Capitolo quarto
Genova, venerdì 20 maggio 1977, un mese e mezzo dopo, mattina, uffici giudiziari
Toccalossi non si era neppure alzato dalla scrivania. A mano a mano che gli uomini della narcotici entravano, si limitava a squadrarli con occhio di rimprovero: uno a uno. Dalla sua espressione severa s’intuiva facilmente che non era affatto contento di come stavano procedendo le indagini. O meglio: era visibilmente contrariato. Non si era ancora approdati a nulla. Nessuna nuova partita di eroina era sbarcata in città, nessun contatto di Vito con i marsigliesi.
– Da circa un mese e mezzo seguiamo i fratelli Cardella e registriamo le loro conversazioni, signor Giudice. Due mesi che i miei uomini – diceva un concitato commissario Manfredi – annotano ogni circostanza rilevante, da quando Vito è uscito dal carcere.
L’ufficio del Giudice Istruttore gli dava la stessa sensazione di una chiesa. Provava un po’ di riluttanza a entrarci spontaneamente. Ogni volta che ne varcava la soglia il suo cuore cominciava a battere all’impazzata. Quell’uomo di fronte a lui, anzi, quel ragazzo di fronte a lui, gli incuteva timore. Lorenzo Toccalossi si era laureato a pieni voti a soli ventidue anni. Adesso, a ventiquattro anni, il suo primo incarico in magistratura come Giudice Istruttore. Manfredi provava una forte soggezione di fronte a quel giovanotto barbuto con lo sguardo truce. Ammirazione e invidia, si mescolavano all’interno del suo animo. Ogni volta rifletteva sul fatto che, forse, avrebbe dovuto spendere meglio la sua laurea. Anziché arruolarsi in Polizia, perché non tentare anche lui la carta di un concorso più prestigioso, magari la carriera prefettizia? Sicuramente quel giovane aveva grandi capacità, più delle sue. Ma lui aveva trent’anni, perbacco, e prendere ordini da uno così giovane… non gli andava giù. Affatto.
Il barbuto continuava a scrivere senza sollevare gli occhi dalle carte. “L’atteggiamento tipico di chi è arrivato in alto” pensò Manfredi “e non vuole dare confidenza”.
C’era tutta la squadra riunita innanzi alla sua scrivania: il brigadiere Cardone, l’appuntato Lo Cascio, la guardia scelta Battiston, la guardia scelta Marullo. E lui: Manfredi. A cui spettava il ruolo di capro espiatorio. Suo malgrado il commissario capì in un istante ciò che ciascun poliziotto è destinato a imparare durante tutta una carriera: in Polizia, se fai bene, nessuno ti dice bravo, ma quando sbagli… quando sbagli, beh, allora sono cazzi.
Una piccola fondamentale regola da imparare a memoria.
– Forse si è messo sulla retta via – ipotizzò Manfredi improvvisando una giustificazione plausibile – ha aperto un’agenzia di spettacolo. È anche probabile che abbia intenzione di abbandonare il crimine per dedicarsi alla sua passione: la musica.
Toccalossi lo incenerì con lo sguardo.
Poi abbassò la testa e si rituffò nelle carte.
Il rapporto del dottor Bonnet, il suo collega francese, non lasciava adito a dubbi: Antoine e Felix volevano espandere la loro attività in Italia e segnatamente a Genova. Un collegamento facile quello tra il porto di Marsiglia e quello genovese.
Fissò Manfredi. Dritto dentro le pupille. Lo tenne sotto tiro per alcuni interminabili secondi.
Le foto! Le immagini che ritraevano il funzionario nell’atto di entrare nell’alcova della prostituta. Sentì un irrefrenabile desiderio di aprire la busta con le fotografie e sbatterla sotto gli occhi del commissario. Chissà cosa avrebbe detto? Come si sarebbe giustificato? Magari avrebbe iniziato a balbettare come tutti quelli che sono colti con le mani nel sacco. Oppure si sarebbe messo a piagnucolare come un bambino colto in flagranza. Chissà? Sarebbe bastato un gesto per fugare ogni dubbio: colpevole o innocente? Connivente o semplicemente troppo ingenuo? In entrambi i casi inaffidabile per un’indagine così delicata.
Corruttibile: un occhio di riguardo in cambio di prestazioni sessuali. E se fosse stato quello il motivo per cui le indagini erano a un punto morto?
Come mai, ogni volta che Cardellino doveva recarsi in Francia, all’ultimo momento cambiava idea? Qualcuno lo avvertiva? E quel qualcuno era forse Manfredi?
Era capitato già tre volte. Nella prima occasione Cardellino si era fermato al Melogno, in altre due era arrivato sino a San Lorenzo al Mare.
Della droga nemmeno l’ombra.
Qualcuno aveva fotografato il commissario nel vicolo, di notte, mentre entrava nel locale in cui si prostituiva Angela e gli aveva spedito la foto. Ma chi? Gli uomini di Vito o quelli di Manfredi? L’ipotesi non era improbabile. Un suo sottoposto non avrebbe mai potuto denunciarlo. Si sa come vanno queste cose. Denunciare un superiore! Si sarebbe messo contro le gerarchie. Chi poteva essere di loro? Battiston? Con quella faccia da bravo ragazzo? Il brigadiere Cardone? Abbastanza probabile. Oppure Marullo, tipo sveglio, capace, intraprendente?
Toccalossi smise di fissare Manfredi.
Liquidò l’assemblea con un: – Attendo risultati. Al più presto.
Quando tutti furono usciti chiamò un uomo di sua fiducia, il brigadiere dei Carabinieri Scognamiglio.
– Lo segua – disse riferito a Manfredi.
Scognamiglio obbedì all’istante.
Nulla dà più soddisfazione a un carabiniere di poter incastrare uno sbirro. O viceversa. Invertendo l’ordine dei fattori l’infingardaggine non cambia.
Genova, venerdì 20 maggio 1977, tarda mattinata
Vito aprì le imposte dell’alloggio situato al primo piano di una palazzina vista mare destinato a diventare il suo ufficio. L’ufficio della VC Production, la sua agenzia di spettacoli.
Un sole imperioso entrò nella stanza. Il mare fungeva da specchio, un’enorme superficie d’acqua rifletteva i colori all’interno dell’alloggio dipingendo le pareti con il blu del cielo, il verde delle colline, il giallo intenso dei limoni cresciuti in giardino e il rosso vivo dei gerani appesi al davanzale.
Pegli. L’aveva scelta per la sua tranquillità, per la sua bellezza, per la vista. Per quel monte alle spalle che proteggeva dal vento e favoriva il clima mite, estate e inverno. Respirò profondamente. Immagazzinò negli occhi tutta quella luce, poi si diresse alla scrivania. Sfogliò fiero l’agenda in pelle appena acquistata.
Era vuota. Ma, presto, ogni pagina bianca sarebbe stata riempita di nomi e numeri di telefono.
Cominciò con lo scorrere la rubrica per iniziare il suo lavoro:
A Area scrisse – gruppo italiano molto politicizzato. Troppo intellettuale – aggiunse nelle sue note personali.
B Banco del Mutuo Soccorso – troppo prog – inserì come postilla.
C Camerini Alberto – grande chitarrista. Primo album solista sorprendente. Da contattare assolutamente. Conosciuto di persona al Festival de l’Unità.
Alla lettera R si soffermò qualche secondo.
Rolling Stones, avrebbe voluto scrivere ma timidamente scrisse:
Rovescio della medaglia – Gruppo jazz rock derivato dalla formazione originale del Perigeo.
S Skiantos – Creatori del rock demenziale. Ultimo album pubblicato Monotono. Imperdibile.
Avrebbe voluto aggiungere altri nomi ma ci sarebbe stato tempo. Pensò anche a tutti i nuovi gruppi che stavano emergendo sulla base del punk e della New wave.
La rispettabilità. Presto sarebbe stato un imprenditore. L’idea l’aveva lanciata alla radio prima di essere arrestato: mandatemi le vostre incisioni, ragazzi, stiamo cercando talenti. Erano piovute centinaia di cassette, di demo, di lettere.
Chiuse lentamente la porta e si apprestò a uscire. Salì a bordo dell’auto e si diresse verso il centro di Genova, lasciandosi alle spalle la quiete e l’eleganza di quel borgo che aveva adottato come sede della sua attività. Gettò un’occhiata alla facciata della palazzina. L’insegna faceva bella mostra di sé, all’altezza della finestra del primo piano. Al calar della sera si sarebbe illuminata. Anche gli sbirri potevano notarla. L’avrebbero lasciato finalmente in pace. Non si dà la caccia a un imprenditore! Presto l’odore dei vicoli sarebbe scomparso anche dai suoi ricordi. Si infilò nel traffico.
C’era un punto di Genova racchiuso in poche centinaia di metri. Quello che sulla mappa scala 1:20 appesa alla parete degli uffici della Squadra Mobile, era stato cerchiato in rosso e indicato con un nome: il triangolo magico di Cardellino.
