Ore 0.03



L’indirizzo era fuori città. A causa del maltempo e del navigatore che non riusciva a trovare la strada, avevano impiegato più di mezz’ora per raggiungere il luogo isolato. Se non fosse stato per il piccolo lampione acceso all’imboccatura del viale d’ingresso, avrebbero pensato che il posto fosse disabitato.

L’ambulanza procedette lentamente lungo il giardino in stato di abbandono. Il lampeggiante risvegliò dall’oscurità statue di ninfe ricoperte di muschio e veneri mutilate, che salutarono il loro passaggio con sorrisi sbilenchi, protese in gesti eleganti e incompleti. Danzavano immobili, solo per loro.

Una vecchia villa li accolse come un approdo sicuro in mezzo alla tempesta. Non s’intravedevano luci all’interno. La porta, però, era aperta.

La casa li stava aspettando.

Erano in tre. Monica, giovane medico internista che quella notte era di turno al Pronto Soccorso. Tony, un infermiere professionista con alle spalle una lunga esperienza in interventi d’emergenza. E l’autista, che rimase sull’ambulanza mentre gli altri due sfidarono il temporale avviandosi verso la casa. Prima di varcare la soglia, richiamarono ad alta voce l’attenzione di chi vi abitava.

Nessuno rispose. Entrarono.

Odore stantio, la luce fioca e arancione di una fila di lampade che tracciavano un lungo corridoio di pareti scure. A destra, una scala conduceva al piano di sopra.

Nella stanza in fondo s’intravedeva un corpo esanime.

Si precipitarono per prestargli soccorso e si ritrovarono in un soggiorno con i mobili coperti da teli bianchi. Tranne una poltrona consunta, piazzata nel mezzo, proprio davanti al modello antiquato di un televisore. In realtà, tutto in quel posto sapeva di vecchio.

Monica si gettò carponi sull’uomo disteso a terra che respirava a fatica, chiamando accanto a sé Tony con tutto l’occorrente.

«È cianotico», constatò.

Tony si accertò che le vie respiratorie fossero sgombre, poi gli piazzò il pallone Ambu sulla bocca, mentre Monica gli controllava le iridi con una pila.

Sembrava avere al massimo cinquant’anni ed era incosciente. Indossava un pigiama a righe, pantofole di pelle e una vestaglia. L’aspetto era trasandato, la barba lunga di qualche giorno e i pochi capelli in disordine. In una mano stringeva ancora il cellulare con cui aveva chiamato il numero delle emergenze, lamentando forti dolori al torace.

L’ospedale più vicino era il Gemelli. Con un codice rosso, il medico di turno si aggregava al personale della prima ambulanza disponibile.

Per questo Monica era lì.

C’erano un tavolino ribaltato, una ciotola rotta, latte e biscotti sparsi ovunque, mischiati all’urina. L’uomo doveva essersi sentito male mentre guardava la tv e se l’era fatta addosso. Era un classico, aveva pensato Monica. Maschio di mezz’età, che vive solo, ha un infarto e, se non riesce a chiedere aiuto, di solito viene scoperto cadavere quando i vicini di casa cominciano a sentirne la puzza. Ma in quella villa isolata non sarebbe successo. Se non aveva parenti prossimi, potevano passare anni prima che qualcuno si accorgesse di quanto gli era accaduto. In ogni caso, sembrava una scena già vista e provò pena per lui. Almeno finché non gli aprirono la giacca del pigiama per praticargli il massaggio cardiaco. Sul torace era incisa una parola.

Uccidimi.

Medico e infermiere fecero finta di non vederla. Il loro compito era salvare una vita. Ma da quel momento impressero a ogni gesto una percettibile premura.

«La saturazione sta scendendo», disse Tony, dopo aver verificato i valori dell’ossimetro. Non gli arrivava aria nei polmoni.

«Dobbiamo intubarlo o lo perdiamo.» Monica prese il laringoscopio dalla borsa e si spostò dietro la testa del paziente.

In tal modo liberò la visuale dell’infermiere e scorse un lampo improvviso nei suoi occhi. Un turbamento che non riuscì a interpretare. Tony era un professionista allenato a ogni genere di situazione, eppure qualcosa l’aveva sconvolto. Qualcosa che stava proprio dietro di lei.

In ospedale tutti conoscevano la storia della giovane dottoressa e di sua sorella. Nessuno gliene aveva mai fatto parola, ma lei si accorgeva quando la osservavano con compassione e inquietudine, domandandosi in cuor loro come si potesse vivere con un simile peso.

In quel frangente, sul volto dell’infermiere c’era la stessa espressione, ma molto più spaventata. Così Monica si voltò per un istante, e vide anche lei ciò che aveva visto Tony.

Un pattino a rotelle, abbandonato in un angolo della stanza, che veniva dritto dall’inferno.

Era rosso, con le fibbie dorate. Identico al suo gemello che non era lì, ma in un’altra casa, in un’altra vita. Monica li aveva sempre trovati un po’ kitsch. Invece Teresa sosteneva che fossero vintage. Anche loro erano gemelle, così a Monica era sembrato di vedere se stessa quando il cadavere di sua sorella era stato ritrovato nella radura accanto al fiume, il mattino di un freddo dicembre.

Aveva solo ventun anni e l’avevano sgozzata.

Dicono che i gemelli sentano cose l’uno dell’altro, anche a chilometri di distanza. Ma Monica non ci credeva. Lei non aveva avvertito alcuna sensazione di paura o pericolo mentre Teresa veniva rapita una domenica pomeriggio, di ritorno da una pattinata con le amiche. Il suo corpo era stato rinvenuto un mese dopo con gli stessi abiti con cui era scomparsa.

E quel pattino rosso che era una grottesca protesi al piede del cadavere.

Per sei anni Monica l’aveva conservato, chiedendosi che fine avesse fatto l’altro e se mai un giorno si sarebbero ritrovati. Quante volte aveva provato a immaginare il volto della persona che l’aveva preso? Quante volte l’aveva cercato fra gli estranei che incontrava per strada? Col tempo, era diventato una specie di gioco.

Ora, forse, Monica si trovava di fronte alla risposta.

Guardò l’uomo disteso sotto di lei. Le sue mani screpolate e grassocce, i peli che gli spuntavano dalle narici, la macchia di urina sul cavallo dei pantaloni. Non aveva le sembianze di un mostro, come aveva sempre immaginato. Era fatto di carne. Un essere umano banale e con un cuore fragile, per giunta.

Tony la riportò indietro dai suoi pensieri. «Lo so cosa ti passa per la mente», le disse. «Possiamo smettere quando ti pare. E starcene qui ad aspettare che succeda ciò che deve accadere... Devi dirmelo tu. Non lo saprà nessuno.»

Era stato lui a proporlo, forse perché l’aveva vista esitare col laringoscopio in bilico sulla bocca ansimante dell’uomo. Ancora una volta, Monica osservò il suo torace.

Uccidimi.

Forse era l’ultima cosa che gli occhi di sua sorella avevano visto mentre la sgozzava come un animale da macello. Non una calda parola di conforto, come dovrebbe essere per ogni creatura umana che sta per lasciare per sempre questa vita. In quel modo, il suo assassino aveva voluto prendersi gioco di lei. E aveva gioito per questo. Forse anche Teresa aveva invocato la propria morte purché tutto finisse in fretta. Per la rabbia, Monica strinse forte il manico del laringoscopio, le nocche divennero bianche.

Uccidimi.

Quel vigliacco si era tatuato la parola sullo sterno ma, quando s’era sentito male, aveva chiamato i soccorsi. Era come tutti gli altri. Anche lui aveva paura di morire.

Monica scavò dentro di sé. Chi aveva conosciuto Teresa vedeva in lei solo un ingannevole duplicato, la statua di un museo delle cere, la copia di un rimpianto. Per i suoi, lei rappresentava ciò che sua sorella poteva essere e non sarebbe mai stata. La guardavano crescere e cercavano Teresa. Adesso Monica aveva un’occasione per distinguersi e liberare il fantasma della gemella che albergava in lei. Sono un medico, rammentò a se stessa. Avrebbe voluto trovare un barlume di pietà per l’essere umano disteso davanti a lei, o il timore di una giustizia superiore, oppure qualcosa che somigliasse a un segno. Invece si accorse di non provare nulla. Allora tentò di scovare disperatamente un dubbio, qualcosa che la convincesse che quell’uomo non c’entrava niente con la morte di Teresa. Ma, per quanto ci pensasse, esisteva solo una ragione per cui quel pattino rosso era lì.

Uccidimi.

E in quel frangente, Monica si rese conto di aver già preso la sua decisione.



Ore 6.19



La pioggia si abbatteva su Roma come un triste funerale. Lunghe ombre drappeggiavano i palazzi del centro storico, una sfilata di mute facciate lacrimose. I vicoli, attorcigliati come visceri intorno a piazza Navona, erano deserti. Ma a pochi passi dal chiostro del Bramante, le vetrine dell’antico Caffè della Pace si riflettevano sulla strada lucida.

All’interno, sedie tappezzate di velluto rosso, tavoli in marmo venato di grigio, statue neorinascimentali e i soliti avventori. Artisti, soprattutto pittori e musicisti, inquieti per quell’alba incompiuta. Ma anche bottegai e antiquari in attesa di aprire i loro esercizi lungo la via, e qualche attore che, rientrando da una nottata di prove in teatro, passava per un cappuccino prima di andarsene a dormire. Tutti in cerca di un po’ di consolazione per quel mattino cattivo, tutti intenti a conversare fra loro. Nessuno badava ai due estranei vestiti di nero, confinati a un tavolino di fronte all’entrata.

«Come vanno le emicranie?» domandò quello che sembrava più giovane.

L’altro smise di raccogliere col polpastrello i granelli di zucchero intorno a una tazzina vuota e si accarezzò istintivamente la cicatrice sulla tempia sinistra. «A volte non mi fanno dormire, ma direi che sto meglio.»

«Fai ancora quel sogno?»

«Tutte le notti», rispose l’uomo sollevando gli occhi di un azzurro profondo e malinconico.

«Passerà.»

«Sì, passerà.»

Il silenzio che seguì fu interrotto dal lungo fischio di vapore emesso dalla macchina per fare il caffè espresso.

«Marcus, è venuto il momento», disse il più giovane.

«Non sono ancora pronto.»

«Non si può più aspettare. Dall’alto mi chiedono di te, sono ansiosi di sapere a che punto sei.»

«Sto facendo progressi, no?»

«Sì, è vero: migliori ogni giorno di più, e questo mi conforta, credimi. Ma c’è molta attesa. Da te dipendono parecchie cose.»

«Ma chi si interessa tanto a me? Mi piacerebbe incontrarli, parlare con loro. Io conosco solo te, Clemente.»

«Ne abbiamo già discusso. Non è possibile.»

«Perché?»

«Perché si è sempre fatto così.»

Marcus tornò a toccarsi la cicatrice, come faceva tutte le volte che era inquieto.

Clemente si sporse verso di lui, costringendolo a guardarlo. «È per la tua sicurezza.»

«Per la loro, vorrai dire.»

«Anche, se vuoi metterla in questo modo.»

«Potrei diventare motivo d’imbarazzo. E non deve accadere, vero?»

Il sarcasmo di Marcus non indispettì Clemente. «Qual è il tuo problema?»

«Io non esisto.»

Lo disse con una dolorosa distorsione nella voce.

«Il fatto che solo io conosca il tuo volto ti rende libero. Non capisci? Loro sanno solo il tuo nome e per tutto il resto si affidano a me. Così non ci sono limiti al tuo mandato. Se non sanno chi sei, non possono ostacolarti.»

«Perché?» ribadì Marcus con forza.

«Perché ciò a cui diamo la caccia può corrompere anche loro. Se tutte le altre misure dovessero fallire, se le barriere si rivelassero inutili, ci sarebbe ancora qualcuno a vigilare. Tu sei la loro ultima difesa.»

Nello sguardo di Marcus apparve un lampo di sfida: «Rispondi a una domanda... Ce ne sono altri come me?»

Dopo un breve silenzio, Clemente si decise: «Non lo so. Non posso saperlo».

«Avresti dovuto lasciarmi in quell’ospedale...»

«Non puoi dirmi questo, Marcus. Non mi deludere.»

