Il primo bacio

 

Arrivata a casa di Rosa (così si chiamava la festeggiata, da Rosa Luxemburg, come seppi più avanti) fui colta da un profondo sconforto. C’era tanta gente, troppa. Non conoscevo nessuno e fui tentata di chiamare mia madre per farmi venire a prendere. Che ci facevo io lì? Mi guardavo intorno e mi sentivo un’aliena. Perché tutti sembravano così a loro agio, tranne me?

E che razza di vestito mi aveva comprato mamma?

Dio, come mi vergognavo. Cercavo di rendermi invisibile agli occhi degli altri (e forse lo ero senza dovermi sforzare).

Speravo che nessuno mi notasse perché avrebbe sicuramente visto l’abbigliamento ridicolo e la pettinatura, con accessori che avrebbero fatto sembrare più vecchia persino mia nonna. Decisi che mi sarei chiusa in bagno simulando un attacco di dissenteria e avrei aspettato lì dentro l’ora in cui mamma mi sarebbe venuta a riprendere.

Con passo deciso mi inoltrai nel corridoio ma fui distratta dal tavolo del buffet. Il bagno poteva aspettare, c’erano cose più importanti. Mi sedetti lì e iniziai a ingozzarmi di pizzette e tramezzini. Ero seccata perché non c’erano i miei preferiti. Allungai una mano per afferrare l’ennesimo e mi resi conto che qualcun altro stava facendo la stessa cosa. Era Matelda, la mia nuova compagna di classe. Era arrivata da pochi giorni ma non ci eravamo mai parlate prima.

– Scusa, – dissi io timidamente.

– Figurati.

Continuammo in silenzio a rubarci le pizzette a vicenda.

– Tu non balli? – le chiesi.

– Non ci penso proprio.

– Già, ti capisco. Io mi vergogno, poi tanto non mi invita nessuno.

– Io ho altro per la testa.

– E cioè? – le chiesi incuriosita.

– Ho una malattia rarissima.

– Oh.

– Talmente rara che nessuno sa cosa sia. Buone queste pizzette, no?

– Molto…

E il discorso si chiuse lì. Pensai fosse un modo come un altro per fare amicizia e lo trovai simpatico. Mi sentivo a mio agio con lei. Dopo pochi minuti si avvicinarono altri due ragazzi e ci irrigidimmo entrambe. Questo me la rese ancora più simpatica. I due si presentarono come se nulla fosse, con una naturalezza che non avevo mai sperimentato. Possibile che volessero parlare con noi? Eppure sembravano seriamente intenzionati a restare proprio lì. Luca, il più basso, non smetteva un attimo di parlare di Matisse. Ci misi un po’ a capire che non si trattava del pittore bensì del suo cane. L’altro, Michele, cercava di scoprire a che livello fossero le nostre competenze in fatto di supereroi. Ci interruppe una ragazza che si mise in mezzo, prendendo un tramezzino.

– Questi tramezzini sono disgustosi.

– Esagerata, – le rispose Luca.

– Tu invece ce l’hai una spada laser? – intervenne Michele.

– Non ci penso proprio! Che ci dovrei fare, scusa? Comunque io sono Chiara, piacere.

– Uh! Ti chiami come me!

– Embe’?

– No, niente, dicevo così… – balbettai.

– Be’, ciao, me ne vado a casa, la festa fa schifo!

Ci guardammo tutti perplessi e scoppiammo a ridere. Stavo ridendo anch’io. Non ricordavo l’ultima volta che l’avevo fatto.

Eravamo una bizzarra formazione che avrebbe resistito alle difficoltà, agli anni e ai turbamenti della crescita.

Il momento di andare in bagno era arrivato davvero. Avevo bevuto troppa Coca-Cola e mangiato troppe pizzette.

Ero preda di atroci crampi. Mi alzai seguita da Matelda. Ci inoltrammo nel corridoio.

Un’orda di persone scalmanate avanzava verso di noi in fila indiana ballando una musica assordante e gridando a squarciagola (danza comunemente nota come «trenino» ma che allora io ignoravo). Mi guardai intorno. Che dovevo fare? Il corridoio era troppo stretto. Matelda era atterrita quanto me.

