Capitolo primo

Procura di Savona, ferragosto, domenica

Le ventidue. La campana del Duomo ha battuto i suoi dieci rintocchi. O è quella del Brandale? Qualunque campana sia, quale giorno migliore?

Chissà se esiste un giorno migliore? Per fare quello che stiamo facendo sì. Questo è il giorno adatto: ferragosto. E, in più, domenica. Una doppia festività. Coincidenza non da poco.

Da qualche parte ho letto che, secondo il calendario Maya, il ferragosto cade di domenica ogni trecentoventisei anni…

Perché ogni tanto il mio cervello la spara? Eppure c’è anche chi crede a queste cose, alle cinque domeniche in un mese ogni 823 anni e fesserie del genere.

Comunque, nessun giorno più adeguato.

Forse.

Il viso, fino a quel momento entusiasta e contento, si corruga in un’espressione incerta.

A cinquantun anni le certezze cominciano a vacillare. O hanno vacillato sempre.

Chiusi lì dal mattino, a sistemare quell’enorme fascicolo per l’udienza di settembre. Uno di quei compiti che non si ha mai il tempo di svolgere: predisporre tanti sottofascicoli quanti sono gli indagati, per la requisitoria finale.

Un lavoro che richiede calma, silenzio, concentrazione e, soprattutto, non ammette interruzioni. Per questo la scelta è caduta sul mese d’agosto, periodo in cui le udienze sono sospese, la maggior parte del personale è in ferie e in ufficio non c’è proprio nessuno.

Ferragosto! Di domenica!

Lui, il Procuratore, e il povero maresciallo Centofanti.

Avevano scelto. Aveva scelto! Costringendo il maresciallo a quel tour de force. E poi odiava il ferragosto. Odiava tutte le feste, se è per questo. Da quando sua moglie Arlette lo aveva lasciato! Avrebbe dovuto raggiungere i suoi parenti in Puglia. Gli avevano telefonato a inizio agosto, invitandolo. Zio Lino, zia Felicita, suo cugino Michele… che ci andava a fare?

Il progetto era sin troppo semplice: approntare tante piccole cartelline dentro cui far confluire tutti gli atti d’indagine: verbali, perquisizioni, sequestri, interrogatori, consulenze tecniche e via discorrendo. Serviva infatti un resoconto di facile consultazione. Si trattava di un procedimento importante, con venti indagati, ognuno con responsabilità diverse. Un processo di mafia: cinese. Roba grossa. Mica bruscolini. Associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina. Due anni di indagini, disposte dal precedente Procuratore, condensate in trenta faldoni, diecimila fogli circa. Un riassunto diventava inevitabile, pena la confusione. Al momento delle conclusioni lui avrebbe tirato fuori la cartellina e letto per ciascun indagato il capo d’imputazione con le relative fonti di prova.

Questo era il suo piano. Un piano che adesso non lo convinceva più tanto. L’espressione immobile del viso, gli occhi persi nel vuoto. Venti indagati, venti sottofascicoli.

A cinquantun anni le certezze cominciano a vacillare. O non ci sono mai state.

Non era stato facile scegliere un criterio per la formazione di quei dossier.

Alle nove del mattino, poco prima di iniziare, Toccalossi si era sorpreso incredibilmente risoluto e determinato. Due termini che ora, ripensandoci, gli sembravano del tutto identici, non soltanto sinonimi. A quell’ora, complici la freschezza e un ciccinin di testosterone prodotto nella notte, aveva deciso di puntare sull’ordine cronologico degli atti.

Infatti esclamò perentorio:

– Ho deciso, li mettiamo così, in ordine di data.

Centofanti, approvando la scelta, si diresse alla macchina provvedendo a fotocopiare per ogni soggetto gli atti d’indagine nell’ordine in cui erano stati compiuti.

A mezzogiorno, quando il lavoro pareva terminato in anticipo contro ogni più rosea aspettativa, il primo tentennamento.

La convinzione che si tramuta in dubbio.

– E se li mettessimo in ordine alfabetico?

Centofanti, che già si pregustava un risotto ai frutti di mare a casa di un’amica, sorridendo rispose:

– Come desidera, Procuratore.

Fece per scomporre i volumetti appena creati, con l’intenzione di riassemblarli adottando il nuovo criterio, ma arrivò il contro-ordine.

Toccalossi lo fermò.

– No, questi lasciamoli. Potrebbero servire. Ne facciamo altri.

– Altri?

– Sì, altri venti, però suddivisi in ordine alfabetico: consulenze tecniche, deposizioni, interrogatori, perquisizioni, ecc. ecc.

Centofanti aprì una nuova risma di carta e la inserì nella fotocopiatrice. Il sole bombardava le vetrate della Procura in un assolo di caldo e d’indolenza. Pareva di toccarla la statica immutabilità della canicola delle domeniche di agosto quando i gatti trovano rifugio in qualche cortile in ombra e la città vuota sembra un plastico inanimato. Nessuna vettura percorre le strade, nessuna persona circola. Soltanto il tremore esalante dall’asfalto infuocato e qualche aiuola arida, disadorna come il terreno levigato di un pollaio.

Per fare ciò che il Procuratore desiderava sarebbero state necessarie almeno tre ore. Prelevò il primo foglio dal primo fascicolo. Sollevò il coperchio della fotocopiatrice, lo sistemò sul vetro, richiuse e premette il tasto.

Luigi Centofanti prima di eseguire l’ordine buttò un occhio in strada. Che pomeriggio immobile! Istintivamente ripensò al cortile della sua infanzia, ai pomeriggi eterni riempiti di calci a un pallone, da solo, contro un muro sgretolato.

In silenzio. Lui, il maresciallo, di qua, dalla fotocopiatrice in fondo al corridoio; l’altro, il Procuratore, di là, concentrato sulle carte, nel suo ufficio. Pochi metri di distanza li dividevano. Distese sconfinate separavano i loro pensieri. Toccalossi assorto nella difficoltosa ricostruzione dei dettagli, nella individuazione delle responsabilità di ciascuno di quei venti indagati, nella minuziosa opera di rilettura delle intercettazioni. Il maresciallo perso nei suoi ricordi, proiettati come per magia sul muro bianco su cui teneva fisso lo sguardo.

Due modi diversi di vivere il presente.

Toccalossi non trascurava nulla. Bastava poco per tralasciare un particolare, un’inflessione della voce, un vocabolo pronunciato in un modo anziché in un altro. E non doveva sbagliare. Non poteva.

La ricomposizione dei legami tra i vari complici è sicuramente l’operazione più difficoltosa di ogni requisitoria.

– Ci vediamo alle due – diceva uno in un colloquio telefonico – ti porto quelle scatole.

E l’altro rispondeva: – D’accordo. Speriamo che non siano come l’ultima volta.

I delinquenti usano simbologie da decodificare. Sono astuti. Non si lasciano cogliere in castagna. Come dimostrare, nell’aula di un Tribunale, che le scatole sono uomini e che l’ultima volta, a cui fa riferimento quella conversazione, sottintende un giudizio di merito relativo a uomini mingherlini, malati, non idonei ad alcuna attività lavorativa?

Ricucire, annotare, collegare.

Ritrovare quell’altra ambientale (una microspia collocata nel ristorante di Lo Ming) in cui, all’arrivo dei clandestini, l’indagato si lascia andare a considerazioni denigratorie nei confronti dei nuovi arrivati.

– Che razza di uomini mi hai portato? Uno senza un braccio, due ragazzini, una donna incinta. Sono tutte scatole rotte, queste…

Appunti: scatole sta per uomini. Leggere assieme la telefonata tra Lo Ming e Zu Yang e l’ambientale nel ristorante di Lo Ming. Meglio evidenziarla con il pennarello verde. Anzi, no. Giallo.

Misteriosa complessità delle preferenze.

Centofanti, occupato nel lavoro meccanico e ripetitivo di sollevare e richiudere il coperchio della fotocopiatrice, continuava a puntare lo sguardo sul muro bianco. Un bianco sporco, annerito dal tempo e dalla polvere. Talvolta ruotava la testa e allungava il collo per raggiungere con lo sguardo la sottile fessura di vetro aperta nel cemento come uno squarcio, una ferita in un corpo scheletrico. Si scorgeva il mare, oltre le cime dei palazzi, per un gioco seducente di prospettive difficile da disegnare. Sembrava in alto, l’acqua, sopra i tetti delle case, un cielo liquido e accattivante, di un blu più scuro, nel quale volavano navi da crociera e mercantili, piccoli puntini bianchi in lontananza. Che scherzi fa la fantasia! A lui il mare piaceva guardarlo ma non immergercisi dentro. Amava quella distesa d’acqua come sfondo di un paesaggio assolato con le ortensie e le ginestre in primo piano come in un quadro di Faccincani. Ma in spiaggia non ci andava mai. Era cresciuto in campagna…

Lo sportello da aprire e richiudere. Un altro foglio da inserire.

La piazza del paese in cui aveva trascorso le estati, tutte le estati della sua infanzia, ricompariva ora sulla parete dietro la fotocopiatrice, materializzandosi su quello schermo improvvisato. L’immagine di un bambino che tira calci al pallone. In agosto…

…ogni giorno, mentre il suo amico, il signorino Amedeo De Finzi, si recava dalla maestra Prandi per le lezioni di pianoforte, lui, Luigi, restava ad aspettarlo in strada, da solo. A volte lo aspettava anche per ore. Non era infrequente, infatti, che dopo la prima ora dedicata alla teoria, la maestra volesse valutare i progressi del suo allievo nella pratica, imponendogli anche un’altra ora destinata all’esercizio. Così, suo malgrado, Amedeo ritardava l’appuntamento.

Luigi lo attendeva sul sagrato della chiesa. Occupava il tempo tirando il pallone contro il muro, con i sandali scalcagnati e le ginocchia sbucciate. In paese non c’era nessuno, se non lui, gli adulti che lavoravano nei campi e quell’unico bambino, figlio dei padroni della villa e dei terreni, con cui inevitabilmente aveva fatto amicizia.