I vertici del magico triangolo appagavano contemporaneamente i tre principali interessi di Vito: lavoro, cibo e musica. Per la verità, come indicavano le varie relazioni di servizio dei poliziotti, fra gli interessi di vito ve n’era anche un altro, molto preponderante, le donne. Ma, a tal punto, la figura geometrica di riferimento sarebbe stata quella meno nobile e assai più prosaica del quadrato. E il quadrato, simbolicamente non ha mai rappresentato nulla di esaltante. Del resto, per Vito, porre una donna al vertice di una qualsivoglia figura geometrica equivaleva a mettere un punto fermo alla propria esistenza proprio come sposarsi. Non ci pensava nemmeno. Meglio la libertà! Anche Riccarda. La sua voglia di strapparla al fratello era dettata dalla volontà di supremazia. Comunque, triangolo magico lo chiamava Vito e triangolo magico era stato riportato sulla cartina.
Il primo punto di questo immaginario impero, o meglio, territorio di caccia, da lui segnato con continue ripetute incursioni, era un altro dei tanti cinema-teatro assoggettati al suo controllo. Uno dei più vecchi, longevi e redditizi locali a luci rosse della città. Vito ci passava regolarmente. Prima di tutto per controllare che non ci fossero problemi. Poi, per incassare. Talvolta si fermava a godersi lo spettacolo e spesso si imboscava nel retro con qualcuna delle new entry.
Il secondo punto del triangolo era un piccolo ma delizioso negozio di dischi che smerciava sogni in vinile a chi questi sogni poteva permetterseli. Solo roba d’importazione, non ancora stampata dalle etichette discografiche nazionali. L’atmosfera che si respirava all’interno era quella di un circolo privato a cui pochi potevano aspirare. Bisognava avere una conoscenza profonda di certa musica “colta” e tasche gonfie per potersene impossessare. Ogni desiderio era realizzabile: cercavi quel disco dei Creedence Clearwater Revival mai pubblicato in Italia e stampato in poche copie soltanto per il mercato americano? Nessun problema! Ne parlavi con il titolare e il gioco era fatto. Dopo pochi giorni, al massimo dopo qualche settimana, il tuo desiderio si esaudiva e come d’incanto il disco era tra le tue mani. Ovviamente tutto ciò dava un guadagno a questo improvvisato Babbo Natale e aveva un costo per l’acquirente. Vito aveva visto gente spendere anche quarantamila cocuzze per un bootleg. Lo aveva scritto sul suo taccuino il brigadiere Cardone.
Il terzo vertice del triangolo era un piccolo bar nel quale servivano i migliori panini della città.
Un paio di volte a settimana Vito percorreva tutto il perimetro del suo triangolo magico, sempre nello stesso ordine: cinema, negozio di dischi e bar.
Era questo che il brigadiere Cardone aveva annotato nei suoi appunti. I pedinamenti erano cominciati prima che Vito finisse in carcere e proseguivano adesso che ne era uscito. Spesse volte Cardone, senza nemmeno troppa fatica, lo aspettava direttamente lì, all’interno di quella zona ben definita.
Anche quel giorno.
Ad attendere Vito, sulla porta del cinema-teatro c’era Justine, una spogliarellista tutto pepe, un misto tra Heather Parisi (stessa mobilità di anca) e Luana (analoga rapidità di lingua) bagasciona quest’ultima di vecchia data, ormai ridotta a battere sulle panchine cittadine.
– Così non si può continuare, capo – esordì Justine, – devi intervenire se non vuoi che io me ne vada…
Vito la squadrò. Poi allungò una mano e, con l’indice e il medio ripiegati, le diede un piccolo buffetto sulla guancia.
I suoi spettacolini erano i più seguiti del locale. Piccoli siparietti tra una proiezione e l’altra in cui lei ballava, prima sul palco, e poi scendeva tra le file di sedie appoggiandosi maliziosamente ai clienti che non le saltavano addosso solo perché ai lati del locale gli sguardi di Mimì e Cocò non li lasciavano un attimo.
Mimì e Cocò erano due ex venditori ambulanti, clandestini, di colore. Asserivano di provenire dallo Zaire e nessuno li aveva mai contraddetti. Come si possono contraddire due tipi alti due metri e cinque, per 110 chili di muscoli? Due pesi massimi, insomma, che Vito aveva trasformato in buttafuori del locale togliendoli dalla strada e dando loro uno stipendio, oltre che vitto e alloggio in una piccola rimessa nei pressi del cinema. Il loro compito era semplice: non appena un cliente andava in escandescenze, loro intervenivano e lo buttavano fuori dal locale. Materialmente: afferrandolo come un sacco della spazzatura. Molto spesso bastava un loro sguardo e il risultato era comunque garantito.
– Dirò a Mimì e Cocò di stare più attenti e controllare meglio.
– Visto che ci sei, dì loro anche di tenere le mani a posto quando mi portano sul palco.
Un’altra idea di Vito: l’arrivo della gnocca sul palco portata a braccia dai due Marcantoni vestiti da bodyguards americani, sulle note di Mess Around di Ray Charles. Una figata. Faceva tanto Broadway.
La bionda girò sui tacchi, pronunciando incomprensibili improperi in una qualche lingua slava o polacca o chissà cosa.
Se non fosse perché la gente oramai andava lì solo per lei, Vito le avrebbe anche dato una lezione ma, pensando agli incassi che quella piccola puttanella gli procurava, sopportò qualche ingiuria peraltro incomprensibile. Controllò l’ora, prese da Mimì e Cocò la busta con i soldi dell’incasso e uscì.
Quel giorno Vito aveva un sassolino nella scarpa da levarsi. Un bootleg degli adorati Stones, ossia una rarissima registrazione clandestina e precisamente quella del famoso concerto londinese alla Earls Court dell’anno precedente, durante il quale il grande Keith, si mormora, svenne nel bel mezzo dell’esibizione, in preda a una crisi d’astinenza da eroina. Un reperto rarissimo. In copertina la foto dello stesso Keith, seduto sul palco con la faccia distrutta e Mick Jagger che cerca di prestargli assistenza. Insomma, una perla. Costata trentacinquemila lire. Ma non si sentiva una beneamata mazza.
La politica del negozio era la seguente: i bootleg non si cambiano. Né si ascoltano in cuffia, all’interno del negozio. Si acquistano. A scatola chiusa. Una volta tolto il cellophane sono tutti fatti vostri. In questo caso di Vito. Ma, essendo lui il boss del quartiere e nelle sue intenzioni il futuro boss della città ed essendo quello il decimo bootleg acquistato che poteva buttare nel cesso, era il momento di dire basta. Lo disse.
– Caro… come ti chiami tu? Adesso basta.
Un mingherlino smilzo e stempiato deglutì a quell’affermazione. Vito lo scrutava con la sua faccia impassibile, deturpata dalla lunga cicatrice.
– Che c’è? – sussultò lo Smilzo – Qualche problema?
– Il bootleg, quello degli Stones. Te l’ho portato. Magari ce lo ascoltiamo assieme.
Il mingherlino comprese.
Inutile dire che Vito era uno dei migliori clienti e spendeva un sacco di soldi. Inoltre si dilettava in lunghe discussioni musicali senza fine nelle quali disquisiva animatamente di tutto e di niente, coinvolgendo anche altri clienti mai visti, che prima ascoltavano rapiti, e poi compravano il tanto decantato disco.
… comprese subito.
Quel disco era una ciofeca. Vito, insomma, aveva preso un bidone. Ma che ne poteva lui? Mica li ascoltava prima i dischi pirata! Al massimo li prezzava. Non poteva certo conoscere cosa vi fosse all’interno.
Vito cominciò a prelevare dischi a casaccio dagli scaffali e a spaccarli in quattro dopo averli estratti dalla custodia. Due dischi, tre, quattro… dieci. Gli era bastata la lezione? A giudicare dalla sua faccia sì. Vito non ne faceva una questione di soldi. Trentacinquemila lire per lui erano una sciocchezza. Ciò che gli premeva era il rispetto.
– Mi è venuta sete – disse Vito.
– Offro io – concluse lo Smilzo.
Uscirono. Era quasi l’ora di pranzo, come annotò il brigadiere Cardone.
Lo Smilzo abbassò la saracinesca.
Il terzo vertice del triangolo era il baretto. Molto stretto. E lungo, come la maggior parte di quei bugigattoli nel centro storico. Sembrava una trappola. Infatti, data la sua conformazione, se un avventore si recava sino in fondo, quando entravano successivi clienti era quasi impossibile uscire: come un pugile stretto all’angolo.
Vito non aveva mai proceduto oltre i primi due metri. Stazionava lì, a ridosso dell’entrata, diffidente come un gatto.
Ma quella mattina si sentiva tranquillo. Voleva scegliere un panino. Non semplicemente ordinarlo. E i panini erano in fondo, nove metri in fondo. Un tunnel, un vicolo cieco.
Lo Smilzo entrò. Vito lo seguì.
Lo Smilzo si avviò verso il fondo del locale.
