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Trentatré anni prima, più o meno… 

 

Quando una nasce podalica

 

Tornando alla domanda fondamentale: come sono arrivata a questo punto?

Perché ho messo su un fisico da ottantenne e piango ogni volta che vedo la pubblicità del Mulino Bianco? Perché vado sempre ai matrimoni degli altri, rigorosamente sola, e capito ai tavoli dove ci sono solo coppie? Dovrebbero fare un tavolo separato per i single. Per i bambini lo fanno, non vedo perché non dovrebbero farlo per noi. Certo, rischierei di ritrovarmi al tavolo da sola, ma sarebbe sempre meglio che passare tutta la cena o il pranzo con le coppie ad ascoltare i resoconti dei loro viaggi di nozze o delle cacche dei loro bambini. Che poi non ho mai capito perché considerino le cacche un argomento di conversazione tanto interessante da doverlo affrontare a tavola, affliggendo tutti i presenti. È davvero di cattivo gusto. Stiamo mangiando, e io non mi metto di certo a raccontare i miei problemi di stitichezza.

Insomma, come sono arrivata a questo punto? Facciamo un passo indietro.

Avete mai la sensazione di essere tutte sbagliate?

Io, per esempio, devo essere nata sotto una cattiva stella. Fin da bambina mi sentivo sempre al posto sbagliato nel momento sbagliato.

Un senso di inadeguatezza al quale ancora non mi sono abituata.

Mi spiego meglio. Non sono mai stata una bellezza, e certo non nel modo in cui non lo era Bridget Jones. Parlo di cose reali. Sto parlando di tre cerette al mese, perché una è sempre stata insufficiente, sto parlando di terribili diete al minestrone, alla cipolla, alla carota, al riso, alle patate, che non hanno mai dato i risultati sperati. Credetemi se vi dico che all’età di sedici anni non avevo ancora avuto un ragazzo ed ero così introversa che spesso non riuscivo neanche a sostenere un’interrogazione.

Mi rifugiavo nei sogni. Mi immaginavo a trent’anni sposata con un uomo meraviglioso e con dei bambini bellissimi. Mi vedevo andare alle cene in compagnia di mio marito (ovviamente bellissimo, altrimenti i bambini da chi avrebbero preso?) e incontrare per caso le mie compagne di classe, imbruttite dagli anni, e sole (le ho poi incontrate davvero le mie ex compagne, e l’unica a non essere sposata ero io).

Forse, il modo in cui sono venuta al mondo è stato la causa di tutto. Durante i nove mesi di gravidanza so di essere stata imperdonabile e so pure che, al momento del parto, non mi sono posizionata correttamente, pronta a uscire. Questo perché, a quanto pare, non ritenevo opportuno nascere. Avevo intuito quello che sarebbe successo.

Ero podalica.

I dottori per costringermi a uscire da lì avrebbero dovuto faticare parecchio.

Girarmi all’interno della pancia di mia madre e poi cercare di farla partorire.

Forse lì dentro, acciambellata e con tutti i comfort, avevo percepito quello che in vita sarei diventata, o meglio, quello che non sarei mai diventata: una gatta morta.

E per gatta morta intendo una categoria di donna verso la quale gli uomini hanno una particolare propensione e contro cui non c’è niente da fare, perché lei vince, vince sempre. La gatta morta è furba, determinata e ha come unico scopo quello di catturare l’uomo che fin dall’inizio ha individuato, puntato e strategicamente sedotto. La gatta morta riesce a essere perfetta in ogni circostanza, si ubriaca con un sorso di birra senza però mai essere scomposta e quando sorride durante una cena non ha mai, e dico mai, l’insalata tra i denti. A me invece è capitato di trascorrere un’intera serata a elargire grandi sorrisi per poi accorgermi, tornata a casa, che alcuni spinaci si erano incastonati così bene tra gli incisivi da farmi apparire sdentata.

Io dovevo aver capito tutto questo e caparbiamente avevo deciso di non nascere.

Si sa, i neonati sono molto sensibili.

Sono nata podalica e per tutta la vita sono rimasta in piedi al gioco della sedia. All’asilo le bambine più carine avevano già il fidanzato che portava il loro cestino. A me, invece, toccava portare il mio e quello dei loro fidanzati.

Alle elementari e alle medie, durante le feste, guardavo dal tavolo del buffet le mie compagne di classe che ballavano, cercando di non farmi sfuggire neanche una pizzetta o un panino con il salame (sono sempre stata una buongustaia).

