gilberto Freyre sostenendo che la minoranza privilegiata brasiliana vede e ignora la massa popolare, la tratta e la maltratta, la esplora e la deplora producendo una lacerazone razzista «do tipo mais cruamente disegualitàrio que se possa conceber». Ciò che impedisce di percepire la distanza abissale che separa i vari strati sociali è la tanto conclamata quanto falsa «democrazia razziale»: una distanza che non si traduce in conflitto di classe ma diventa assuefazione a un modus vivendi per cui i privilegiati si trincerano dietro una cortina di indifferenza, ignorando o occultando la miseria, mentre il popolo-massa considera del tutto naturale e ineluttabile un simile ordine sociale come fosse qualcosa di sacro, fissato da Dio. Tuttavia le classi dominanti vivono nel terrore che il popolo possa prendere coscienza delle ingiustizie subite e possa esplodere in ribellioni anarcoidi. Per questo a livello

 

personale fanno ampio ricorso a bodyguard e, a livello sociale, orchestrano «rivoluzioni preventive» che portano dritte alla dittatura, considerata come un male minore.

Alla soglie del Duemila

La tecnocrazia. Mentre scrive O povo brasileiro, Ribeiro rileva che i brasiliani non avevano un modello cui ispirare la loro società e la loro economia, le quali si andavano componendo giorno per giorno in base al gioco delle circostanze, soprattutto internazionali. Però lo sviluppo sociale e l’omogeneità culturale ormai trascendevano le particolarità ecologiche, economiche, razziali e di provenienza. I neri, emarginati nelle favelas avevano contatto con il resto della città come forza lavoro a basso prezzo ed erano politicamente interessati alla questione sociale, non a quella razziale. Le donne, uscite dallo stato di servitù, avevano acquisito maggiore dignità nelle relazioni affettive e sessuali.

Ma, nella fase industriale in cui il nero ha imparato a essere libero e il progresso tecnologico ha sostituito l’economia del latifondo con quella della fabbrica, è emersa l’incapacità di assorbire tutta la popolazione attiva sia nella sfera della produzione che in quella del consumo.

Di fatto il Brasile industrializzato ha continuato a svolgere la funzione di proletariato esterno, senza riuscire a darsi un suo proprio destino autonomo. Come gli indios partecipavano alle bandeiras per catturare altri indios, così oggi certi tecnocrati brasiliani operano nelle multinazionali per mantenere subordinato il Brasile all’economia globalizzata. L’industrializzazione ha creato questa tecnostruttura interna non meno irresponsabile di quella precedente, di tipo coloniale. Questi tecnocrati si sono basati sulla mano invisibile del mercato e sull’irresponsabilità del neoliberismo, formando e deformando il Brasile moderno in base ai loro propri interessi.

Per fortuna in Brasile sia le popolazioni rurali che quelle urbane marginalizzate non oppongono resistenza ai cambiamenti: sono arretrate, non conservatrici. In quanto costituite

 

dai «nuovi brasiliani», sono costituzionalmente ricettive del progresso molto più di quanto lo era la componente tradizionalista europea, quella comunitaria india e quella tribale africana. Sono piuttosto le classi dominanti che si oppongono ai cambiamenti: soprattutto i latifondisti e quei capitalisti brasiliani collusi con gli stranieri attraverso un’azione antinazionale e antipopolare che impedisce all’industria di svolgere il ruolo modernizzatore giocato in altri Paesi.

Non più schiavo, non più semplice forza energetica, tuttavia il lavoratore libero riesce appena a sopravvivere, subendo gli effetti prima della rivoluzione agro-mercantile, poi della Rivoluzione industriale. Questa, a sua volta, si è sempre più meccanizzata passando da una fase labour intensive a una fase capital intensive, sicché il Brasile, afflitto per secoli dalla carenza di manodopera, ora si trova ad averne in eccedenza.

Iemanjá e Babbo Natale. A causa della morte prematura, Darcy Ribeiro fece appena in tempo a vedere gli effetti nefasti del neoliberismo e i prodromi avveniristici dell’informatica. Entrambi i fenomeni gli apparivano spuri rispetto alla cultura brasiliana e il secondo gli sembrava destinato ad approfondire il divario tra le zone urbane e quelle rurali. Ancora più pericolosa gli appariva l’omologazione culturale provocata dai media, per cui una produzione di dubbia qualità insidiava le arti popolari in cui il Brasile era stato sempre creativo. Per fortuna, dice Ribeiro, vi è l’architettura di Oscar Niemeyer, la musica di Heitor Villa-Lobos, la pittura di Candido Portinari, la poesia di Carlos Drummond De Andrade, la letteratura di João Guimarães Rosa con cui il Brasile può contrastare l’onda globalizzante.

D’altra parte, dal progresso scientifico e tecnologico ci si possono attendere due vantaggi: la pillola anticoncezionale consentirà alla donna brasiliana una maggiore indipendenza; le nuove tecnologie, mettendo in contatto la cultura brasiliana con quella straniera, creeranno le condizioni per cui la creatività popolare non resti confinata nel football e nella musica. Un buon segno sta nella vittoria della grande madre Iemanjá su Babbo Natale.

 

La grande sfida. Oggi, conclude Darcy Ribeiro con tono profetico, la sfida del Brasile è quella di organizzare tutte le sue immense energie e orientarle politicamente, unendosi agli altri Paesi neolatini in un unico, grande popolo. A tale sopo occorre un chiaro progetto alternativo di ordinamento sociale, condiviso dalla grande maggioranza della popolazione. Come si vede, l’esigenza di un modello che sintetizzi la storia e orienti il futuro sbuca da tutte le parti.