Marione, il gestore, rivolto a Vito, chiese: – Per te il solito, Vito? – alludendo al Campari.
Vito era intento a scegliere: l’idea di un panino con cetrioli e salsine lo stuzzicava.
Si voltò istintivamente verso l’uscita. Ma sì! Cosa poteva succedergli?
– Sì – rispose.
Cardone annotò quella novità sul suo taccuino. Una novità che costrinse anche lui a entrare nel locale, mentre fino ad allora per controllare i movimenti di Cardella era rimasto fuori, a pochi metri dall’entrata.
Giunto al fondo, sbirciando dentro la vetrinetta, Vito optò per maionese, salsina verde e speck. Con una piccola aggiunta di brie.
Cardone si accomodò nel terzo sgabello.
In quella entrò lo Storpio.
Si diresse verso Vito. Non aveva ancora digerito lo sgarbo ricevuto in discoteca circa un mese prima.
Vito aveva ancora la faccia protesa dentro la vetrina.
Sentì la voce dirompente di un uomo che, facendosi spazio sgomitando e zoppicando, urlava: – Io ti spacco la faccia, bastardo.
Sollevò gli occhi voltandosi. Quattro avventori fuggirono. Due ragazze rimasero impietrite.
Vito si avvide che un uomo, quello seduto sul terzo sgabello, istintivamente portò la mano al fianco destro.
– Ehi, ehi, ehi… – disse – che c’è Gambadilegno? Hanno aperto le gabbie?
Notò che l’uomo del terzo sgabello si era alzato in piedi.
Lo Storpio affrontò Vito senza alcun timore delle conseguenze.
Lo afferrò per il bavero della giacca tentando di sollevarlo.
– Io e te abbiamo un conto in sospeso, ricordalo.
Lo sbirro del terzo sgabello non poteva intervenire per non bruciare la sua copertura.
Che fare? Scappare? Neanche per scherzo. Subire? Ma quando mai!
Lo Storpio gli allungò un gancio destro che lo fece cadere a terra.
Lo Smilzo era diventato tutt’uno con il muro, una specie di sogliola dipinta.
Vito si alzò. Sputò a terra il sangue e avvicinò la sua faccia sanguinante a quella dello Storpio.
– Tu sei morto… stronzo – gli sussurrò all’orecchio.
Genova, sabato 21 maggio 1977, sabato
Era un sabato meraviglioso. Si sentiva nell’aria il caldo buono di inizio estate. Gli uccellini cinguettavano tra i rami degli alberi e la gente a passeggio si godeva il sole offrendo il proprio viso ai quei raggi benefici.
Vito cercò nel vano porta oggetti una cassetta da inserire nell’autoradio. Allungò la mano e rovistò alla cieca tra pacchetti di Camel appallottolati, fazzolettini di carta e multe da pagare. Ne prese una a caso e la infilò nello scomparto. Era una demo che qualcuno gli aveva spedito in radio. Il gruppo, sconosciuto, si chiamava PseudoKiller.
La sua paura, trattandosi di una band italiana, era che si trattasse dell’ennesimo tentativo di scimmiottare la PFM o le Orme, che già di per sé erano insopportabili: una miscellanea di insulso prog, a sua volta imitazione di quei gruppi inglesi che, all’inizio degli anni ’70, avevano rovinato il rock. Gli Yes, in primo luogo con uno degli album peggiori che la storia del rock ricordi quel Tales From Topographic Oceans, un doppio osceno, quattro facciate di inutili coretti e masturbazioni intellettuali di Steve Howe, uno dei chitarristi più sopravvalutati di tutta la storia della musica. Era sicuro che il punk fosse nato dopo che Jonny Rotten aveva ascoltato quella melassa. Quello era il motivo per cui i ragazzini di sedici anni adesso si strappavano i jeans e suonavano musica di quattro accordi che durava tre minuti al massimo.
Il nastro della cassetta cominciò a suonare.
Sulle prime non ci fece caso. Si infilò nella carreggiata, senza mettere la freccia e schivando di poco una vecchietta.
La musica non era male. Il nastro non era molto ben registrato. Sembrava il classico terzetto: basso, chitarra e batteria, buona intesa e la solita pecca del testo in italiano. Peccato, perché il cantante non era malvagio. Nel terzo brano riconobbe una cover dei Dr feelgood, Walkin the dog, in un inglese molto approssimativo, quasi maccheronico e con una leggera inflessione genovese. Govi che incontra Lee Brilleaux.
In venti minuti, durata della facciata A, aveva raggiunto Varazze, dove Riccarda lo stava aspettando. Tutto sommato quella musica non gli dispiaceva, linee melodiche accattivanti, nessuna sbavatura sopra le righe e strumenti ben suonati.
Riccarda indossava una camicetta azzurra, attillata, senza reggiseno e un golfino di lana arrotolato sui fianchi, un paio di jeans sbiaditi e delle ballerine blu. Senza calze. Una delizia.
Vito la scrutò a fondo. Era davvero bella. Magra, alta, asciutta, con i capelli biondi tirati all’insù che lasciavano scoperte le orecchie su cui faceva bella mostra un paio di orecchini che lui le aveva regalato tempo prima.
– Ciao, bella – le disse.
Lei rispose con un sorriso.
Vito inquadrò lo specchietto retrovisore.
“Chissà che auto ha noleggiato stavolta Manfredi” pensò.
Non vide nulla alle sue spalle ma era sicuro che quel commissario imbranato lo avrebbe seguito.
Si attardò prima di immettersi sull’Aurelia.
Poi partì con un’accelerata improvvisa. Passò un semaforo con il rosso e curvò verso destra, per prendere l’autostrada a Celle Ligure.
Guardò ancora nello specchietto. Nulla.
Beh, magari Manfredi non era proprio così incapace.
Riccarda si servì una sigaretta da uno dei tanti pacchetti che Vito teneva aperti nei vari scomparti dell’auto. Ne trovò uno nel vano della portiera. Era un pacchetto di Camel morbide, mezzo stropicciato.
– Non capisco perché ti ostini a comperare quelle morbide – chiese con un tono di fastidio.
Vito prelevò dalla tasca della giacca un pacchetto rigido di Jonh Player Special.
– Tieni. Fuma queste.
Imboccò la rampa dell’autostrada. Anche il lato B della cassetta stava per terminare. Vito si era già rotto i coglioni di quei tre sconosciuti che si stavano picchiando nella cover di All Shook Up.
Cercò la cassetta di Come taste the Band, unico album dei Deep Purple in cui aveva suonato il magico Tommy Bolin. Quello che ci voleva per rendere piacevole il viaggio.
Attese che le prime note di Dealer partissero.
– L’ho quasi terminato – disse.
– Cosa?
– Il libro su Tommy.
– Bravo. Non vedo l’ora di leggerlo. E poi? Cosa ne farai?
– Ho già due o tre editori che mi stanno alle calcagna – mentì Vito.
La sua Duetto sfrecciava ai centottanta all’ora. In poco meno di un’ora avrebbe raggiunto il confine.
Passò come un siluro di fronte alla piazzola di servizio di San Cristoforo. Vide con la coda dell’occhio Manfredi. Il commissario attese qualche attimo prima di porsi all’inseguimento. Aveva noleggiato una Alfetta 2000 nuova di pacca, tinta avorio, con sedili in pelle marroni.
– Bastardo! – pensò Vito.
Ma lo avrebbe condotto sulla pista sbagliata. Oramai la sua agenzia di spettacolo era aperta. Che altro serviva di più agli sbirri per capire che voleva organizzare concerti? Da lì avrebbe tratto i suoi guadagni, lì avrebbe investito i suoi soldi.
Per circa venti chilometri continuò a sbirciare nel retrovisore. Manfredi lo raggiunse più o meno all’altezza di Spotorno. Quando vide il culo della Duetto si tenne a debita distanza.
Vito pensò a come seminarlo. Ma ne aveva di tempo, mancavano ancora cento chilometri al confine.
Superò sulla destra due camion e poi un pullman di turisti. Voleva frapporre un po’ di traffico tra lui e il commissario. Manfredi non si lasciò intimorire. Proseguì la sua corsa imperterrito, sicuro del fatto che Vito sapeva di averlo alle costole.
Vito, dal suo canto, mantenne una velocità costante.
L’Alfetta era sempre lì a circa mezzo miglio.
Scognamiglio seguiva i due senza farsi notare.
Un viaggio di tre quarti d’ora. Giusto il tempo per Vito di ascoltare tutto il secondo album dei Led Zeppelin. Il loro secondo LP. Chiamato semplicemente Second. E di elaborare un piano per sviare le indagini.
Tre auto a circa duecento metri l’una dall’altra. L’Alfa Duetto, l’Alfetta e la Ford Granata con la sua potenza di 96 cavalli su cui viaggiava Scognamiglio.