L’arrivo della piramide di tramezzini dai sapori differenti rappresentava per me il culmine della festa. Seguivo il suo percorso, dal fondo del salone al tavolo del buffet, estasiata. Come sotto l’effetto di un incantesimo. La musica nelle mie orecchie scemava, le persone scomparivano e io avevo un unico pensiero dominante: assaggiare un tipo di tramezzino per ogni gusto. Per fortuna eravamo alla fine degli anni Settanta, primi anni Ottanta.

Era l’epoca in cui le crostatine al cioccolato del Mulino Bianco, grande novità, iniziavano a creare intere generazioni di uomini e donne in leggero sovrappeso. Era l’epoca in cui si giocava al gioco della bottiglia o a quello della scopa perché non c’era la playstation, né si tirava di coca perché le mamme ti accompagnavano alle feste, rimanevano lì e poi ti riportavano a casa entro le otto di sera. Era l’epoca in cui il primo bacio sembrava non arrivare mai (per alcune, infatti, fu proprio così) e c’era pudore misto a emozione nell’aspettarlo, come nel viverlo. Se si andava in giro con la maglietta troppo corta che lasciava scoperta la pancia si doveva correre subito in bagno per un attacco improvviso di colite e la si restituiva la sera stessa all’amica che ce l’aveva prestata. Era l’epoca delle figurine (non so a voi, ma a me ne mancavano sempre due per finire l’album), delle cassette mangiate dal mangianastri che poi dovevi riavvolgere con la bic, di Indovina chi, di Nomi, cose, animali e città (e la città con la d, non si sa perché, era sempre Domodossola). Era l’epoca in cui la barzelletta più spinta era quella di Pierino e il fantasma formaggino, il telefilm più rivoluzionario era La famiglia Bradford e si arrossiva per un nonnulla. Non ci si annoiava mai perché bastava avere un pezzettino di gesso, disegnare una campana e iniziare a saltarci dentro. Non ci si sentiva poveri perché con cinquecento lire potevi comprare il ghiacciolo, un pacchetto di figurine e andare in sala giochi.

In questo clima, io cercavo con affanno di stare al passo con i tempi senza potermelo permettere. Nell’epoca in cui Madonna rappresentava un vero punto di riferimento per noi ragazze, soprattutto dopo Cercasi Susan disperatamente, io cercavo di assomigliarle, indossando calze a rete nere e una fila di braccialetti di gomma che arrivava fino al gomito. A volte anche un fazzoletto di pizzo che girava intorno alla testa, tipo cerchietto, e terminava con un fiocco gigante.

In pratica una mignotta. Un po’ sovrappeso.

Peccato che avessi completamente sbagliato look. Per essere accettata avrei dovuto piuttosto indossare cerchietti a fiorellini intonati all’astuccio, a sua volta intonato al diario. Giubbotto Henri Lloyd da barca, anche se nessuna delle mie compagne di classe andava in barca, camicia del Portone e borse Louis Vuitton. Io, invece, mi sentivo più Madonna. Ecco perché non sono mai diventata una gatta morta.

La mia più grande aspirazione era diventare una saldatrice, come Jennifer Beals, la sera ballare in un night club, sposare il ricco proprietario dell’azienda e fare una vita da sogno. Un po’ come in Cuore e batticuore, insomma.

Fortunatamente per mamma, non avevo né il talento canoro di Madonna né il fascino dell’attrice di Flashdance. Ma soprattutto non vivevo negli Stati Uniti, dove per certi versi tutto è possibile.

Negli anni Ottanta, poi, la maggior parte delle ragazze sognava di sposare Simon Le Bon. Io invece avrei preferito diventare Jamie Sommers. Ve la ricordate? Era la donna bionica, alla quale in seguito a un incidente erano stati impiantati arti meccanici. Non ho mai capito perché corresse al rallentatore invece di farlo alla velocità della luce.

Mi sentivo diversa dagli altri. Forse anche un po’ per colpa dei cartoni animati e dei telefilm con cui sono cresciuta. Ora che ci penso, non so come abbiamo fatto tutti noi a sopravvivere a tanto strazio. Candy Candy era una continua tragedia.

Non solo era circondata da personaggi cattivissimi (ve la ricordate Iriza?), ma Anthony muore e lei non coronerà mai il suo sogno d’amore con Terence. Per non parlare di Remì. Sento salirmi un groppo alla gola al solo pensiero.

