Ore 4.46
Il cadavere stava piangendo.
Stavolta non accese la lampada accanto al letto. Non recuperò il pennarello per aggiungere un altro dettaglio sul muro della soffitta di via dei Serpenti. Rimase in silenzio, al buio, cercando di dare un senso a ciò che aveva visto nel sogno.
Riordinò gli ultimi indizi che aveva portato con sé dalla rievocazione notturna di ciò che era accaduto nella stanza d’albergo a Praga.
Vetri infranti. Tre spari. Mancino.
Invertendoli pervenne alla soluzione del mistero.
Le ultime parole di Jeremiah Smith erano state: «Al confine fra il bene e il male c’è uno specchio. Se ci guardi dentro, scoprirai la verità».
Aveva trovato la ragione per cui odiava tanto specchiarsi. Un colpo ciascuno, per lui e per Devok. Ma il sicario non era mancino. Lo era il suo riflesso. Il primo sparo aveva distrutto lo specchio.
Non c’era alcun terzo uomo. Erano soli.
Lo aveva intuito dopo quanto accaduto nel reparto di terapia intensiva del Gemelli, quando aveva sparato senza esitare. Ma la certezza era arrivata solo con il sogno, rivedendo il finale della scena. Non sapeva perché si trovasse a Praga, né perché ci fosse il suo maestro. Non conosceva il tenore della loro conversazione, né cosa si fossero detti.
Marcus sapeva soltanto che poche ore prima aveva ucciso Jeremiah Smith. Ma prima di lui, aveva fatto lo stesso con Devok.
All’alba la pioggia era tornata a riprendersi Roma, ripulendo la notte dalle strade.
Mentre si aggirava per i vicoli del rione Regola, Marcus si riparò sotto un porticato. Guardò in alto, non dava l’impressione che avrebbe smesso presto. Sollevò il bavero dell’impermeabile e riprese il cammino.
Giunto in via Giulia, entrò in una chiesa. Non c’era mai stato. Clemente gli aveva dato appuntamento nella cripta. Scendendo i gradini di pietra, si rese subito conto della peculiarità del posto. Era un cimitero ipogeo.
Prima che un decreto napoleonico stabilisse la norma igienica per cui i morti dovessero essere seppelliti lontano dai vivi, ogni chiesa aveva il suo camposanto. Ma quello in cui si trovava era diverso dagli altri. Gli arredi – candelabri, decorazioni e sculture – erano fatti di ossa umane. Uno scheletro incastonato nel muro salutava i fedeli che intingevano le dita in un’acquasantiera. Le ossa erano divise a seconda del tipo e ordinatamente raggruppate nelle nicchie. Ce n’erano migliaia. Ma più che macabro, quel luogo appariva grottesco.
Clemente se ne stava con le mani intrecciate dietro la schiena, chino su un’iscrizione posta sotto un mucchio di teschi.
«Perché qui?»
L’amico si voltò e lo vide. «Mi sembrava il posto più giusto dopo aver ascoltato il messaggio che mi hai lasciato stanotte nella casella vocale.»
Marcus indicò intorno. «Dove siamo?»
«Verso la fine del Cinquecento, la Confraternita dell’orazione e morte iniziò la sua opera pietosa. Lo scopo era dare degna sepoltura ai cadaveri senza nome che venivano rinvenuti nelle strade di Roma o nelle campagne, oppure restituiti dal Tevere. Suicidi, vittime di assassini o semplicemente morti di stenti. Ce ne sono circa ottomila stipati qua dentro.»
Clemente era troppo tranquillo. Nel messaggio, Marcus gli aveva riassunto sommariamente l’accaduto della notte precedente, ma l’amico non sembrava affatto turbato dall’epilogo degli eventi. «Perché ho l’impressione che non t’importi nulla di ciò che ho da dirti?»
«Perché abbiamo già appreso ogni cosa.»
Quel tono accondiscendente lo irritava. «Chi? Dici ’abbiamo’, ma non vuoi rivelarmi a chi ti riferisci. Chi c’è sopra di te? Ho il diritto di saperlo.»
«Lo sai che non posso. Ma sono molto soddisfatti di te.»
Per Marcus era frustrante. «Soddisfatti di cosa? Ho dovuto uccidere Jeremiah, Lara è spacciata e stanotte, dopo un anno di assenza totale di memoria, ho recuperato il mio primo ricordo... Io ho sparato a Devok.»
Clemente prese tempo. «C’è un detenuto nel braccio della morte di un carcere di massima sicurezza che si è macchiato di un reato orribile e attende l’esecuzione da vent’anni. Cinque anni fa gli diagnosticarono un cancro al cervello. Asportandoglielo, perse la memoria. Ha dovuto imparare tutto daccapo. Dopo l’operazione, era strano per lui trovarsi in una cella, condannato per un delitto che non ricordava di aver commesso. Adesso sostiene di essere una persona diversa dall’assassino che ha ammazzato varie vittime, anzi dice che non sarebbe capace di togliere una vita. Ha chiesto di essere graziato, asserisce che altrimenti sarà un innocente a essere giustiziato. Gli psichiatri ritengono che sia sincero, che non sia solo un trucco per evitare la condanna a morte. Ma il problema è un altro. Se il responsabile delle azioni di un individuo è l’individuo stesso, dove risiede la sua colpa? È insita nel suo corpo, nella sua anima oppure nella sua identità?»