– Scappiamo! – suggerì. Ma compresi subito che la fuga era da escludere.

Ci avrebbero travolte. Il primo della fila ormai ci aveva raggiunte. Sperai non notasse i miei occhi ipertiroidei paralizzati dal terrore. Me lo ritrovai di fronte e in quel momento pensai solo che dovevo andare in bagno, urgentemente.

Tutto successe in una frazione di secondo, che bastò a trasformare la mia vita. Quello mi girò, mi mise le mani sulle spalle e gridò: – Vai bella! Tocca a te!

– Dice a me? – chiesi a Matelda disperata.

– Ma figurati!

– Ah, ecco, mi sembrava strano.

– Dài, ora sei tu a guidare! – continuava a incalzare il primo della fila, che ora era diventato il secondo, perché la prima ero io.

Forse quel «bella» non era diretto a me, ma di sicuro lui voleva che conducessi il trenino. Io, Chiara, a capo di una fila di persone. No. Non ce l’avrei mai fatta. Era troppo per me.

Non ebbi però il tempo di pensare, perché i ragazzi dietro spingevano e mi ritrovai a guidare una colonna danzante che in realtà, in modo inconsapevole, guidava me. Presi per mano Matelda e la trascinai nella fila. Travolsi un paio di ragazze che, ruzzolando a terra, si aggrapparono al lembo della tovaglia buttando sul pavimento tutto ciò che vi stava sopra. Mi sentii morire dalla vergogna. Ma con mia grande sorpresa l’evento fu seguito da una serie di fragorosi applausi e frasi di incoraggiamento nei miei confronti.

E la mia vita cambiò. Per un trenino.

Iniziai a ballare. Non credevo di saperlo fare e forse, in effetti, era proprio così, ma non aveva alcuna importanza. Avevo sedici anni. Non avevo amici, non avevo mai avuto un ragazzo, non avevo mai ballato. Fino a quel momento.

Presto si unirono alle danze anche Luca e Michele. Chiara, a quanto pare, era andata davvero a casa.

Il bello dell’adolescenza sta proprio in questo: nella semplicità con cui si riescono a instaurare certi rapporti, che non sono superficiali ma, al contrario, sono destinati a durare nel tempo.

La festa procedeva incessante e io non la stavo vivendo più da spettatrice lontana, ma da vera protagonista.

Mancava poco all’arrivo di mia madre, e per la prima volta in vita mia avrei voluto disubbidirle. Mi sarebbe piaciuto restare, nonostante il coprifuoco.

Fu allora che lo vidi: Francesco era entrato nel salone e appena i miei occhi incrociarono i suoi tutto scomparve. La musica smise di suonare, le orecchie iniziarono a ronzarmi e pensai di provare i classici sintomi di un blocco cardio-circolatorio.

A sedici anni, quando incontri il primo amore, tutto inizia ad avere un sapore diverso e il mondo cambia colore.

Questo, però, vale solo per te. Mentre io, infatti, avevo smesso di ballare e mi ero appoggiata alla parete cercando di trovare una ragione per avvicinarlo, l’altro stava raccogliendo più numeri di telefono possibili dalle ragazze presenti alla festa.

Ma questo lo seppi molto dopo.

«Francesco, ti ricordi che emozione il nostro incontro alla festa di Rosa?» gli ho chiesto una sera a casa sua quasi una ventina di anni dopo.

«Ah, perché? C’eri anche tu? Io mi ricordo di Camilla la nostra compagna di classe con cui sono stato chiuso in camera da letto per due ore… Gran fica…»

Nella vita, tutto è relativo.

Comunque, Francesco non smetteva di lanciarmi sguardi d’intesa e di sorridere, o per lo meno così mi sembrava. E se esiste la regola per cui, a volte, una persona vede solo quello che vuole vedere, io ne rappresentavo la perfetta applicazione.

A un tratto, si diresse con decisione verso di me. Oddio, che dovevo fare?