Orfano, abbandonato da tutti, vive randagio con l’anziano signor Vitali, tanti cani e una scimmietta. Moriranno tutti, uno a uno, prima i cani (Capi, Zerbino e Dolce), poi il signor Vitali, infine la scimmia, e Remì rimarrà solo.

Stando così le cose, una ragazza come me, già con i suoi problemi, come credete possa essere cresciuta? Di sicuro, qualora dovessi incontrare l’uomo della mia vita, avrei paura di perderlo da un giorno all’altro per una caduta da cavallo, per una ex fidanzata che riappare paralizzata e magari con prole o semplicemente perché mi scoppiano le coronarie, considerata la mia tarda età.

Ci sono alcune cose però di quel periodo che non dimenticherò mai. Vi ricordate cosa voleva dire citofonare a un’amica o cercare un gettone per usare la cabina telefonica? E quella forte emozione che vi assaliva quando a casa aspettavate che il telefono squillasse, e la corsa per precedere i genitori nel rispondere perché pensavate che fosse lui, che finalmente si era deciso a chiamare? Certo, ora esiste il cellulare, ma non è la stessa cosa. Un ragazzo per chiamare a casa doveva superare mille ostacoli, ora si limita a inviare un SMS, quando lo fa. Altrimenti è il tuo gestore che ti comunica un nuovo, imperdibile piano tariffario.

Il gioco della bottiglia, per esempio, non so se esista ancora. So però che per me, all’epoca, rappresentava una grande sofferenza.

I baci e le carezze capitavano solo alle mie compagne di scuola, a me spettavano sempre orribili penitenze.

Del gioco della sedia vi ho già parlato.

Quando la musica veniva bruscamente interrotta io di solito rimanevo in piedi, quasi incantata dal fatto di non riuscire mai a trovare la sedia su cui sedermi. E il gioco della scopa ve lo ricordate? Si ballava in coppia e ci si passava il bastone finché, anche lì, la musica si interrompeva e chi rimaneva con la scopa in mano faceva penitenza. Le rare occasioni in cui riuscivo a passarla ero aggredita pochi secondi dopo dal destinatario, che me la voleva a tutti i costi restituire, quasi oltraggiato dal fatto che avessi anche solo pensato di poterla lasciare a lui.

Ancora oggi non prendo volentieri la scopa in mano per pulire casa. Ho sempre la sensazione che una musica immaginaria possa terminare, lasciandomi sola al centro della stanza, in vana attesa di una persona a cui passarla.

Al liceo andò peggio. Quella era l’epoca dei primi amori (oggi, invece, credo siano le medie; al liceo le ragazze chiedono al partner il 730) e io iniziavo a rimpiangere la piramide di tramezzini.

Mi domandavo perché le mie compagne avessero avuto uno sviluppo normale, mentre io crescevo sproporzionata in tutto.

Quando avevo quindici anni, mia madre fu invitata a una crociera sul Mediterraneo e decise di portarmi con sé. Mi sentivo goffa e timidissima, e la seguii controvoglia. La prima sera, durante la cena di benvenuto, capitammo al tavolo con una coppia di signori e il loro figlio. Io non smettevo di guardare nel piatto. Mi sentivo fuori posto e non avevo il coraggio di alzare gli occhi.

Non so cosa avesse trovato in me, forse si annoiava con i genitori, ma il ragazzo decise di parlarmi e non smise di farlo per tutta la durata della cena. Mi invitò ad andare con lui in discoteca ma io non me la sentivo proprio. Non sapevo come comportarmi, o cosa dirgli, e declinai.

In fondo, avrei avuto un’intera settimana per capire come affrontare la situazione.

Riuscii a dirgli che ci saremmo potuti andare la sera successiva e lui mi sembrò soddisfatto, tanto che chiese ai suoi genitori di poter pranzare con noi anche il giorno dopo. Mia mamma accettò, gli sembravano delle persone «per bene». La notte, purtroppo, mi venne una febbre altissima. Mi ricoprii di bolle e iniziai a dare di stomaco (attività che si concluse solo alla fine della crociera). Mi ero intossicata con il cibo: salmonellosi, fu la diagnosi. Non seppi più nulla di lui, né potei visitare le città del Mediterraneo.