Per Marcus tutto fu improvvisamente chiaro. «Voi sapevate cosa avevo fatto a Praga.»
Clemente annuì, poi aggiunse: «Uccidendo Devok hai commesso un peccato mortale. Ma se non lo ricordavi, non potevi confessarlo. E se non lo confessavi, non potevi essere assolto. Ma per gli stessi motivi, era come se non lo avessi commesso. Ecco perché sei stato perdonato».
«Per questo me l’hai tenuto nascosto.»
«Qual è la frase che i penitenzieri ripetono sempre?»
Marcus ripensò alla litania che aveva imparato. «C’è un luogo in cui il mondo della luce incontra quello delle tenebre. È lì che avviene ogni cosa: nella terra delle ombre, dove tutto è rarefatto, confuso, incerto. Noi siamo i guardiani posti a difesa di quel confine. Ma ogni tanto qualcosa riesce a passare... Il mio compito è ricacciarlo indietro.»
«Sempre pericolosamente in bilico su quella linea, alcuni penitenzieri hanno compiuto un passo fatale: ingoiati dal buio, non sono più tornati.»
«Stai cercando di dirmi che ciò che è accaduto a Jeremiah era successo anche a me prima che me ne scordassi?»
«Non a te. A Devok.»
Marcus non riuscì più a parlare.
«Ha portato lui la pistola in quella camera d’albergo. Tu l’hai solo disarmato e hai cercato di difenderti. C’è stata una colluttazione e sono partiti gli spari.»
«Come fate a sapere come è andata? Non c’eravate», protestò.
«Prima di venire a Praga, Devok si confessò. Culpa gravis 785-34-15: aver disobbedito a una disposizione del papa e aver commesso tradimento nei confronti della Chiesa. In quella circostanza, rivelò l’esistenza dell’ordine clandestino dei penitenzieri. Probabilmente aveva già intuito che qualcosa non andava: l’archivio era stato violato, quattro ragazze erano state rapite e sgozzate e l’indagine veniva depistata di continuo. Padre Devok cominciò a nutrire dei sospetti sui suoi uomini.»
«Quanti sono i penitenzieri?»
Clemente sospirò. «Non lo sappiamo. Ma abbiamo la speranza che qualcuno uscirà allo scoperto, prima o poi. Nella confessione, Devok non volle fare i nomi. Disse soltanto: ’Ho commesso un errore, devo rimediare’».
«Perché venne da me?»
«Supponiamo che volesse uccidervi tutti. Iniziando da te.»
Marcus realizzò come fossero andate le cose, era incredulo. «Devok voleva uccidermi?»
Clemente gli appoggiò una mano sulla spalla. «Mi dispiace. Speravo che non l’avresti mai saputo.»
Marcus guardò gli occhi vuoti di uno dei tanti teschi conservati nella cripta. Chi era stato quell’individuo? Qual era il suo nome, il suo volto? Qualcuno gli aveva mai voluto bene? Come era morto e perché? Era un uomo buono o cattivo?
Qualcuno avrebbe potuto rivolgere le stesse domande al suo cadavere se Devok fosse riuscito a ucciderlo. Perché, come tutti i penitenzieri, lui non aveva identità.
Io non esisto.
«Prima di morire, Jeremiah Smith ha detto: ’Più facevo del male, più diventavo bravo a scovarlo’. E io mi domando: perché non ricordo la voce di mia madre e invece so bene come scovare il male? Perché ho scordato tutto il resto e non il mio talento? Il bene e il male sono innati in ognuno di noi, oppure dipendono dal percorso che ognuno compie nella propria vita?» Marcus sollevò lo sguardo sull’amico. «Io sono buono o cattivo?»
«Ora sai di aver commesso peccato mortale uccidendo Devok e poi Jeremiah. Per questo dovrai confessarti e sottoporti al giudizio del Tribunale delle anime. Ma sono sicuro che riceverai l’assoluzione, perché ad avere a che fare col male a volte ci si sporca.»
«E Lara? Jeremiah si è portato appresso il segreto. Cosa ne sarà di quella povera ragazza?»
«Il tuo compito finisce qui, Marcus.»
«È incinta.»
«Non possiamo salvarla.»
«E il suo bambino non avrà neanche una possibilità. No, non lo accetto.»
«Guarda questo posto», Clemente gli indicò l’ossario. «Il senso di questo luogo è la pietà. Dare una sepoltura cristiana a un individuo senza nome, indipendentemente da ciò che è stato o ha commesso durante la propria esistenza. Ti ho voluto incontrare qui perché provassi un po’ di pietà per te stesso. Lara morirà, ma non sarà per colpa tua. Perciò, smettila di tormentarti. Non servirà a nulla l’assoluzione del Tribunale delle anime se non ti sarai prima assolto da solo.»
«Allora adesso sono libero? Non è così che me l’immaginavo. Non fa bene come avevo creduto.»