Benché suo padre Celso gli dicesse che non era cosa, e cercasse di dissuaderlo dal frequentare persone che mangiavano con le posate d’argento (tu sei per loro come la cagnetta che portano a spasso: ti danno gli avanzi se scodinzoli – gli ripeteva cercando di metterlo in guardia da possibili delusioni. – I poveri non possono permettersi di affezionarsi – pensava), Luigi aveva solo sette anni ed era coetaneo di Amedeo e pur di non passare tutta l’estate a tirare il pallone contro il muro (come in effetti stava facendo), era disposto ad attenderlo anche l’intero pomeriggio.

Spesso, quando Amedeo terminava la lezione, e ormai si erano fatte le cinque, Luigi poteva recarsi a casa del suo amichetto, dove una donna alta, bionda e con gli occhi azzurri, preparava per loro un’abbondante merenda fatta di latte di mandorle e di torta di frutta, per poi rituffarsi in un altro impegno, perché la tedesca non era soltanto una semplice governante ma un’istitutrice che, levato via il grembiule e sparecchiata la tavola, cominciava a impartire, nella sua madrelingua, lezioni di tedesco.

Luigi rideva alle facce di Amedeo che volutamente, guardandolo di sbircio, enfatizzava le risposte calcando sugli accenti, cogliendone l’aspetto comico per sbellicarsi dalle risate insieme.

La tedesca non lo rimproverava, anzi, sembrava divertirsi di gusto a quel gioco così spontaneo e genuino.

Quando finalmente anche l’ora di lingua straniera terminava, ed erano giunte le sei di sera, per loro si apriva la porta della stanza dei giochi: la cameretta di Amedeo.

I De Finzi erano proprietari a Roma di due alberghi e si vociferava possedessero, oltre alla villa al paese, anche venti appartamenti e una decina di negozi nel centro della capitale.

A luglio arrivavano con la loro Maserati nera seguita da una Lancia Flavia amaranto su cui viaggiava la servitù. Nel 1970 le uniche auto che si erano viste a Mallare erano la 850 del sindaco e la Seicento del farmacista. Dunque il loro stesso arrivo era già un avvenimento per gli anziani che li aspettavano in piazza, seduti sulle panchine pubbliche, con il bastone in mano, i vecchi, e con l’uncinetto, le donne, e c’era di che parlare per giorni dei vestitini alla moda della contessa, con le sue scarpe décolleté e della gonna sopra il ginocchio e dei fiocchettini rossi di Laila, la cagnetta tenuta in braccio, e dei modi autoritari del conte Adalberto De Finzi che imponeva al povero maggiordomo Eugenio ritmi da ventenne, facendolo trottare a destra e a manca tutto il santo giorno…

Per cinque anni consecutivi le estati di Luigi Centofanti trascorsero così, a riporto del signorino, usando i suoi giocattoli, godendo delle elargizioni che quest’ultimo gli riservava, quando, ad esempio, gli permetteva di utilizzare la sua bicicletta, il suo monopattino, nel suo giardino, oppure i suoi pattini, in giochi che iniziavano quando decideva il signorino e terminavano quando poco dopo si stufava, spesso perché stava perdendo nella gara e allora la interrompeva così, semplicemente con uno sbuffo di noia o di indignazione.

Per cinque estati, in agosto, ossia per tutto il periodo delle elementari, Luigi e Amedeo avevano giocato assieme.

Poi non lo aveva più rivisto, se non che un giorno…

L’ultimo foglio uscì dalla fotocopiatrice.

Le tre del pomeriggio. Sembrava fatta.

Forse ci scappava ancora un gelato con quell’amica. O magari una cena.

Centofanti sistemò la pila dei fogli cercando di allinearli il più possibile, battendo e ribattendo diversi mucchietti sul melaminico della scrivania e poi rientrò nell’ufficio di Toccalossi con il pacco delle fotocopie.

– Ecco fatto! Le metto qui. Su questa sedia.

Nessuna risposta del Procuratore.

Il suo sguardo fermo a mezz’aria, come colto da una nuova incertezza. Esitazione.

PERPLESSITA’

Non tutte le combinazioni possibili nella scelta di quei bignami erano esaurite. Ciascun faldone infatti veniva numerato prima del rinvio a giudizio.

Vi era dunque l’eventualità, neppure troppo remota, che uno degli avvocati difensori, in sede di arringa, se ne uscisse con:

– La controperizia di cui a pagina trecentosedici…

Meglio non correre rischi. Meglio non farsi cogliere impreparati.

Meglio fotocopiare tutto in ordine di numero.

– Maresciallo, pensavo che, forse, anche l’ordine numerico può essere utile.

Centofanti abbozzò un sorriso.

Anche il gelato passava in cavalleria. Considerato che i faldoni erano trenta, e che in ognuno di essi erano contenuti tre, quattrocento fogli, si può comprendere in quale attività il valido maresciallo sarebbe stato impegnato tutto il giorno: la difficile arte di eseguire fotocopie.

Deglutì e tornò al suo angolo.

Appoggiò i faldoni da fotocopiare sopra il tavolino basso sbilenco, privo di una gamba e tenuto in piedi alla bell’e meglio da un sistema di contrappesi. Essendo la cassettiera collocata in posizione opposta alla gamba mancante, il tavolino restava in piedi. Ma doveva prestare attenzione a non sbilanciare il peso, perché anche un piccolo mutamento avrebbe potuto essere fatale.

Infatti ogni volta che levava un po’ di fogli dalla cassettiera per rifornire la fotocopiatrice, levando così sostanza al contrappeso e, soprattutto, ogni volta che aggiungeva un nuovo foglio, quello appena fotocopiato, alla pila posta sopra il tavolino, alterando così il rapporto di forza e contro forza, poteva accadere che l’equilibrio andasse a farsi benedire e il tavolino prima si inclinasse su un lato e poi si ribaltasse. Così, tolto il foglio appena duplicato dall’alloggiamento in plastica del macchinario, si divertiva a farlo planare con delicatezza, mollandolo dalla pinza di indice e pollice con cui lo aveva afferrato e guardandolo volteggiare mentre si posava sugli altri.

Sospirò prima di ricominciare. L’ossigeno portò al cervello nuovi ricordi.

…se non che, un giorno, appena terminata la maturità, lui, Luigi, si mise in testa che avrebbe dovuto mantenersi da solo e si determinò a cercare lavoro. Era luglio e centinaia di lavoretti attendevano persone di buona volontà per essere svolti: consegnare le bibite sulle spiagge, ad esempio, oppure i bomboloni caldi e, perché no?, i gelati.

Fu assunto a giornata.

La sabbia infuocata levigava i suoi piedi, costringendolo, quando poteva, a percorrere la striscia fresca e umida sul bagnasciuga, ma ora una voce lo chiamava a ridosso di un ombrellone, ora un’altra lo spingeva a condursi verso il muraglione infuocato che delimitava l’arenile, ora bambini capricciosi gli giravano attorno rischiando di farlo inciampare. Quand’ecco che, zigzagando tra gli asciugamani e i teli da sole, il suo sguardo fu rapito dal bagliore bianco lucente di uno scafo che conosceva bene: la barca dei De Finzi.

Ricordava quel nome, Agata, che spiccava nero sulla fiancata e quella vela maestosa sull’albero maestro. Il signorino Amedeo, nella sua magnificenza, lo aveva reso degno di salirci sopra alla fine delle elementari, invitandolo a una mini crociera. Era stato soltanto perché altri suoi compagni di giochi per quell’estate avevano scelto mete diverse. Il figlio dell’ingegner Saviani era andato alle Lipari, Ugo, il prediletto della famiglia Notari, si era recato in Sardegna e Amedeo, trovandosi da solo a Bergeggi, in luglio, aveva chiesto a suo padre, chiesto con un pianto perentorio e la minaccia di saltare i pasti, di andare a recuperare Luigi a Mallare, per ospitarlo un paio di giorni. Ma questo Luigi non lo sapeva.

Quando il conte De Finzi in persona si presentò alla porta di suo padre Celso, si trovò di fronte un grugno che era peggio di un portale in legno, serrato, una mascella scolpita digrignata di chi non accetta che la sua povertà, la povertà di chi produce la ricchezza di gente come quella che aveva di fronte, potesse essere ulteriormente umiliata, con la richiesta assurda di cedere in prestito il suo figliolo per fare compagnia all’altrui rampollo.

Nemmeno la promessa di danaro lo smosse, nemmeno la lusinga di una ricompensa lavorativa (il mio autista sta per andare in pensione e lei potrebbe sostituirlo). Soltanto la carezza sulla nuca di sua madre Rosina poté compiere il miracolo. Sua madre che vedendo i lucciconi sgorgare dalle palpebre di Luigi per l’occasione perduta (quando mai gli sarebbe ricapitato di poter passare un intero fine settimana su una barca a vela) lo strinse al suo fianco e gli asciugò le lacrime. Poi, senza guardare suo padre, ma con lo sguardo lontano, perduto nel vuoto, in un vuoto che solo le mamme sanno dove si trovi e forse per questo è veramente distante, disse al marito, senza rancore, né rimprovero, semplicemente con la voce roca di chi non rinfaccia ma constata, “che almeno lui abbia le gioie che noi non abbiamo mai avuto”, abbottonando sul collo la maglietta del figlio e sistemandogli i capelli. Li pettinò nel modo più dolce che esista, spostando qua e là le ciocche con le dita, con un tocco leggero (che ancora adesso, pensandoci, gli vien da credere che forse c’era un po’ di magia in quei polpastrelli e ora – ma sono passati così tanti anni che nemmeno può dirglielo alla sua mamma, e quando avrebbe potuto farlo qualcosa lo aveva sempre trattenuto – ora ne è certo: quella magia aveva un nome soltanto e si chiamava tenerezza) quindi, così risistemato, lo allontanò con un buffetto sulla guancia e una pacchetta nel sedere come a dirgli “vai”, e lui era corso nella sua stanza a prendere il costume e l’asciugamano (la maschera e le pinne gliele avrebbe prestate Amedeo), sentendo soltanto, mentre saliva la scala in pietra, l’eco della voce di suo padre che borbottava “sempre vinte gliele dai a tuo figlio” e lei che lentamente si adoperava a stendere il bucato.