La prima traccia del disco: Whole lotta love. Il secondo Lp degli Zeppelin. Vito sorrise mentre le note di Whole Lotta Love riempivano l’abitacolo. Quell’album per lui era un capolavoro, un punto fermo, una sequenza di brani che sfiorava la perfezione. Nella sua personalissima classifica al di sopra di Page, Plant Jones e Bonham per lui c’erano solo gli Stones e l’album Bianco dei Beatles, tutto il resto era alle spalle. Gli Zeppelin erano figli diretti del blues americano e Jimmy Page era cresciuto con la musica di Muddy Waters e Willie Dixon. A dire il vero alcuni riff erano più che un omaggio ai grandi padri neri e prima o poi qualcuno si sarebbe accorto che la sequenza di accordi di Whole Lotta Love ricordava mooolto da vicino un vecchio brano di Dixon, ma, a parte questo, la loro musica catturava appieno la ribellione della fine degli anni ’60. In poco più di due anni, dal ’69 al ’71, scrissero la loro storia con quattro album senza nome chiamati dai fan semplicemente con la successione numerica. Per Vito Second rappresentava il culmine. Molte volte si era ritrovato mentalmente a stilare una piccola classifica di brani degli Zeppelin: almeno 6 pezzi di quell’album meritavano di stare nei primi dieci. La prima facciata continuava con What is and What should never be, una dolce ballata costruita sulla voce di Page e su una chitarra acustica quasi accennata, poi The Lemon Song, Thank You, Heartbreaker.
Vito si rilassò dimenticando per un po’ Manfredi che lo seguiva.
Sei anni prima, il 5 luglio del ’71, Vito era fuori dal Vigorelli in una Milano sconvolta dal caldo ad aspettare i Led Zeppelin nel loro primo tour italiano. Gli organizzatori, gli stessi del Cantagiro, avevano deciso di anteporre al concerto l’esibizione di alcuni artisti nazionali tra cui spiccavano Gianni Morandi e Albano. Praticamente una fucilazione in piena regola. Le urla di protesta vennero soffocate dalle cariche della polizia. Il concerto saltò.
L’area di servizio! L’ultima prima del confine. Un’intuizione improvvisa.
Senza neppure avvisare Riccarda, Vito svoltò all’improvviso.
– Qui almeno il caffè possiamo berlo. Quello francese mi fa schifo – sentenziò.
Vide l’auto di Manfredi proseguire in autostrada.
Manfredi imprecò. Non potendo inchiodare decise che avrebbe atteso Vito alla barriera doganale.
Vito, osservando quella mossa, sorrise.
Scognamiglio annotò la circostanza come “fatto anomalo – proseguire verso il confine quando il pedinato si è fermato alla stazione di servizio”. Lo scrisse con non poco godimento, nel posteggio dell’autogrill in cui Vito aveva fatto una sosta.
È fondamentale – Manfredi lo avrebbe più tardi imparato a suo spese – che chi lavora per la Giustizia sappia agire con equilibrio, dosando acume investigativo e pacatezza. Spesso, magari inconsapevolmente, per un eccesso di zelo o, nei casi peggiori, in assoluta malafede, talvolta non disponendo degli strumenti morali necessari, chi è deputato all’accertamento dei fatti confonde l’intransigenza con l’accanimento, la rigorosità con la cavillosità, la solerzia con la pignoleria. E agisce di conseguenza. E quanto è maggiore la soddisfazione per l’incarico ricevuto e la stima riposta in lui da chi glielo ha affidato, tanto più aumenta il desiderio di far bene e di arrivare presto a una conclusione per compiacere il proprio mandante: cercando scorciatoie e omettendo verifiche. Gli accadimenti oggettivi vengono così abilmente storpiati, piegati, forgiati, interpretati a uso e consumo di menzognere ricostruzioni, finendo per ritenere scontato quello che invece è ancora tutto da dimostrare. Così il procedimento s’inverte: anziché partire da dati concreti e di concatenarli sulla base di soggettive (e quindi mutevoli) interpretazioni, si opta per la strada più semplice e meno ostica, travisando quei dati per farli rientrare a forza dentro una preconcetta verità.
E stranamente la finzione è più inattaccabile della realtà, più resistente di ogni obiettiva evidenza specie quando la sottende una non dichiarata e non manifesta animosità.
Perché demolire chi a sua volta lavora per la giustizia aumenta la soddisfazione di chi colpisce, quasi che l’affermazione della propria versione della realtà (si tratta sempre di versioni) doni un senso di preminenza, di vittoria, come due leoni maschi che si affrontano: sgomberato il campo da uno, l’altro si sente trionfante.
Per Manfredi tempo dopo questo avrebbe significato trovarsi scaraventato nella situazione più umiliante in cui possa trovarsi un pubblico ufficiale: apporre la propria firma sotto la dicitura “l’indagato”, anziché sotto quella “il verbalizzante”.
Cardellino bevve il caffè con estrema tranquillità.
Scognamiglio annotò che Manfredi, volutamente, lo aveva lasciato andar via. In poche parole, storpiò quella circostanza per adeguarla alla dinamica che già aveva in mente.
Vito salì in auto, sorridendo al pensiero del commissario che lo attendeva alla barriera doganale dell’autostrada.
Scognamiglio attese qualche minuto e partì.
Vito uscì dall’autostrada a Ventimiglia.
Scognamiglio tornò indietro.
C’era una temperatura estiva. Riccarda si accese un’altra sigaretta e chiese a Vito di abbassare il tettuccio.
Vito ubbidì. Mancavano trenta chilometri a Villefrance. Appena oltrepassato il confine sembrò loro di essere su un set di Hollywood: i riflessi del sole sul mare, le palme, le aiuole fiorite. Ora la litoranea procedeva con il suo groviglio di curve a gomito, scorci del mare tra scogli scuri e terra rossa ricca d’argilla. La basse corniche offriva lo spettacolo entusiasmante del mare cristallino tra le rocce rosse.
La strada era la stessa in cui Hitchcock aveva girato la famosa scena di Caccia al Ladro soltanto ventidue anni prima.
Vito amava quel pezzo di costa così vicino alla Liguria ma così diverso. Era strano pensare che fosse lo stesso mare, la stessa acqua. Gli abusi edilizi della ’ndrangheta avevano toccato soltanto le coste liguri, deturpando con enormi casermoni di cemento paesetti come Borghetto Santo Spirito o Bordighera. Forse, mettere al confino certi malavitosi, non serviva ad altro che ad agevolare i loro traffici e ad affossare definitivamente il turismo.
– Guarda se trovi una cassetta con scritto Keith e passamela – disse Vito a Riccarda.
Riccarda obbedì.
Passò la cassetta a Vito che la infilò nello stereo. Partì Hot stuff, dall’ultimo e ottimo album Black and Blue, secondo Vito un lavoro da quattro stelle, secondo i critici, l’ennesima prova deludente di una band considerata, a torto, sulla via del declino.
Vito si lasciò andare al riff di Keith, per lui quell’album era il più “nero” degli Stones dai tempi delle cover dei primi anni. Ancora una volta quei due ragazzacci di Mick e Keith, erano avanti migliaia di anni luce da tutti gli altri ed avevano dato alle stampe un piccolo “bignami” di musica sexy e lasciva, ritmi caraibici mischiati a chitarre distorte con la batteria del vecchio Charlie che scandiva il tempo da protagonista.
Cullati da quella musica Vito e Riccarda si erano lasciati alle spalle Monaco, Fontveille, Eze, Beaulieu sur Mer e infine la baia di Cap Ferrat.
Qui giunti Vito s’infilò in una stradina laterale adocchiando il cartello con la scritta Villa Nellcote. Era lì, sul vecchio muretto in pietra sormontato dall’inferriata. Poi il cancello e il meraviglioso giardino con alberi secolari. Erano finalmente giunti a quella che era stata la residenza dei Rolling Stones.
Lasciarono l’auto e si avviarono a piedi.
– Keith Richards – disse Vito – vi abitò durante l’estate del 1971 e lì, insieme agli Stones scrisse e registrò l’album Exile On Main St, una pietra miliare del rock. La villa apparteneva a un ex gerarca nazista. Possedeva uno sbocco privato sul mare. Fu scelta come sede per la registrazione dell’album unicamente perché Keith non era assolutamente in grado di muoversi da lì, stracotto dagli stupefacenti, ed era più facile che gli altri componenti della band lo raggiungessero.
Tra l’altro, tutti loro avevano lasciato l’Inghilterra, consigliati dai loro fiscalisti, per sfuggire alle tasse. Prima di scegliere la villa, ne videro anche un’altra in Italia, sul litorale romano, ma fu scartata per ragioni di sicurezza. L’Italia, sei anni fa, era un po’ turbolenta. Non che adesso le cose siano cambiate in meglio, ma temevano un rapimento.
Vito si avvicinò al cancello e sbirciò dentro.
– Sai, – aggiunse – una sera ho conosciuto Tony Sanchez, il loro autista tuttofare. Eravamo in un bar. Ci siamo messi a parlare tra una birra e l’altra. Per fartela breve mi ha invitato qui, avevo soltanto diciannove anni. Sai chi c’era dentro?
Riccarda fece no con la testa.