«Ho ancora un incarico per te.» Clemente sorrise. «Forse questo ti renderà le cose meno gravose.» Gli porse un fascicolo dell’archivio.
Marcus lo prese, lesse sulla copertina: c.g. 294-21-12.
«Non hai salvato Lara. Ma forse puoi ancora salvare lei.»
Ore 9.02
Nel reparto di terapia intensiva aveva luogo una scena surreale. I poliziotti e i tecnici della Scientifica svolgevano i consueti rilievi per ricostruire la dinamica della carneficina. Ma tutto avveniva alla presenza dei pazienti in coma, che non potevano essere spostati in poco tempo. Non c’era rischio che interferissero con le indagini, pertanto erano stati lasciati lì. La conseguenza inspiegabile era che gli agenti si muovevano con discrezione, parlando sottovoce, quasi avessero timore di svegliarne qualcuno.
Osservando i colleghi da una sedia nel corridoio, Sandra scuoteva il capo domandandosi se la cosa apparisse idiota soltanto a lei. I dottori avevano insistito per tenerla in osservazione, ma aveva firmato per essere dimessa. Non si sentiva un granché bene, però voleva tornarsene a Milano, riprendere possesso della sua vita. E provare a ricominciare.
Marcus, si disse ripensando al nome del penitenziere con la cicatrice sulla tempia. Avrebbe voluto parlargli ancora una volta, cercare di capire. Mentre soffocava, la sua stretta le aveva infuso il coraggio necessario per resistere. Avrebbe voluto che lo sapesse.
Jeremiah Smith era stato portato via in un sacco nero per cadaveri. Le era sfilato davanti e lei aveva scoperto di non provare nulla per quell’uomo. Quella notte, Sandra aveva sperimentato su di sé l’effetto della morte. Le era bastato per liberarsi di tutto l’odio, rancore, desiderio di rivalsa. Perché in quei momenti si era sentita molto vicina a David.
Monica l’aveva strappata a una fine certa con la sua forza di medico coraggioso. Poi aveva recitato per la polizia, sostituendosi a Marcus nella scena. Si era assunta la colpa di aver sparato a Jeremiah. Era stata brava a cancellare le impronte dalla pistola e a imprimerci le proprie. Non una vendetta, ma legittima difesa. Tutto faceva pensare che le avessero creduto.
Sandra la vide venirle incontro nel corridoio, alla fine dell’ennesimo interrogatorio. Monica non sembrava provata, anzi le riservò un’espressione allegra.
«Allora, come va?»
«Bene», rispose Sandra schiarendosi la voce. Era ancora rauca per via del tubo del respiratore e le faceva male ogni muscolo del corpo. Ma almeno l’orrenda sensazione della paralisi era passata. Un anestesista l’aveva aiutata a uscire progressivamente dall’effetto della succinilcolina. Era stato come resuscitare. «Si cresce anche a forza di schiaffi, lo diceva tuo padre se non sbaglio.»
Risero. Solo per caso la notte precedente Monica era tornata al reparto di terapia intensiva dopo la consueta visita serale. Sandra non le aveva chiesto il perché, e lei le aveva detto di non conoscere il motivo che l’aveva spinta. «Sarà stato per la chiacchierata che avevamo fatto poco prima, non lo so.»
Sandra non sapeva se ringraziare lei per quella fatalità o il destino, oppure qualcun altro che da lassù ogni tanto provvedeva a sistemare le cose. Che fosse Dio o suo marito, per lei non faceva differenza.
Monica si chinò su Sandra e l’abbracciò. Non c’era bisogno di parole. Rimasero così per qualche secondo. Quindi la giovane dottoressa si congedò con un bacio sulla guancia.
Era distratta a osservarla mentre si allontanava e non si accorse del commissario Camusso che si stava avvicinando.
«Brava ragazza», sentenziò.
Sandra spostò lo sguardo su di lui. Era vestito completamente d’azzurro. Unico colore per giacca, pantaloni, camicia e cravatta. Avrebbe scommesso che anche i calzini facessero pendant. La sola eccezione erano i mocassini bianchi. Se non fosse stato per le scarpe e per la testa, Camusso si sarebbe confuso con gli arredi e le pareti del reparto di terapia intensiva, svanendo come un camaleonte.
«Ho parlato con il suo superiore, l’ispettore De Michelis. Sta venendo da Milano a prenderla.»
«No, accidenti. Perché non l’ha fermato? Contavo di partire stasera.»
«Mi ha raccontato una simpatica storia sul suo conto.»
Sandra cominciò a temere.
«A quanto pare aveva ragione, agente Vega. Complimenti.»
Era interdetta. «Su cosa?»
«La storia della stufa a gas e del monossido di carbonio. Il marito che spara a moglie e figlio dopo la doccia, e che poi torna in bagno e sviene, urtando la testa e morendo.»
Il riassunto era perfetto, l’epilogo non era chiaro. «Il medico legale ha accolto la mia tesi?»
«Non l’ha solo accolta: l’ha sposata.»
Sandra non riusciva a crederci. Questo non avrebbe rimesso a posto le cose. Ma la verità era sempre consolante. Come per David, notò. Adesso che sapeva chi l’aveva ucciso, si sentiva libera di lasciarlo andare.