Marcus guardò fuori, verso i pochi passanti che in una tregua del temporale uscivano dai ripari di fortuna per riprendere il cammino. Aveva ancora molte domande per Clemente. Cose che lo riguardavano direttamente, cose che non sapeva più. L’uomo di fronte a lui era il suo unico contatto con il mondo. Anzi, Clemente era tutto il suo mondo. Marcus non parlava mai con nessuno, non aveva amici. Però conosceva cose che non avrebbe voluto sapere. Cose sugli uomini e sul male che riescono a fare. Cose talmente terribili da far vacillare qualsiasi fiducia, da contaminare per sempre qualunque cuore. Guardava le persone intorno a sé vivere senza quel fardello di consapevolezza, e le invidiava. Clemente l’aveva salvato. Ma la sua salvezza era coincisa con l’ingresso in un mondo di ombre.

«Perché proprio io?» chiese, continuando a guardare altrove.

Clemente sorrise: «I cani sono daltonici». Era la frase che usava ogni volta. «Allora, sei con me?»

Marcus tornò a voltarsi verso il suo unico amico. «Sì, sono con te.»

Senza aggiungere altro, Clemente fece scivolare una mano nell’impermeabile appoggiato alla spalliera della sedia. Recuperò una busta di carta, la posò sul tavolo e la spinse verso Marcus. Questi la prese e, con l’attenzione che contraddistingueva ogni suo gesto, la aprì.

All’interno c’erano tre fotografie.

La prima ritraeva un gruppo di giovani a una festa sulla spiaggia. In primo piano c’erano due ragazze in costume da bagno che brindavano con bottiglie di birra davanti a un falò. Nella seconda ne appariva una sola, coi capelli raccolti e gli occhiali da vista: sorrideva, indicando alle sue spalle il Palazzo della Civiltà Italiana, icona del neoclassicismo situata all’EUR. Nella terza foto, la stessa ragazza abbracciava un uomo e una donna, presumibilmente i genitori.

«Chi è?» chiese Marcus.

«Si chiama Lara. Ventitré anni. Studia a Roma ma viene da fuori. Facoltà di architettura, quarto anno.»

«Cosa le è successo?»

«È proprio questo il problema: nessuno lo sa. È scomparsa da quasi un mese.»

Marcus si concentrò sul viso di Lara, dimenticando le voci e tutto ciò che gli stava intorno. Era la tipica ragazza di provincia trapiantata nella grande città. Molto carina, i tratti delicati, senza trucco. Immaginò che portasse quasi sempre la coda, perché non poteva permettersi un parrucchiere. Forse ci andava solo quando tornava dai suoi, per risparmiare. Gli abiti erano un compromesso: indossava jeans e t-shirt per non dover essere per forza al passo con la moda. Sul suo volto si potevano intravedere i segni delle nottate passate sui libri o delle cene con una scatoletta di tonno, ultima risorsa degli studenti fuorisede quando hanno esaurito il budget mensile, in attesa di un nuovo bonifico da parte di mamma e papà. La prima volta lontana da casa. La sua lotta quotidiana con la nostalgia, tenuta a bada con il sogno di diventare architetto.

«Raccontami.»

Clemente prese un notes, scostò la tazzina di caffè e cominciò a consultare i suoi appunti. «Il giorno della scomparsa, Lara ha trascorso parte della serata con alcuni amici in un locale. Quelli che erano in sua compagnia hanno dichiarato che sembrava tranquilla. Hanno chiacchierato delle solite cose, poi verso le nove ha detto di essere stanca e di voler tornare a casa per andarsene a letto. Due di loro – una coppia – le hanno dato un passaggio in macchina e hanno atteso che entrasse nel portone.»

«Dove abita?»

«In un palazzo antico del centro.»

«Altri inquilini?»

«Una ventina. Lo stabile appartiene a un ente universitario che affitta gli appartamenti agli studenti. Quello di Lara è al piano terra. Fino ad agosto lo divideva con una compagna che poi se n’è andata, infatti era alla ricerca di una coinquilina.»

«Fin dove arrivano le tracce che abbiamo?»

«La presenza di Lara in casa nelle ore successive è confermata dalle celle telefoniche della zona che hanno registrato due chiamate in partenza dal suo cellulare: una alle ventuno e ventisette e l’altra alle ventidue e dodici. La prima di dieci minuti alla madre, la seconda alla sua migliore amica. Alle ventidue e diciannove il suo telefono è stato spento. E non si è più riacceso.»

Una giovane cameriera si avvicinò al tavolo per ritirare le tazzine. Indugiò appositamente per dargli modo di ordinare altro. Ma nessuno dei due lo fece. Si limitarono a tacere finché si allontanò di nuovo.

Marcus domandò: «Quando è stata denunciata la scomparsa?»

«La sera successiva. Le amiche, non vedendola in facoltà, l’hanno chiamata per tutto il giorno, ma scattava la segreteria. Verso le venti sono andate a bussare a casa sua, ma non rispondeva.»

«Che ne pensa la polizia?»

«Il giorno precedente la scomparsa, Lara ha prelevato quattrocento euro dal suo conto per pagare l’affitto. Ma l’amministratore non ha mai ricevuto quella somma. Secondo la madre, dall’armadio mancano alcuni vestiti e uno zaino. E non c’è traccia del suo cellulare. Perciò la polizia propende per un allontanamento volontario.»

«Molto comodo, direi.»

«Sai come vanno queste cose, no? Se non emerge una ragione per temere il peggio, dopo un po’ si smette di cercare. E si aspetta.»

Magari che spunti un cadavere, pensò Marcus.

«La ragazza faceva una vita regolare, passava gran parte del tempo all’università, frequentava sempre lo stesso giro di conoscenze.»

«Gli amici che ne pensano?»

«Che Lara non era tipo da colpi di testa. Anche se nell’ultimo periodo era un po’ cambiata: appariva stanca e distratta.»

«Nessun innamorato, nessun flirt?»

«Dai tabulati del suo cellulare non risultano chiamate esterne alla cerchia dei conoscenti, e nessuno ha parlato di un fidanzato.»

«Internet?»

«Si connetteva dalla biblioteca del suo dipartimento o da un Internet-point nei pressi della stazione. Nessuna mail sospetta nella sua posta.»

In quel momento, la porta a vetri del caffè si spalancò per l’ingresso di un nuovo cliente. Una folata di vento percorse la sala. Tutti si voltarono infastiditi, tranne Marcus, immerso nelle proprie riflessioni. «Lara rientra in casa come tutte le sere. È stanca, come le capita spesso da qualche tempo. Il suo ultimo contatto col mondo è alle ventidue e diciannove, quando spegne il telefono, che poi sparisce con lei e non sarà più riacceso. Da quel momento non sappiamo più nulla. Mancano vestiti, soldi e uno zaino: per questo la polizia opta per un allontanamento volontario... È uscita di casa ed è scomparsa. Forse da sola, forse con qualcuno. Nessuno la nota.» Marcus fissò Clemente. «Perché dovremmo pensare che le sia accaduto qualcosa di spiacevole? Insomma, perché noi?»

Lo sguardo di Clemente parlava da sé. Erano arrivati al punto. Anomalie, in fondo era questo che cercavano. Minuscoli strappi nella trama della normalità. Piccoli inciampi nella sequenza logica di una comune indagine di polizia. In quelle insignificanti imperfezioni si nascondeva spesso qualcos’altro. Un passaggio verso una verità differente, inimmaginabile. Il loro compito iniziava da lì.

«Lara non è mai uscita di casa, Marcus. La sua porta era chiusa dall’interno.»



Clemente e Marcus si recarono sul luogo. Il palazzo si trovava in via dei Coronari, a due passi da piazza San Salvatore in Lauro con la piccola chiesa del Cinquecento. Per introdursi nell’alloggio al piano terra ci vollero pochi secondi. Nessuno li notò.

Appena mise piede nella casa di Lara, Marcus iniziò a guardarsi intorno. Per prima cosa, osservò la serratura divelta. Per accedere all’appartamento, la polizia aveva dovuto sfondare l’ingresso e gli agenti non si erano accorti del particolare della catenella agganciata dall’interno, che era venuta via e adesso penzolava sullo stipite della porta.

L’appartamento copriva al massimo sessanta metri quadri, divisi fra due livelli. Il primo era un unico ambiente che conteneva cucina e soggiorno. C’era un mobile a muro con un piano cottura elettrico sovrastato da pensili. Accanto, un frigo disseminato di calamite colorate e su cui spiccava un vaso con una piantina di ciclamini ormai secca. C’era un tavolo con quattro sedie e, al centro, un vassoio con tazze e l’occorrente per il tè. Due divani erano disposti ad angolo davanti a un televisore. Sulle pareti dipinte di verde, non normali quadri o poster, ma progetti di edifici famosi sparsi per il mondo. C’era una finestra che, come tutte quelle dell’appartamento, affacciava sul cortile interno ed era protetta da una grata di ferro. Da lì non poteva entrare o uscire nessuno.

Marcus registrava ogni particolare con lo sguardo. Senza dire una parola, si fece il segno della croce, subito imitato da Clemente. Quindi iniziò ad aggirarsi per la stanza. Non si limitava a guardare. Toccava gli oggetti, sfiorandoli appena col palmo della mano, quasi cercasse di percepire un residuo di energia, un segnale radio, come se potessero comunicare con lui, svelargli ciò che sapevano o avevano visto. Come il rabdomante che ascolta il richiamo della falda nascosta nel sottosuolo, Marcus scandagliava il silenzio profondo e inanimato delle cose.

Clemente osservava il suo uomo, tenendosi in disparte per non distrarlo. Non notò alcuna esitazione in lui, sembrava carico e concentrato. Era una prova importante per entrambi. Marcus avrebbe dimostrato a se stesso di essere nuovamente in grado di fare il lavoro per cui era stato addestrato. Clemente avrebbe saputo di non essersi sbagliato sulle sue capacità di recupero.

Lo vide muoversi verso il fondo del locale dove una porta nascondeva un piccolo bagno. Era rivestito di piastrelle bianche, illuminato da una lampada al neon. Il piatto della doccia era fra il lavabo e il water. C’erano una lavatrice e un ripostiglio per scope e detersivi. Sul retro della porta era appeso un calendario.

Marcus tornò indietro e si diresse sul lato sinistro del soggiorno: una scala conduceva al piano rialzato. Salì da solo i gradini tre per volta e si ritrovò su uno stretto pianerottolo, davanti agli usci di due camere da letto.

La prima era quella in attesa di una nuova inquilina. Al suo interno soltanto un materasso nudo, una poltroncina e un comò.

L’altra era la stanza di Lara.

Gli scuri della finestra erano aperti. In un angolo c’erano un tavolo con un computer e scaffali colmi di libri. Marcus si avvicinò e fece scorrere le dita sul profilo dei tomi d’architettura. Quindi accarezzò un foglio con il progetto incompiuto di un ponte. Afferrò una delle matite infilate in un bicchiere e l’annusò, fece lo stesso con un pezzo di gommapane, provando il piacere segreto che solo gli articoli di cancelleria sono capaci d’infondere.

Quell’odore faceva parte del mondo di Lara, quello era il posto in cui si sentiva felice. Il suo piccolo regno.

Aprì le ante dell’armadio e spostò gli abiti appesi alle grucce, alcune erano vuote. Tre paia di scarpe erano messe in fila sul ripiano inferiore. Due da ginnastica e uno décolleté, per le occasioni speciali. Ma c’era posto per un quarto paio, che mancava.

Il letto era a una piazza e mezza. Fra i cuscini spiccava un orso di peluche. Doveva essere stato testimone della vita di Lara, sin da quando era bambina. Ma adesso era rimasto solo.

Sull’unico comodino c’erano la cornice con la foto di Lara insieme ai genitori e una scatola di latta che conteneva un anellino con un piccolo zaffiro, un braccialetto di ambra e un po’ di bigiotteria. Marcus osservò meglio la foto. La riconobbe: era fra quelle che Clemente gli aveva mostrato al Caffè della Pace. Lara indossava una catenina d’oro con un crocifisso, ma nel portagioie non c’era.

Clemente lo attendeva ai piedi della scala e, poco dopo, lo vide ridiscendere. «Allora?»

Marcus si bloccò. «Potrebbero averla presa.» Ma nel momento stesso in cui pronunciò quella frase, ne fu assolutamente certo.