– Dentro c’erano: Gram Parson, un chitarrista americano amico di Keith, Peter Sellers, l’attore della Pantera Rosa, Marlon Brando, ma era di spalle, non so se fosse proprio lui, perché poco dopo uscì con una biondina e se ne andò. Sul bordo della piscina c’era Alain Delon, la cui moglie, forse non lo sai, era ottima amica degli Stones. Tu non ci crederai ma sul divanetto accanto alla vetrata c’era Paul Getty, il nipote del petroliere, quello a cui due anni dopo, nel 1973, i rapitori tagliarono l’orecchio per farsi pagare il riscatto.
Vito stava recitando la solita parte di Mister Rock, il suo alter ego, inventando luoghi e situazioni a beneficio del suo pubblico. Un pubblico scarno, come in questo caso, ridotto ad una sola ascoltatrice, ma in estasi.
Rimasero lì incantati ad ammirare l’ingresso con le sfingi e la piscina, il mitico colonnato con la cantina che gli Stones allestirono a studio di registrazione, il prato all’inglese come se tutte quelle celebrità citate da Vito si fossero materializzate all’istante e invece che il rumore del mare, in sottofondo, si ascoltasse Happy, uno dei brani simbolo di quell’album.
Mentone, ore dodici
Un concitato commissario Manfredi afferrò la cornetta del telefono pubblico ed estrasse dalla tasca un foglio di carta su cui era annotato un numero.
Lo compose.
– Monsieur Cocteau, je suis Manfredi, je… ehm…
– Parli pure in italiano, Manfredi, conosco bene la sua lingua.
– Meno male. Non avrei saputo come andare avanti.
Sudava così tanto da inzuppare il fazzoletto di cotone. Avrebbe potuto strizzarlo. Già immaginava i rimproveri del Giudice Toccalossi, la boria con cui lo avrebbe guardato.
– È successo qualcosa?
– Si tratta di Cardellino. È arrivato in Francia.
– Lo sappiamo.
– Come, lo…
– Due miei uomini sono a Villefranche e lo stanno tenendo d’occhio.
– Scusi, ma come…
– Prevedevamo che avrebbe potuto seminarla. Il Giudice Toccalossi ci aveva avvisato e così abbiamo messo qua e là delle pattuglie in borghese, ai vari valichi.
Che figura! Dunque Toccalossi non si fidava di lui e aveva previsto che avrebbe potuto fallire.
Passò nuovamente il fazzoletto madido di sudore sulla fronte. Anche le mani gocciolavano.
– Stia tranquillo. È tutto a posto. Ora Cardellino è a Nizza, seduto al tavolo di un ristorante.
– Pare evidente – scrisse Scognamiglio nel suo rapporto – l’intenzione del commissario Manfredi di precostituirsi una scusa, avvisando le Autorità francesi circa l’ennesimo fallimento del suo inseguimento. Un alibi per coprire le sue malefatte.
Nizza, ore dodici
Cardellino teneva il menu di fronte agli occhi. Il cameriere aveva stappato le due bottiglie di Perrier versandone il contenuto nei bicchieri con ghiaccio e limone.
Vito continuava a guardare nel vuoto. Aveva già scelto: un’insalata di mare e una crêpe al formaggio. Il sole, attutito dalla stoffa avorio degli ombrelloni quadrati, spezzava in due il marciapiede del dehors, in un gioco di ombre e di luci che lo rendevano simile a una scacchiera. Fingeva di leggere ma guardava altrove. A destra, dove una viuzza in salita confluiva nella piazzetta, a sinistra, dove il furgoncino della posta stava incrociando quello della nettezza urbana. Passò dunque il farmacista in bicicletta. Anche mesi prima era stato così. In ogni precedente sopralluogo. Posta e nettezza urbana. I due mezzi da lavoro intrecciavano le loro traiettorie occludendo la vista.
– Hai deciso cosa prendere?
La voce di Riccarda lo fece affiorare dai suoi pensieri.
– Un’insalata di mare e una crêpe al formaggio… e una birra. Quest’acqua è troppo gasata.
– Anche per me, allora. Che hai? Sembri strano.
– Io? Sto bene qui con te. Anzi, sai che ti dico? Dovremo tornarci qui, in questo posto. Magari la settimana prossima.
– Anch’io sto bene.
– E allora perché non…
– Ne abbiamo già parlato, Vito – lo interruppe Riccarda – non voglio spingermi oltre.
Riccarda sfiorò la mano di Vito. Lui si allungò verso di lei e la baciò.
L’occhio del teleobiettivo li immortalò in quell’istante. Prima che lei si ritraesse a schivare quel bacio che restò per alcuni istanti sospeso nel vuoto e poi crollò a terra senza alcun rumore.
Genova, lunedì 23 maggio 1977, mattina
Era una mattina tersa. La mattina del suo trentesimo compleanno. Ma, anziché felice, Manfredi si sentiva depresso. Camminava sotto i portici di via XX Settembre con lo sguardo mesto e le mani in tasca. Il Questore era stato chiaro. La sua affermazione non lasciava adito a dubbi.
– Ho avuto lamentele su di lei, commissario. Il Giudice le vuole parlare. L’ha convocata nel suo ufficio. Adesso!
Così Manfredi si stava avviando sconsolato dentro quel palazzo tetro con l’animo di chi sa cosa l’aspetta.
Toccalossi non gli diede nemmeno il tempo di rispondere.
– Lei è un incapace – esordì.
Tutto quello che venne dopo Manfredi finì per non sentirlo. Come chi si trova disperatamente dentro un mare agitato e smette istintivamente di respirare con la bocca per l’improvvisa chiusura di qualche misterioso meccanismo dentro la gola, il commissario subì un’analoga e momentanea sospensione dell’udito.
Toccalossi sembrava l’attore di un film muto. Muoveva le bocca ma le parole non arrivavano alle orecchie di Manfredi.
Il tutto durò una decina di minuti.
Si accorse che Toccalossi aveva smesso di rimproverarlo soltanto quando vide le sue labbra chiuse. Non si muovevano più. Erano ferme. Il Giudice si era sfogato.
Lo salutò sommessamente e uscì.
Quando il commissario raggiunse la scala in fondo al corridoio e sparì dietro l’angolo, Scognamiglio si precipitò nell’ufficio di Toccalossi.
Il Giudice aveva estratto il rapporto dal cassetto della scrivania e lo stava rileggendo, per la terza volta consecutiva.
– Permesso?
Toccalossi sollevò gli occhi.
– Si accomodi, brigadiere.
Il sottufficiale entrò con lo sguardo visibilmente inorgoglito.
– Ha letto, Giudice?
– Ottimo lavoro.
– Ha visto? Ho anche allegato un piccolo calcolo: Manfredi è stato con quella ragazza nel vicolo… ah, a proposito, il suo nome vero è Annunziata, ma si fa chiamare Angela… almeno una dozzina di volte. Come può permetterselo con il magro stipendio che percepisce? E in più deve pagare l’affitto e tutte le altre spese: l’auto, le bollette…
– Sì, ho notato.
– Quello è a libro paga di Cardellino. Ci metto la mano sul fuoco. E ha visto cos’è successo nell’ultimo inseguimento in Francia?
– Sì. Se lo è fatto scappare.
– Ha proseguito volontariamente e poi, per crearsi un alibi, ha telefonato a Cocteau.
– L’ho notato. Bene, brigadiere. Continui a seguirlo.
– Agli ordini, Giudice. Ah… scordavo… a fine mese ci saranno gli scrutini, per merito comparativo. Mi sa che stavolta i gradi da maresciallo non me li leva nessuno.
Toccalossi sollevò entrambi i sopraccigli.
Il brigadiere era fermo sulla soglia, tronfio, soddisfatto.
Quando Scognamiglio uscì, lo sguardo di Toccalossi si fissò sull’immagine appesa alla parete della stanza sopra la scritta la legge è uguale per tutti: una bilancia. L’immagine stessa della Giustizia. Due piatti contrapposti, in perfetto equilibrio. Non era quello il motivo per cui vi erano due corpi distinti e separati a tutela della legalità? Poliziotti e carabinieri. Nessuno doveva prevalere sull’altro. Bastava un nulla, un soffio, il peso di una piuma a incrinare la simmetria.
Allora, in quel preciso istante, in quella frazione di tempo effimera e passeggera, destinata per sua natura a finire nel dimenticatoio come tante altre, ebbe una di quelle premonizioni capaci di cambiare il corso degli eventi. Una specie di illuminazione. Quell’immagine e la conseguente riflessione che ne sortì, si sarebbe stampata a fuoco nella sua mente, e lui, benché giovane e ingenuo, capì l’importanza e la delicatezza del suo lavoro: giudicare! Decidere della vita delle persone. Analizzare le loro azioni. Tentare di comprenderle. Che ne sapeva lui di Manfredi? Cosa conosceva di quell’individuo? Nulla. Per quale motivo, la sera, trovava piacere a frequentare una prostituta? Si sentiva solo? Amava il rischio? Sentiva la necessità di far scorrere l’adrenalina nel suo corpo? Era davvero un corrotto?