Un’altra risma di carta era finita. Centofanti tirò su col naso, cercando di far rientrare la commozione da dove stava uscendo, ossia dalle narici, perché è quello il punto in cui si condensa, trasformandosi da stato emotivo a cosa liquida, appiccicaticcia come carta moschicida in cui restano impigliati i ricordi.

… così, quando riconobbe il nome della barca, “Agata”, e ormai erano passati otto anni dall’ultima volta in cui aveva visto Amedeo, che adesso, come lui, doveva essere un giovanotto, si fermò sulla riva del mare, con l’espositore dei bomboloni sospeso a mezz’aria e lo sguardo immobile su quella plancia, concentrato a scorgere le sembianze dell’amico.

Restò in quella posizione diversi minuti, sino a che lo schizzo gelido dell’acqua gli percorse la schiena cotta dal sole. Un bambino, colpendo un pallone, aveva alzato una parabola d’acqua bagnandogli tutti i krapfen.

Luigi sollevò il telo di lino che li copriva per constatarne lo stato.

Fradici. Tutti da buttare.

Un’intera giornata di lavoro persa. Avrebbe dovuto rimborsarli. Si tolse la tracolla dalle spalle e lasciò cadere il vassoio sulla sabbia.

Guardò ancora verso la barca. Un ragazzo magro, ossuto, con i capelli biondicci, stava appoggiato all’albero fumando una sigaretta.

Strinse gli occhi contraendoli in una sottile fessura per cercare di focalizzarlo al meglio.

Ma sì, non poteva essere che lui!

– Amedeo – gridò.

Quello non si voltò.

Allora si tuffò in acqua. Persa per persa la giornata, tanto valeva farsi un bagno.

Con ampie vigorose bracciate raggiunse l’imbarcazione. Gli ultimi metri li percorse sott’acqua. Era sua intenzione sbucare fuori all’improvviso, a ridosso dello scafo e cogliere di sorpresa il suo amico.

Così fece. In un sussulto di ingenua emozione.

Quando adocchiò la sagoma della prua, riemerse con uno sbuffo d’acqua dalla bocca.

– Ciao, Amedeo – disse – ti ricordi di me?

Il ragazzo lo squadrò con sdegno e un volto imperturbabile.

Aspirò una lunga boccata di fumo poi gettò la sigaretta ancora a metà in acqua.

– No.

– Sono Luigi. Luigi Centofanti.

Amedeo non mutò espressione. Non si ricordava di lui oppure non gli importava nulla vederlo.

– Luigi – ribadì Centofanti – siamo cresciuti insieme. D’estate, per lo meno – si affrettò ad aggiungere.

– Ah, sì – si limitò a rispondere Amedeo.

Non aggiunse altro, infastidito. Non gli chiese come stai, né sì mostrò cordiale.

Possibile? Possibile che fosse così freddo, come se avesse cancellato completamente dalla memoria quei cinque anni della loro infanzia estiva? Non lo invitò nemmeno a salire sulla barca.

– Ciao – lo salutò allontanandosi. E sparì sotto coperta.

Luigi rimase a galleggiare.

Come uno stronzo.

Erano le nove di sera. Centofanti riemerse dai ricordi e si allontanò dalla fotocopiatrice per respirare un po’ d’aria non viziata. L’aria fresca era un’altra cosa. Provò a sporgersi dalla finestra di anodizzato ma il caldo afoso di agosto, a quell’ora, era diventato insopportabile. Allora andò in bagno a rinfrescarsi il viso. Di lì a poco sarebbero esplosi in cielo i fuochi d’artificio. E lui voleva andarsene prima. Il lavoro era quasi terminato.

C’era un motivo per cui Centofanti detestava i fuochi d’artificio. Gli pareva, ne era convinto, che simboleggiassero il trionfo dell’apparenza, la vacuità finalizzata soltanto a impressionare. Come certi tromboni (tanti) che aveva conosciuto nella vita. Diciamo che il suo lavoro certo non lo aiutava a tenersi lontano da persone di dubbia moralità e senza scrupoli. Elencarli tutti sarebbe stato impossibile, eppure alcuni gli tornavano in mente. Tempo prima aveva conosciuto un agente immobiliare… o meglio un truffatore che millantava agganci nel settore edile. Si chiamava Garneca, Annibale Garneca. Viaggiava in Mercedes ed era sempre vestito in modo impeccabile. Vendeva case in Romania. Riportando testualmente le sue parole, “proponeva investimenti vantaggiosissimi all’estero”. La vendita avveniva sempre “sulla carta”, ossia prima che l’immobile venisse costruito. “Questo” asseriva Garneca “permetteva all’investitore (lo chiamava proprio così, non truffato o allocco, ma investitore e c’è da dire che il poveraccio abbindolato si sentiva altamente compiaciuto di tale investitura) di risparmiare sino al 40%”. Mica poco, sino al 40%.

Botti, luci, lampi di colore. Basta nulla a frodare. È sufficiente noleggiare una Mercedes, comperare un abito buono, condire con giuste parole il vuoto ed è fatta. Proprio come accade nei fuochi d’artificio. Colori, fontane luminose, e il nulla si trasforma in festa.

Ci vuole proprio poco a ingannare la gente.

A volte si sorprendeva a pensare che sbirri e carabinieri devono possedere una dose innata di lealtà. Con tutto quello che sono costretti a vedere durante l’arco lavorativo, con tutto quello che, volenti o nolenti, imparano… sono come apprendisti stregoni di fronte a maghi provetti, passando il tempo accanto a quei maestri finiscono in tal modo per carpirne i trucchi. Solo la congenita onestà impedisce loro di replicarli.

Anni addietro aveva conosciuto uno strano venditore d’auto. Non possedeva né un autosalone né veicoli in esposizione. Aveva semplicemente affittato uno spazio espositivo all’interno di un centro commerciale. Si era installato lì con un banchetto e grossi album di foto. Auto da sogno scontate del 50%. Questo era il suo slogan. La gente si avvicinava, guardava le foto, s’informava. Il provetto venditore asseriva che le auto fotografate erano tutte provenienti da leasing non pagati. Auto di pochi mesi di vita che lui, grazie al suo giro, riusciva ad acquistare all’asta. Piaceva quella BMW? Bastava versare un anticipo e in poche settimane l’affare era concluso. Il saldo al momento del passaggio di proprietà. Piaceva quella Ferrari da novantamila euro? Quella? Proprio quella? Un affarone. Trentamila euro anticipati in contanti ed era fatta.

Ci sarebbe da domandarsi: ma chi vuoi che ci caschi? Possibile? Nessuno così astuto da pensare che quelle mostrate in foto potevano essere auto fotografate ovunque, in mezzo alla strada, tanto più che non si leggeva la targa. Chi vuoi che sia così sciocco o sprovveduto da versare trentamila euro a uno sconosciuto solo perché ti ha mostrato una foto?

La conclusione? Fu necessario per la Procura pagare l’intera pagina di un quotidiano per avvertire tutte le persone offese, ossia i truffati, della data dell’udienza a carico del truffatore.

Chissà che fine aveva fatto Amedeo?

Ritornò alla fotocopiatrice. Inserì un’altra risma di carta nel cassetto. Prelevò uno dei tanti sottofascicoli dal faldone, levò le graffette e riaprì il coperchio.

Alle ventidue, all’ultimo rintocco della campana, fu soddisfatto nel considerare che ormai, qualunque criterio di formazione di quei sottofascicoli poteva considerarsi esaurito. Per quanto fantasioso, Toccalossi non avrebbe potuto escogitarne nessun altro. Saltata la cena a casa dell’amica già si gustava la focaccia al formaggio che, per compensare i sacrifici della giornata, avrebbe consumato insieme al suo amico giornalista Barto. Eh sì, perché quell’anno, per sfuggire alla tradizione, aveva deciso di frapporre almeno un centinaio di chilometri tra lui e Savona. Si sarebbe fiondato sino a Recco per un impegno imperdibile: una sfida di pallanuoto. A mezzanotte. Un classico a cui non poteva sottrarsi.

Doveva ancora percorrere in auto il tragitto Savona-Recco. Fermarsi oltre significava fare tardi.

Collocò a posto l’ultimo incartamento e pensò alla borsa con l’accappatoio e il costume che lo attendeva nel bagagliaio dell’auto.

Prese il pacco delle fotocopie e lo portò nell’ufficio di Toccalossi.

– A quanto pare abbiamo terminato, Procuratore! – esclamò.

Toccalossi non rispose. Un punto imprecisato del pavimento era l’obiettivo del suo sguardo. Forse stava mettendo a fuoco un moscerino, o una mosca posatasi sul marmo…

Quel suo silenzio non lasciava presagire nulla di buono. Non stava mica pensando a un nuovo criterio di classificazione dei sotto-fascicoli?

Meglio distrarlo.

Mancava poco all’ora fatidica. A partire dalle ventitré, migliaia di persone si sarebbero ammassate sulle spiagge, nelle strade e, soprattutto, sulla roccaforte del Priamar, la fortezza cittadina, per assistere allo spettacolo più triste e paesano che mente umana abbia mai concepito e che l’amministrazione comunale da anni non faceva mancare mai ai suoi cittadini: lo spettacolo osceno dei fuochi artificiali. Cani, gatti, uccellini, terrorizzati da quelle esplosioni improvvise, si sarebbero dileguati scappando senza una meta, smarrendosi o rimanendo uccisi nella fuga, assaliti dalla paura, schiacciati dalle ruote di qualche auto. Ma tant’è! Ogni ferragosto la gente si ammassava sul Priamar per godersi quello scempio di soldi e di polvere da sparo lanciata in aria per festeggiare chissà cosa. Doveva fuggire prima.

Centofanti si sorprese a pensare alla storica rivalità tra Genova e Savona, alla conquista di Savona da parte dei genovesi, alla prigionia all’interno di quella fortezza, il Priamar, appositamente costruita. Quel monumento adesso, a distanza di secoli, era il bello della città. Un regalo di non poco conto. Ma questa rivalità era nulla in confronto alla competitività sportiva che si era creata tra altre due cittadine: Savona e Recco. Da anni la Rari Nantes, squadra di pallanuoto savonese, contendeva il campo alla più blasonata Recco, nelle cui file aveva militato nientepopodimeno che il mitico Eraldo Pizzo, il Caimano. Quella partita di pallanuoto a cui avrebbe partecipato era quindi molto più di una semplice competizione sportiva: era una sfida, una prova di supremazia, un duello d’altri tempi, una tenzone atavica all’ultimo sangue. Il fatto che fosse un’amichevole tra vecchie glorie era un dettaglio assolutamente insignificante.