«Tutti i reparti del policlinico sono monitorati da un sistema di telecamere di sicurezza, lo sapeva?»
Camusso se n’era uscito con quella frase di punto in bianco, e Sandra rabbrividì perché non ci aveva pensato. La versione dei fatti fornita da Monica e confermata poi da lei era in pericolo. Marcus era in pericolo. «Avete avuto modo di visionare i filmati?»
Il commissario si lasciò scappare una smorfia. «A quanto pare, l’impianto di videosorveglianza di terapia intensiva è stato messo fuori uso dai temporali dei giorni scorsi. Perciò, non esiste alcuna registrazione dell’accaduto. Che sfortuna, non trova?»
Sandra cercò di non mostrarsi sollevata.
Ma Camusso aveva ancora qualcosa da aggiungere: «Lo sapeva che l’ospedale Gemelli appartiene al Vaticano, vero?»
Non era un’affermazione casuale, conteneva un’insinuazione, che Sandra ignorò.
«Perché me lo dice?»
Il poliziotto fece spallucce, guardandola in tralice, ma rinunciò ad approfondire la cosa. «Così, semplice curiosità.»
Prima che riprendesse l’argomento, Sandra si alzò dalla sedia. «Potrebbe chiedere a qualcuno di accompagnarmi in albergo?»
«La porto io», si propose Camusso. «Qui non ho altro da fare.»
Sandra tramutò la delusione in un falsissimo sorriso. «Sì, però prima vorrei passare in un posto.»
Il commissario possedeva una vecchia Lancia Fulvia e la teneva in perfette condizioni. Entrando in macchina, Sandra ebbe l’impressione di tornare indietro nel tempo. Gli interni odoravano come fosse appena uscita dal concessionario. La pioggia cadeva incessantemente, ma la carrozzeria sembrava incredibilmente pulita.
Camusso l’accompagnò all’indirizzo che gli aveva indicato. Lungo il tragitto ascoltarono una stazione radio che trasmetteva solo successi degli anni Sessanta. Transitarono per via Veneto e a Sandra sembrò di essere tornata all’epoca della Dolce vita.
Il tour anacronistico terminò sotto il palazzo che ospitava la foresteria dell’Interpol.
Mentre saliva le scale, Sandra sperava con tutto il cuore d’incontrare Shalber. Non era certa di trovarlo lì, ma doveva provare. Aveva mille cose da raccontargli e, soprattutto, si aspettava che lui le dicesse qualcosa. Per esempio che era contento che fosse sopravvissuta, anche se era stato sciocco da parte sua far perdere le proprie tracce: se la sera prima l’avesse seguita fino al Gemelli, forse le cose sarebbero andate diversamente. Shalber, in fondo, cercava solo di proteggerla.
Ma la frase che più di ogni altra voleva sentirgli dire era che magari sarebbe stato bello rivedersi in futuro. Avevano fatto l’amore, e lei era stata bene. Non voleva perderlo. Per quanto ancora non riuscisse ad ammetterlo, si stava innamorando di lui.
Giunta sul pianerottolo, trovò la porta aperta. Superò la soglia con una speranza, senza esitare. Sentì dei rumori provenire dalla cucina e vi si diresse. Appena entrata, però, si trovò davanti un altro uomo, indossava un completo blu, molto elegante.
Fu capace solo di dirgli: «Salve».
Lui la guardò, stupito della sua presenza. «Non ha portato suo marito?»
Sandra non capì, ma si affrettò a chiarire l’eventuale equivoco. «Veramente, cercavo Thomas Shalber.»
L’uomo fece mente locale. «Forse era un precedente inquilino.»
«Credo che sia un suo collega. Non lo conosce?»
«Che mi risulti, l’unica agenzia che si occupa della vendita è la nostra. E non c’è nessuno con quel nome che lavori presso di noi.»
Sandra cominciò a capire, anche se non le era tutto chiaro. «Lei rappresenta un’agenzia immobiliare?»
«Non ha visto il nostro cartello sul portone?» disse l’uomo con tono affettato. «L’appartamento è in vendita.»
Non sapeva se essere più dispiaciuta o sorpresa. «Da quanto tempo?»
Il venditore sembrò smarrito. «Sono più di sei mesi che non ci abita nessuno.»
Lei non sapeva cosa dire. Qualunque spiegazione le venisse in mente non la convinceva.
L’uomo le si avvicinò, affabile. «Aspettavo dei compratori. Comunque, se nel frattempo vuole visitare l’appartamento...»
«No, grazie», rispose Sandra. «Mi sono sbagliata, mi scusi.» Si voltò per andarsene, ma sentì che il venditore insisteva.
«Se non le piacciono i mobili, non è costretta a prenderli. Possiamo scalarli dal prezzo.»
Ridiscese le scale di corsa, tanto che, arrivata al piano terra, fu costretta ad appoggiarsi al muro, presa da un capogiro. Dopo un paio di minuti, uscì per strada e risalì a bordo dell’auto di Camusso.
«Perché è così pallida? Vuole che la riporti in ospedale?»