Sollevò la cornetta del telefono e infilò il dito nella rotella per comporre il numero.
– Mi passi il Questore. – ordinò – Sono il Giudice Toccalossi.
Mezz’ora più tardi il fascicolo personale del commissario era sul suo tavolo.
Toccalossi lo collocò accanto ai rapporti di Scognamiglio.
Da quei fogli avrebbe cercato di dedurre delle risposte.
I fogli! Le risposte!
Nessun giudice ha mai la possibilità di vedere i fatti come si sono svolti (quanto sarebbe semplice, altrimenti!) ma soltanto la descrizione che di essi viene fornita attraverso le carte. Un filtro. C’era il filtro della narrazione tra i fogli e i fatti. L’opaca velina della rappresentazione. A lui spettava il compito di sollevarla, con certosina meticolosità, per rendere nitida l’immagine.
In quel momento maturò in lui una convinzione destinata con gli anni a rafforzarsi e a nutrirsi di esempi: per qualche inspiegabile motivo ai tutori della legge non è concesso avere una vita privata, specie se questa implica una relazione pruriginosa. Da essi si pretende il massimo della trasparenza. Ogni piccola incrinatura della loro esistenza, che si suppone immacolata, può scalfire tutto il loro operato. Il funzionario frequenta le prostitute? È un immorale, un laido, un poco di buono. Se fa quello chissà di cos’altro è capace. Questo pensa la gente. La gente che non sa, non immagina, che la vita può essere (anzi, spesso è) a comparti stagni. Finito il lavoro, l’onesto commissario torna a casa e deve fare i conti con la sua solitudine, con le formichine che sente correre nella testa e, per non impazzire, esce. Ma non sa dove andare. Vorrebbe parlare ma non sa con chi. Gradirebbe dimenticare tutte le sue angosce, i suoi fallimenti, quella vita che lui sa non essere più sua, qualcuno gliel’ha rubata, ne ha fatto ciò che ha voluto tradendo i suoi sogni, le sue aspettative, i suoi entusiasmi. E una sera, vagando nei vicoli, il commissario incontra una donna che per mezz’ora gli fa dimenticare tutto: la nostalgia di casa, gli affetti lontani, i suoi tracolli, le sue ansie, l’odore salmastro di una città che non gli appartiene e mai gli apparterrà, è soltanto una tappa della sua carriera… carriera! Un ripiego, piuttosto quel lavoro, ben altre previsioni aveva formulato per sé, aveva immaginato, ma intanto deve stare lì, non sa nemmeno lui per quanti anni ancora, con i calzini sudati nelle scarpe da risuolare, con le rate da pagare alla vita, perché la vita costa e non ti concede sconti e il volto sorridente di quella ragazza per lui è quasi un regalo, qualcosa che la vita non aveva messo in conto, una svista, la sua pelle nuda, bianca, la sua giovinezza come un fiore che può tenere tra le mani e ne è orgoglioso, con tanta paura di sciuparlo, perché ha già sciupato la sua, di giovinezza, il commissario, e ora teme di rovinare anche quella della ragazza e allora usa qualunque delicatezza, la sfiora, l’accarezza, le passa il dito sul palmo della mano, quel delicato, asciutto, palmo della mano, lo lambisce con il polpastrello, c’è tanta energia nel palmo della mano, l’amore da lì passa attraverso il suo polpastrello e si dirama in tutto il corpo, sente un brivido nella schiena, e lei sorride (da quanto tempo non vedeva una ragazza giovane sorridere, sorridere a lui, come se all’improvviso dieci anni della sua vita si fossero cancellati e lui non fosse un burocrate fallito ma un allegro giovinotto di vent’anni, tutto denti bianchi e capelli, capelli lunghi) e si apre uno di quei buchi neri del tempo che inghiottono tutto quello che sta attorno e per mezz’ora loro due sono sospesi dentro l’infinito. E nessuna voglia di atterrare.
Bello, piuttosto bello. Tanto che la sera seguente il commissario è di nuovo lì a cercare quell’artificiosa felicità come un fumatore alla seconda sigaretta, perché qualunque dipendenza nasce dal piacere iniziale, ma ecco…
Ecco che al funzionario non si perdona, al tutore della legge non si concede di essere caduto nel vizio, lo si pretende rigoroso, forte, incontaminato, morigerato, virtuoso. Sempre. Una macchina programmata e non un umile, semplice, meschino essere umano.
In quel momento, per quanto giovane, Toccalossi capì. Quello fu il primo scalino della difficile ascesa verso la comprensione.
Comprendere non giudicare, magari punire sì, perché è anche questo il lavoro di un giudice, ma soprattutto capire. Un’operazione non facile. Piena d’insidie, di trabocchetti, di fallaci conclusioni. Un compito che solo chi è predisposto può realizzare. Ci vogliono anni, a volte tutta una vita per raggiungere l’equilibrio, ma Toccalossi si accorse di essere sulla buona strada.
La saggezza, come un frutto, matura con l’età ma può fiorire, soltanto così germoglia, laddove siano contenuti all’interno dell’animo umano i preziosi semi dell’indulgenza.
Pomeriggio
Manfredi continuava a fissare il cartellone con le foto dei sospetti che s’infittiva di nuovi personaggi. Bel modo di festeggiare il compleanno! Quell’Esposito, ad esempio, il maresciallo della Finanza. Cosa avrebbe fatto per riuscire a incastrarlo, per dimostrare la sua connivenza con i fratelli Cardella!
“Quanto è più grave l’omissione” pensò “rispetto all’azione. Chi agisce perlomeno si mette in gioco, rischia. Ma chi fa finta di non vedere… beh, quelli sono i peggiori. Chiudono gli occhi, si girano dall’altra parte, non prendono posizione”.
I fratelli Cardella si esponevano ma tutto quello stuolo di omuncoli prezzolati, quella pletora di soldatini corrotti erano la vera piaga da sconfiggere.
Parodi, arrivando dall’archivio, entrò nella stanzetta con un faldone in mano.
– È una cosa fatta a belin de can.
Manfredi si voltò verso di lui esterrefatto.
– Come?
– È una cosa fatta male – tradusse Parodi.
– Cosa?
– Quel tabellone con le foto.
Il commissario guardò nuovamente il foglio di carta da pacchi su cui erano appiccicate con la colla le fotografie.
– E perché?
– Fâ rië o belin, fa ridere i polli.
Manfredi tentò di capire.
– Scia me scuse, me son levâo cö belin amäo, mi sono alzato storto, stamattina.
– Mi vuole spiegare, Parodi?
L’archivista si concentrò per tentare di esprimersi senza l’uso del dialetto.
– Mancano troppe foto in quel tabellone. Per raccogliere tutti quelli coinvolti nel giro non basterebbe l’intera parete. Guardi qua: – disse aprendo il faldone – ho raccolto un po’ di relazioni delle pattuglie e degli altri uffici e questo non è che uno dei tanti incartamenti che ho giù: venditori abusivi, prostitute, negozianti, metronotte, cittadini comuni, la distinzione tra attività lecite e illecite nei carruggi è sottï comme i péi do belin de ’na mosca.
– Come ha detto?
– Ho detto che la distinzione tra…
– Quello l’ho capito… dopo…
– Dicevo che è sottile.
– Sì, ma poi ha aggiunto qualcosa.
– È sottile come i peli del b… ehm… del pube di una mosca.
– Bella metafora.
– Grazie.
Parodi oltre che addetto all’archivio era un appuntato alla soglia della pensione. Per trentadue anni aveva prestato servizio attivo, in mezzo alla strada, e conosceva bene i meandri della città. Ma soprattutto conosceva bene le persone. Poi un infortunio, una frattura mal rimarginata e i vari acciacchi conseguenti lo avevano costretto a quel lavoro sedentario. Non aveva perso però il suo acume investigativo. Pertanto aveva preparato una mezza dozzina di faldoni raccogliendo tutte le segnalazioni relative alle attività illecite riconducibili ai fratelli Cardella. Un lavoro immane, estenuante e preziosissimo. Perché è sulla base delle carte che i giudici formano il loro convincimento. Lo aveva imparato grazie alla sua lunga esperienza. E per eliminare ogni possibile incomprensione aveva evitato di redigere una nota con le sue conclusioni, tenendosi lontano dall’introdurre qualunque velo interpretativo, limitandosi a raccogliere gli atti, lasciando al Giudice il compito di leggerli e formarsi una sua idea.