Fui ossessionata da questo ricordo per molti anni. Forse è la ragione per cui non riesco mai a dire di no a un uomo: ho paura che, posticipando l’incontro, la salmonellosi possa di nuovo mettermi fuori gioco.

Ma questo non fu niente se paragonato ad altri episodi che mi resero, agli occhi delle compagne di scuola che già avevano il fidanzato, una vera e propria disadattata.

Ero chiusa nel mio mondo fantastico e non riuscivo a mettere a fuoco la realtà.

Una mattina, per esempio, prima di uscire di casa per andare a scuola, mamma mi consegnò il sacco dell’immondizia. Io aspettai l’autobus, che come di consueto era strapieno, e mi presentai in classe al suono della campanella.

– Moscardelli, – mi apostrofò il professore di storia e filosofia, – quello magari se fossi in te lo andrei a buttare fuori nei secchioni, che dici?

Avevo ancora con me il sacco dell’immondizia.

– Ah, mi scusi… vado subito –. E uscii dalla classe seguita da uno scroscio di risate.

Successivamente, mi presentai a scuola in pantofole.

Il tutto avveniva sotto gli occhi azzurri e umidi di Francesco, il mio compagno di classe, nonché il ragazzo più bello della scuola. Sognavo di lui in continuazione e, quando il mio sguardo incrociava il suo, inciampavo quasi sempre, mi scontravo con lo spigolo di un banco che si andava a conficcare in una coscia, o cadevo. Il risultato erano caviglie slogate e lividi. Quando tornavo a casa la domanda di mia madre era la stessa: «Di’ la verità, a scuola ti picchiano?»

Lo amavo, ne ero certa, e nonostante non mi avesse mai rivolto la parola ero altrettanto sicura che prima o poi si sarebbe accorto di me, che ci saremmo fidanzati e poi sposati. Era solo una questione di tempo.

Quando arrivava a scuola, a bordo della sua moto, tutte smettevamo di respirare. Almeno io lo facevo di certo.

Avanzava verso di noi, col passo sicuro e ondeggiante (andava molto di moda la camminata alla Fonzie). Si fermava davanti alla ragazza di turno e, senza dirle niente, le prendeva la mano. Con lei al suo fianco faceva il suo ingresso trionfale a scuola. Non parlava molto ma il suo sguardo era intenso. Me lo immaginavo assorto nei suoi pensieri, impegnato a risolvere questioni delicate.

Sarebbe diventato uno scrittore, un poeta. Comunque un artista.

Un giorno accadde l’imprevedibile: una mia compagna di classe mi invitò alla sua festa di compleanno. Una tipa strana, anche lei. Un outsider. Veniva a scuola sempre vestita di nero e con «il Manifesto» sotto il braccio, che da noi era come gridare «Roma merda» in mezzo a un milione di romanisti. Era stata soprannominata «la zecca» e, se nei miei confronti le ragazze provavano pietà, quello che riversavano su di lei era puro odio. Mi sentivo quasi fortunata.

In un primo momento, come da manuale, pensai si fosse sbagliata. Cosa c’entravo io con una tipa come lei? Solo dopo realizzai, non senza stupore, che aveva invitato proprio me.

Ci eravamo incrociate in bagno, io per il solito problema di incontinenza, lei per fumare una canna in santa pace.

– Ehi tu, – mi aveva apostrofato.

– Io?

– Sì, chi se no? Vedi qualcun’altra? Ti volevo dire che in fondo mi piaci.

Oddio, era lesbica?

– Grazie…

– Quindi se ti va sabato prossimo faccio una festa. Porta chi vuoi, ci sarà un po’ di casino, gente più grande…

– Io non conosco nessuno…

– Cazzo che sfigata. Vabbe’ allora vieni da sola.

– E le altre?

– Per carità. Non voglio fascisti in casa mia. Non sarai mica anche tu…

– No no, – mi affrettai a dire, più per codardia che per reale convinzione politica – a casa mia sono tutti di sinistra.

– Fico.

Presi l’indirizzo e me ne tornai in classe. Francesco era sempre lì, immobile al suo banco.

A casa raccontai l’episodio a mia madre che prese la cosa con entusiasmo.

Non era da lei. Forse si era stancata di vedermi ciondolare depressa in casa.

Eppure io non ci volevo andare alla festa. Avevo paura. Fu lei a insistere.

La preparazione iniziò subito. Il vestito, l’acconciatura, le scarpe. Per me rappresentava il ballo di Cenerentola, e in effetti lo fu.