«Sto bene.» Ma non era vero. Era furiosa. Un altro imbroglio di Shalber. Possibile che il funzionario avesse mentito su tutto? E allora la notte passata insieme cos’era stata?
«Chi stava cercando in quel palazzo?» le chiese il commissario.
«Un amico che lavora per l’Interpol. Ma non era lì e non so dove sia.»
«Posso trovarglielo io, se vuole. Faccio una chiamata ai colleghi della sede di Roma, li conosco bene e non mi costerebbe nulla.»
Sandra avvertì il bisogno di andare fino in fondo in quella faccenda. Non poteva tornare a Milano con quel dubbio: doveva sapere se Shalber provava anche solo una minima parte di ciò che provava lei. «Sarebbe importante per me se facesse quella telefonata.»
Ore 13.55
Bruno Martini se ne stava rintanato in uno dei box situati nel cortile del palazzo in cui abitava. L’aveva trasformato in una specie di laboratorio. Il suo passatempo erano le piccole riparazioni. Aggiustava elettrodomestici, ma svolgeva anche lavori di falegnameria e meccanica. Quando Marcus lo vide al di là della saracinesca alzata, si stava dedicando al motore di una Vespa.
Il padre di Alice non lo notò mentre si avvicinava. La pioggia scendeva dritta come un sipario, che si aprì su Marcus solo quando fu molto vicino.
Martini era in ginocchio accanto alla moto, sollevò lo sguardo verso di lui e lo riconobbe. «Cosa vuoi ancora da me?» domandò brusco.
La montagna d’uomo aveva muscoli per affrontare le asprezze della vita, ma era impotente davanti alla scomparsa della figlia. Il suo pessimo carattere era l’unica protezione che gli restasse per non crollare. Perciò Marcus non lo biasimava. «Posso parlare?»
Martini ci pensò un po’ su. «Vieni dentro. Ti stai bagnando.»
Si avvicinò e l’altro si rimise in piedi, pulendosi il palmo delle mani su una tuta sporca di grasso. «Ho parlato con Camilla Rocca stamattina», disse l’uomo. «Era sconvolta perché ora sa che non avrà mai giustizia.»
«Non sono qui per questo. Purtroppo non posso fare più nulla per lei.»
«A volte sarebbe meglio non sapere.»
Si stupì nel sentire Martini che pronunciava quella frase. Un padre che si era sempre adoperato per cercare sua figlia, che aveva comprato un’arma illegalmente e si era messo contro le istituzioni improvvisandosi giustiziere. Si domandò se avesse fatto bene a venire. «E tu, vuoi ancora conoscere la verità su quanto è accaduto ad Alice?»
«Da tre anni la cerco come fosse viva ma la piango come se fosse morta.»
«Non è una risposta», replicò Marcus con altrettanta asprezza ed ebbe l’impressione che Martini abbassasse un po’ la guardia.
«Sai che significa non poter morire? Vuol dire continuare a vivere per forza, come un immortale. Ma ci pensi, che razza di condanna? Ebbene, io non potrò morire finché non scoprirò cos’è successo ad Alice. E devo stare qui, a soffrire.»
«Perché ce l’hai tanto con te stesso?»
«Tre anni fa avevo ancora il vizio del fumo.»
Marcus non capiva cosa c’entrasse, ma lo lasciò finire.
«Quel giorno al parco, mi ero allontanato per fumare una sigaretta mentre Alice spariva. C’era anche sua madre, ma dovevo sorvegliarla io. Sono suo padre, era compito mio. Invece mi sono distratto.»
Per Marcus quella risposta era sufficiente. Mise una mano in tasca ed estrasse il fascicolo che gli aveva dato Clemente.
C.g. 294-21-12
Lo aprì e prese un foglio. «Ciò che sto per rivelarti include una condizione: non dovrai chiedermi come l’ho saputo e non dovrai mai dire che l’hai saputo da me. D’accordo?»
L’uomo lo guardò, stranito. «Va bene.» C’era una nota nuova in fondo alla sua voce. Era speranza.
Marcus proseguì: «Ti premetto che non sarà piacevole quanto ascolterai fra poco. Ti senti comunque pronto?»
«Sì.» Lo disse con un filo di voce.
Marcus cercò di essere delicato. «Tre anni fa Alice è stata rapita da un uomo che l’ha portata all’estero.»
«Come sarebbe?»
«È uno psicopatico: pensa che la moglie morta si sia reincarnata in tua figlia. Per questo l’ha presa.»
«Perciò...» Non riusciva a crederci.
«Sì, è ancora viva.»
Gli occhi di Martini si riempirono di lacrime, la montagna umana stava per crollare.
Marcus gli porse il foglio che aveva in mano. «Qui c’è tutto ciò che occorre per rintracciarla. Ma non dovrai farlo da solo, promettimelo.»
«Promesso.»
«In calce è appuntato il numero di telefono di una specialista in ritrovamenti di persone scomparse, soprattutto bambini. Rivolgiti a lei. Pare sia una poliziotta in gamba, il suo nome è Mila Vasquez.»
Martini prese il foglio e lo fissò, senza sapere cosa dire.
«Adesso è meglio che vada.»
«Aspetta.»