– Comunque lo so anch’io. Un certo sistema fa comodo a tutti. Ci lamentiamo, ad esempio, se qualcuno si ferisce con i botti a capodanno, ma poi siamo tutti a cercare quelli più potenti e luminosi. E dove li cerchiamo? Nei carruggi, dai venditori abusivi che a loro volta si sono riforniti dai fabbricanti non autorizzati. E succede così per mille altre situazioni. Le sigarette, ad esempio. Meglio comperarle di contrabbando a prezzo inferiore che arricchire lo Stato. È il cliente a creare il mercato… bisognerebbe sapere qual è la soglia da non valicare, ma a tal fine non sono sufficienti le leggi. Ognuno ha il suo limite. Acquistare oggetti rubati? Lo fanno in molti. Ti hanno rubato l’autoradio? Vai nei vicoli e ne comperi un’altra a sua volta rubata. È un cane che si morde la coda. Più aumentano i furti, più aumentano gli acquirenti. Eppure, a rigor di legge, il cittadino che acquista un oggetto rubato rischia addirittura più di chi ruba: il primo è un ricettatore, il secondo un ladro. Dobbiamo porre un freno a…
– Ti te l’ ae mai visto o belin a-o ciaeo da lûnn-a? – lo interruppe Parodi.
– Eh? Cosa?
– Intendevo dire che è un’impresa impossibile.
– Ah! E come si è espresso?
– Dicevo… è impossibile vederselo con la luce della luna.
– Il belin?
– Esatto.
Manfredi si accomodò su una sedia. Fece un grosso respiro, poi chiese:
– Parodi, mi scusi, con tutto il bene che le voglio, sarebbe così gentile da spiegarmi come mai in ogni vostra espressione ricorre la parola belin? Non che mi dia fastidio, ma vorrei, se possibile, conoscere quanti significati ha.
Parodi si accomodò a sua volta.
– Ci vorrebbe troppo tempo. Vede, commissario, io ho qualche anno più di lei e mi sono accorto di una cosa: il confine tra lecito e illecito è sottile…
– Sì, ho capito come. Come i peli eccetera eccetera.
– Il problema è che, tra non molto, nei vicoli circolerà la droga in quantità industriale. Anzi, già da qualche tempo i giovani vanno lì per assicurarsi la dose. Il mercato fornisce alle persone quello che le persone vogliono. Cercano l’eroina? Lì la trovano. Come adesso trovano le sigarette o i jeans contraffatti o qualche pezzo di fumo. Qui tutto è destinato a cambiare. Provi a osservare cosa succede in altre città. Tra qualche anno ci vorrà la scorta per entrare nei carruggi. Mi creda, commissario, tre o quattro anni e dei fratelli Cardella non sentiremo più parlare. Stanno arrivando altre persone…
– Pensa che sia una battaglia persa, Parodi?
– Io non penso niente. Mi limito a constatare. Quando sarò in pensione la rimpiangeremo la Genova di adesso.
– Lei dice?
Parodi si alzò.
– Beh, basta fâ di discorsci do belin. Basta parlare di queste cose. Torno giù in archivio. Ho mille cose da sbrigare. Devo raccogliere ancora tanti rapporti, come mi ha chiesto lei.
– E la mia lezione sul dialetto genovese?
– Commissario, sciûsciâ e sciorbî no se pêu.[1]
Manfredi quest’ultima cosa non la capì. Provò a ripeterla – sciusciàesurbi – borbottò – ma ne uscì soltanto un suono incomprensibile. Ricominciò a guardare le foto.
Genova, lunedì 23 maggio 1977, sera, ore ventuno
Le ventuno. La sigla: un pezzo di Jimi Hendrix, dal sound inconfondibile Bold as love.
Il loro slogan di sempre: – “Benvenuti al popolo della notte. Un ciao da Alfa…
– … e un saluto da Mister Rock.
Nerone cominciò:
– Caro Mister Rock, ti giro una lamentela che mi è giunta da uno dei nostri tanti ascoltatori. Com’è che non trasmettiamo mai musica italiana?
Mister Rock impostò la voce prima di rispondere.
– Perché il rock in Italia è morto, o meglio, non è mai nato.
In sottofondo Dear Mr Fantasy dei Traffic utilizzata come base.
– Quindi, secondo Mister Rock, non si può parlare di rock in Italia?
– Voglio fare un regalo a tutti gli amici ascoltatori e dedicare loro, in un’unica serata l’intera storia del rock.
– Un progetto ambizioso! – lo interruppe Nerone.
– Tu hai altri impegni per questa notte, Alfa?
– Direi di no.
– E allora prepariamoci a fare l’alba.
– L’alba? Cosa preparo di Elvis? – domandò Alfa sicuro che quello fosse l’inizio giusto di una dignitosa storia del rock.
– Nulla. Elvis è solamente una tappa. Il vero inizio è negli anni ’30, sul delta del Mississippi.
Qui partirono le note di Mannish Boy di Muddy Waters.
Manfredi alzò il volume.
Si era steso sul letto per riposarsi un po’.
L’afa aveva riempito di umidità la sua stanza. Si alzò e aprì la finestra. Sentiva la cervicale dolergli.
– Tanananana, tanananana, when I was a young boy tanananana, tanananana…
Quando mai? Quando mai lui era stato un giovane ragazzo? Era nato vecchio. Prima la scuola, poi l’università. Sempre ligio al dovere, alla disciplina. E dopo la laurea il concorso in Polizia.
Si stese nuovamente sul letto. Mister Rock continuò a parlare:
– Questo l’inizio di tutto. L’America razzista, che confinava gli artisti di colore nelle bettole a uso e consumo dei soli neri; le stazioni radio non trasmettevano la loro musica. Riempivano le giornate di Frank Sinatra e Paul Anka.
Soltanto una decina di anni più tardi i primi cantanti di colore ebbero l’opportunità di entrare in sala d’incisione, ma la loro musica era confinata alle sole stazioni radio di musica nera. Era il blues. Ci volle il coraggio di un piccolo impresario bianco, un certo Sam Philip, che io conobbi e convinsi a entrare in uno di quei locali dove una sera suonava Willy Dixon. Rimase stregato a tal punto che volle subito scritturarlo. Ma la sua musica non poteva uscire dai confini di quel ghetto in cui era stata relegata. Ci voleva qualcuno che la sdoganasse, un bianco. E il bianco arrivò. Si chiamava Elvis, era un diciassettenne timido che voleva fare un regalo alla mamma incidendole un disco per il compleanno. Entrò a Memphis, negli Sun Studios che appartenevano al mio amico Sam e quello rimase affascinato. Mi chiamò al telefono. Mi fece ascoltare quella voce. Io gli dissi: “Ok Sam, la voce c’è, ma dobbiamo inventare il personaggio”.
Così prendemmo quello sbarbatello e provammo a fargli cantare Jailhouse-rock, un vecchio blues praticamente sconosciuto.
E qui venne fuori l’idea. Perché Scotty Moore, un chitarrista degli Studios, provò a velocizzare il ritmo del pezzo. Il ragazzino cominciò a muovere i fianchi con gli occhi chiusi, completamente rapito dalla musica.
In quel momento capimmo che era nato il rock and roll.
– E allora – disse Alfa – chiudiamo gli occhi, fingiamo di essere a Memphis e ascoltiamo anche noi questo Jailhouse-rock.
Manfredi si infilò sotto la doccia.
Il volume della sua radio era al massimo.
Il suo vicino di casa, il maresciallo Esposito, picchiò sul muro per farglielo abbassare.
L’acqua scorreva sulla sua schiena, fresca, rilassante.
Anche lui chiuse gli occhi e cominciò a canticchiare.
Il brano sfumò.
– Ma è stato così importante Elvis nella storia del rock? – chiese Alfa – A me, vedendolo adesso, pare soltanto un signore imbolsito che scimmiotta se stesso.
– Quello che adesso sale sui palchi dei casino di Las Vegas non è il vero Elvis. Il vero Elvis era quello vestito di nero che durante i concerti mimava l’amplesso, costringendo le telecamere a oscurarlo per non farlo entrare nelle camere dei teen-agers. Per tornare a quegli anni ecco tre pezzi del King: That’s all right, Blue Suede Shoes e In the Ghetto.
Tre brani di sconosciuti musicisti neri che Elvis ha trasformato in altrettanti successi.
Partirono le note di That’s all right.
Manfredi uscì dalla doccia. Si stese nuovamente sul letto, nudo, bagnato. Mangiucchiò delle noccioline trangugiando una birra gelata.
Telefonare a Lucky? Sì, avrebbe potuto farlo, ma avrebbe dovuto attendere che i suoi fossero a dormire. Non sopportava la voce della sua futura suocera, i suoi rimproveri, le sue lamentele. Meglio attendere ancora.
Magari uscire. Camminare, rinfrescarsi le idee.
Si vestì con estrema lentezza. Dalla radio partirono le note di Blues suede shoes.
Esposito bussò nuovamente sul muro.
Il telefono suonò all’improvviso.
– Pronto?
– Signor commissario, sono Nesci dal centralino, le devo passare il Questore.
Manfredi ingoiò l’ultima nocciolina.
– Passamelo.
– Manfredi, cosa fa a casa? – esordì il Questore – Non dovrebbe essere appostato per seguire Cardellino? Ho ricevuto lamentele dal Giudice Toccalossi su di lei.
– Lo sto facendo – rispose Manfredi.
– Ma se lei è a casa. Mi prende per il culo?
– Cardellino è in radio. Lo sto ascoltando. Battiston lo ha seguito finché è entrato. A giudicare da quello che dicono sembra che ne avranno per un po’. Forse faranno l’alba. Anzi, sicuramente.