«Come puoi affermarlo?»

«C’è troppo ordine. Come se i vestiti mancanti e il cellulare che non si trova fossero solo una messinscena. Ma a chi l’ha organizzata è sfuggito il dettaglio della catenella che serrava la porta dall’interno.»

«Ma come ha fatto a...»

«Arriveremo anche a quello», lo interruppe Marcus. Quindi si mosse nella stanza, cercando di focalizzare bene ciò che era accaduto. La sua mente girava vorticosamente. I pezzi del mosaico iniziarono a comporsi davanti ai suoi occhi. «Lara ha avuto un ospite.»

Clemente sapeva ciò che stava accadendo. Marcus iniziava a immedesimarsi. Era questo il suo talento.

Vedere ciò che vedeva l’intruso.

«È stato qui quando Lara non c’era. Si è seduto sul suo divano, ha provato la morbidezza del suo letto, ha frugato fra le sue cose. Ha guardato le foto, ha fatto propri i suoi ricordi. Ha toccato il suo spazzolino da denti, ha annusato gli abiti in cerca del suo odore. Ha bevuto dallo stesso bicchiere lasciato nell’acquaio in attesa di essere lavato.»

«Non ti seguo...»

«Sapeva come muoversi. Conosceva tutto di Lara, orari, abitudini.»

«Però niente qui fa pensare a un rapimento. Non ci sono segni di colluttazione, nessuno nel palazzo ha sentito delle urla o chiedere aiuto. Come fai a sostenerlo?»

«Perché l’ha presa mentre dormiva.»

Clemente stava per dire qualcosa, ma Marcus lo precedette.

«Aiutami a cercare lo zucchero.»

Pur non comprendendo esattamente cosa gli passasse per la testa, decise di assecondarlo. In un pensile sopra la cucina trovò un barattolo con la scritta SUGAR, mentre Marcus controllò la zuccheriera al centro del tavolo, accanto all’occorrente per il tè.

Erano entrambi vuoti.

I due si fissarono per un lungo momento con quegli oggetti fra le mani. Fra loro vibrava un’energia positiva. Non era una semplice coincidenza. Marcus non aveva tirato a indovinare. Aveva avuto un’intuizione che poteva confermare tutto.

«Lo zucchero è il posto migliore per occultare un narcotico: ne cela il sapore e dà la sicurezza che la vittima lo assumerà regolarmente.»

«E Lara era sempre stanca nell’ultimo periodo, lo dicevano i suoi amici.» Clemente ebbe un sussulto. Quel particolare cambiava ogni cosa. Ma per ora non poteva farne parola con Marcus.

«È avvenuto gradualmente, non c’era fretta», proseguì Marcus. «E questo ci prova che chi l’ha rapita era stato qui prima di quella notte. Insieme agli abiti e al cellulare, ha fatto sparire anche lo zucchero che conteneva il narcotico.»

«Ma ha dimenticato la catenella della porta», aggiunse Clemente. Era il dettaglio stonato che mandava in frantumi ogni teoria. «Da dove è entrato e, soprattutto, da dove sono usciti insieme?»

Marcus si guardò nuovamente intorno. «Dove siamo?» Roma era il più grande sito archeologico «abitato» al mondo. La città si era sviluppata a strati, era sufficiente scavare pochi metri per imbattersi in tracce di precedenti epoche e civiltà. Marcus sapeva bene che anche in ciò che stava in superficie la vita si era stratificata nel corso del tempo. Ogni luogo racchiudeva molte storie e più di una destinazione. «Cos’è questo posto? Non dico ora, ma in principio: hai detto che il palazzo risale al Settecento.»

«Era una delle dimore dei marchesi Costaldi.»

«Sì. I nobili occupavano i piani alti, mentre qui c’erano le botteghe di cortile, i depositi e le stalle.» Marcus si toccò la cicatrice sulla tempia sinistra. Non riusciva a capire da dove provenisse quel ricordo. Come faceva a saperlo? Molte informazioni erano sparite per sempre dalla sua memoria. Altre tornavano inaspettatamente, recando con sé anche la spiacevole domanda sulla loro origine. C’era un luogo in lui dove certe cose esistevano ma rimanevano nascoste. Ogni tanto riaffioravano, rammentandogli anche l’esistenza di quel posto delle nebbie e il fatto che non l’avrebbe mai trovato.

«Hai ragione», disse Clemente. «Il palazzo è rimasto così per molto tempo. L’ente universitario l’ha ricevuto con un lascito una decina di anni fa, trasformandolo in un condominio.»

Marcus si chinò sul pavimento. Il parquet era di legno massiccio, non lavorato. Le assi erano strette. No, qui non va bene, si disse. Senza scoraggiarsi, si diresse verso il bagno, seguito da Clemente.

Prese uno dei secchi che erano nel ripostiglio delle scope, lo infilò sotto la doccia e lo riempì per metà. Quindi fece un passo indietro. Clemente era alle sue spalle e ancora non capiva.

Marcus inclinò il secchio facendo scivolare l’acqua sul pavimento di piastrelle. Una pozza si allargò sotto i loro piedi. Rimasero a fissarla, in attesa.

Dopo qualche secondo, l’acqua cominciò a svanire.

Sembrava un gioco di prestigio, proprio come quello della ragazza che sparisce in una casa chiusa dall’interno. Solo che stavolta c’era una spiegazione.

L’acqua era filtrata nel sottosuolo.

Fra una mattonella e l’altra si formarono delle bollicine d’aria, fino a descrivere un quadrato perfetto. Ogni lato misurava circa un metro.

Marcus si mise carponi e percorse le mattonelle con la punta delle dita, per scovare una fessura. Gli parve di individuarne una. Si rialzò in cerca di qualcosa con cui fare leva. Da un ripiano prese delle forbicine di metallo. Furono sufficienti per rialzare quel poco che bastava il quadrato di piastrelle. Infilò le dita nell’apertura e, sollevando, svelò una botola di pietra.

«Aspetta, ti do una mano», disse Clemente.

Fecero scivolare la copertura lungo un lato, scoprendo un’antica scala in travertino che scendeva nel sottosuolo per un paio di metri, prima di incrociare un corridoio.

«L’intruso è passato da qui», annunciò Marcus. «Almeno due volte: quando è entrato e quando è andato via con Lara.» Poi prese la piccola torcia che portava sempre con sé, l’accese e la puntò nell’apertura.

«Vuoi scendere là sotto?»

Lui si voltò verso Clemente: «Perché, ho scelta?»



Tenendo la torcia in una mano, Marcus discese la scala di pietra. Arrivato in fondo, si rese conto di essere in un tunnel che correva sotto la casa, perdendosi in due opposte direzioni. Un vero e proprio passaggio sotterraneo. Non si capiva dove portasse.

«Tutto bene?» gli domandò Clemente che era rimasto di sopra.

«Sì», rispose laconicamente Marcus. Probabilmente, nel Settecento, la galleria era una via di fuga in caso di pericolo. Non gli rimaneva che avventurarsi in una delle due direzioni. Scelse quella da cui gli parve provenisse un rumore sordo, di pioggia scrosciante. Percorse almeno cinquanta metri, scivolando un paio di volte a causa del suolo melmoso. Alcuni ratti gli passarono accanto alle caviglie, sfiorandolo con i loro corpi caldi e lisci, prima di allontanarsi rapidamente verso il riparo del buio. Riconobbe il fragore del Tevere, ingrossato dalle piogge insistenti degli ultimi giorni. E l’odore dolciastro del fiume, simile a quello di un animale impegnato in una corsa impetuosa. Lo seguì e, poco dopo, intravide una massiccia grata da cui filtrava la grigia luce del giorno. Da lì non si poteva passare. Allora tornò indietro per provare nella direzione opposta. Appena la imboccò, scorse qualcosa che brillava per terra nella melma.

Si chinò e la raccolse: era una catenina d’oro con appeso un crocifisso.

Ricordò di averla vista al collo di Lara, nella foto insieme ai genitori che teneva sul comodino. Era la riprova che ci aveva visto giusto su ogni cosa.

Clemente aveva ragione. Era quello il suo talento.

Elettrizzato per quella scoperta, Marcus non si accorse dell’amico, che nel frattempo lo aveva raggiunto. Si rese conto della sua presenza soltanto quando gli fu accanto.

Gli mostrò la catenina. «Guarda...»

Clemente la prese fra le mani, osservandola.

«La ragazza potrebbe essere ancora viva», disse Marcus, caricato da quella scoperta. «Abbiamo una pista, possiamo trovare chi è stato.» Ma si accorse che l’amico non condivideva il suo entusiasmo. Anzi, appariva turbato.

«Lo sappiamo già. Mi serviva solo una conferma... E purtroppo è arrivata.»

«A cosa ti riferisci?»

«Al narcotico nello zucchero.»

Marcus non riusciva a capire. «Allora, qual è il problema?»

Clemente lo fissò, serio. «Forse è il caso che tu faccia la conoscenza di Jeremiah Smith.»



Ore 8.40



La prima lezione che Sandra Vega aveva imparato è che le case non mentono mai.

Le persone, quando parlano di sé, sono capaci di crearsi intorno delle sovrastrutture a cui finiscono perfino per credere. Ma il luogo in cui scelgono di vivere, inevitabilmente, racconta tutto di loro.

Per via del suo lavoro, Sandra aveva visitato molte case. Ogni volta che stava per varcare una soglia, le sembrava di dover chiedere il permesso. Invece, per ciò che veniva a fare, non c’era nemmeno bisogno di suonare il campanello.

Quando, molti anni prima d’intraprendere la sua professione, di notte viaggiava in treno, osservava le finestre illuminate nei palazzi, domandandosi cosa accadesse dietro quei vetri. Quali vite, quali storie si svolgessero. Ogni tanto riusciva a rubare dei piccoli spettacoli involontari. Una donna che stirava guardando la tv. Un uomo in poltrona intento a fare anelli con il fumo di una sigaretta. Un bambino in piedi su una sedia che rovistava in una credenza. Brevi fotogrammi di un film nel suo finestrino. Poi il treno passava. E anche quelle vite continuavano a scorrere, inconsapevoli.

Aveva sempre provato a immaginare di prolungare quell’esplorazione. Passeggiare, invisibile, fra gli oggetti più cari di quelle persone. Osservarle nelle loro occupazioni più banali, come fossero pesci in un acquario.

E in tutte le case in cui aveva abitato, Sandra era solita chiedersi cosa fosse accaduto fra quelle mura prima che lei vi entrasse. Quali gioie, liti, tristezze si fossero consumate senza un’eco.

A volte pensava ai drammi o agli orrori custoditi come segreti in quegli ambienti. Per fortuna, le case dimenticano in fretta. Gli inquilini cambiano, e ricomincia tutto daccapo.

Quelli che se ne vanno, a volte, lasciano tracce del loro passaggio. Un rossetto scordato nello stipo del bagno. Una vecchia rivista su una mensola. Un paio di scarpe in un ripostiglio. Un foglietto con annotato il numero di un telefono antistupro nascosto in fondo a un cassetto.

Attraverso quei piccoli segni, in alcuni casi è possibile ripercorrere a ritroso la storia di qualcuno.

Mai avrebbe immaginato che proprio la ricerca di quei particolari sarebbe diventata il suo mestiere. Ma c’era una differenza: quando arrivava lei, quei posti avevano perso per sempre la loro innocenza.

Sandra era entrata in polizia tramite concorso, il suo addestramento era quello standard. Portava un’arma d’ordinanza, e sapeva usarla bene. Ma la sua divisa era il camice bianco in dotazione alla Scientifica. Dopo un corso di specializzazione, aveva chiesto di essere assegnata alla squadra fotorilevatori.

Arrivava sulle scene del crimine con le sue macchine fotografiche con l’unico scopo di fermare il tempo. Tutto veniva congelato nel bagliore dei flash. Nulla, dall’istante sancito dall’obiettivo, sarebbe più cambiato.

La seconda lezione che Sandra Vega aveva imparato è che anche le case muoiono, come le persone.