Marcus si fermò, ma si accorse che l’uomo non riusciva a parlare. Silenziosi singulti gli scuotevano il petto. Sapeva cosa gli stava passando per la testa, quel pensiero non era soltanto per Alice. Per la prima volta, Martini riusciva a immaginare di rimettere insieme la famiglia. La moglie, che se n’era andata a causa del suo modo di reagire alla scomparsa, sarebbe tornata e anche l’altro figlio. E avrebbero ricominciato a volersi bene come un tempo.
«Non voglio che Camilla Rocca lo sappia», affermò Martini. «Non ancora almeno. Sarebbe tremendo sapere che Alice ha una speranza, mentre suo figlio Filippo non tornerà mai più.»
«Non avevo intenzione di farglielo sapere. E comunque quella donna ha sempre la sua famiglia.»
Martini sollevò il capo e lo guardò stupito. «Quale famiglia? Il marito l’ha lasciata due anni fa, si è rifatto una vita con un’altra, hanno perfino un figlio. Per questo avevamo legato io e lei.»
Inconsapevolmente, Marcus ripensò al biglietto che aveva visto a casa di Camilla, appuntato al frigo con una calamita a forma di granchio.
Ci vediamo fra dieci giorni. Ti amo.
Chissà da quanto tempo era lì. Ma c’era altro che lo disturbava, anche se non sapeva cosa fosse. «Devo andare», disse a Martini. E prima che l’uomo potesse ringraziarlo, si voltò, fendendo nuovamente la tenda di pioggia.
Impiegò quasi due ore a raggiungere Ostia, a causa del traffico rallentato dal nubifragio. Il pullman lo lasciò davanti a una rotonda sul lungomare, da lì proseguì a piedi.
L’utilitaria di Camilla Rocca non era parcheggiata nel vialetto. Ma Marcus rimase per un po’ sotto il temporale a osservare la villetta, per assicurarsi che non ci fosse nessuno. Poi avanzò fino all’ingresso e fu di nuovo dentro la casa.
Niente era cambiato rispetto alla visita del giorno prima. L’arredamento in stile marinaresco, la sabbia che crepitava sotto le scarpe. Il lavandino della cucina, però, non era stato chiuso bene e sgocciolava. Quei rintocchi si perdevano nel silenzio, confondendosi con la pioggia che scrosciava fuori.
Avanzò verso la camera da letto. Sui cuscini c’erano due pigiami. Non si era sbagliato, ricordava bene. Uno da donna, l’altro maschile. I soprammobili e gli altri oggetti erano sempre in ordine. La prima volta che era stato lì, aveva pensato che quella precisione fosse un rifugio dalle paure, dal caos generato dalla scomparsa di un figlio. Tutto sembrava al proprio posto, tutto perfetto. Anomalie, si disse, rammentando a se stesso cosa avrebbe dovuto cercare.
La foto sorridente di Filippo lo osservava dalla cassettiera, e Marcus si sentì guidare. Sul comodino, dalla parte del letto in cui dormiva Camilla, c’era il baby-monitor con cui la donna avrebbe dovuto sorvegliare il sonno del suo nuovo bambino. E ciò lo fece ripensare alla stanza accanto.
Superò la soglia di quella che un tempo era la cameretta di Filippo, ora divisa equamente in due parti. Quella che lo interessava era occupata da un fasciatoio, una montagna di peluche e una culla.
Dov’è questo bambino che ho creduto di vedere? Quale trucco nasconde questa messinscena?
Rammentò le parole di Bruno Martini: «Il marito l’ha lasciata due anni fa, si è rifatto una vita con un’altra, hanno perfino un figlio».
Camilla era stata costretta a subire un’ulteriore sofferenza. L’uomo che aveva scelto di amare, l’aveva abbandonata. Ma il tradimento non era insito nel fatto che ci fosse un’altra donna, bensì nel figlio che gli aveva dato. Un sostituto di Filippo.
La vera condanna non è la perdita di un figlio, pensò. Ma che la vita continui nonostante questo. E Camilla Rocca non voleva smettere di essere una madre.
Appena realizzò la verità, Marcus si accorse dell’anomalia. Stavolta non era una presenza. Semmai, qualcosa che non c’era.
Accanto alla culla mancava l’altro baby-monitor.
Se la ricevente si trovava nella stanza di Camilla, dov’era la trasmittente?
Marcus tornò indietro e si sedette sul letto matrimoniale, accanto al comodino. Allungò una mano verso la manopola che accendeva l’apparecchio. Lo azionò.
Un fruscio costante e ininterrotto. Quel suono era la voce incomprensibile del buio. Marcus avvicinò l’orecchio, cercando di percepire qualcosa. Nulla. Alzò al massimo il volume. Il rumore invase la stanza. Rimase in attesa, vigile. I secondi passavano e lui scandagliava le profondità di quel mare di sussurri, in cerca di una minima variazione, una nota di colore diversa dalle altre.
Poi lo sentì. C’era qualcosa in fondo alla polvere grigia emessa dall’altoparlante. Un altro suono. Cadenzato. Non era artificiale, era vivo. Un respiro.