… sul marmo. Il cono di luce formato dagli occhi di Toccalossi si allargò. Ora non fissava più un punto indefinito del pavimento. Si sollevò. Si ampliò. Diventò un cerchio giallo sospeso a mezz’aria. Inesorabile.

– E se sistemassimo i sottofascicoli anche in ordine d’importanza?

Ora non v’è dubbio che per assurgere al grado di Procuratore della Repubblica siano necessarie doti fuori dal comune, qualità morali e professionali di carattere eccezionale, e tra queste trova indubbiamente spazio anche la fantasia: come potrebbe un magistrato elaborare spunti investigativi, intuire disegni criminali, predisporre azioni d’intervento se non fosse dotato anche di genialità e inventiva? Ma Toccalossi possedeva una virtù rara: l’imprevedibilità.

Centofanti guardò l’ora sull’orologio a parete: le ventidue e cinque.

Mezz’ora, non di più – bisbigliò pensando all’impegno che lo aspettava. Pensiero a cui aggiunse una piccola postilla: – Porca sozza!

– Come ha detto?

– Dicevo che non c’è più carta per le fotocopie – improvvisò Centofanti vedendo la lucina accesa nella macchina.

Era ferragosto, era sera, non aveva pranzato, il contatore indicava millecinquecento fotocopie effettuate, il display della carta nel cassetto lampeggiava scarico e quello dei suoi coglioni, nella testa, stava facendo altrettanto.

– Provi a guardare nel cassetto.

– Già fatto!

– Guardi se trova un po’ di carta negli altri uffici.

– Sono chiusi.

– Dovrei averne una risma, nel cassetto della mia scrivania.

Centofanti si avvicinò per rovistare nei cassetti.

– Posso?

– Certo.

Nulla nel primo. Soltanto qualche chiave, la pinzatrice, i punti della pinzatrice, lo scotch e dei cioccolatini.

Nulla nel secondo: delle agende, un altro mazzo di chiavi, delle buste e dei fazzoletti di carta.

Stava già per cantare vittoria quando aprì il terzo cassetto.

Al suo interno, sotto una pila di cartacce, dentro un porta documenti trasparente, trovò una foto: una foto che non poté fare a meno di prendere tra le mani.

Era una foto che ritraeva Toccalossi giovane. Un Toccalossi mai visto prima: i pantaloni a zampa di elefante, la camicia con il bavero lungo, aperta sul torace, un crocifisso d’oro sul petto, i lunghi capelli nerissimi e l’immancabile barba sul viso. Se non fosse stato per la barba sarebbe sembrato John Travolta ne La febbre del sabato sera. Ma anche con la barba la somiglianza era incredibile.

Alla foto era attaccata con un fermaglio una lettera:

“Per il mio compleanno voglio farmi e farti un regalo, oggi io mi libero di te.

Non ti ho mai chiesto niente e non ho mai voluto niente, neanche il tuo tanto dichiarato amore, che poi amore non è, è la sorgente del tuo rancore per me, un torto inaccettabile, il mio rifiuto per il tuo ego senza confini. Penso che un bel bagno di umiltà farebbe di te una persona migliore, sicuramente più amabile, ma tu non vuoi essere amato, vuoi solo essere ammirato…”.

La lettera proseguiva ma Centofanti smise immediatamente di leggere. Non era corretto. Anzi, era proprio irrispettoso. Eppure quel fatto lo incuriosiva, quella lettera soprattutto. E, dentro quella che doveva essere stata in origine la busta della lettera, altre foto. Dal peso, una decina almeno. Forse di più.

Decise di attirare l’attenzione del suo capo.

Toccalossi e Centofanti passavano praticamente le giornate braccio a braccio. O meglio, le notti. Perché il loro lavoro si prolungava sino a tardi, quando gli uffici chiudevano e tutti gli impiegati erano andati via da un pezzo.

Benché lavorassero assieme neppure da un anno, si era creata una sorta di complicità, un’affinità che oltrepassava i ruoli e le gerarchie. Tra loro era nata una profonda e sincera amicizia, basata sulla lealtà, sul rispetto reciproco e sulla fiducia. Per cui Centofanti non fu affatto incerto quando, con un tono leggermente canzonatorio, chiese:

– Ma lei recitava, Procuratore?

…Il cerchio di luce si estende, diventa chiarore, alba di un rinato interesse.

– Diceva, scusi?

– Parlavo di questa, Procuratore.

E gli allungò la foto.

Il Procuratore la guardò stupito.

– Dove l’ha trovata?

– Nel terzo cassetto.

– Dove, per esattezza?

– Sotto una pila di fogli.

– Ecco dov’era finita! Pensavo di averla persa. Grazie, maresciallo.

E troncò il discorso.

Come “grazie maresciallo”? Tutto lì? Nessun altro commento? L’atteggiamento di Toccalossi destò così tanta curiosità nel maresciallo Centofanti che quest’ultimo si scordò persino dell’impegno preso con il suo amico Barto a Recco.

Era tutto quello che aveva da dire? Quando era stata scattata quella foto? E chi aveva scritto quella lettera? Possibile che non volesse sbottonarsi?

Riaffiorò in lui l’animo dell’investigatore. Un fatto del genere meritava almeno un po’ d’indagine.

– La rimetto a posto?

– No, faccio io, dopo.

Di nuovo sulle carte.

La pesantezza del silenzio.

Un metro, neanche, tra loro. Eppure era come se ci fosse un muro. Un muro di cose non dette. Centofanti riprese il plico tra le mani. Lo rigirò un po’. Sbirciò nella busta. Altre foto, scattate di notte, nei vicoli. Ma dove? Quando? Riguardò la foto di Toccalossi giovane. Sorrise. Tra sé. Quel muro andava scalfito. A poco a poco. Con il piccone delle domande.

– Bella come foto. Di che anno è?

– Uhm?

– La foto, dicevo. Bella.

– Già!

Dialogo tra sordi. Peggio, tra inquirenti.

Nessuno dei due è così sprovveduto da cadere nel tranello teso dall’altro.

O meglio: entrambi sufficientemente scaltri da tentare di portare l’interlocutore sull’argomento prescelto.

In savonese si dice “portarlo nel proprio carruggio”.

– Di che anno è?

– Cosa?

– La foto, Procuratore.

– 1977.

Sfidanti che si studiano.

Chi azzecca questa mossa ha vinto.

Centofanti inizia a fischiettare. La curiosità lo sta divorando.

Toccalossi continua a leggere impassibile.

Poi l’azzardo. Centofanti parte con il gancio sinistro.

– Comunque carta nei cassetti non ce n’è più.

Ma è una zampata sbagliata, un colpo a vuoto. Mancato! Clamorosamente.

Toccalossi non replica. Attende ancora.

È un fuoriclasse. Viso immerso nella lettura.

– Sa cosa pensavo, Procuratore?

Eccola la domanda trabocchetto, il classico quesito ambiguo a risposta multipla, tipico degli investigatori. Centofanti si attende una contro-domanda, del tipo: riguardo alla foto o al fascicolo?

Nessuna risposta. Solo attaccaticcia indifferenza.

– Anche se non ci vado, a Recco, non sarà la morte di nessuno. E poi mi è venuta in mente una cosa.

TREMENDA.

Anche a Recco, stasera, ci sono i fuochi d’artificio.

Ta Ta!

Stretto all’angolo. Si è messo alle corde da solo.

Poverino. Un rigurgito di pietà per il povero collaboratore dilettante.

– Anzi, guardi qua. Sa che faccio? – continua il maresciallo – Prendo nell’armadio blindato le chiavi dell’archivio. Là la carta c’è sicuramente. Così andiamo avanti con il lavoro.

Sorriso ampio, da Procuratore clemente.

O da campione. Ma un campione non vuole stravincere.

– Se resta, le racconto la storia di quella foto.

Decisero di frapporre una pausa al lavoro che stavano terminando. Si accomodarono, uno accanto all’altro sul divano di fronte alla vetrata. La notte alle loro spalle sembrava il cielo di un presepe appiccicato al muro. Loro statuine immobili, con la magia della voce. Bambole parlanti.

Toccalossi rigirò per un po’ la foto tra le mani come a riordinare i pensieri.

Erano passati ventisette anni! Ventisette anni in cui era successo di tutto: la sua carriera, il matrimonio, i figli e poi la noia, il male più incurabile, quello per il quale non ci sono rimedi. O forse ce n’è uno solo, rischiosissimo. Perché la noia ti uccide lentamente, cambia con la rapidità di un virus: diventa nausea, fastidio, disagio esistenziale e poi depressione. Ma gli uomini non si rassegnano. Prima di farsi travolgere si consultano tra loro, intervengono gli amici, studiano il da farsi, propongono un rimedio. E il placebo, in questi casi è uno soltanto: l’amante.

L’amante con la sua allegria, il sesso sfrenato, le fughe nei weekend. E le bugie! Solo per combattere la monotonia, il tedio. Le menzogne! Le frottole per mascherare, per nascondere fuori ciò che, invece, all’interno, ti sta corrodendo. Come dare una mano di vernice a un muro che si sta sgretolando. Così, dopo un lungo periodo felice aveva cominciato a tradire sua moglie Arlette e si era fatto l’amante: Carlotta.

Ricordi che si condensano.

– Nel 1977 svolgevo funzioni di Giudice Istruttore a Genova. Quella è la foto che mi scattò…

La voce che s’interrompe, gracchia, incespica. Una leggera commozione. Lo sguardo del maresciallo che gli sorride per non mettergli fretta. Un invito a prendersi il tempo che ci vuole.

Il tempo che ci vuole! Quanto tempo ci vuole a dimenticare?