E il suo destino era proprio quello di assistere ai loro ultimi istanti di vita, quando gli abitanti non ci avrebbero mai più messo piede. I segnali di quel lento spegnersi erano i letti disfatti, i piatti nell’acquaio, un calzino abbandonato sul pavimento. Come se gli inquilini fossero fuggiti, lasciando tutto in disordine per scampare all’improvvisa fine del mondo. Quando, in realtà, la fine del mondo era avvenuta proprio fra quelle mura.

Così, non appena Sandra attraversò la soglia dell’appartamento al quinto piano del palazzone popolare alla periferia di Milano, capì che quella che l’attendeva sarebbe stata una scena del crimine difficile da dimenticare. La prima cosa che vide fu l’albero addobbato, anche se mancava parecchio a Natale. Istintivamente, ne comprese la ragione. Anche sua sorella, a cinque anni, aveva impedito ai genitori di togliere gli addobbi passate le feste. Aveva pianto e sbraitato per un intero pomeriggio, e alla fine i suoi si erano arresi, sperando che prima o poi le sarebbe passata. Invece l’abete di plastica con le lucine e le palle colorate era rimasto nel suo angolo per tutta l’estate e l’autunno successivi. Per questo una morsa strinse subito lo stomaco di Sandra.

Ora sapeva: in quella casa c’era un bambino.

Poteva avvertire la sua presenza anche nell’aria. Perché la terza lezione che aveva imparato è che le case hanno un odore. Appartiene a chi vi abita, ed è sempre diverso, unico. Quando gli inquilini cambiano, l’odore svanisce per lasciare spazio a uno nuovo. Si forma nel tempo, sedimentando altri profumi, chimici o naturali – ammorbidente e caffè, libri di scuola e piante da interno, detergente per pavimenti e zuppa di cavolo –, e diventa l’odore di quella famiglia, delle persone che la compongono, se lo portano addosso e non lo sentono neanche.

E adesso, solo quella sensazione olfattiva distingueva l’appartamento che aveva davanti dalle abitazioni di altre famiglie monoreddito. Tre camere e cucina. I mobili acquistati in momenti diversi, a seconda delle disponibilità economiche. Le foto incorniciate che ritraevano soprattutto le vacanze estive, le uniche che potevano permettersi. Un plaid sul divano davanti alla tv: era lì che si rifugiavano ogni sera, stretti insieme a guardare i programmi finché il sonno non aveva il sopravvento.

Sandra catalogava mentalmente quelle immagini. Non c’erano avvisaglie di ciò che sarebbe successo. Nessuno avrebbe potuto accorgersene.

I poliziotti si aggiravano fra le stanze come ospiti inattesi, violando ogni intimità con la loro semplice presenza. Ma lei aveva superato da tempo la sensazione di sentirsi un’intrusa.

Nessuno parlava su scene del crimine come quella. Anche l’orrore aveva i suoi codici. Nella coreografia del silenzio, le parole erano superflue, perché ognuno sapeva esattamente cosa fare.

Ma c’erano sempre delle eccezioni. Una di queste era Fabio Sergi che, infatti, borbottava da qualche parte nell’appartamento.

«Cazzo, ma non è possibile!»

A Sandra bastò seguire la sua voce: proveniva da un bagno angusto e privo di finestre.

«Che succede?» domandò appoggiando sul pavimento del corridoio le due borse con l’attrezzatura e indossando i copriscarpe di plastica.

«C’è che è proprio una bella giornata», le rispose sarcastico, senza guardarla. Era intento a dare energiche pacche a una stufetta a gas portatile. «Questa maledetta non funziona!»

«Non è che ci fai saltare tutti in aria, vero?»

Sergi le riservò un’occhiata feroce. Sandra non aggiunse altro, il collega era troppo nervoso. Invece abbassò lo sguardo sul cadavere dell’uomo che occupava lo spazio fra la porta e il water. Era disteso a pancia in giù, completamente nudo. Quarant’anni, pensò. Peso sui novanta chili per un metro e ottanta di statura. La testa era piegata in modo innaturale, la calotta cranica attraversata da uno squarcio obliquo. Il sangue aveva formato una pozza scura sulle mattonelle bianche e nere.

Stringeva fra le mani una pistola.

Accanto al corpo c’era un pezzo di ceramica che corrispondeva all’angolo sinistro del lavandino, andato in frantumi presumibilmente quando il corpo c’era rovinato sopra.

«A cosa ti serve la stufetta a gas?» domandò Sandra.

«Ho bisogno di ricreare la scena: il tizio stava facendo la doccia e se l’era portata appresso per riscaldare il bagno. Fra un po’ aprirò anche l’acqua, perciò sbrigati a sistemare la tua roba», rispose scortese.

Sandra comprese cosa avesse in mente Sergi: il vapore avrebbe messo in evidenza le impronte dei passi sul pavimento. Così avrebbero potuto ricostruire la dinamica degli spostamenti della vittima nella stanza.

«Mi serve un cacciavite», sentenziò il tecnico, furibondo. «Torno subito. E tu cerca di camminare rasente ai muri.»

Sandra non replicò, era abituata a quel genere di precisazioni: gli esperti di impronte pensavano di essere gli unici in grado di preservare una scena del crimine. E poi c’era il fatto che lei aveva ventinove anni e che era una donna che operava in un ambito prettamente maschile: simili atteggiamenti paternalistici da parte dei colleghi spesso nascondevano un pregiudizio sessista. Con Sergi era anche peggio, non avevano mai legato e non le piaceva lavorare con lui.

Mentre il collega era via, Sandra ne approfittò per estrarre dalle borse la Reflex e il cavalletto. Applicò i piedini di spugna alle estremità, in modo che non lasciassero impronte. Quindi montò la macchina fotografica con l’obiettivo puntato verso l’alto. Dopo averlo strofinato con una garza imbevuta di ammoniaca, affinché non si appannasse col vapore, vi collegò un’ottica panoramica Single Shot, che avrebbe permesso di scattare delle foto dell’ambiente a 360º.

Dal generale al particolare, era la regola.

La macchina avrebbe focalizzato l’intero scenario dell’evento con una serie di scatti automatici, poi lei avrebbe completato la ricostruzione dell’accaduto effettuando manualmente foto sempre più dettagliate, segnalando i reperti con cartelli numerati e di misura standard, per indicarne la progressione cronologica e restituirne le proporzioni all’osservatore.

Sandra aveva appena finito di piazzare la Reflex al centro della stanza, quando si accorse di una vaschetta con due piccole tartarughe, poggiata su una mensola. Le si strinse il cuore. Pensò alla persona che in quella famiglia si occupava di loro, nutrendole con il mangime nella scatola che stava lì accanto, cambiando periodicamente i pochi centimetri d’acqua in cui erano immerse e abbellendo il loro habitat con sassolini e una palma di plastica.

Non un adulto, si disse.

In quel momento, Sergi fece ritorno con il cacciavite e riprese ad armeggiare con la stufetta portatile. In pochi secondi, riuscì a farla partire.

«Lo sapevo che alla fine vincevo io», esultò.

La stanza era stretta e il cadavere occupava quasi tutto lo spazio. In tre ci stavano a malapena. Sarebbe stata dura lavorare in quelle condizioni, considerò Sandra. «Come ci muoviamo?»

«Io metto in moto la sauna qua dentro», disse Sergi, aprendo al massimo il rubinetto dell’acqua calda della doccia. E con l’intento di sbarazzarsi temporaneamente di lei, aggiunse: «Tu intanto puoi iniziare dalla cucina. Di là abbiamo una ’gemella’...»

Le scene del crimine si dividono in primarie e secondarie, per distinguere quelle in cui ha avuto origine il fatto delittuoso da quelle che, invece, sono semplicemente collegate a esso, come il luogo di occultamento di un cadavere o quello in cui viene rinvenuta l’arma del delitto.

Quando Sandra sentì che in casa c’era una «gemella», capì subito che Sergi si riferiva a una seconda scena primaria. E ciò poteva significare solo una cosa. Altre vittime. E il pensiero corse nuovamente alle tartarughe e all’albero di Natale.

Rimase immobile sulla soglia della cucina. Per mantenere il controllo, in quelle situazioni le era necessario seguire alla lettera il manuale dei fotorilevatori. Piccoli dettami che avrebbero conferito ordine al caos. Almeno era questa l’illusione che le serviva. E se ne convinceva.

Il leone Simba le strizzò l’occhio prima di mettersi a cantare con gli altri abitanti della foresta. Avrebbe voluto spegnere la tv. Ma non poteva.

Decise di non farci caso e si sistemò sulla cintura il registratore con cui avrebbe verbalizzato tutta la procedura. Tirò indietro i lunghi capelli castani e li annodò con un elastico che portava sempre al polso. Quindi s’infilò in testa il microfono ad archetto, per tenere libere le mani con cui avrebbe manovrato la seconda Reflex che aveva preso dalla borsa. La puntò. La macchina fotografica le consentiva di mettere una distanza di sicurezza fra sé e ciò che aveva davanti.

La fotorilevazione avveniva, convenzionalmente, da destra a sinistra, dal basso verso l’alto.

Diede un’occhiata all’orologio, quindi avviò la registrazione. Per prima cosa declinò le proprie generalità. Quindi il luogo, la data e l’ora di inizio della procedura. Cominciò a scattare, descrivendo contemporaneamente ciò che vedeva.

«Il tavolo è posto al centro della stanza. È apparecchiato per la colazione. Una delle sedie è rovesciata sul pavimento e accanto a essa c’è il primo corpo: donna, età compresa fra trenta e quarant’anni.»

Indossava una camicia da notte chiara che le era risalita fino ai fianchi, lasciandole le gambe e il pube impudicamente esposti. I capelli erano raccolti alla buona, con un fermaglio a forma di fiore. Aveva perso una ciabatta.

«Numerose ferite d’arma da fuoco. In una mano stringe un foglio di carta.»

Stava compilando la lista della spesa. La penna era ancora sul tavolo.

«Dalla postura, il cadavere è rivolto verso la porta: deve aver visto arrivare l’assassino e ha provato a fermarlo. Si è alzata da tavola, ma ha compiuto appena un passo.»

Le raffiche della Reflex scandivano un tempo nuovo, diverso. Sandra era concentrata su quel suono, come un musicista che si lascia guidare dal metronomo. E intanto assimilava ogni particolare della scena, man mano che s’imprimeva nella memoria digitale della macchina, e nella sua.

«Secondo corpo: maschio, età approssimativa fra dieci e dodici anni. È seduto di spalle alla porta.»

Non si era accorto di quello che stava accadendo. Ma Sandra pensava che l’idea di una morte inconsapevole era un sollievo solo per i vivi.

«Indossa un pigiama azzurro. La postura è prona sul tavolo, la faccia immersa in una ciotola di cornflakes. Il cadavere presenta una profonda ferita d’arma da fuoco sulla nuca.»

Per Sandra, in quella scena la morte non si mostrava attraverso i due corpi straziati dai proiettili. Non era presente nel sangue schizzato ovunque o che si seccava lentamente ai loro piedi. Non era nei loro occhi vitrei che continuavano a guardare senza vedere o nel gesto incompiuto con cui si erano congedati dal mondo. Era altrove. Sandra aveva imparato che il talento principale della morte era quello di sapersi nascondere nei dettagli. Ed era lì che andava a scovarla con la macchina fotografica. Nel caffè incrostato intorno ai fornelli, fuoriuscito dalla vecchia moka che aveva continuato a sobbollire finché qualcuno non l’aveva spenta dopo aver scoperto l’orrore. Nel mormorio del frigo, che seguitava imperterrito a preservare nel suo ventre la freschezza dei cibi. Nella tv accesa, che trasmetteva allegri cartoni animati. Dopo la strage, una vita artificiale era proseguita incurante e inutile. La morte si celava proprio in quell’inganno.

«Bel modo di iniziare la giornata, eh?»

Sandra si voltò, arrestando il registratore.

L’ispettore De Michelis stava sulla soglia con le braccia incrociate, una sigaretta spenta in bilico sulle labbra. «L’uomo che hai visto in bagno prestava servizio come guardia privata per una società di trasporto valori. La pistola era regolarmente detenuta. Vivevano con un solo stipendio: il mutuo da pagare, le rate della macchina, qualche problema ad arrivare alla fine del mese. Ma chi non ne ha.»

«Perché l’ha fatto?»

«Stiamo ascoltando i vicini di casa. Marito e moglie litigavano spesso, ma mai tanto forte da costringere qualcuno a chiamare la polizia.»