Marcus afferrò il baby-monitor e, tenendo l’apparecchio fra le mani, cominciò ad aggirarsi per la villetta in cerca dell’origine del segnale. Non poteva essere lontano, si diceva. Questi aggeggi hanno una portata di pochi metri. Allora dov’è?
Aprì tutte le porte, controllò le stanze. Arrivato davanti all’uscita posteriore, attraverso la grata di una zanzariera, vide l’immagine sfocata di un giardino incolto e un capanno degli attrezzi.
Uscì sul retro e per prima cosa notò che le case dei vicini erano lontane e la proprietà era circondata da alti pini che facevano da schermo. Il luogo era perfetto. S’incamminò lungo un percorso di ghiaia per raggiungere la struttura di lamiera. I passi affondavano nel pietrisco bagnato, la pioggia lo percuoteva senza tregua, un vento contrario si opponeva, come se forze oscure cercassero di convincerlo a desistere. Ma arrivò a destinazione. La porta era chiusa con un pesante lucchetto.
Marcus si guardò intorno e trovò subito ciò che gli occorreva: un paletto di ferro conficcato nel terreno che serviva da base per un irrigatore. Posò il baby-monitor e afferrò il paletto con entrambe le mani, sradicandolo con un grande sforzo. Poi tornò verso il lucchetto e cominciò a percuoterlo con decisione, ma anche con rabbia. Alla fine, ebbe la meglio: l’anello d’acciaio saltò e l’uscio si aprì di qualche centimetro. Marcus non attese per spalancarlo.
La luce muffosa del giorno irruppe nei pochi metri quadri, scoprendo un tappeto di rifiuti e una stufetta elettrica. Il secondo baby-monitor era accanto a un materasso gettato per terra e con sopra un mucchio di stracci... che però si mossero.
«Lara...» chiamò, e attese lungamente una risposta che non arrivava. «Lara?» ripeté, più forte.
«Sì», disse una voce incredula.
Marcus si precipitò da lei. Era rannicchiata sotto luride coperte. Era provata, sporca, ma ancora viva. «Sta’ tranquilla, sono qui per te.»
«Aiutami, ti prego», supplicò piangendo, senza rendersi conto che la stava già aiutando.
Continuò a ripetere quella frase anche quando Marcus la prese in braccio, quando uscì con lei sotto la pioggia, mentre percorrevano il breve sentiero di ghiaia, finché non oltrepassarono insieme la soglia della villetta e Marcus si bloccò.
Nel corridoio c’era Camilla Rocca, fradicia. Fra le mani un mazzo di chiavi e le buste della spesa. L’assistente sociale era immobile. «Lui l’ha presa per me. Ha detto che avrei potuto tenere il suo bambino...»
Marcus capì che si riferiva a Jeremiah Smith.
La donna lo fissò e fissò Lara. «Lei non lo voleva.»
Il male generato genera altro male, erano state quelle le parole di Jeremiah. Camilla aveva ricevuto un torto dalla vita. Ma proprio ciò che aveva subito l’aveva fatta diventare ciò che era. Aveva accettato il dono di un mostro. Marcus capì anche perché la donna era riuscita a ingannarlo. Si era creata un mondo parallelo, che per lei era reale. Era sincera, non interpretava una parte.
Riprese a camminare e le passò accanto con Lara fra le braccia. Ignorandola le tolse di mano le chiavi dell’utilitaria.
Camilla rimase a osservarli, poi si accasciò sul pavimento. Parlava a se stessa con un fil di voce, ripetendo in continuazione una sola frase. «Lei non lo voleva...»
Ore 22.56
L’ispettore De Michelis ingozzava di monete un distributore automatico di caffè. Sandra era ipnotizzata dall’accuratezza con cui svolgeva l’operazione. Non immaginava che sarebbe tornata così presto al policlinico Gemelli.
La chiamata di Camusso era arrivata un’ora prima, mentre si apprestava a preparare i bagagli per lasciare l’hotel e salire su un treno che la riportasse a Milano insieme al suo superiore, che era venuto a prenderla. Sulle prime, aveva pensato che il commissario avesse novità riguardo a Shalber, ma dopo averle assicurato che se ne stava occupando l’Interpol, le aveva comunicato l’ultima svolta nel caso di Jeremiah Smith. A quel punto, lei e De Michelis si erano precipitati in ospedale per verificare coi loro occhi che fosse tutto vero.
Lara era viva.
Il ritrovamento era avvenuto in circostanze poco chiare. La studentessa di architettura si trovava in un’utilitaria abbandonata nel parcheggio di un centro commerciale alle porte di Roma. La soffiata era pervenuta alla polizia in forma anonima, tramite una telefonata. Le informazioni erano ancora frammentarie e non filtravano oltre la porta del pronto soccorso in cui Lara era attualmente ricoverata per accertamenti.
Ciò che Sandra sapeva era che il commissario Camusso aveva preso con sé alcuni uomini per recarsi a effettuare un arresto a Ostia, perché Lara li aveva messi su quella pista e, inoltre, i documenti dell’autovettura sospetta riportavano proprio a un indirizzo della cittadina sul litorale. Si chiedeva in che modo fosse coinvolto Jeremiah Smith, ma soprattutto era sicura che dietro la soluzione del caso ci fosse Marcus.