Arlette non si faceva certo ingannare dalle bugie. Erano una cortina di nebbia, sintetica, fumogeni da palcoscenico. Lei conosceva a naso quello che ci stava dietro, abituata col tatto, come un cieco. Avezza da sempre alla sua pelle, al suo respiro. Solo una cosa le faceva tristezza: quella patina sugli occhi, lo sguardo spento dell’uomo che aveva amato. E che amava. Lei che non si rassegnava a vederlo infelice, pur non conoscendo in quali ambizioni avrebbe trovato la serenità. Sapeva però che erano solo miraggi quelli che lui vedeva, ingannato dalle sue stesse bugie, incapace ormai di percepire la realtà.

Ritorto su se stesso, mentre tentava di ricomporre i pezzi di quel muro che si stava frantumando. Concentrato sul dentro mentre fuori tutto stava crollando.

L’amore degli amanti sovente è un inganno, la suggestione di parole che suonano vere, più vere delle realtà e invece sono solo fandonie, un teatrino di menzogne, verosimile come tutti i teatrini, forse anche plausibile, ma fasullo. E destinato a terminare, come tutte le rappresentazioni. Un giorno lo spettacolo finisce. E le parole restano, risuonano ancora, echi in un teatro vuoto. Dentro le pieghe dell’anima. Non hanno più lo stesso effetto.

A volte sono parole scritte. Rileggerle è come… COME… perché necessita sempre un paragone? Una comparazione, un rafforzativo?

Quella lettera! Segnava la fine di un amore clandestino! E non era neppure indirizzata a lui, ma a un malavitoso su cui aveva indagato, ventisette anni prima, un certo Vito.

Scritta dall’amante di quest’ultimo, Riccarda, per troncare definitivamente quell’insana relazione giunta ormai al capitolo finale.

Toccalossi l’aveva conservata, non sapeva nemmeno lui il motivo, forse come un monito o più semplicemente perché, che ci si creda o no, la vita concede premonizioni, salti temporali e visioni di come sarà il futuro. Limpide, nitide, le immagini di come diventeremo ci appaiono talvolta per puro miracolo, come se nel flusso temporale si aprisse uno squarcio e noi potessimo vederci invecchiati, maturi, consapevoli. E di quell’attimo conserveremo un ricordo inalterabile, indelebile: attoniti, smarriti, mentre assaporiamo quella scheggia di tempo ancora da venire che ci cambierà per sempre, incapaci di darci alcuna spiegazione, ma con la convinzione certa che quell’attimo, prima o poi, si verificherà. Ineluttabilmente.

Ecco. Ora ne aveva la prova. Gli era successo. Ciò che aveva visto, in quel tempo lontano della sua giovinezza, si era ora verificato in maniera inquietante: se stesso cinquantenne, in un buco come Savona, lasciato dalla moglie, dall’amante e anche dai figli, ad affogare la noia con la scusa del lavoro, solo, come una pallina di gelato dentro una coppa di sciroppo all’amarena, dolcezza a parte. Invischiato in una scena da cui non sapeva districarsi e della quale conosceva ogni dettaglio per averlo già vissuto nell’anticipazione del vaneggiamento tanto che adesso, buffo, no? gli sembrava… gli sembrava un déjà vu.

Ed era soltanto il suo crudo presente.

Emise un grosso sospiro, uno sbuffo sarcastico a suggellare la sua impotenza di fronte a quel tempo dispettoso. Ma sbuffò senza astio, quasi a dire: hai vinto tu, perlomeno mi avevi avvisato. Anche se si sentiva come un topo in trappola. Se quello era il suo destino, qualunque cosa avesse fatto precedentemente, prima o poi, si sarebbe realizzato.

Sentiva vibrare le parole di quella missiva come lame dentro la sua anima, nemmeno fossero rivolte a lui. Ma c’era un perché: le lettere dell’amore clandestino si assomigliano tra loro provenendo tutte dallo stesso conio. L’identico cliché. Una matrice molto simile all’originale ma imperfetta, fasulla.

Banconote false, capaci d’ingannare solo nel caso in cui sparissero del tutto, per sempre, quelle autentiche.

Quella lettera sanciva la fine. La fine della recita, dell’illusione, del gioco. Crudele. Perché svela l’inganno. Era tutto finto, illusorio, fittizio, immaginario, apparente.

Uno sbrodolo di sinonimi.

Anche lui aveva ricevuto una lettera simile. Da Carlotta, la sua amante. Atto conclusivo della farsa. Quando Arlette aveva scoperto la tresca anche Carlotta se n’era andata via liquidandolo con una missiva.

Quanto tempo ci vuole a dimenticare?

Il pensiero confluisce sempre lì. Pantano, palude, sabbia mobile. Ancora non ne è uscito fuori.

La terraferma si chiamava Arlette. Si chiama ancora così, sua moglie. Ma è lontana.

Un oceano in mezzo. Burrascoso.

La sera era scesa lentamente e si stava tramutando in notte. Una leggera brezza proveniente dal mare lasciava presagire un repentino cambiamento del tempo all’indomani.

D’altronde è sempre così: passato ferragosto l’estate scema, le giornate si accorciano e l’autunno si presenta alle porte con tutto il suo bagaglio di malinconia.

Un bagaglio che non dispiaceva affatto a Toccalossi che in quel mutamento climatico ravvisava qualcosa di molto simile al suo stato d’animo. “Ecco sì, l’autunno…” pensò.

… l’autunno! La stagione più bistrattata di tutte perché ha un solo difetto: presentarsi dopo l’estate. L’effimera estate. L’estate degli amori da spiaggia, dei “non ti dimenticherò mai”, delle notti a bighellonare, dei bagni notturni, nudi, sotto un cielo di stelle, dei cocomeri mangiati nei chioschi ai bordi delle strade e dei semini “vediamo chi li sputa più lontano”, l’estate dei sandali di cuoio e dei piedi delle donne abbronzati e sensuali dentro quegli zoccoletti di legno e quelle gonne corte corte, ma cosa te la metti a fare la gonna così corta? No, anzi, mettitela pure, lasciami immaginare il tuo cespuglio umido che spunta fragrante attraverso le trasparenze, quei viaggi in auto con i finestrini aperti sull’Aurelia di notte, nei tratti a picco sul mare, l’odore selvaggio degli scogli che entra nell’abitacolo e ne esce fumo dalla tua bocca sensuale ormai priva di rossetto tutto sbavato, mangiucchiato, quel tuo modo di morderti le labbra come stessi riflettendo, rimuginando.

– A cosa pensi?

– Cosa?

A nulla, pensava, a nulla, era solo un modo di fare, sapeva di essere guardata, si ammirava nello specchietto retrovisore.

E come puoi scordartela un’estate così? Come la puoi cancellare? Un’amante, un’estate così, ti si infila dentro ma poi… poi un giorno arriva l’autunno.

E ha il suo perché, l’autunno. Un perché che mica lo capisci subito, quando arriva. D’impulso, in un primo momento, vorresti prenderlo a pugni un dispettoso essere che ti porta via un’estate così. Vorresti afferrarlo per il colletto e tirarlo su con una mano e con l’altra a menargli il dito innanzi al naso a redarguirlo, vattene via, sparisci, non farti più vedere, con i suoi piedi, le gambe, che si agitano sollevate da terra, sospese nel vuoto e lui bianco per la paura, con quella faccia spaventata, l’autunno…

Ma è soltanto un momento. Ti volti e vedi che non può certo durare a lungo il viaggio sull’auto che sfreccia nella notte, lambendo il parapetto, i fari che illuminano a ogni curva quel mare nero nel quale potresti precipitare, prima o poi dovrà finire, all’alba, esausti, i sedili reclinati all’indietro, la bottiglia vuota, il sole che s’infila tra le fessure degli occhi, la bocca impastata di te che dici andiamo e lei nemmeno ti risponde, fa uhmm, semplicemente uhmm e sì con la testa, ma dorme ancora.

Non potrebbe durare nemmeno un momento di più quel viaggio. Anzi, è già durato abbastanza. C’è ancora tutto il ritorno che non vedi l’ora di arrivare, levarti le scarpe attaccaticce, farti una doccia, stenderti nel letto. Lo rifaresti? Forse sì, forse no. Sicuramente non domani. Poi domani passa e anche dopodomani. Passano tutti i domani appresso a quel dopodomani, in fila come pietruzze in una collanina appesa al collo che ora che la riguardi ti sembri proprio scemo, allo specchio, con quelle pietre azzurre e blu che non hanno più senso e ti osservi e dici: io? E non ti riconosci più. Così arriva l’autunno. L’autunno che adesso gli chiedi scusa, per prima, non volevo sai?, quando ti ho sollevato… ma non ti porta mica il broncio, lui, per niente, finge di non ricordare, tu invece ricordi tutto. Ed è proprio così che capisci che l’estate è finita, quando ti volti e vedi che è tutto un ricordo, ti sembra quasi un racconto, un avvenimento capitato a qualcuno che non sei tu, non sei più tu, quel ragazzo con la collanina al collo, i piedi scalzi di lei sul cruscotto, la sua bocca ormai priva di rossetto e quel suo dire “uhmm” e “sì” con la testa mentre dorme ancora.

Bacio.

Non c’era dubbio: aveva agito bene fingendo di non vedere Esmeralda, il giorno prima. Esmeralda, la ragazza spagnola con cui aveva trascorso un’estate indimenticabile, l’estate dei suoi diciotto anni. Il suo primo grande amore, quello che non si dimentica, quello che ti marchia a fuoco tutta l’esistenza perché, dopo, eh sì, dopo… cerchi qualcosa per dimenticarlo, per superarlo, per sublimarlo, per rigurgitarlo, per riacciuffarlo, per riviverlo, per completarlo… qualunque cosa farai dopo, tutto gira intorno a quel primo amore, diventato suo malgrado pietra di paragone. Ed è così che ti rovini l’esistenza, inseguendo il miraggio di qualcosa di esplosivo che non può più tornare, la miccia si è consumata tutta, eri tu la carica deflagrante, era la tua giovinezza, e quella, puoi bruciarla una volta sola.