«C’era tensione in famiglia.»

«Sembra di sì. Lui praticava la boxe thailandese, campione provinciale, ma aveva smesso dopo una squalifica per uso di anabolizzanti.»

«La picchiava?»

«Questo ce lo dirà il medico legale. Però era molto geloso.»

Sandra guardò la donna distesa sul pavimento, seminuda dalla vita in giù. Non si può essere gelosi di un cadavere, pensò. Non più.

«Pensate che lei avesse un altro?»

«Forse, chi può dirlo.» De Michelis scosse le spalle, poi cambiò argomento: «A che punto siete col bagno?»

«Ho piazzato la prima Reflex, sta già scattando le panoramiche. Aspetto che finisca o che Sergi mi chiami.»

«Non è andata come sembra...»

Sandra squadrò De Michelis. «Che significa?»

«L’uomo non si è sparato. Abbiamo contato i bossoli dei proiettili: sono tutti in cucina.»

«E allora cos’è successo?»

De Michelis fece un passo all’interno della stanza, sfilandosi la sigaretta dalle labbra. «Stava facendo la doccia. È uscito nudo dal bagno, ha preso la pistola che stava nell’ingresso, infilata nella fondina accanto alla divisa, è venuto in cucina e, più o meno dove sei tu adesso, ha sparato al figlio. Un colpo alla nuca, a bruciapelo.» Mimò il gesto con la mano. «Quindi ha scaricato l’arma sulla moglie. Il tutto è durato pochi secondi. È tornato in bagno, il pavimento era ancora viscido. È scivolato e, cadendo, è andato a sbattere con la testa contro il lavandino, tanto forte da romperlo. Morte immediata.» L’ispettore aggiunse, sarcastico: «Dio a volte sa essere grandioso nelle piccole vendette».

Dio invece non c’entra niente, pensò Sandra osservando il ragazzino. E stamattina stava guardando da un’altra parte.

«Alle sette e venti era già tutto finito.»



Tornò nel bagno con un forte disagio. Le ultime parole di De Michelis l’avevano scossa più del dovuto. Aprendo l’uscio fu investita dal vapore che saturava la stanza. Sergi aveva già chiuso il miscelatore della doccia ed era inginocchiato davanti alla valigetta dei reagenti.

«I mirtilli, il problema sono sempre i mirtilli...»

Sandra non capì a cosa si riferisse il tecnico. Sembrava molto preso, perciò decise di non approfondire, temendo una reazione. Controllò che la Reflex avesse scattato le foto panoramiche e quindi la sfilò dal cavalletto.

Prima di uscire, si rivolse nuovamente al collega: «Sostituisco la memory-card e cominciamo coi dettagli». Si guardò intorno. «Non ci sono finestre e la luce artificiale mi sembra insufficiente, perciò avremo bisogno di un paio di lampade a bassa emissione, che ne dici?»

Sergi sollevò gli occhi su di lei: «Dico che ogni tanto mi piacerebbe farmi sbattere come una puttanella da uno di quei maschioni con la motocicletta. Sarebbe proprio il caso, sì».

La volgarità di Sergi la spiazzò. Se era una battuta, non la capiva. Ma, dal modo in cui la fissava, non sembrava in attesa di una risata. Poi, come se niente fosse, il tecnico tornò a trafficare coi reagenti e Sandra se ne andò in corridoio.

Cercò di svuotare la mente dalle farneticazioni del collega e iniziò a verificare le foto sul display della Reflex. Le panoramiche a 360º del bagno erano venute abbastanza bene. La macchina ne aveva scattate sei, a intervalli di tre minuti. Il vapore aveva messo in evidenza le impronte dei piedi nudi dell’omicida, ma erano piuttosto confuse. In un primo momento, aveva pensato che in quella stanza si fosse svolta una lite fra lui e la moglie, sfociata poi nella strage. Ma in quel caso, avrebbero dovuto esserci anche i segni delle ciabatte della donna.

Stava venendo meno a una delle regole del manuale. Cercava una giustificazione. Per quanto assurdo fosse quel massacro, lei doveva riportare i fatti in maniera obiettiva. Non contava che non riuscisse a intravedere una ragione, il suo dovere era rimanere imparziale.

Negli ultimi cinque mesi, però, le riusciva difficile.

Dal generale al particolare, Sandra cominciò a zoomare sui dettagli, cercando un senso.

Sul display: il rasoio poggiato sulla mensola sotto lo specchio. Il bagnoschiuma di Winnie the Pooh. I collant stesi ad asciugare. Gesti quotidiani, piccole abitudini di una famiglia come tante. Oggetti innocui che erano stati testimoni di qualcosa di terribile.

Non sono muti, pensò. Gli oggetti ci parlano dal silenzio, basta saperli ascoltare.

Mentre le immagini scorrevano veloci, Sandra continuava a chiedersi cosa scatena una simile violenza. Il disagio di prima si era trasformato in malessere, sentiva crescere anche una strana emicrania. Gli occhi le si velarono per un istante. Voleva capire.

Come si era generata quella piccola apocalisse domestica?

La famiglia si sveglia poco prima delle sette. La donna si alza e va a preparare la colazione per il figlio. L’uomo è il primo a usare il bagno, deve accompagnare il ragazzino a scuola e poi andare al lavoro. Fa freddo, porta con sé la stufetta a gas.

Cos’era successo mentre faceva la doccia?

L’acqua che scroscia, la rabbia che monta. Forse è rimasto sveglio tutta la notte, si disse Sandra. Qualcosa lo turbava. Un pensiero, un’ossessione. Gelosia? La scoperta di un amante della moglie? Litigavano spesso, aveva detto De Michelis.

Ma quella mattina niente liti. Perché?

L’uomo esce dalla doccia, prende la pistola e si dirige in cucina. Nessuna discussione prima degli spari. Cosa si è spezzato nella sua testa? Un insopportabile senso d’angoscia, l’ansia, il panico: i consueti sintomi che precedono il raptus.

Sul display: tre accappatoi appesi l’uno accanto all’altro. Dal più grande al più piccolo. Vicini. In un bicchiere, la famigliola di tre spazzolini da denti. Sandra cercava la piccola crepa nel quadretto idilliaco. La frattura sottilissima da cui era iniziato il crollo.

Alle sette e venti era già tutto finito, aveva detto l’ispettore. A quell’ora i vicini di casa sentono gli spari e chiamano la polizia. La doccia che dura al massimo un quarto d’ora. Un quarto d’ora per decidere tutto.

Sul display: la vaschetta con le due tartarughe. La scatola col mangime. La palma di plastica. I sassolini.

Le tartarughe, ripeté fra sé.

Sandra controllò tutte le panoramiche, zoomando ogni volta su quel particolare. Una foto ogni tre minuti, in tutto sei scatti: Sergi aveva aperto al massimo l’acqua calda, l’ambiente era saturo di vapore... eppure le tartarughe non si erano mosse.

Gli oggetti parlano. La morte è nei dettagli.

La vista di Sandra si appannò di nuovo, per un attimo ebbe paura di svenire. Vide sopraggiungere De Michelis.

«Non ti senti bene?»

In quel momento, Sandra comprese ogni cosa: «La stufetta a gas».

«Cosa?» De Michelis non capiva.

Ma lei non aveva tempo di spiegare: «Sergi: dobbiamo subito tirarlo fuori da lì».



Sotto il palazzo erano parcheggiati un camion dei pompieri e un’ambulanza che portava via Sergi. Il tecnico della Scientifica era privo di sensi quando erano entrati in bagno. Per sua fortuna, avevano fatto in tempo. Sul marciapiede di fronte allo stabile, Sandra mostrò a De Michelis l’immagine della vaschetta con le tartarughe morte, provando a ricostruire la sequenza degli eventi.

«Quando siamo arrivati, Sergi stava provando a far partire la stufetta a gas.»

«Quell’imbecille a momenti ci restava secco. Niente finestre: i pompieri hanno detto che il bagno era saturo di monossido di carbonio.»

«Sergi stava semplicemente riproducendo lo stato dei luoghi. Perciò, pensaci: accadeva lo stesso stamattina, mentre l’uomo faceva la doccia.»

De Michelis aggrottò la fronte. «Scusa, ma non capisco.»

«Il monossido di carbonio è un gas residuo della combustione. Ed è inodore, incolore e insapore.»

«So cos’è... ma fa anche funzionare le pistole?» ironizzò l’ispettore.

«Sai quali sono i sintomi dell’avvelenamento da monossido di carbonio? Mal di testa, vertigini e, in alcuni casi, allucinazioni e paranoia... Dopo essere stato esposto al gas chiuso nel bagno, Sergi farneticava. Mi ha parlato di mirtilli, ha detto frasi sconce.»

De Michelis fece una strana smorfia: quella storia non gli piaceva. «Senti Sandra, so dove vuoi arrivare con questo ragionamento, ma non sta in piedi.»

«Anche il padre è stato chiuso in quel bagno prima di mettersi a sparare.»

«Non è comprovabile.»

«Ma è una spiegazione! Almeno ammetti che può essere andata così: l’uomo ha respirato il monossido, è confuso, allucinato e in preda alla paranoia. Non sviene subito, com’è accaduto a Sergi, invece esce nudo dal bagno, prende la pistola e spara a moglie e figlio. Quindi torna in bagno, solo a quel punto la carenza di ossigeno gli fa perdere i sensi e cade sbattendo la testa.»

De Michelis incrociò le braccia. Il suo atteggiamento la esasperava. Ma lei sapeva bene che l’ispettore non poteva avvalorare una tesi così ardita. Lo conosceva da anni, era convinta che anche per lui sarebbe stato di conforto ammettere che la responsabilità di quelle morti assurde ricadeva su un evento estraneo alla volontà dell’omicida. Tuttavia aveva ragione: non c’erano prove evidenti.

«Segnalerò la cosa all’ufficio del medico legale, faranno un’analisi tossicologica sul cadavere dell’uomo.»

Meglio di niente, pensò Sandra. De Michelis era un tipo scrupoloso, un buon poliziotto, le piaceva lavorare con lui. Era un appassionato d’arte, e questo per lei era indice di sensibilità. Per quanto ne sapeva, non aveva figli e programmava le ferie con la moglie per visitare musei. Sosteneva che ogni opera contenesse più significati e cercarli era compito di chi le ammirava. Perciò, non era il genere di poliziotto che poteva accontentarsi della prima impressione.

«A volte vorremmo che la realtà fosse diversa. E se non possiamo cambiare le cose, allora proviamo a spiegarcele a modo nostro. Ma non sempre ci si riesce.»

«Sì», disse Sandra, pentendosene subito. Quella verità la riguardava da vicino, ma non poteva ammetterlo. Fece per andarsene.

«Aspetta, volevo dirti...» De Michelis si passò una mano fra i capelli grigi, cercando le parole più adatte. «Mi è dispiaciuto per quello che ti è successo. Lo so che sono passati sei mesi...»

«Cinque», lo corresse lei.

«Sì, ma avrei dovuto comunque farlo prima, però...»

«Non ti preoccupare», gli rispose, forzando un sorriso. «Va bene così, grazie.»

Sandra si voltò per tornare alla sua auto. Camminava a passo svelto, con quella strana sensazione sotto lo sterno che ormai non l’abbandonava più e che gli altri non sospettavano neanche. Era ansia, ma anche rabbia mista a dolore. Una specie di bolo di gomma appiccicosa. L’aveva ribattezzata «la cosa».

Non voleva ammetterlo, ma da cinque mesi «la cosa» aveva rimpiazzato il suo cuore.



Ore 11.40



La pioggia aveva ripreso a cadere con collerica costanza. A differenza di quelli che incrociavano, Marcus e Clemente percorrevano i viali del grande policlinico universitario senza affrettare il passo. Il Gemelli era il più importante ospedale della città.

«La polizia piantona l’ingresso principale», annunciò Clemente. «E dobbiamo evitare le telecamere di sorveglianza.»