Sì, è stato lui, si ripeteva. La ragazza avrebbe sicuramente parlato di un misterioso salvatore con una cicatrice sulla tempia, e chissà se gli inquirenti sarebbero riusciti a risalire al penitenziere. Sperava che non accadesse.
Appena si era diffusa la notizia della liberazione, i media avevano assediato il policlinico. Giornalisti, cameraman e fotografi erano appostati nel parco antistante. I genitori di Lara non erano ancora arrivati, perché il viaggio dal Sud avrebbe richiesto tempo. Mentre gli amici avevano iniziato a sopraggiungere alla spicciolata per accertarsi delle sue condizioni. Fra loro, Sandra riconobbe Christian Lorieri, l’assistente di storia dell’arte nonché padre del bambino che Lara portava in grembo. Si scambiarono un’occhiata fugace, ma più eloquente di mille parole. Se si trovava lì, la loro chiacchierata all’università era servita.
Fino ad allora era stato diffuso un solo bollettino medico. Riportava in maniera scarna che il quadro clinico della studentessa era buono e che, nonostante lo stress subito, anche il feto stava bene.
De Michelis si avvicinò a Sandra soffiando in un bicchiere di plastica. «Non credi che a questo punto dovresti spiegarmi qualcosa?»
«Hai ragione, ma ti avverto che non ti basterà un solo caffè.»
«Tanto, prima di domattina non potremo ripartire: mi sa che ci toccherà passare la notte qui.»
Sandra gli prese la mano. «Vorrei parlare all’amico e tenere fuori da questa storia il poliziotto. Per te va bene?»
«Cos’è, gli sbirri non ti piacciono più?» ironizzò. Ma vedendo che Sandra era seria, cambiò tono. «Non ti sono stato vicino quando è morto David. Il minimo che possa fare adesso è ascoltarti.»
Per le due ore successive, Sandra raccontò ogni cosa all’uomo la cui integrità morale le era sempre servita da esempio. De Michelis la lasciò parlare, interrompendola solo per chiedere qualche chiarimento. Quando ebbe finito, si sentiva molto più leggera.
«Penitenzieri hai detto?»
«Sì», confermò lei. «Possibile che tu non ne abbia mai sentito parlare?»
De Michelis fece spallucce. «In questo mestiere ne ho viste tante che ormai non mi stupisce più nulla. È capitato che ci fossero dei casi che si risolvevano con una soffiata o per motivi fortunosi e senza una spiegazione. Ma non ho mai collegato la cosa a qualcuno che indagava parallelamente alla polizia. Sono un uomo di fede, lo sai. Mi piace pensare che esista qualcosa d’irrazionale e insieme bellissimo a cui affidarmi quando non ne posso più delle brutture che vedo ogni giorno.»
De Michelis le fece una carezza, proprio come aveva fatto Marcus prima di sparire dalla sala rianimazione e dalla sua vita. Da sopra la spalla dell’ispettore, Sandra notò due uomini in giacca e cravatta rivolgersi a un agente che a sua volta indicava nella loro direzione. I due si avvicinarono.
«È lei Sandra Vega?» chiese uno di loro.
«Sono io», confermò.
«Potremmo parlare un momento?» chiese l’altro.
«Certamente.»
Le fecero capire che l’argomento era riservato e, mentre si allontanavano per mettersi in disparte, le mostrarono i tesserini di riconoscimento. «Siamo dell’Interpol.»
«Che succede?»
Parlò il più vecchio. «Questo pomeriggio il commissario Camusso ci ha chiamato per chiedere informazioni su un nostro agente, dicendo che servivano a lei. Il nome è Thomas Shalber. Ci conferma che lo conosce?»
«Sì.»
«Quando l’ha visto l’ultima volta?»
«Ieri.»
I due si fissarono. Poi il più giovane le chiese: «Ne è sicura?»
Sandra iniziava a perdere la pazienza. «Certo che ne sono sicura.»
«Ed è questo l’uomo che ha incontrato?»
Le mostrarono una fototessera e Sandra si sporse per guardarla meglio. «Nonostante la notevole somiglianza, non so chi sia quest’uomo.»
I due tornarono a fissarsi, e stavolta erano preoccupati. «Sarebbe disposta a fornire una descrizione della persona che ha visto a un nostro specialista in identikit?»
Sandra ne aveva abbastanza, voleva sapere cosa stesse accadendo. «Va bene, ragazzi. Chi di voi mi dice che succede? Perché a me sta sfuggendo qualcosa.»
Quello più giovane cercò con lo sguardo l’approvazione del più anziano. Quando la ottenne, si decise a parlare. «L’ultima volta che si è messo in contatto con noi, Thomas Shalber stava seguendo un caso sotto copertura.»
«Perché dice ’stava’?»
«Perché è sparito nel nulla e, da oltre un anno, non sappiamo niente di lui.»
La notizia la spiazzò. Sandra non sapeva cosa pensare. «Mi scusi, se il vostro agente è quello nella foto e non sapete che fine abbia fatto, allora io chi ho conosciuto?»