A Capodanno Toccalossi, ormai lasciato da moglie e amante, complice il magone e la tristezza per le feste, si era sorpreso a ripensare ad Esmeralda ma anziché limitarsi a ricordarla, l’aveva cercata, spedendole una lettera, con la quale si era pure azzardato a invitarla a Savona. Una follia! Un tentativo senza speranze, non sapeva più nulla di lei, dove abitasse, se fosse sposata. Ne aveva perso completamente le tracce. Ma dal momento in cui gli era tornata in mente non s’era dato più pace. Voleva rivederla, sapere come stava. Non solo: voleva rendersi conto di ciò che poteva essere e non era stato, verificare la possibilità non colta, ricucire l’esistenza laddove si era lacerata trentadue anni prima. Anzi, trentatré. Forse riesaminare l’intera sua vita sentimentale alla luce di quella pietra di paragone poteva servire a capire i suoi errori, magari a medicarli. FORSE!

Con l’età i punti fermi tendono a sparire.

Come in una favola, Esmeralda aveva ricevuto la lettera, l’aveva letta. E ora si era presentata. Era giunta dalla Spagna sino a Savona. Per rivedere lui. Lui che, (diamine era soltanto ieri e già sembrava passata una vita) camminando per le strade del centro, inaspettatamente, aveva sentito alle sue spalle riecheggiare quella voce melodiosa, simile al suono di una fisarmonica, la voce di una donna che conosceva bene. Una donna che domandava a un passante:

Disculpe. Dónde se encuentra la Plaza de la vieja estación?

Per alcuni attimi era rimasto incerto sul da farsi. Non era sicuro che non fosse uno scherzo della sua fantasia…

Il giorno prima

Poi si voltò.

E in quel voltarsi riconobbe tutta la grandezza e la maestosità dell’autunno. Tanto da inchinarsi, prostrato al suo manifestarsi senza indulgenza. Come un re, sulle carte da gioco.

Si nascose dietro una colonna dei portici.

La guardò. Era ancora bellissima. La pelle liscia, olivastra, gli occhi luminosi, la voce soave e immutata. Sono questi i fili sottili che ci legano alla felicità. L’aveva immaginata proprio così la scena di quell’incontro, come se non avesse atteso altro nella vita, come se avesse saputo, in maniera inconscia, da sempre, che lei sarebbe apparsa, l’aveva descritta esattamente in quel modo, nello stupore candido dell’immaginazione, con tanta dovizia di particolari, che quell’incontro non gli sembrava nemmeno reale, piuttosto un ricordo, lontano e avvolgente, preciso e sfumato, nitido e distante. L’aveva vista così nel suo sogno, mentre le baciava le caviglie morbide e delicate, come le zampe di un gatto, mentre giocava con lei, baciami qui, e baciava, mordimi là, e mordeva, più su, più su, saliva, più giù più giù, e scendeva. Solo così dovrebbe essere l’amore, solo un ricordo di qualcosa che è dentro da sempre.

E allora perché non le corse incontro? Perché restò nascosto dietro la colonna del porticato a spiarla mentre lei cercava il Palazzo di Giustizia? Perché non sbucò fuori da quel rifugio improvvisato a dirle: “Ti ho pensato, magari inconsapevolmente, per anni. Ricordo ogni tuo gesto, ce l’ho stampato in mente a lettere di fuoco. Se chiudo gli occhi sento ancora l’odore della stella marina che ti regalai”.

Perché fuggì dando disposizione in ufficio affinché dicessero a chiunque lo domandasse che era partito? Perché non la incontrò come il cuore gli suggeriva di fare?

Perché, per puro caso, sicuramente un altro scherzo del destino, girandosi, il suo corpo rimase imbrigliato nel riflesso di una vetrina come in uno specchio. E guardandosi Toccalossi provò pena per se stesso. Istintivamente paragonò quella figura alla parvenza che aveva negli occhi. Un fotogramma spezzato, diviso in due metà: da una parte se stesso a cinquant’anni, quasi cinquantuno, e dall’altra un ragazzino di diciotto. Un ragazzino che non c’era più e che, eppure, adesso lui vedeva, per un rifrangersi di onde temporali sulla battigia immaginifica della suggestione.

Quante vite abbiamo vissuto? Quante, ciascuno di noi, all’interno di una stessa vita? E dove sono finiti quei tanti noi, quei tanti frammenti della nostra esistenza che, a vederla da distante, sembra un tutt’uno e invece, a scavare, si mostra per quello che è, nella sua essenza, strati sovrapposti, anelli accostati ma non saldati, parti mancanti. Qualcuno di quei tanti noi è volato via, senza lasciare traccia, qualcuno, invece, ci è rimasto proprio impresso, come un buon amico, a cui dare del tu, come un conoscente a cui guardare con bonarietà.

Oltre il riflesso del vetro, Toccalossi distinse l’ingombrante presenza dell’autunno. Accanto a lui, dietro di lui, come un fantasma, lo avvolgeva con compassione, gli parlava.

– Non avere paura – gli diceva con tono rassicurante – devi fidarti di me.

Stava bussando alla porta del suo cuore.

Toc, toc!

– Chi è?

– Sono io. L’autunno.

Era lì con la sua valigia. Un bel campionario di momenti importanti.

– Vedi, – gli diceva come se niente fosse, aprendo la valigetta – qui c’è tutto, tutto quello che non riuscivi a capire tanti anni fa, quello che avresti voluto sapere senza avere le idee chiare, quello che credevi di essere capace a dimenticare.

E lasciò tutti quei momenti, accanto a lui, mezza dozzina di piccole ampolline di vetro, non di più, con dentro ciò che gli era stato più caro.

– Guarda, quello sei tu, con la toga addosso, il giorno che ti sei laureato, e qui, osservati qui, il tuo primo giorno di lavoro, guarda che spocchia avevi dipinta sul viso… e nell’ampollina di fianco stai parlando con una persona. è una donna. Te la ricordi? Quante notti insonni hai passato per lei? Si chiamava Arlette. L’hai anche sposata. Non lo sapevi, allora, che era importante? Non te ne eri accorto? Eri così indaffarato? Dovevo arrivare io per fartelo capire?

Toccalossi con gli occhi sbarrati di meraviglia, allungò la mano, per toccarli, per prenderli quei momenti, per farli suoi per sempre. Avvicinò la mano all’ampollina ma...

– No, – disse l’autunno fermando la sua mano – non puoi. Non puoi toccarli. Non c’è più niente che tu possa fare ormai. Sono passati troppi anni. Non sei più tu quel bel giovine dentro l’ampollina e neanche lei è più lei. Sono solo immagini, alcune delle tante immagini di voi, sigillate dal tempo, sottovuoto. Intorno tutto è cambiato e anche dentro il vostro animo. Non cercare mai di rompere quell’ampollina. I ricordi sono creature fragili e vanno tenuti sotto vetro. Se escono fuori si trasformano in mostri delle tenebre, capaci di divorarti. Puoi soltanto guardarli, guardarli e guardarli. Come si guarda un vecchio film. Alla sera, nel silenzio, quando si accenderanno, come lampade fluorescenti, tutte le piccole ampolline, resterai rapito dalla magia dei tuoi ricordi. Con la bocca spalancata li guarderai incantato. Ogni volta ti sembreranno un po’ diversi, ulteriormente definiti. Più passerà il tempo, più ti sembreranno vicini. Finiranno per non sembrarti nemmeno dei ricordi. Li vedrai pulsare, li sentirai sussurrare. Ti faranno compagnia nel mistero della sera. Capirai qual è il loro segreto, la loro magia. Perché i ricordi più belli vivono sempre, e sempre al presente indicativo.

Il tempo non è una linea retta, dove i punti si susseguono, il tempo è una nebulosa dove punti sparsi si incontrano, perché la vita non è un lungometraggio, ma un insieme disordinato di fotogrammi, senza una trama, soltanto il ricordo li tiene insieme. Scene sovrapposte sulla stessa pellicola, foto sopra a foto, quadri dipinti sopra altri quadri sulla medesima tela, se scrosti un po’ l’immagine, viene fuori il dipinto precedente che il tempo ha solo coperto ma mai cancellato. Da bambino, con l’abito da chierichetto, quando il prete pronunciava il tuo nome, sull’altare bianco, provavi un tuffo al cuore e guardavi tutti quegli occhi puntati su di te, e anche adesso, in un’aula di tribunale, con la toga sulle spalle, quando il giudice si rivolge a te e ti domanda, “il pubblico ministero ha delle richieste?”, senti nel cuore la stessa tenerezza e alzi gli occhi a guardare la gente, con lo stesso smarrimento.

Procura, sera

Toccalossi aveva gli occhi socchiusi. Non era raro che si assopisse di fronte al computer per la stanchezza. Forse stava sognando. Muoveva le palpebre come fa un gatto tenendole serrate.

Centofanti nel frattempo in estremo silenzio si era diretto alla fotocopiatrice per spegnerla.

Poi, quasi camminando sulle punte, rientrò in ufficio e spense la luce.

Avesse avuto una coperta, l’avrebbe adagiata delicatamente sul corpo del Procuratore che si era addormentato e respirava con la bocca aperta.

– Io vado, Procuratore – sussurrò Centofanti molto debolmente per non disturbarlo.

Si avviò lungo il corridoio verso l’ascensore. Al buio.

Che silenzio. E che pace!

Era sicuramente una delle migliori notti di ferragosto che gli fosse mai capitata. Lontano dalla bolgia dei locali, dai gavettoni, dai falò sulla spiaggia, dallo scemo che canta accompagnandosi con la chitarra. Che meraviglia! Anche se quella cena con la sua amica… macché! Sarebbe finita come tutte le altre. A quarant’anni non si ha più voglia di sogni, né d’illusioni – pensò Centofanti.

In ogni caso, anche qualora fosse riuscito ad andare a cena da lei, avrebbe dovuto lasciarla per recarsi a Recco da Barto. A proposito, meglio chiamarlo l’amico giornalista a cui ormai, data l’ora, aveva inevitabilmente tirato il pacco.

Tirò fuori dalla tasca il cellulare per comporre il numero. L’ascensore nel frattempo giunse al piano, ma Centofanti attese a entrare perché dentro non c’era segnale.

Proprio in quell’attimo il cielo s’illuminò di un bagliore rossastro e nell’aria esplose un boato.

Toccalossi si ridestò di soprassalto.

– Maresciallo! – chiamò.

Le ventitré e quindici. Il Comune aveva dato inizio allo spettacolo edificante dei fuochi d’artificio.

Centofanti percorse a ritroso i venti metri neri di linoleum e comparve sulla porta.