Scartò verso sinistra, uscendo dal percorso del vialetto, e guidò Marcus verso una palazzina bianca. Sotto una pensilina c’erano fusti di detergente e carrelli carichi di lenzuola sporche. Una scala di ferro conduceva a un’entrata di servizio. Era aperta e fu facile introdursi nel deposito della lavanderia. Dopo essersi serviti di un montacarichi per salire al piano zero, si ritrovarono in uno stretto andito sbarrato da una porta di sicurezza. Prima di entrare era necessario indossare camici sterili, mascherine e copriscarpe che presero da un carrello. Poi Clemente consegnò a Marcus un tesserino magnetico. Con quello al collo, nessuno avrebbe fatto domande. Lo usarono per far scattare la serratura elettronica e, finalmente, furono dentro.

Davanti a loro si presentò un lungo corridoio dalle pareti azzurre. Odorava di alcol e detergente per pavimenti.

A differenza degli altri reparti, quello di terapia intensiva era immerso nel silenzio. Non c’era un viavai di medici e infermieri, il personale si muoveva per i corridoi senza fretta e senza emettere alcun suono. L’unico rumore percepibile era il murmure delle apparecchiature da cui dipendeva la sopravvivenza dei pazienti.

Eppure, in quel luogo di pace si combatteva lo scontro più cruento fra la vita e la morte. Quando uno dei combattenti cadeva, avveniva senza strepiti, né urla. Non risuonavano allarmi, ad annunciarlo bastava l’accensione di una spia rossa nella sala di controllo, che indicava con grande semplicità la cessazione delle funzioni vitali.

In altri reparti, lo scopo di salvare delle vite imponeva una continua lotta contro il tempo. Lì, invece, scorreva diversamente. Si dilatava, tanto da sembrare assente. Non a caso, nel gergo ospedaliero che per rapidità riduceva tutto a un acronimo, quel posto era UOC, che stava per Unità Operativa Complessa. Fra quelli che vi lavoravano, invece, era conosciuto come il confine.

«Alcuni scelgono di superarlo. Altri, di tornare indietro», disse Clemente, dopo aver spiegato a Marcus il perché di quel nome.

Erano davanti al vetro che separava il corridoio da una delle sale rianimazione. Nella stanza vi erano sei letti.

Soltanto uno era occupato.

Un uomo sui cinquant’anni era collegato a un respiratore. Guardandolo, Marcus ripensò a se stesso, a quando il suo amico l’aveva trovato in un letto simile, mentre combatteva la sua battaglia, in bilico sul termine della luce.

Lui aveva scelto di restare.

Clemente indicò di là dal vetro: «La notte scorsa un’ambulanza è intervenuta in una villa fuori città a seguito di un codice rosso per infarto. L’uomo che aveva chiamato il numero delle emergenze aveva in casa degli oggetti – un nastro per capelli, un braccialetto di corallo, una sciarpa rosa e un pattino a rotelle – appartenuti alle vittime di un omicida seriale finora mai identificato. Si chiama Jeremiah Smith».

Jeremiah, un nome tranquillo, fu il primo pensiero di Marcus. Non era adatto a un serial killer.

Clemente tirò fuori dalla tasca interna dell’impermeabile una cartellina ripiegata, su cui era impresso soltanto un codice: c.g. 97-95-6.

«Quattro vittime nell’arco di sei anni. Sgozzate. Tutte di sesso femminile, età fra i diciassette e i ventotto.»

Mentre Clemente elencava quei dati sterili e impersonali, Marcus si concentrò sul volto dell’uomo. Non doveva lasciarsi ingannare: quel corpo era solo un travestimento, un modo per passare inosservato.

«I medici parlano di coma», disse Clemente, quasi intuendo le sue riflessioni. «Eppure è stato immediatamente intubato dall’equipaggio dell’ambulanza che l’ha soccorso. A proposito...»

«Cosa?»

«Per uno scherzo del destino, insieme a un infermiere c’era la sorella della prima vittima: ha ventisette anni, è un medico.»

Marcus sembrò sorpreso. «E sa a chi ha salvato la vita?»

«È stata lei a segnalare la presenza in casa di un pattino a rotelle che apparteneva alla gemella uccisa sei anni fa. A ogni modo, non è stato un intervento di routine anche per un altro motivo...»

Clemente prese una foto dalla cartellina e gliela mostrò. Era stata scattata al torace dell’uomo, su cui spiccava la parola «Uccidimi».

«Se ne andava in giro, in mezzo alla gente, con quel tatuaggio.»

«È il simbolo della sua doppia natura», considerò Marcus. «È come se ci dicesse che, in fondo, basterebbe poco per superare l’apparenza, perché di solito ci soffermiamo al primo strato, quello degli abiti, per giudicare una persona. Quando la verità è scritta sulla pelle, è alla portata di chiunque, nascosta eppure così vicina. Ma nessuno la vede. Per Jeremiah Smith era lo stesso: la gente lo sfiorava per strada senza immaginare il pericolo, nessuno riusciva a vederlo per ciò che era realmente.»

«E in quella parola era racchiusa una sfida: uccidimi, se ci riesci.»

Marcus si voltò verso Clemente: «Invece qual è la sfida adesso?»

«Lara.»

«Chi ci dice che sia ancora viva?»

«Ha tenuto in vita le altre per almeno un mese, prima di farle ritrovare.»

«Come sappiamo che è stato lui a prenderla?»

«Lo zucchero. Anche le altre ragazze erano state drogate. Le ha prese tutte allo stesso modo: di giorno, le ha avvicinate con una scusa offrendo loro da bere. Nelle bevande c’era sempre GHB, meglio conosciuto come Rufis, ’la droga dello stupro’. È un narcotico con effetti ipnotici che inibisce la capacità d’intendere e di volere. La polizia scientifica ne ha rilevato tracce in un bicchiere di plastica abbandonato nel luogo in cui Jeremiah ha incrociato la prima vittima, e poi in una bottiglietta rinvenuta in occasione del terzo rapimento. Perciò quella è una firma, una specie di cifra stilistica.»

«Droga dello stupro» ripeté Marcus. «Allora il movente è sessuale?»

Clemente scosse il capo. «Nessuna violenza sessuale, nessun segno di tortura sulle vittime. Le legava, le teneva in vita e le sgozzava dopo un mese.»

«Ma Lara l’ha portata via da casa», concluse Marcus. «Come si spiega?»

«Alcuni assassini seriali perfezionano il modus operandi man mano che evolve la fantasia sadica che alimenta i loro istinti. Ogni tanto aggiungono un particolare, qualcosa che aumenta il loro diletto. Col tempo uccidere diventa un lavoro, e tendono a volersi migliorare.»

La spiegazione di Clemente era plausibile, ma non lo convinse del tutto. Decise di lasciar perdere momentaneamente quel dettaglio. «Parlami della villa di Jeremiah Smith.»

«I poliziotti la stanno ancora perquisendo, perciò per ora non possiamo andarci. Ma, a quanto pare, non portava lì le vittime. Aveva un altro posto. Se lo troviamo, troveremo Lara.»

«Ma la polizia non la sta cercando.»

«Forse in quella casa c’è qualcosa che li collegherà a lei.»

«Non dovremmo metterli sulla pista giusta?»

«No.»

«Perché no?» Marcus era incredulo.

Clemente cercò di essere risolutivo: «Noi non operiamo così».

«Lara avrebbe più chance di essere salvata.»

«I poliziotti potrebbero esserti d’intralcio, invece devi avere libertà di azione.»

«Che significa libertà d’azione?» protestò Marcus. «Io non so da dove cominciare!»

Clemente si piazzò di fronte a lui, guardandolo dritto negli occhi. «Lo so che non credi sia possibile, che tutto questo ti sembra nuovo. Ma non è la prima volta per te. Eri bravo in ciò che facevi, e puoi esserlo ancora. Ti assicuro che se c’è qualcuno che può ritrovare la ragazza, quello sei tu. Prima lo capisci, meglio sarà per tutti. Perché ho l’impressione che a Lara non rimanga molto tempo.»

Marcus guardò oltre la spalla di Clemente: il paziente attaccato al respiratore, in bilico sull’ultimo confine. Quindi il riflesso del proprio volto sul vetro, sovrapposto a quell’immagine, in un’illusione ottica. Distolse lo sguardo, infastidito. Non era la vista del mostro che lo disturbava, non sopportava gli specchi: ancora non riusciva a riconoscersi. «Cosa mi accadrà se dovessi fallire?»

«Allora è questo, sei preoccupato per te stesso.»

«Io non so più chi sono, Clemente.»

«Lo scoprirai presto, amico mio.» Gli porse la cartellina del caso. «Noi confidiamo in te. Ma da questo momento, sarai solo.»



Ore 20.56



La terza lezione è che le case hanno un odore. Appartiene a chi vi abita, ed è sempre diverso, unico. Quando gli inquilini se ne vanno, l’odore svanisce. Per questo ogni volta che Sandra Vega rientrava nel suo appartamento sui Navigli, cercava subito quello di David.

Dopobarba e sigaretti aromatizzati all’anice.

Sapeva che un giorno, prima o poi, sarebbe tornata a casa, avrebbe fiutato l’aria e non l’avrebbe avvertito. Una volta sparito l’odore, David davvero non ci sarebbe stato più. Per sempre.

Quel pensiero la faceva disperare. E cercava di star fuori il più possibile. Per non contaminare con la sua presenza gli ambienti, perché il suo odore non prendesse definitivamente il sopravvento.

In verità, prima odiava il dopobarba dozzinale che David si ostinava a comprare al supermercato. Le sembrava aggressivo e invadente. Nei tre anni in cui avevano convissuto, aveva provato più volte a sostituirglielo. Ogni compleanno, Natale o anniversario, insieme al regalo ufficiale c’era un nuovo profumo. Lui lo usava per una settimana, poi lo riponeva insieme agli altri su una mensola in bagno. Ogni volta per giustificarsi usava la stessa frase: «Spiacente Ginger, ma non mi rappresenta». Il modo in cui ammiccava dicendolo le faceva saltare i nervi.

Sandra non avrebbe mai immaginato che qualche tempo dopo avrebbe comprato venti flaconi di quel dopobarba con l’intenzione di spargerli per il suo appartamento. Ne aveva presi così tanti per l’insensato timore che un giorno lo ritirassero dal commercio. E aveva anche acquistato quei tremendi sigaretti all’anice. Li lasciava accesi nei posacenere in giro per le stanze. Ma la magica alchimia era imperfetta. Era David, la sua presenza al mondo che legava indissolubilmente quelle fragranze. Erano la sua pelle, il suo alito, il suo umore che rendevano quell’unione speciale.

Al termine di una lunga giornata di lavoro, dopo aver richiuso la porta di casa, Sandra attese qualche secondo, ferma al buio. Poi, finalmente, l’odore di suo marito venne ad accoglierla.

Posò le borse accanto alla poltrona dell’ingresso: avrebbe dovuto ripulire l’attrezzatura, ma ormai rimandava ogni cosa. Ci avrebbe pensato dopo cena. Invece si preparò un bagno caldo e rimase immersa nell’acqua finché le dita non le divennero grinzose. Indossò una t-shirt azzurra e aprì una bottiglia di vino. Era il suo modo di stordirsi. Non riusciva più ad accendere la tv e non aveva la concentrazione necessaria per leggere. Così passava le serate sul divano, con un bicchiere di Negramaro fra le mani e lo sguardo perso fra mille riflessioni.

Aveva appena ventinove anni, e non riusciva a pensare a sé come a una vedova.

La seconda lezione che Sandra Vega aveva imparato è che anche le case muoiono, come le persone.

Da quando David era morto, non aveva mai avvertito la sua presenza negli oggetti. Forse perché gran parte delle cose che erano in quelle stanze apparteneva a lei.

Suo marito era un fotoreporter freelance, girava il mondo. Prima di conoscerla, non aveva mai avuto bisogno di una casa, solo camere d’albergo e sistemazioni di fortuna. Una volta le aveva raccontato che in Bosnia aveva dormito in un cimitero, dentro un loculo.

Tutto ciò che David possedeva era stipato in due grandi sacche di tela verde. C’era il suo guardaroba, un po’ estivo e un po’ invernale, perché non sapeva dove potevano spedirlo per un reportage. C’era il notebook ammaccato da cui non si separava mai, ma c’erano anche utensili di ogni tipo, coltellini multiuso e batterie per i suoi cellulari, perfino un kit per depurare l’urina nel caso fosse capitato in un posto senza acqua da bere.