– Guardi che la tengo d’occhio, commissario. Non mi faccia fare brutte figure con la Magistratura. Se è soltanto per ascoltare la radio, può anche farlo dall’ufficio. Ci sono un po’ di carte da firmare.
– Agli ordini – rispose Manfredi imprecando mentalmente.
Mezz’ora dopo era nel suo ufficio a sbrigare alcune pratiche urgenti.
Accese la radio sulla mensola.
– Yesterday all my trouble seemed so far away…
“Chissà cos’hanno trasmesso tra Elvis e i Beatles?” pensò Manfredi.
Ebbe tutto il tempo di gustarsi la trasformazione dei Beatles da semplice boys band a punto fermo del movimento rock.
– E allora, Mister Rock – intervenne Alfa – qual è stato il punto di svolta che tu definisci epocale nella storia musicale dei Beatles?
– Rubber soul, il titolo dell’album e se mi chiedi una canzone ti dico Eleanor Rigby, primo brano in cui nessuno dei quattro suona. La melodia è eseguita da un’orchestra su cui s’inseriscono le loro voci.
– E allora ascoltiamo Eleanor Rigby…
Salì a bordo della sua 128, mise in moto e si diresse verso la zona del porto. Le ragazze erano lì. Per strada. Con i loro abiti succinti, i loro tacchi, la loro mercanzia in bella mostra.
While my guitar gently wheeps di George Harrison, dall’album Bianco.
Si sorprese a congratularsi con Mister Rock per le ottime scelte.
Lo ascoltò volentieri e con grande interesse mentre raccontava di Eric Clapton, che eseguiva l’assolo di chitarra.
– Hai da dirci qualcosa di più su questo connubio? – domandò Alfa – a cosa è dovuta la presenza di Clapton in un album dei Beatles?
– Non lo sai, Alfa? Ora ti racconto una storia. George ed Eric nel 1968 erano molto amici. Li conobbi al bar fuori dagli studi di Abbey Road, ero andato lì con John che già mi aveva fatto una testa così riguardo ai suoi litigi con Paul, quel povero baronetto, come lo chiamava lui.
A quell’epoca George era sposato con Patty Boyd, una bionda mozzafiato. A Eric non importava nulla di suonare con i Beatles. E infatti sui credits del disco lui non compare. Quello che gli interessava veramente era Patty, la biondona. E difatti, insisti insisti, tempo sei mesi la soffiò a George.
Mi ricordo che io domandai a John: “John, ma com’è che Eric sta sempre appiccicato a George?”. Lui non mi rispose. Ma io avevo già capito.
Un giorno Eric mi chiamò al telefono per farmi ascoltare in anteprima un brano che voleva incidere. “Sai” mi spiegò “lo voglio incidere per Patty. È dedicato a lei”.
“Avanti” gli dissi.
Lui mandò il brano. Era proprio bello. Dopo un paio di minuti gli chiesi:
“Vuoi il mio parere?”.
“Ti ho telefonato per questo”.
“E allora segui il mio consiglio. Tieni ancora un po’ sulla corda Patty. Non mettere il suo nome a questo brano. Io lo intitolerei Layla. E aggiungerei un’altra chitarra”.
Così fu.
– E allora ascoltiamo Layla – intervenne Alfa.
Manfredi sorrise pensando a quanto Vito, alias Mister Rock, fosse sbruffone. Sbruffone sì ma simpatico.
Percorse un tragitto lungo soltanto per aumentare la sua eccitazione. Sapeva perfettamente dove si sarebbe recato. Angela lo stava aspettando. Ne era sicuro.
Le note di Layla gli fecero compagnia sino in piazza della stazione dove posteggiò. Entrò nel vicolo e si diresse nel postribolo.
Angela lo accolse con un sorriso.
La luna brillava nel cielo come un fanale puntato sulle porcherie del mondo. Manfredi baciò Angela. Lei rispose al bacio con passione. Lo spinse sul letto. Si mise a cavalcioni su di lui e iniziò a riempirgli la fronte di baci. Gli strofinava i capelli con le mani. Manfredi era arruffato come un gattino.
– Sto bene, qui con te – disse Manfredi esternando una vena poetica che non sapeva di possedere – mi sembra che il mondo fuori non esista più. Adesso capisco cosa intendeva Gino Paoli quando scrisse ll Cielo in una Stanza. Quel soffitto viola nella stanza di una prostituta…
Angela si allontanò da lui piccata.
Manfredi capì di aver commesso una gaffe.
– … scusa Angela, non intendevo questo. Tu… io… noi… scusa.
– Non preoccuparti, – sussurrò Angela con un tono di voce immobile – sono abituata a essere chiamata così. Ma con te non sto lavorando. Era… pensavo che almeno tu…
– Angela, perdonami. Ti porterò via da questo posto. Vedrai che…
– Lascia perdere. Hai già detto abbastanza.
Manfredi rimase a contemplare il soffitto mentre lei si alzava dal letto per rivestirsi. Ma non era viola. E non c’era nulla di poetico in quel posto. Era un soffitto giallo fumo. Guardò il sedere di Angela scomparire inghiottito dai vestiti. Lei gli lanciò un’occhiata prima di stringere l’ultimo gancetto del reggiseno.
– Dai, vieni qui. Ti ho chiesto scusa.
Angela si fece pregare. Teneva il broncio. Lo aveva in pugno.
– Non voglio fare l’amore, Angela. Voglio stare qui, con te, sdraiato, coccolarti un po’. Magari ci ascoltiamo un po’ di musica. Che ne dici?
E accese la radio. Sintonizzò su Radio Popolo Nuovo.
– … siamo agli Stones, Mister Rock – diceva Alfa – che pezzo suggerisci?
– Satisfaction!
– Sei uno stronzo, – disse Angela rivolta a Manfredi – come tutti gli altri.
– Ti ho già chiesto scusa.
I can’t get no satisfaction, I can’t get no, satisfaction
But I try…
– Vattene.
– Neanche per sogno.
Una lacrima le solcava il viso.
– Mi hai fatto piangere.
– Voglio restare accanto a te, tutta la notte. Non voglio solo il tuo corpo. Te lo dimostrerò. Dai, lasciati accarezzare.
Angela si avvicinò a lui. Poi si stesero sul letto.
La notte scivolò magicamente. L’una.
La moto sfrecciava veloce sull’autostrada.
Sotto il casco Vito aveva un ghigno beffardo. Era riuscito a fregarlo quel Manfredi. Era riuscito a fregarli tutti!
La borsa con i soldi occultata in un’intercapedine, sotto la sella. Cinquecento milioni! Una somma cospicua, che tra poco avrebbe attraversato il confine.
Le voci di Alfa e Mister Rock continuavano ad uscire dalla radio.
– E adesso passiamo agli Who e alla loro rock opera. Conosci l’album Tommy? – chiese Mister Rock ad Alfa.
– E come potrei non conoscerlo?
La moto passò indisturbata alla dogana. Proseguì verso Marsiglia.
– … Pete costruì la sua fortuna su questa storia strampalata del ragazzino cieco sordo e muto. Inutile dirti, Alfa, chi gli ha dato l’idea…
– Tu? – domandò Alfa.
– Preso.
Le due, le tre, le quattro. I gruppi si alternavano in questa fantasiosa storia notturna del rock.
Manfredi baciava Angela con passione, ma senza spingersi oltre.
La moto riattraversò il valico a velocità di crociera. Fece rientro in Italia.
Sotto il casco un sorriso soddisfatto. Le quattro e mezza di notte. C’era tutto il tempo per tornare. Indisturbati.
Le cinque del mattino.
– … e allora, Mister Rock, quale futuro vedi per il rock? Il Punk ti sembra la strada da seguire?
– Non tutto. I Sex Pistols mi sembrano un po’ costruiti. Gliel’ho anche detto a Malcom, il loro manager creatore. “Guarda che stai esagerando”. Ma lui… troppo impegnato a fare cassa.
– E quindi?
– Prendete carta e penna. Segnatevi questi nomi: i Ramones, per la loro allegria, i Clash per la loro intelligenza… non vedo altro, concluse schioccando la lingua. Ma voi ascoltate Tommy Gun e poi ditemi cosa ne pensate.
Le sei. Un raggio di sole s’infilò di sbieco nel vicolo, in quella piccola fessura tra i tetti.
Manfredi salutò Angela con un bacio.
– Buongiorno, amore.
E se ne andò.
Si diresse al posteggio a riprendere l’auto.
Aprì la portiera, si accomodò e accese l’autoradio.
– Concludiamo in maniera insolita, questa mattina, Mister Rock – stava dicendo Alfa – anziché augurare la buona notte, dobbiamo augurare il buon giorno.
– E che buongiorno sia.
– Un ciao da Alfa…
– … e un saluto da Mister Rock.
Proprio in quell’istante Vito abbassò il cursore del mixer, lasciando sfumare la sua voce.
[1] letteralmente: soffiare e succhiare contemporaneamente non si può