– Eccomi, Procuratore!

La carta presepe alle loro spalle divenne un incendio: era rossa, era blu, era gialla ed era verde. Zolfo, alluminio, magnesio, antimonio, manganese si mescolavano nell’aria diventando stelle cadenti, gocce di luce, cascata di diamanti, bagliore di smeraldi.

Migliaia di persone si godevano quella delizia che cadeva dall’alto, forse apprezzandola perché gratuita. Dal pontone in mezzo al mare partivano i razzi che squarciavano il cielo con i loro lampi sintetici e tenevano incollate le persone ad ammirarli. La città era immobile con il viso all’insù. Gli spettatori estasiati erano letteralmente catturati da quella cascata di colori nel cielo.

Un quarto d’ora e tutto sarebbe terminato. Tanto durava il regalo del Comune.

Ma in quel frastuono di botti, a qualcuno parve di riconoscere un’esplosione diversa dalle altre, un colpo che non aveva nulla a che fare con la frequenza armonica dei precedenti.

Venti minuti più tardi il telefono del Procuratore squillò.

– Procuratore, buonasera.

– Buonasera, capitano.

Il capitano Maugeri informò dell’accaduto.

Qualcuno aveva sparato a una donna. Sul Priamar. E nessuno aveva visto nulla.

– … si tratta di una donna, Procuratore, sì… circa vent’anni.

Aveva la voce concitata di chi si prodiga per tenere lontani i curiosi e cominciare le indagini.

– Non è morta, no. Ma perde molto sangue. E in più è successo un altro pasticcio, Procuratore. C’è un assembramento di persone infuriate, qui sotto il Priamar, in corso Mazzini. I miei uomini stanno cercando di riportarli alla calma.

– Arrivo subito. No, non serve che passi a prendermi. Sono in ufficio con il maresciallo Centofanti. Mi porterà lui.

Che crudele modo ha di presentarsi la realtà! Senza alcun preavviso. È questa la sua arma. Micidiale. Non ti informa prima, non dà segnali di alcun genere. Piomba all’improvviso e calpesta tutto: sogni, racconti, riposi, serenità. A volte ti domandi come fai a sopportare un tale stress. Mai un attimo di tregua. La vita prosegue con i suoi ritmi feroci.

Nessuna parola nel tragitto dall’ufficio al garage. Solo supposizioni pensate in silenzio. Meglio attendere, verificare, constatare. Effettuare il sopralluogo.

Finalmente sull’auto. Le strade pressoché deserte. La popolazione ammassata sulla fortezza per lo spettacolo dei fuochi. L’uscita dalla rimessa, l’imbocco di via XX Settembre. Il caldo che sale dall’asfalto e forma una leggera foschia. L’afa. Ragazzi in motorino sulla corsia preferenziale. Il semaforo, la svolta a sinistra lungo corso Mazzini.

Eccola la realtà, il quotidiano tran tran, il lavoro. Da quanto tempo è così? Da quanti anni? Da sempre. C’è mai stato un po’ d’entusiasmo in quello che ho fatto? Forse. Magari all’inizio. Ma ora?

La folla che scende dalla fortezza verso il corso e che va schivata. I volti attoniti, irosi, offensivi. I più non sanno nulla. Nulla di quello che è successo. Vedono l’auto proseguire nella zona pedonale nonostante il fiume di gente e coprono d’insulti i suoi occupanti. Qualcuno riconosce uno dei due volti. Allora si fa da parte. Potenza della fisiognomica, lusso da Procuratore: quel mare di gente che si dischiude come al passaggio di Mosè tra le acque. Forse qualcuno ha visto ma preferisce dileguarsi prima che a lui venga in mente di ascoltarlo come possibile testimone. L’auto raggiunge lo sterrato antistante il primo arco d’ingresso. A passo d’uomo. Volendo, potrebbe ancora proseguire, inoltrarsi lungo la piccola strada lastricata che s’inerpica sotto la volta coperta e giungere sino al piazzale del Maschio, ma ormai è una barriera umana quella che fluisce in senso inverso.

Un posteggio. Il carabiniere Torrente che si sbraccia per farsi notare.

Uno sguardo d’intesa e poi…

– Di qua, Procuratore. Ciao, Cento.

Ancora qualche decina di metri da percorrere a piedi. La ressa creatasi attorno alla donna ferita.

Il medico del 118 indaffarato, cauterizza la ferita, dà disposizioni ai portantini.

– Procuratore, buonasera.

Il capitano Maugeri ancora chino sul corpo. La pistola lì, per terra, di fianco alla vittima. I carabinieri Desio e De Scalzi a fare da sponda ai curiosi oltre a un paio di guardie giurate che, in quella occasione, hanno avuto la sfortuna di essere di servizio. O la fortuna. Dipende sempre dai punti di vista.

Magari domani, a pranzo, ne parleranno con la moglie, vantandosi di conoscere dettagli ai più taciuti.

– Ha perso molto sangue ma è viva.

Una rassicurazione. Le rassicurazioni servono sempre. Ma non a chiudere le ferite.

– Chi è?

– Devo ancora guardare se ha i documenti. Nella borsa non c’erano.

– Allora frughi nelle tasche. Dottore, possiamo?

Sguardo rassegnato.

Capelli biondi, lunghi. Lisci. Tinti. Caviglia sottile. Piedi lunghi. Mani robuste. Collo lungo, pelle dorata.

– Trovati?

– Sì, ecco. Aspetti. Si chiama…

Pausa. Poi una lievissima inflessione ironica.

– Procuratore la donna si chiama Rodriguez Barrios. È un trans.

Uno sforzo per cancellare il sorriso dal volto.

Mezzanotte. I primi giornalisti all’assalto. Flash, fotografi. Reflusso gastrico.

La noia. La noia si manifesta così: con il reflusso gastrico. Un sobbalzo dello stomaco per avvertire. Cosa ci faccio io qui? Perché? Perché dalla mia bocca dovranno uscire parole recitate a memoria?

– Faccia lei capitano – in disparte – telecamere di sorveglianza, tabulati telefonici, precedenti, sequestri l’arma e cerchi le impronte. Insomma tutto.

Tutto. TUTTO. Qualcosa sfugge sempre. Altrimenti basterebbe leggere il resoconto della vita di ognuno. C’è sì il resoconto della vita di ognuno. Le sue tracce. Indelebili. L’estratto conto, quando e dove ha utilizzato il bancomat o la carta di credito, le bollette del gas o della luce, quante auto ha posseduto, dove ha abitato, chi gli ha telefonato, con chi chattava in internet, che siti visitava. E poi le sue cartelle cliniche. E i precedenti di polizia: quante volte è stato controllato, insieme a chi. E le foto. Le foto delle vacanze, le foto della prima comunione, le foto dei famigliari. E i suoi gusti. Che musica ascoltava, che film vedeva, che libri leggeva, che medicine assumeva. Frugare nella sua vita, all’interno dei suoi armadi, dei suoi cassetti, nel secchio dell’immondizia.

Ma non basta.

Ci sono i vuoti. Gli incontri casuali, gli acquisti pagati in contanti, i ricordi distrutti per un incendio, un trasloco, un’alluvione. O peggio, i fatti abilmente cancellati per un disegno preordinato.

– Faccia tutto lei, capitano.

Poveraccio. Ora andrà in casa della vittima, con i suoi uomini e inizierà a rovistare ovunque. E domani, domani o tra poche ore, quando potremo darci del tu, a quattr’occhi, mi dirà…

Ufficio del Procuratore, le tre del mattino

– … si fa chiamare Veronica. Abbiamo reperito il suo sito internet. Ecco. Guarda le foto. E sotto, hai letto qui? Le indicazioni…

Appena ritornata in città. Il tuo desiderio erotico. Per molti ma non per tutti. No anonimi. Ventidue motivi per chiamarmi.

– Che significa?

– Frase per frase?

– Frase per frase.

– Beh, appena ritornata in città significa…

– Che era stata qui altre volte, grazie.

– Ma scusa, Procuratore, mi hai detto tu frase per frase.

– Le altre, la prima l’ho capita.

– Per molti ma non per tutti, mi sono informato, significa duecento euro a botta.

– Caspita.

– Eh sì, di solito le tariffe sono inferiori, ma lei, Veronica se lo può permettere. Hai visto le foto? No anonimi invece significa che non rispondeva a chiamate fatte da cabine o da cellulari di cui non apparisse il numero.

– Perfetto. Per cui risultano tutte le chiamate ricevute. Avete rinvenuto il cellulare?

– No.

– Poco male. I tabulati ci diranno tutto ugualmente. Poi? Ventidue motivi per chiamarmi cosa vuol dire?

– Beh, Lorenzo, è un modo di dire. In molti annunci, altre trans indicano ventun motivi, o venti, addirittura qualcuna ventitré o ventiquattro, anche se mi sembra un po’ esagerato.

Le tre di notte. Pranzo e cena saltati. Riflessi leggermente annebbiati.

I cioccolatini nel cassetto esauriti.

– E allora?

L’imbarazzo del capitano. I suoi giri di parole.

– Sai cosa pensavo, Lorenzo? Ci vorrebbe un glossario per gli annunci. Qualcuno dovrebbe pubblicarlo. Farebbe una fortuna. Sai, come quando negli annunci immobiliari scrivono: appartamento privo di barriere architettoniche. Intendono un piano terra. Oppure: affare, vista sulla città, ideale giovane coppia. Si tratta di una mansarda al settimo piano senza ascensore.

Il cielo intanto sta cambiando colore. È passato ferragosto e ormai, dopo la prima pioggia, l’estate se ne andrà. Ventidue motivi per chiamare. Quali sono? Che motivi ci sono oltre al piacere o alla perversione?

– Capisci? È un modo di dire, una descrizione fisica artefatta, allude alla lunghezza del…

Una sinapsi improvvisa nel cervello. La lampadina si accende con l’ultima energia rimasta.

– Ho capito. Ho capito, Ruggero. Ventidue centimetri, accipicchia.

– è stata controllata a Novara, Vicenza e Roma. Possedeva una BMW ed era una libera professionista.

– Ossia?

– Senza protettori.

– Ecco perché l’indicazione no anonimi.