Aveva ridotto tutto all’essenziale. Per esempio, non aveva mai posseduto un libro. Leggeva tantissimo, ma ogni volta che ne terminava uno, lo regalava. Aveva smesso solo da quando era andato a vivere da lei. Sandra gli aveva creato uno spazio nella libreria e a lui cominciava a piacere l’idea di quella collezione. Era il suo modo per mettere radici. Dopo il funerale, i suoi amici erano andati da Sandra e ciascuno le aveva portato un libro che David gli aveva donato. Fra quelle pagine c’erano le sue annotazioni, gli angoli piegati per mettere il segno, piccole bruciature o macchie di olio per motori. E allora lei se lo immaginava mentre leggeva tranquillamente Calvino, fumando sotto il sole cocente di qualche deserto, accanto a un fuoristrada in panne, in attesa che qualcuno venisse a prestargli soccorso.

Continuerai a vederlo ovunque, le dicevano tutti, sarà difficile sbarazzarsi della sua presenza. Invece non era così. Non le era mai sembrato di sentire la sua voce chiamare il suo nome. Non le era mai capitato di apparecchiare distrattamente la tavola con un piatto in più.

Ciò che invece le mancava sul serio era la quotidianità. Piccoli, ripetitivi momenti di un’insignificante routine.

Di solito la domenica si alzava dopo di lui e lo trovava seduto in cucina mentre, alla terza caffettiera, sfogliava il giornale in una nuvola di anice. Il gomito poggiato sul tavolo e il sigaretto in punta di dita, con la cenere in bilico, talmente assorto nella lettura da dimenticarsene. Appena lei appariva sulla soglia con la solita faccia imbronciata, lui sollevava la chioma di capelli ricci e arruffati, e le sorrideva. Cercava di ignorarlo mentre si preparava la colazione, ma David seguitava a fissarla con quel risolino ebete sulla faccia finché lei non riusciva più a trattenersi. Era l’effetto del suo incisivo spezzato, ricordo di una caduta dalla bici a sette anni. Erano gli occhialini da vista in finta tartaruga, tenuti insieme con lo scotch, che lo facevano sembrare una vecchia signora inglese. Era David che di lì a qualche istante l’avrebbe attirata sulle sue ginocchia, stampandole un bacio umido sul collo.

A quel ricordo, Sandra posò il bicchiere col vino sul tavolo accanto al divano. Allungò un braccio per prendere il cellulare, quindi compose il numero della casella vocale.

La voce elettronica la informava come sempre della presenza di un solo messaggio, già ascoltato. Risaliva a cinque mesi prima.

«Ciao, ti ho chiamata più volte ma scatta sempre la segreteria... Non ho molto tempo, perciò faccio subito un elenco di ciò che mi manca... Mi mancano i tuoi piedi freddi che mi cercano sotto le coperte quando vieni a letto. Mi manca quando mi fai assaggiare la roba del frigo per assicurarti che non sia andata a male. O quando mi svegli urlando alle tre del mattino perché ti è venuto un crampo. E, non ci crederai, mi manca perfino quando usi il mio rasoio per raderti le gambe e poi non mi dici niente... Insomma, qui a Oslo fa un freddo cane e non vedo l’ora di tornare. Ti amo Ginger!»

Le ultime parole di David erano la sintesi di un’armonia perfetta. Quella che possiedono le farfalle, i fiocchi di neve e solo pochi ballerini di tip-tap.

Sandra chiuse il cellulare. «Anch’io ti amo, Fred.»

Ogni volta che ascoltava il messaggio, c’era quella sensazione. Nostalgia, dolore, tenerezza, ma anche angoscia. In quelle ultime parole si annidava una domanda a cui Sandra non sapeva se aveva intenzione di rispondere.

Qui a Oslo fa un freddo cane e non vedo l’ora di tornare.

Era abituata ai viaggi di David. Era il suo lavoro, la sua vita. L’aveva sempre saputo. Per quanto a volte nutrisse il desiderio di trattenerlo, poi aveva compreso che invece doveva lasciarlo andare.

Era l’unico modo per farlo tornare da lei.

Il suo mestiere di fotoreporter lo portava spesso nei luoghi più ostili del pianeta. Chissà quante volte aveva rischiato la pelle. Ma David era fatto così, era la sua natura. Doveva vedere tutto con i suoi occhi, senza filtri, toccare con mano. Per descrivere una guerra aveva bisogno di sentire l’odore del fumo degli incendi, sapere che il suono dei proiettili è diverso a seconda dell’oggetto contro cui impattano. Non aveva mai voluto accettare le proposte di esclusiva delle grandi testate giornalistiche, che pure se lo sarebbero conteso. Non tollerava l’idea che qualcuno potesse controllarlo. E Sandra aveva imparato a rimuovere i pensieri peggiori, confinando la paura in un posto profondo della mente. Cercando di vivere in maniera normale, fingendo di essere sposata a un operaio o un impiegato.

Esisteva una sorta di patto non scritto fra lei e David. Prevedeva una serie di strani corteggiamenti. Era la loro maniera di comunicare. Così poteva succedere che lui rimanesse a Milano per lunghi periodi e che il loro ménage iniziasse a stabilizzarsi. Poi, una sera, lei tornava a casa e lo trovava a preparare la sua famosa zuppa di crostacei, quella con almeno cinque varietà di verdure, da accompagnare al pandispagna salato. Era la sua specialità. Ma, nel loro codice, era anche il modo per comunicarle che l’indomani sarebbe partito. Così cenavano come sempre, parlando del più e del meno, lui la faceva ridere e poi facevano l’amore. E la mattina dopo si sarebbe svegliata sola nel letto. Lui poteva stare via settimane, a volte mesi. Poi un giorno avrebbe aperto la porta, e tutto sarebbe ricominciato come prima.

David non le diceva mai quale fosse la sua meta. Tranne quell’ultima volta.

Sandra vuotò il bicchiere del vino rimasto. Bevve tutto in un sorso. Aveva sempre scansato il pensiero che a David potesse accadere qualcosa di brutto. Correva dei rischi. Se doveva morire, allora doveva accadere in una guerra o per mano di uno di quei criminali su cui era solito indagare. Le sembrò stupido, ma non riusciva ad accettare che invece fosse successo in un modo tanto banale.

Stava per assopirsi su questi ragionamenti, quando il cellulare squillò. Guardò il display ma non conosceva il numero. Erano quasi le undici.

«Parlo con la moglie di David Leoni?»

L’uomo aveva uno strano accento tedesco.

«Sono io. Chi è?»

«Shalber, lavoro per l’Interpol. Siamo colleghi.»

Sandra si tirò su, stropicciandosi gli occhi.

«Mi scuso per l’ora, ma ho avuto il suo numero solo adesso.»

«E non poteva aspettare fino a domani?»

Dall’altra parte ci fu un’allegra risata. Shalber, chiunque fosse, aveva la voce di un ragazzino. «Mi perdoni, è più forte di me. Quando c’è una domanda che mi assilla, io la devo fare. Potrei non dormirci la notte. A lei non capita mai?»

Sandra non sapeva decifrare il tono di quell’uomo, non capiva se fosse ostile o semplicemente irriverente. Decise di essere sbrigativa: «Come posso aiutarla?»

«Abbiamo aperto un fascicolo sulla morte di suo marito e mi servirebbero alcuni chiarimenti.»

Sandra si rabbuiò. «Si è trattato di un incidente.»

Shalber probabilmente si aspettava quella reazione, perché appariva calmo: «Ho letto il rapporto di polizia. Aspetti un attimo...» Sandra riconobbe il suono delle pagine che venivano sfogliate mentre Shalber le consultava.

«Qui c’è scritto che suo marito è precipitato dal quinto piano ma è sopravvissuto alla caduta, morendo molte ore dopo a causa delle fratture riportate e di un’emorragia interna...» Smise di leggere. «Dev’essere dura per lei, immagino. Non è una cosa facile da accettare.»

«Non sa quanto.» La risposta le uscì con freddezza, e Sandra si odiò mentre la diceva.

«Secondo la polizia il signor Leoni si trovava in quel palazzo in costruzione perché da lì aveva un’ottima visuale per scattare una foto.»

«Sì, è così.»

«Ma lei ha visto quel posto?»

«No», rispose infastidita.

«Be’, io ci sono stato.»

«E con questo cosa vorrebbe dire?»

La pausa di Shalber durò un attimo di troppo. «La Canon di suo marito è andata distrutta nella caduta. Peccato che non vedremo mai quella foto», commentò con sarcasmo.

«Da quando l’Interpol si occupa di morti accidentali?»

«In effetti per noi è un’eccezione. Ma la mia curiosità non riguarda solo le circostanze in cui è deceduto suo marito.»

«Allora cosa?»

«Ci sono dei punti oscuri. Ho saputo che le è stato rispedito il bagaglio del signor Leoni.»

«Due sacche.» Cominciava a indispettirsi, ma ebbe il sospetto che fosse proprio quello lo scopo del suo interlocutore.

«Avevo inoltrato richiesta per visionarle, ma a quanto pare non ho fatto in tempo.»

«Per quale motivo? Che interesse possono avere per lei?»

Dall’altra parte ci fu un breve silenzio. «Io non sono sposato, ma ci sono andato vicino un paio di volte.»

«E questo dovrebbe riguardarmi?»

«Non so se la riguarda, ma credo che quando affidi la tua vita a qualcuno, intendo qualcuno di veramente speciale come un coniuge... Be’, smetti di farti certe domande. Per esempio, non stai a chiederti cosa stia facendo ogni momento che non siete insieme. Qualcuno la chiama fiducia. La verità è che, a volte, è solo paura... Paura delle risposte.»

«Che tipo di domande avrei dovuto farmi sul conto di David, secondo lei?» Ma Sandra lo sapeva benissimo.

Il tono di Shalber si fece grave: «Tutti abbiamo dei segreti, agente Vega».

«Non conoscevo i dettagli della vita di David, ma sapevo che persona fosse, e questo mi basta.»

«Sì, ma ha mai pensato che potesse non dirle tutta la verità?»

Sandra era furiosa: «Senta, è inutile che cerchi di farmi venire dei dubbi».

«No, infatti. Perché quei dubbi lei ce li ha già.»

«Lei non sa niente di me», protestò.

«Le sacche che le sono state rispedite ben cinque mesi fa si trovano in giacenza in un deposito della Questura. Perché non è andata ancora a ritirarle?»

Sandra sorrise amaramente. «Non devo spiegare a nessuno quanto mi possa far male rientrare in possesso di quegli oggetti. Perché, quando accadrà, dovrò ammettere che è davvero tutto finito, che David non tornerà e che nessuno ci può fare niente!»

«Balle, e lei lo sa bene.»

La mancanza di tatto di quell’uomo la lasciò basita. Per un po’ non riuscì a dire nulla. Quando finalmente fu in grado di reagire, lo fece con rabbia: «Vaffanculo, Shalber».

Riattaccò. Era furiosa. Afferrò il bicchiere vuoto, che era la prima cosa a portata di mano, e lo scagliò contro la parete. Quell’uomo non aveva il diritto. Aveva sbagliato a lasciarlo parlare, avrebbe dovuto chiudere prima la comunicazione. Si alzò e iniziò a camminare nervosamente per la stanza. Fino a quel momento non aveva voluto ammetterlo, ma Shalber aveva ragione: lei aveva paura. La telefonata non l’aveva sorpresa, era come se una parte di lei se l’aspettasse.

È folle, pensò. È stato un incidente. Un incidente.

Poi cominciò a calmarsi. Si guardò intorno. L’angolo di libreria con i volumi di David. Le scatole di sigaretti all’anice impilati sullo scrittoio. Il dopobarba scadente sulla mensola del bagno. Il posto in cucina dove leggeva il giornale la domenica mattina.

La prima lezione che Sandra Vega aveva imparato è che le case non mentono mai – qui a Oslo fa un freddo cane e non vedo l’ora di tornare. Ma forse casa sua raccontava una bugia, perché David era morto a Roma.



Ore 23.36



Il cadavere si svegliò.

Intorno a lui, il buio. Sentiva freddo, era disorientato e aveva paura. Tuttavia quell’insieme di sensazioni gli era stranamente familiare.

Ricordava il colpo di pistola, l’odore dello sparo e poi di carne bruciata. I muscoli che cedevano simultaneamente, facendolo precipitare sul pavimento. Si accorse che poteva allungare la mano, lo fece. Avrebbe dovuto trovarsi in un lago di sangue, ma non ce n’era. Avrebbe dovuto essere morto, ma non lo era.