Scappare?

Troppo tardi.

Svenire?

Melodrammatico. Avevo le gambe di gelatina e il cuore in gola.

Quando mi fu davanti, senza dire una parola, come era tipico suo, mi prese la mano e mi condusse fuori, sul terrazzo.

– Volevo stare solo con te. Ti dispiace?

Non mi uscì nulla. E non che non ci provassi, a parlare.

– Lì era troppo affollato e non potevo baciarti.

Ancora silenzio. Pensai mi fosse capitato qualcosa alle corde vocali.

Avevo la trachea bloccata e sudavo. Ma non ebbi modo di farmi un check-up, perché mi prese alla vita, mi avvicinò a sé e mi baciò, e questo bacio mi portò in paradiso, mi condusse all’inferno.

Pensai che la mia vita, da quel momento in poi, sarebbe stata come quel primo bacio: fantastica, travolgente e piena di sorprese. La scatola di cioccolatini di Forrest Gump.

Mi sbagliavo di grosso.

Mentre mi baciava, tutte le mie paure svanirono, insieme ai miei complessi, alle mie insicurezze. Tra le sue braccia mi sentivo forte, invincibile, bella.

Ci vennero più volte a chiamare, ma noi non potevamo smettere di baciarci.

Quando finalmente lui si decise a parlare, riuscì di nuovo a lasciarmi muta.

– Sei fantastica…

Non potevo credere lo stesse dicendo proprio a me.

– Non ho mai incontrato una ragazza così… così…

Stava cercando le parole giuste.

– Insomma, come ti chiami? Come ti ritrovo?

Mi sentii sprofondare.

– Ma, Francesco. Stiamo in classe insieme…

– Nooo, davvero? Pazzesco. Che culo!

Allora ci becchiamo domani a scuola…

– e riprese a baciarmi.

Ci misi un secondo a dimenticare l’assurdo dialogo. Lui in fondo era un artista. Non poteva perdere tempo con simili sciocchezze.

Poi tutto finì perché arrivò mia madre a rompere l’incantesimo.

La pregai, la scongiurai di lasciarmi ancora qualche minuto. Niente. L’orario del coprifuoco andava rispettato.

Mi lasciò pochi giorni dopo, durante l’intervallo, tra la lezione di matematica e quella di latino.

– Chiara, – mi disse, – mi sono messo con Cinzia.

– E chi è Cinzia? – riuscii solo a chiedergli mentre il mondo si stava sgretolando.

– Una tipa tosta, più grande di me. Fa la fotografa.

– Accidenti – e scoppiai in lacrime.

Lui continuava a parlare, non era mai stato così logorroico. Mi disse che voleva farsi la sua vita ma che, se lo avessi aspettato, prima o poi sarebbe tornato.

E io l’ho aspettato, dio solo sa quanto.

In un certo senso è come se lo aspettassi ancora.

Ero confusa.

Pensavo che Francesco fosse l’uomo della mia vita e non avevo preso in considerazione il fatto che lui avesse altri piani al riguardo.

Nei miei sogni c’era sempre il lieto fine, altrimenti che razza di sogni sarebbero stati?

Nel momento in cui avessi incontrato il grande amore, questo lo sarebbe stato per sempre, non certo per tre giorni, e io avrei finalmente ottenuto la famosa rivincita sul mondo, vivendo la mia vita da protagonista, non più da comparsa.

La storia non era andata come me l’ero immaginata.

Cosa avrei potuto fare ora? Non appartenevo più al mondo che avevo lasciato, quello della piramide di tramezzini, ma sentivo di non fare parte neanche del nuovo. Avevo creduto, per un attimo, di essere Melanie Griffith, la protagonista di Una donna in carriera, giusto il tempo di baciare Harrison Ford, poi ero tornata Joan Cusack, quella che entra in ufficio e dice:

«Caffè, tè, me?»

Simpatica, ma…

Insomma, la musica si era interrotta bruscamente e io ero rimasta di nuovo con la scopa in mano, senza sapere a chi passarla.