– Eh già. Solitamente chi si prostituisce ha qualcuno in strada o nella camera adiacente che controlla chi entra e chi esce, eventualmente segnandosi il numero di targa. Lei no. Agiva da sola e per questo la precauzione di voler sapere il numero del chiamante. Poi probabilmente è andata con un cliente. Uno con il quale si è recata sul Priamar a vedere i fuochi.

– Facevano gli innamoratini?

– E chi lo sa? Però è un’ipotesi probabile. Chi ha tentato di ucciderla non poteva certo farlo a casa sua. Come si sarebbe disfatto del corpo? Invece lì, sul Priamar, in quell’angolo buio, con il rumore dei botti…

– Un piano pensato e meditato. E in casa?

– Abbiamo trovato questo. Il computer portatile.

– L’avete già esaminato?

– Sì. E c’è una sorpresa. Ora lo accendo, guarda un po’ qui…

Dal monitor del computer le immagini di un uomo che entra in una stanza. Ora anche quelle di Veronica.

– … aspetta, metto l’audio...

– Ciao. Ti sono mancata?

L’uomo entra e si accomoda su una poltrona.

– Sì. Molto.

– Riprendeva tutto, a quanto pare.

– Eh già. Il computer era sempre acceso. Era collocato sopra un tavolino nell’ingresso. Tramite la telecamera incorporata lei riprendeva e registrava tutto. L’hard disk è pieno di immagini.

– Allora potremmo risalire a tutti i clienti e abbinare le immagini alle telefonate. Basterà comparare gli orari.

– Lo faremo al più presto.

– L’arma? Avete fatto accertamenti?

– Una calibro 7.65. Era lì, accanto al corpo. Abbiamo controllato nella Banca Dati: non è denunciata. De Scalzi ha effettuato accertamenti sul numero di matricola. E sai cosa ha scoperto? Ha scoperto che dieci anni fa apparteneva a un certo Santi, un vecchietto deceduto.

– E allora? Ti prego, Ruggero, non farmi gli indovinelli.

– Quando questo vecchietto è mancato, sua figlia si è accorta che dentro un cassetto c’era la pistola e sai cos’ha fatto?

– Ruggero, per favore…

– Ha avvisato i Carabinieri. L’arma è stata portata in armeria, per essere venduta. Non valeva tanto, ma la procedura è questa.

– E allora?

– Aspetta. È tutto scritto qui, in questo fascicolo. L’arma è stata venduta a… indovina a chi?

Toccalossi inspirò quanta più aria poté nei polmoni per non esplodere. Detestava gli indovinelli.

– Finisco subito. A Mantica.

– Il dottor Mantica?

– Proprio lui.

Toccalossi restò in silenzio per un paio di minuti. Mantica era stato un ottimo funzionario, ormai in pensione. L’aveva condotta lui l’indagine sui cinesi, quel fascicolo di trenta faldoni che ora si trovava a dover rileggere e riassumere per l’udienza che si sarebbe tenuta in settembre. Non era possibile. Beh, in effetti i funzionari di Polizia non hanno l’obbligo di denunciare le armi che posseggono ma… c’era qualcosa che non tornava. Come aveva potuto Mantica essere così poco avveduto? Uno che per quarant’anni aveva vissuto dentro la giustizia, per la giustizia… mah! Forse andare in pensione lo aveva sconvolto… forse…

– Ti vedo perplesso – disse il capitano.

– Stavo riflettendo. A te pare possibile?

– Che sia stato Mantica? Boh, però potremmo guardare le immagini.

– Dai, scorriamole velocemente. Se era uno dei clienti risulterà, no? Tu lo conosci? Sai che viso ha?

– Certamente.

– Fai scorrere velocemente le immagini.

Dopo cinque minuti il capitano esclamò:– Ferma. Guarda un po’! È lui. Porcaccia la miseria. Mi sa che è inguaiato.

Toccalossi si fece torvo.

– Immagino già cosa scriveranno i giornali. Si accompagnava a un trans, questo forse lo ricattava, così ha deciso di liberarsene. Per fortuna Rodriguez Barrios non è morto. E se qualcuno avesse rubato la pistola a Mantica?

– De Scalzi ha controllato anche questo. Non ha sporto alcuna denuncia.

– Può darsi che non si sia accorto del furto.

– Tutto può essere.

– Devo disporre la perizia balistica. Dobbiamo essere certi che la pistola utilizzata sia proprio quella. Fai in modo che venga effettuata al più presto.

– Ho già informato chi di dovere.

– C’è altro?

– Sì. Il trans doveva incontrarsi con una persona.

– Chi te l’ha detto che il trans doveva incontrarsi con qualcuno?

– Lui stesso. È debole, è sotto choc, ma prima che il medico della rianimazione li cacciasse fuori, i carabinieri Desio e Torrente sono riusciti a porgergli qualche domanda. Ora ti spiego. Torrente e Desio sono riusciti a ricostruire parte della vicenda. La faccenda è questa: c’erano circa duecento persone ieri sera di fronte all’abitazione di Belloni.

– Di chi? Chi è questo Belloni? Da dove esce fuori?

– Belloni, un consulente finanziario… la metà circa era appena rientrata dalla Spagna, infuriata. Quell’uomo, Belloni, è stato presentato a loro da amici comuni. C’è stato un incalzante passaparola. Insomma piaceva a tutti guadagnare tanto. La sostanza è questa: Belloni prometteva e versava interessi da favola. In realtà, come abbiamo scoperto, utilizzava i versamenti dei nuovi clienti per pagare gli interessi a quelli più vecchi. È andato avanti così per anni. Poi ha tirato la stoccata finale, convincendo centinaia di persone a effettuare investimenti all’estero, in Spagna per la precisione. Sai che ha combinato? Ha fatto venire in Italia un centinaio di spagnoli e ha inviato in Spagna un centinaio di italiani. Questi ultimi convinti di vedere una casa da acquistare. Gli spagnoli invece convinti di aver vinto una vacanza, dovevano recarsi in Toscana e fare tappa a Savona. Avevano detto loro che avrebbero alloggiato nell’albergo qui vicino…

– In piazza della stazione vecchia?

– Sì, ma del loro albergo nemmeno l’ombra.

Il viso di Toccalossi si corrugò. Un’espressione di sgomento e di grande delusione.

ENORME DELUSIONE!

– Quindi quando Esmeralda chiedeva a un passante dov’era la piazza della stazione vecchia, non stava cercando me, ma l’albergo?

– Come? Non capisco, Lorenzo.

Non era stata la lettera spedita a capodanno a smuovere Esmeralda.

– Cose mie, scusa. Stavo riflettendo a voce alta.

– In sostanza, per essere brevi, si stimano cinque milioni di euro sottratti e volatilizzati. Insomma, una truffa colossale. E a quanto pare la vicenda non si ferma qui. Sarà un lavoro immane, prendere le querele, ricostruire i fatti. Li abbiamo convocati in ufficio per stamattina. Rodriguez Barrios doveva incontrarsi con qualcuno di questi truffati, sul Priamar.

– Sei sicuro?

– Questa è la prima ricostruzione, ma stiamo ancora approfondendo.

– Un trans ferito, la pistola ritrovata e duecento persone da ascoltare. Che bella confusione! E il tutto a ferragosto, con gli uffici sguarniti. Mi ricorda qualcosa.

– Quando il ferito si riprenderà lo sentiremo.

Toccalossi concordò con una smorfia sul viso.

– Eh, sì. A questo punto non ci resta altro da fare. Per quanto riguarda Mantica, invece, vorrei tenere riservata la notizia ancora un po’.

– Quel Belloni ha truffato mezza Europa. E tra questo e il fatto di Mantica mi sa che finiremo su tutti i notiziari.

– Va bene, Ruggero, e adesso vai a riposarti.

– E tu?

– Io resto ancora qui. Devo sbrigare delle cose.

– ’Notte, Lorenzo.

– A te.

Le tre e mezza del mattino

Bozza di requisitoria per il reato di associazione a delinquere finalizzata all’immigrazione clandestina.

Intercettazioni rilevanti:

– novità?

– dovevi chiamarmi ieri

– abbiamo pensato di chiamare ieri ma ho visto che il numero non è lo stesso

– ma sì che è questo numero

– va bene, come facciamo?

– ascolta, sto aspettando qualcosa e devo salire...

– ... perché noi abbiamo fatto qualcosa ieri è andato tutto bene

– sto aspettando che degli affari arrivano, ho preparato dei soldi

– e quando avremo la risposta?

– non posso dirtelo perché sto aspettando da un giorno all’altro...

– ...dimmi quando più o meno...

– sto aspettando da un giorno all’altro, quando sarà qui...

– quando sarò saldato?

– penso che al massimo sabato sarò rientrato

– allora ancora una settimana?

– mi aveva detto martedì oggi siamo venerdì

– stai abusando, giuro che stai abusando

– lo sai com’è, non trovi cinquantamila euro sotto il letto

– Indagati: Lo Ming, + 19…, maresciallo?

– Comandi, Procuratore!

– Mi passi per favore quella cartellina verde.

– Questa?

– Controlli per favore se ci sono tutte le intercettazioni.

– Quante dovrebbero essere?

– Diciotto.

– Ora le conto. Una, due… cinque, sei… dieci … sì. Ci sono tutte.

– Me le passi, per gentilezza, devo fotocopiarle nuovamente.

– Ancora? Lasci. Faccio io. Porcaccia miseria.

– Cosa c’è?

– Ci mancava anche questa storia della sparatoria.

– Di quella parleremo dopo. Ora finiamo qui.

– Aspetti, le passo l’evidenziatore. Giallo?

– No, me lo dia azzurro, anzi arancione.

Complessa misteriosità delle preferenze!

– Ecco, arancione.

– Grazie, maresciallo.

La mano si ferma a mezz’aria.

– Che c’è, Procuratore?– L’arma, la relazione sessuale, il personaggio scomodo… troppe analogie.

– Riguardo a cosa?

– Al fatto di Mantica, del ferito, della pistola. Mi ricorda il primo caso di cui mi sono occupato, quello delle foto che ha scovato nel cassetto.

Prese nuovamente in mano la fotografia che era scivolata a terra.

– Gliela devo proprio raccontare questa storia.