Per prima cosa, il nome.

«Mi chiamo Marcus», disse a se stesso.

In quel momento la realtà lo aggredì, rammentandogli le ragioni per cui invece era ancora vivo. E che era a Roma, a casa, disteso sul suo letto e che, fino a poco prima, stava dormendo. Il battito cardiaco era accelerato e non voleva saperne di rallentare. Era madido di sudore e respirava a fatica.

Ma ancora una volta era sopravvissuto a quel sogno.

Per evitare il senso di panico, di solito teneva la luce accesa. Ma stavolta se n’era dimenticato. Il sonno doveva averlo colto di sorpresa, era ancora vestito. Azionò l’interruttore e controllò l’ora. Aveva dormito appena venticinque minuti.

Erano stati sufficienti.

Prese il pennarello che teneva accanto al cuscino, quindi scrisse sul muro: «Vetri infranti».

La parete bianca di fianco alla branda era il suo diario. Intorno a lui, una stanza spoglia. Quella soffitta in via dei Serpenti era il luogo senza memoria in cui aveva scelto di vivere per poter ricordare. Due camere. Niente mobili, a parte il letto e una lampada. I suoi abiti gettati in una valigia posata per terra.

Ogni volta che riemergeva dal sogno portava qualcosa con sé. Un’immagine, una parola, un suono. Quella volta era il rumore di un vetro che andava in pezzi.

Ma quale vetro?

Fotogrammi di una scena, sempre la stessa. Scriveva tutto sul muro. Nell’ultimo anno aveva messo insieme parecchi dettagli, ma ancora non gli erano sufficienti a ricostruire ciò che era accaduto in quella camera d’albergo.

Sapeva per certo di esserci stato e che c’era anche Devok, il suo amico più caro, la persona che avrebbe fatto qualsiasi cosa per lui. Gli era sembrato spaventato, confuso. Non avrebbe saputo dire perché, ma doveva essere successo qualcosa di grave. Rammentava una sensazione di pericolo. Forse Devok voleva metterlo in guardia.

Ma non erano soli. Con loro c’era una terza persona.

Era ancora un’ombra indefinita, una percezione. Da lui veniva la minaccia. Era un uomo, di questo era certo. Ma non sapeva chi fosse. Perché era lì? Aveva una pistola con sé e, a un certo punto, l’aveva tirata fuori e aveva fatto fuoco.

Devok era stato colpito. Gli era franato addosso, al rallentatore. Gli occhi che lo fissavano durante la caduta erano già vuoti. Le mani strette al torace, all’altezza del cuore. Spruzzi di sangue nero fra le dita.

C’era stato un secondo sparo. E, quasi contemporaneamente, aveva visto un lampo. Il proiettile lo aveva raggiunto. Aveva avvertito distintamente lo schianto contro il cranio. Aveva sentito l’osso andare in frantumi, quel corpo estraneo penetrargli nel cervello come un dito molliccio, l’emorragia calda e oleosa della ferita.

Quel buco nero sulla sua testa aveva risucchiato ogni cosa. Il suo passato, la sua identità, il suo migliore amico. Ma, soprattutto, il volto del suo nemico.

Perché ciò che torturava veramente Marcus era l’incapacità di ricordare le sembianze di chi gli aveva fatto del male.

Paradossalmente, se voleva trovarlo doveva evitare di cercarlo. Perché per fare giustizia era necessario che tornasse a essere il Marcus di un tempo. E, per riuscirci, non poteva permettersi di pensare a ciò che era accaduto a Devok. Doveva ricominciare daccapo, ritrovare se stesso.

E l’unico modo era trovare Lara.

Vetri infranti. Accantonò l’informazione e ripensò alle ultime parole di Clemente. «Da questo momento sarai solo.» A volte aveva dubitato perfino che ci fosse qualcun altro a parte loro due. Quando il suo unico referente l’aveva trovato in quel letto d’ospedale – mezzo morto e privo di memoria – e gli aveva rivelato chi era, lui non gli aveva creduto. C’era voluto del tempo per abituarsi all’idea.

«I cani sono daltonici», si ripeté per convincersi che invece era tutto vero. Poi prese il fascicolo sul caso di Jeremiah Smith – c.g. 97-95-6 –, si mise a sedere sul letto e iniziò a studiarne il contenuto in cerca di una traccia che potesse ricondurlo alla studentessa scomparsa.

Iniziò proprio dall’omicida e dalla sua breve biografia. Jeremiah aveva cinquant’anni ed era scapolo. Veniva da un’agiata famiglia borghese. Di madre italiana e di padre inglese, entrambi defunti. I suoi erano titolari di cinque negozi di tessuti in città, ma le attività commerciali erano state cedute intorno agli anni Ottanta. Jeremiah era figlio unico, nessun parente prossimo. Potendo beneficiare di una discreta rendita, non aveva mai lavorato. La biografia s’interrompeva, dopodiché era presente un buco nero nella sua storia personale. Le ultime due righe del profilo riportavano laconicamente che viveva in completo isolamento nella villa sulle colline romane.

Marcus considerò che non c’era molto di peculiare nella sua vicenda umana. Nondimeno, sussistevano tutte le condizioni perché Jeremiah diventasse ciò che era. La solitudine, l’immaturità affettiva, l’incapacità di relazionarsi con il prossimo contrastavano con il desiderio di avere accanto qualcuno.

Sapevi che l’unico modo per ottenere le attenzioni di una donna era rapirla e tenerla legata, non è così? Certo che è così. Cosa cercavi di ottenere, qual era il tuo scopo? Non le prendevi per farci sesso. Non le violentavi e non le torturavi.

Da loro volevi una famiglia.

Erano tentativi di convivenza forzata. Hai provato a far funzionare le cose, ad amarle come un bravo maritino, ma loro erano troppo spaventate per ricambiare. Ogni volta provavi a starci insieme, ma dopo un mese realizzavi che non era possibile. Ti accorgevi che era un affetto malato, distorto, e che esisteva solo nella tua mente. E poi – diciamoci la verità – eri smanioso di mettergli un coltello alla gola. Così alla fine le uccidevi. Ma la tua era pur sempre una ricerca... d’amore.

Per quanto fosse lineare, quella considerazione sarebbe stata intollerabile per chiunque. Marcus, invece, non solo l’aveva colta, ma riusciva perfino ad accettarla. Si chiese il perché, ma non seppe darsi una risposta. Anche questo faceva parte del suo talento? A volte, ne aveva paura.

Passò ad analizzare il modus operandi di Jeremiah. Aveva agito indisturbato per sei anni, uccidendo quattro vittime. Ogni volta seguiva una fase di calma e appagamento, in cui all’assassino era sufficiente il ricordo della violenza perpetrata per calmare l’istinto di colpire ancora. Quando questo effetto benefico svaniva, cominciava l’incubazione di una nuova fantasia che portava a un nuovo rapimento. Non era una cabala, si trattava di un vero e proprio processo fisiologico.

Le vittime di Jeremiah erano donne, età fra i diciassette e i ventotto. Le cercava di giorno. Le approcciava con un pretesto, poi offriva loro qualcosa mettendo un farmaco ipnotico in ciò che bevevano – GHB o Rufis, la droga dello stupro. Una volta stordite, era facile convincerle a seguirlo.

Ma perché le ragazze accettavano di bere con lui?

A Marcus la cosa sembrò strana. Pensò che un tipo come Jeremiah – di mezza età e non certo di bell’aspetto – avrebbe dovuto suscitare nelle vittime dei sospetti riguardo alle sue reali intenzioni. Eppure le ragazze si erano lasciate avvicinare.

Si fidavano.

Forse offriva loro soldi o un’opportunità di qualche tipo. Una delle tecniche di adescamento – molto in voga fra maniaci e affini – consisteva nel promettere occasioni di lavoro o di facile guadagno, oppure l’iscrizione a un concorso di bellezza o la possibilità di prendere parte al casting di un film o di un programma televisivo. Ma tali stratagemmi richiedevano una notevole capacità di socializzazione. Ciò collideva chiaramente con il carattere di Jeremiah che, invece, era un asociale, un eremita.

In che modo le hai ingannate?

E poi perché nessuno si era accorto di lui mentre le avvicinava? Prima di Lara, quattro casi di rapimento in luogo pubblico e non c’era stato un solo testimone. Eppure il suo «corteggiamento» richiedeva tempo. Ma forse la domanda conteneva già la risposta: Jeremiah Smith era talmente insignificante agli occhi degli altri da rendersi invisibile.

Ti aggiravi indisturbato fra loro. Ma ti sentivi forte, perché nessuno riusciva a vederti.

Ripensò alla parola tatuata sul suo torace. Uccidimi. «È come se ci dicesse che, in fondo, basterebbe poco per superare l’apparenza», aveva detto a Clemente, e poi aveva continuato: «Quando la verità è scritta sulla pelle, è alla portata di chiunque, nascosta eppure così vicina».

Eri come uno scarafaggio che corre sul pavimento durante una festa: nessuno lo nota, a nessuno interessa. Deve solo stare attento a non essere schiacciato. E tu sei diventato bravo in questo. Ma con Lara hai deciso di cambiare. L’hai presa in casa, dal suo letto.

Semplicemente ripensando al nome della studentessa, Marcus fu investito da una serie di dolorose domande. Dov’era adesso? Chissà se era ancora viva in quel momento. E, ammesso che lo fosse, cosa stava provando? Nella sua prigione c’era acqua o cibo? Quanto poteva resistere? Era cosciente, drogata? Era ferita? Il suo aguzzino l’aveva legata?

Marcus sgombrò la testa da quelle distrazioni emotive. Doveva ragionare lucidamente, con distacco. Perché era certo che esistesse un motivo per cui Jeremiah Smith aveva modificato radicalmente il proprio modus operandi con Lara. Riferendosi a Jeremiah, Clemente aveva sostenuto la tesi che alcuni assassini seriali tendono a perfezionarsi aggiungendo dettagli che aumentavano il loro diletto. Quindi il rapimento della studentessa poteva essere considerato una specie di «variazione sul tema». Marcus, però, non ci credeva: il mutamento era stato troppo radicale e repentino.

Forse Jeremiah si era stancato di porre in essere quella complessa catena d’inganni per raggiungere lo scopo, si disse. O forse sapeva che il giochino dell’adescamento non avrebbe funzionato a lungo: qualcuna poteva aver sentito la storia delle vittime precedenti e avrebbe potuto smascherarlo. Stava diventando famoso. Il rischio aumentava esponenzialmente.

No. Non è questa la ragione per cui hai modificato la tua strategia. Cos’ha di diverso Lara rispetto alle altre?

A complicare le cose c’era il fatto che le quattro ragazze che l’avevano preceduta non avevano nulla in comune fra loro: età differenti e diversa fisionomia, Jeremiah non aveva un gusto preciso in fatto di donne. L’aggettivo a cui pensò Marcus fu «casuale». Le aveva scelte affidandosi alla sorte, altrimenti si sarebbero somigliate tutte. Più guardava le foto delle donne uccise, più si convinceva che l’omicida le avesse prese perché erano semplicemente esposte, quindi più facili da avvicinare. Per questo le aveva rapite di giorno e in luogo pubblico. Non le conosceva, si disse.

Lara però era speciale. Jeremiah non poteva rischiare di perderla. Per questo l’aveva portata via da casa sua e, soprattutto, aveva agito di notte.

Marcus posò un attimo il fascicolo e si alzò dalla branda, avvicinandosi alla finestra. Quando calava la sera, i tetti irregolari di Roma erano un mare tumultuoso di ombre. Era il momento della giornata che preferiva. Una strana quiete s’impossessava di lui, e gli sembrava di essere un uomo in pace. Grazie a quella calma, Marcus capì dove stava sbagliando. Aveva visitato l’appartamento di Lara con la luce del sole, invece doveva farlo col buio, perché era così che aveva agito il rapitore.

Se voleva comprenderne i percorsi mentali, doveva riprodurre esattamente le condizioni in cui si era mosso Jeremiah.

Mentre si affermava quella nuova consapevolezza, Marcus prese l’impermeabile e si precipitò fuori dalla soffitta. Doveva tornare nella casa in via dei Coronari.