Perché mai la colonizzazione europea nel Nordamerica e in Australia si è tradotta in ricchezza, mentre in Sudamerica si è tradotta in povertà? La spiegazione sta nel fatto che il Nordamerica e l’Australia rappresentano semplicemente una ripetizione dell’Europa anglosassone mentre il Brasile non si è limitato a copiare l’Europa ma ha inventato ex novo un genere di persone che non esisteva. Noi brasiliani, dice Ribeiro, «somos um povo em ser, impedido de sê-lo», siamo un popolo in essere, impedito di esserlo, rimasto per decenni nel limbo della «ninguendade», della non esistenza, prima di diventare compiutamente brasiliano.

Gli eserciti romani latinizzarono i popoli prelusitani, che mantennero per secoli la loro latinità e, dopo quindici secoli, passarono l’oceano e vennero a plasmare quella neoromanità che oggi si ritrova nei brasiliani. «In fin dei conti siamo una provincia della civilizzazione occidentale. Una nuova Roma, una matrice attiva della civiltà neolatina. Migliore delle altre, perché lavata nel sangue negro e nel sangue indio, il cui ruolo, d’ora in poi, piuttosto che quello di assorbire l’europeità, sarà quello di insegnare al mondo come si vive in modo più allegro e felice.»

Il Brasile è già la maggiore delle nazioni neolatine per numero di abitanti e per creatività; ora occorre che lo diventi anche sul piano tecnologico ed economico. Il suo destino è quello di unirsi a tutti gli altri Paesi latinoamericani per formare la nazione unica sognata da Simón Bolívar, contrapposta al comune antagonista: l’America anglosassone.

Una nazione che raggiungerà presto un miliardo di cittadini, sufficienti per incarnare la latinità rispetto ai cinesi, agli slavi, agli arabi e ai neobritannici nell’umanità futura. Svilupparsi come un genere umano inedito costa fatica, ma la posta in

 

gioco bella e sfidante consiste nel riconoscersi come nuova Roma. Una Roma tardiva, meticcia, tropicale, orgogliosa di sé, che Ribeiro immagina «più allegra perché più paziente. Più buona perché incorpora in sé più tipi di umanità. Più generosa, perché aperta alla convivenza con tutte le razze e tutte le culture e perché collocata nella più bella e luminosa provincia della Terra».

Ribellioni, movimenti, consentite trasgressioni

La Bibbia mette in guardia dall’ira delle persone calme. Il Brasile è un Paese pacifico, che ha ereditato dalla sua matrice india l’amore per la mite e cordiale disponibilità. Ma, come abbiamo visto, la sua storia senza troppe guerre non significa storia senza conflitti e senza violenze. Il popolo brasiliano ha sempre agito all’insegna del sincretismo (il crudo e il cotto, il simbolico e il diabolico, l’endogeno e l’esogeno) e dell’antropofagia (la colonia che incorpora la Corona, la campagna che incorpora la città, la città che poi incorpora la campagna). Ma ognuna di queste operazioni ha comportato conflitti tra tesi e antitesi, tra forze consonanti e dissonanti.

Le frequenti rivolte, l’assenza di vere e proprie guerre civili o di rivoluzioni all’interno e di vere e proprie guerre verso l’esterno sono effetto e causa di un’attitudine del popolo brasiliano a modificare la storia, a sfogare la tensione e la rabbia, a contestare il potere soprattutto attraverso movimenti di massa. Con i movimenti sono state ottenute le varie costituzioni; con i movimenti sia Getúlio Vargas che i militari sono andati al potere e ne sono stati estromessi.

Le manifestazioni antagonistiche con cui aggregazioni transitorie e semispontanee di massa, spesso interclassiste e a volte violente, esprimono il disagio, la ribellione, la pretesa di giustizia, il bisogno di trasformare rapidamente lo status quo, la voglia di sperimentare l’uguaglianza, secondo Alain Touraine e Zsuzsa Hegedüs rappresentano la forma di lotta sociale più consona alla società postindustriale.

Sotto questo aspetto, come sotto tanti altri, il Brasile è stato precocemente postindustriale. In alcuni casi queste

 

contestazioni sono avvenute in forma latente, nascoste nella musica, nel football, nella capoeira, nel carnevale; in altri casi sono avvenute in forma esplicita, attraverso movimenti artistici, politici, sindacali e religiosi. In un certo senso, football e carnevale possono essere considerati come grandi manovre preparatorie con cui i brasiliani hanno appreso fin da bambini come partecipare, e con quale ruolo, ai movimenti di massa.

Qui di seguito descrivo sinteticamente alcuni casi di innovazione e contestazione, scelti tra i tantissimi possibili, cominciando proprio con il carnevale, assunto come esempio anomalo di movimento antagonista di massa o, meglio, come forma eclatante di controllata trasgressione. Segue una sintetica descrizione di due movimenti artistici (modernismo e antropofagia) e a tre casi universalmente noti (bossa nova, tropicália e musica popolare brasilana). Nel campo religioso ho scelto l’umbanda, il candomblé e la macumba come espressioni di sopravvivenza culturale resistenti dall’esterno alla colonizzazione delle Chiese ufficiali e ho scelto la teologia della liberazione come caso di contestazione interna alla Chiesa cattolica. Infine ho fatto un rapido accenno al movimento sociale scoppiato in molte città brasiliane nel corso del 2013.